Wednesday, April 16, 2014

Berlusconi affidato in prova


PRATICAMENTE LIBERO

L'ex premier può continuare a fare politica con l'affidamento ai servizi sociali

di Mauro Suttora

Oggi, 9 aprile 2014

Andrà molto meglio a Silvio Berlusconi che a Calisto Tanzi, l'ex padrone della Parmalat che ha appena avuto confermata in Cassazione la condanna a 17 anni per il crac. Tanzi, 75 anni, sta scontando la pena agli arresti nell'ospedale di Parma. Berlusconi, invece, ai domiciliari non ci finirà.

«È un signore di 77 anni incensurato, non socialmente pericoloso, non delinquente abituale», spiega a Oggi l'avvocato milanese Caterina Malavenda, «quindi ha tutti i requisiti per ottenere l'affidamento in prova ai servizi sociali».
Anche perché la sua condanna a quattro anni per frode fiscale è scesa a un anno grazie all'indulto del 2006, e ci sarà uno sconto di altri 60-90 giorni alla fine. Insomma, all'inizio del 2015 Berlusconi sarà di nuovo un uomo libero.

Per questi 9-10 mesi il Tribunale di sorveglianza di Milano lo affida all'Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di via Numa Pompilio, vicino al carcere di San Vittore. Indirizzo ben conosciuto alle migliaia di detenuti (soprattutto tossicodipendenti) che riescono a uscire dal carcere, o a evitarlo del tutto, grazie all'affidamento.

Ma non vedremo Berlusconi lì in fila per il permesso di tenere comizi nella campagna elettorale per le europee del 25 maggio. «Lo scopo dell'affidamento è la "rieducazione"», dice l'avvocato Malavenda, «quindi certamente la pena sarà un po' afflittiva, ma "disegnata" sul soggetto. L'unico divieto irrinunciabile è quello di frequentare delinquenti abituali e tossicodipendenti. Per il resto, massima elasticità. Ogni regola può essere derogata a richiesta dell'interessato, anche oralmente».

È già successo con Fabrizio Corona. Il quale aveva dimostrato che il suo lavoro si svolgeva di notte, e quindi nel 2012 ottenne di tornare a casa quando voleva, invece che alle 21. Poi l'affidamento gli è stato revocato perché le condanne sommandosi hanno superato i tre anni, ed è tornato in carcere.

L'ex banchiere Gianpiero Fiorani ha lavorato nove mesi da volontario in una comunità di recupero prima di recuperare lui la libertà nell'agosto 2012. Ma non è detto che a Berlusconi si imponga un particolare «servizio sociale». Per l'affidamento, infatti, basta avere un domicilio e un lavoro. E certamente l'ex premier un lavoro ce l'ha: capo del secondo partito italiano. 

Quanto al domicilio, probabilmente dovrà scegliere fra Arcore (Monza) e Roma. «Ma, salvo il divieto d’espatrio che già ha da otto mesi», spiega l’avvocato Malavenda, «potrà andare in giro per l’Italia a fare attività politica, avvertendo preventivamente l’Uepe».

Proprio come Corona, che durante l’affidamento si guadagnava la vita nelle serate in discoteca per tutta la penisola. L’unica cosa che Berlusconi non potrà fare, è candidarsi: è stato condannato all’ineleggibilità a pubblici uffici per due anni. Può solo mettere il proprio nome nel simbolo del proprio partito, come ha fatto.

Il suo vero incubo è quello di finire come il suo ex sodale Lele Mora: vendere vestiti usati in una bancarella al mercatino di piazzale Cuoco a Milano per conto della comunità Exodus di don Antonio Mazzi. Ma l’ex agente dei divi, condannato a quattro anni per bancarotta, vive il proprio affidamento come una catarsi. L’ex premier, invece, ha già respinto al mittente l’invito di don Mazzi, che pure si dichiara suo ammiratore: «Mi ha umiliato dicendo che è pronto ad accogliermi per pulire i cessi». Curioso però che un esperto di comunicazione come Berlusconi non colga l’immesso valore propagandistico di una simile photo opportunity: il martirio porta voti.
   
Ogni trimestre il responsabile dell’affidamento dell’ex Cavaliere presso l’Uepe stilerà un rapportino sul comportamento del condannato, e lo consegnerà al Tribunale di sorveglianza. In teoria, se Berlusconi non osserverà scrupolosamente le regole (riassumibili in una: dire sempre dove va), il beneficio potrebbe essergli revocato. Ma a Palazzo di giustizia nessuno sembra voler forzare la situazione.
Mauro Suttora 

Wednesday, April 09, 2014

Gwyneth Paltrow

IL "DIVORZIO CONSAPEVOLE" DA CHRIS MARTIN (COLDPLAY)

New York (Stati Uniti), 2 aprile 2014

di Mauro Suttora

Gwyneth Paltrow si separa, divorzia dal marito Chris Martin capo dei Coldplay? Ma no, non dobbiamo essere così banali. Lei non lascia. Si «disaccoppia consapevolmente»: lo ha annunciato in modo ufficiale nel suo sito Goop. Qualunque cosa questo voglia dire, capiamo che non si abbassa, come noi comuni mortali, a litigare. Forte della sua fede «new age» non butta vestiti fuori dalla finestra, non urla, non si rifugia nel bicchiere.

La regina dell’olistica, la diva più diafana di Hollywood, la più cool del cinema mondiale (superata in snobismo soltanto dalla regista  Sofia Coppola, figlia di Francis Ford) ci aveva già sorpreso sostenendo che le pietre le parlavano. E ora, sempre sotto il caldo sole di Los Angeles, ecco il «disaccoppiamento consapevole». Che non si riferisce, malpensanti noi, alla fine di una copula sessuale, ma a un «ulteriore stadio della vita di coppia».

Il guru: «Vita lunga, nozze brevi»

Tutto normale, insomma, tutto positivo. E qui arriva il suo santone, che sotto al messaggio nel blog di Gwyneth spiega l’arcano. Il dottor Habib Sadeghi, immigrato iraniano negli Stati Uniti, sostiene che oggi si divorzia di più soltanto perché si vive più a lungo. E vivere più a lungo, ma sempre con la stessa persona, non sarebbe «pratico». Lo scrive assieme alla moglie Sherry Sami: «Dopo il periodo della luna di miele, in cui proiettiamo solo nozioni positive sui nostri partner, inizia la fase delle proiezioni negative». E l’armatura che cominciamo a indossare per proteggerci, dicono i due filosofi, si trasforma in prigione.

Concetti profondi, che pare abbiano spinto l’eterea ma infelice Paltrow sotto le lenzuola dell’attuale marito di Elle MacPherson, il miliardario Jeffrey Soffer. Ma, anche qui, il concetto non è quello volgare di «corna». Si tratta di self-improvement, ovvero di «automiglioramento».

Sulla vita «sempre migliore» ma anche sempre più segretamente burrascosa della coppia Paltrow-Martin (valore commerciale congiunto: centinaia di milioni di euro) nei mesi scorsi avevano cominciato a indagare i più agguerriti reporter americani. Non l’avessero mai fatto. La soave ma determinata Gwyneth ha perso tutto il suo aplomb, minacciando querele preventive, negando interviste e accentuando ulteriormente il già proverbiale broncio.
 
Il trasloco della supercoppia con i figli Apple e Moses dalla Londra di Chris alla California di lei, con annesso acquisto di villona da 15 milioni di dollari? Non segnale di disagio, solo proficuo cambiamento di prospettiva: dalla pioggia al sereno. Smentita la rottura con Madonna, un tempo amica strettissima. Scandalo per una frase porno scappata all’altrimenti castigata signora Paltrow in una trasmissione tv con la comica Chelsea Handler: «Quando mio marito torna a casa nervoso, lo tiro su con un po’ di sesso orale».

Guerra contro i giornalisti

E siccome i giornalisti continuavano a punzecchiarla sulla solidità di cotanto matrimonio, lei è ricorsa a una mossa che riteneva da bomba atomica: ha chiesto a tutti i suoi (tanti) amici di boicottare i giornali che la attaccavano, rifiutando a loro volta ogni intervista.
  
Ma la catena di sant’Antonio dei vip paltrowiani contro la stampa rosa non ha funzionato, e quindi ecco oggi il guru di Gwyneth a spiegarci scientificamente l’accaduto: «Non dobbiamo pensare al matrimonio come all’investimento per tutta una vita, ma come all’occasione per un rinnovamento continuo. Così i coniugi si trasformano in maestri reciproci, e si aiutano a far evolvere la struttura interna di supporto spirituale della coppia».

Ben vengano queste ricette per la felicità, se servono a far tornare il sorriso sull’incantevole viso dell’inquieta diva. 
Chi scrive l’ha incontrata due volte personalmente a New York. La prima, settembre 2002, nel backstage dopo una sfilata di Calvin Klein ai Milk Studios. Tutti si complimentavano con lo stilista, ma Gwyneth appariva devastata. Le era appena morto il padre, e mi disse con il suo tipico filo di voce residuale che non era servita a distrarla una crociera in Costa Smeralda da cui era appena tornata, ospite sullo yacht di Valentino. Dopo poche settimane, però, l’incontro con Chris Martin risolse tutto.

Rinata dopo la maternità

L’ho rivista tre anni dopo, nel 2005, completamente trasformata e rinvigorita durante un’intervista all’Essex House di Central Park South per il suo rientro sullo schermo dopo la maternità, in un film che non ricordo (onestamente, dopo gli Oscar di Shakespeare in Love e i capolavori assoluti Sliding Doors e I Tenenbaum, non sono molte le apparizioni cinematografiche di Paltrow degne di nota nell’ultimo decennio). Le feci i complimenti, e lei insolitamente cordiale diede il merito del proprio buonumore, delle guance rosee e del petto rinvigorito alla figlia Apple.

Che faranno ora i due divi della supercoppia? Lui, Chris Martin, è l’antipersonaggio per eccellenza. Niente vita sociale, paparazzi, feste, comparsate, eccessi. Quando sposò Gwyneth aveva 26 anni, ma confessò di avere scoperto il sesso soltanto da tre. Non è, insomma, materiale da pettegolezzo. Infatti tutte le scappatelle della coppia scoppiata riguardavano la sua ape regina, non lui.

Gwyneth, invece, ci stupirà ancora. Ne siamo sicuri. Più in fretta si sbarazzerà del suo guru persiano, meglio per lei.  Fragilissima, quindi perfetta attrice, ha soltanto bisogno di copioni all’altezza e registi capaci di dom(in)arla, estraendo dalla sua faccia non bellissima ma terribilmente cinematografica più dell’unica espressione con cui a volte ammorba i suoi film. Finora ci sono riusciti Wes Anderson ed Anthony Minghella (in Il talento di Mr. Ripley). E datele da bere un bicchiere di gin. Inconsapevole.
Mauro Suttora 

Wednesday, March 19, 2014

Roche e Novartis condannate a 180 milioni di multa


DOPO LO SCANDALO AVASTIN/LUCENTIS: CHI DECIDE I PREZZI DEI MEDICINALI

di Mauro Suttora

Oggi, 10 marzo 2014

Truffa, disastro doloso, associazione a delinquere: sono i reati su cui indagano i magistrati per lo scandalo Avastin/Lucentis. Che ha già portato a un’astronomica multa (180 milioni di euro) da parte dell’Agcom (Autorità garante della concorrenza e mercato, in breve Antitrust) contro le multinazionali produttrici dei due farmaci: Roche e Novartis.
Le case farmaceutiche avrebbero collaborato per ostacolare l’utilizzo di un farmaco 50 volte più economico (Avastin) a favore di uno molto più costoso (Lucentis) contro una grave malattia della vista: la maculopatia senile degenerativa.

Ne soffrono 300mila pazienti in Italia: la maculopatia è la prima causa di cecità dopo i 75 anni. «E sono 100mila i malati che dal 2012 hanno subìto danni per il rallentamento delle cure», ci spiega Matteo Piovella, presidente dei 5mila oculisti riuniti nella Soi (Società oftalmologica italiana), che ha denunciato il caso due anni fa. «Non potendo più praticare le iniezioni intravitreali di Avastin, infatti, i medici hanno dovuto centellinare quelle del costosissimo Lucentis».

Com’è potuto accadere? Quali sono le regole per stabilire i prezzi dei nuovi farmaci, controllandone l’immissione in vendita? E che cosa non ha funzionato?

Ogni anno le medicine ci costano 26 miliardi di euro. Una cifra immensa, che fa gola a molti. Ciascuno di noi spende in media, in farmacia, 300 euro. Ma, aggiungendo i farmaci dispensati da Asl e ospedali, sono 434 euro a testa. Spesi bene?
«I prezzi delle medicine variano da un euro a migliaia di euro», ci spiega Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano e autore di Fa bene o fa male? (ed. Sperling & Kupfer, 2013). «Dipendono dal costo della materia prima? No. I principi attivi costituiscono solo una piccola frazione del prezzo. E anche le spese per la ricerca farmaceutica sono sorprendentemente basse. Infatti, nonostante vengano diffusi dati di grande impatto emozionale come “sviluppare un nuovo farmaco costa un miliardo di euro!”, la ricerca in realtà rappresenta solo l’8 per cento sul totale del fatturato delle aziende farmaceutiche».

I prezzi dei farmaci sono almeno proporzionali al loro beneficio? «Se fosse così, i prezzi dovrebbero essere molto bassi», sostiene amaro Garattini. «Su 280 nuovi farmaci messi in commercio negli ultimi dieci anni, il 51% incrementa una buona qualità della vita di solo un mese. Solo nel 12% dei casi il miglioramento è di almeno un anno. I farmaci antitumorali più recenti costano parecchie migliaia di euro per ciclo ma, alla fin fine, aumentano la sopravvivenza di un paio di mesi».

Cosa condiziona allora il prezzo di un medicinale? «La “promozione”, che incide per oltre un terzo del prezzo.  Far conoscere un farmaco costa parecchio. Bisogna organizzare congressi e meeting, realizzare materiali stampati, e soprattutto occorre mettere in moto la giostra degli informatori farmaceutici, che devono visitare i medici per persuaderli a prescrivere i farmaci».
Infine, un altro terzo del prezzo al pubblico va in spese di distribuzione: 3% ai grossisti, 30 alle farmacie.

L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), che dipende dal ministero della Salute, decide per ogni farmaco la classe di rimborsabilità. Quelli senza obbligo di prescrizione (ricetta del medico) hanno prezzo libero, a carico del paziente. L’Aifa controlla solo quelli non rimborsati ma con obbligo di ricetta: aumenti permessi solo ogni due anni, e senza superare l’inflazione programmata. Poi ci sono i medicinali rimborsati dal Servizio sanitario nazionale: su questi l’Aifa negozia il prezzo con le aziende produttrici. Anche perché sette miliardi di euro annui vengono spesi direttamente da ospedali e Asl.

Proprio in ambito ospedaliero è scoppiato il caso Avastin/Lucentis. Avastin era stata registrata nel 2004 per la cura contro il cancro dalla Roche. Poi si è scoperto che funzionava anche contro la maculopatia essudativa. Due anni dopo Novartis ha brevettato un farmaco specifico contro la maculopatia: Lucentis. Ora si scopre che le due aziende hanno favorito il secondo trattamento più costoso a svantaggio del primo. In questo modo, grazie ai rapporti che legano le due società, entrambe avrebbero ricevuto i propri guadagni.

Roche ha interesse a favorire le vendite di Lucentis, perché ottiene così delle royalties: il farmaco è stato infatti sviluppato dall’americana Genentech, controllata da Roche. E Novartis, oltre a guadagnarci direttamente, lo fa anche indirettamente, attraverso la sua partecipazione (il 30%) in Roche. La Guardia di Finanzia ha sequestrato e-mail fra dirigenti italiani delle due società che si mettono d’accordo, utilizzando anche articoli compiacenti della stampa specializzata e «pareri» favorevoli di medici.
 
Nel 2007, infatti, proprio l’Aifa permise l’utilizzo di Avastin per la cura delle maculopatie nella forma «off label»: espressione che indica l’utilizzo di un farmaco al di fuori delle indicazioni terapeutiche ufficiali. Si è andati avanti così fino al 2012, quando l’Aifa decide di escludere Avastin dagli «off label». Da allora la sanità pubblica ha passato solo il Lucentis, spendendo 45 milioni di euro in più rispetto all’Avastin.
  
Non è certo la prima volta che una casa farmaceutica (o due in combutta fra loro) favorisce un farmaco più remunerativo a scapito di farmaci ugualmente efficaci e sicuri ma più economici. È successo ad esempio per il gabapentin e il pregabalin, due principi attivi molto simili che si usano contro il dolore neuropatico. Il primo è più vecchio: quando il brevetto è scaduto il produttore, Pfizer, ha messo il secondo sul mercato con un costo più alto, organizzando campagne per decantarne le proprietà innovative.

Ed ecco un altro problema. Spiega Garattini: «Ci sono molti farmaci, forse troppi, con le stesse indicazioni terapeutiche. Degli antipertensivi, per esempio, si contano alcune centinaia di confezioni. Come mai? Sono tutti necessari? Per l’approvazione di un nuovo farmaco la legge europea richiede tre caratteristiche: qualità, efficacia, sicurezza. “Qualità”: il farmaco deve possedere sempre la stessa composizione, essere stabile per un certo periodo, così da fissarne la scadenza, e assorbibile per poter penetrare nel sangue. “Efficacia”: capacità d’esercitare un effetto benefico, mentre “sicurezza” significa conoscenza degli effetti collaterali. Nulla da eccepire, senonché queste caratteristiche non sono valori assoluti: andrebbero confrontati con quanto già esiste in terapia per le stesse indicazioni. Ma i confronti non vengono richiesti dalla legge, quindi c’è la possibilità che un nuovo farmaco sia meno attivo o più tossico di quelli già disponibili».

C’è, infine, un problema di buon senso. Avastin costa 15 euro a iniezione, Lucentis 750. Quando fu introdotto, il suo prezzo era addirittura 1.500. «Se il produttore si fosse accontentato di un prezzo superiore ma accettabile, per esempio 200 euro, il caso non sarebbe nato», spiega il dottor Piovella. Insomma, le case farmaceutiche hanno il diritto di guadagnare dai farmaci che producono. Anche perché i loro brevetti scadono dopo vent’anni. Ma con misura.
Mauro Suttora
Ha collaborato Valentina Arcovio

Wednesday, February 26, 2014

Grillismo o squadrismo?

I DEPUTATI DEL MOVIMENTO 5 STELLE SI LASCIANO ANDARE A SCENATE INCONSULTE IN AULA

Oggi, febbraio 2014

di Mauro Suttora

È passato solo un anno da quando sono entrati in Parlamento, emozionati e perfino intimoriti nelle giacche e cravatte comprate per l’occasione. I 150 parlamentari 5 stelle portavano aria nuova, pulita. Oggi, però, molti dei loro 9 milioni di elettori faticano a riconoscerli. Li vedono urlare sconcezze in aula, assaltare i banchi del governo, bloccare conferenze stampa, impedire fisicamente l’uscita dei deputati dalle commissioni.

Cos’è successo? Promettevano di riportare senso civico nelle istituzioni. Ma ora si comportano in modo «disgustoso e demenziale», come denuncia perfino l’unico giornale loro vicino, Il Fatto di Antonio Padellaro e Marco Travaglio (il quale però ne elenca anche gli atti positivi, a pag. 26). Il deputato Giorgio Sorial definisce «boia» il presidente Giorgio Napolitano. Angelo Tofalo grida «Boia chi molla!», slogan fascista. Samuele Segoni indica platealmente il proprio basso ventre durante un discorso. Massimo De Rosa dice alle deputate Pd di essere state elette grazie al sesso orale. Alessandro Di Battista insulta il mite capogruppo Pd Speranza.

«Inaccettabile degrado del costume e del linguaggio», li bacchetta Stefano Rodotà, loro candidato presidente. Il quale boccia Beppe Grillo anche quando chiede di processare Napolitano per alto tradimento: «Populismo degradante». I 5 stelle perdono altri fan: Adriano Celentano, Pippo Baudo, Antonello Venditti, Jacopo Fo (suo padre Dario invece sostiene ancora Grillo). Critico pure il senatore 5 stelle Luis Orellana, loro candidato presidente del Senato, e metà dei suoi colleghi. Grillo, intuendo il disastro, corre a Roma e invita i suoi “ragazzi” a moderarsi e «sorridere». 

Augias: «Violenti inconsapevoli»

Niente da fare. Dopo poche ore appare sul suo blog un video divertente contro la presidente della Camera Laura Boldrini (accusata di aver interrotto un loro ostruzionismo anti-banche) confezionato dall’attivista romano Denis Ferro, emigrato a Paderno Dugnano (Milano). Purtroppo, però, il titolo aizza al linciaggio: «Cosa fareste a Laura in auto?». Immaginabili le risposte. Da «squadristi inconsapevoli», secondo il giornalista e scrittore Corrado Augias. Al quale viene riservato un trattamento neonazi: i suoi libri bruciati in video.

Ciliegina sulla torta: un altro gentleman, Claudio Messora, scrive alla Boldrini che aveva accusato i grillini di avere fra loro dei «potenziali stupratori»: «Volevo tranquillizarti [sic], tu non corri nessun rischio». Messora, nominato «capo della comunicazione» direttamente da Gianroberto Casaleggio, è il vero capo dei senatori 5 stelle: i capigruppo ruotano ogni tre mesi, lui resta.

Infine, un tocco comico: Rocco Casalino, ex concorrente del Grande Fratello nel 2002, oggi addetto stampa grillino in Senato, attacca Daria Bignardi, ex presentatrice di quel Grande Fratello, perché ha “osato” chiedere a Di Battista in tv del padre fascista: «Il suocero della Bignardi, Adriano Sofri, è un assassino».

«Dare dei “fascisti” ai grillini è esagerato», commenta con Oggi Mario Capanna, pure lui 30 anni fa protagonista di memorabili ostruzionismi. «Anche noi di Democrazia Proletaria eravamo rivoluzionari, quindi criticavamo tutti. Però col Pci discutevamo sempre, cercavamo sponde e alleanze. E lottammo contro il decreto sulla scala mobile assieme a Berlinguer. Non ci isolavamo».

Memorabili anche gli ostruzionismi radicali: nel 1981 Marco Boato parlò 18 ore contro il fermo di polizia. Record mondiale. Lo soprannominarono “vescica di ferro”. Adesso giustifica la Boldrini: «Era suo preciso dovere interrompere l’ostruzionismo dei 5 stelle e permettere la votazione, perché i tempi stavano scadendo. Una minoranza può ricorrere al filibustering per ritardare l’approvazione di una legge che ritiene ingiusta, creando attenzione su di essa e appellandosi all’opinione pubblica, ma non può impedire il libero voto».

Marco Pannella, antesignano dei referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti e delle lotte anti-Casta, avverte Grillo: «Passa dal monologo al dialogo, altrimenti illuderai e deluderai i tuoi milioni di simpatizzanti».

Gli altri “papà” dei grillini sono i verdi. «Stessi temi ecologici, ma nonviolenti non so», sostiene l’ex consigliere regionale Veneto Mao Valpiana. «Noi non eravamo mai aggressivi e arroganti, massimo rispetto per gli avversari. Gandhi insegna che bisogna convincere, non insultare. Costruire ponti, senza rinchiudersi in se stessi. Invece i 5 stelle sembrano una setta tipo Scientology. Un gruppo chiuso, controllato dal centro».
Mauro Suttora

Wednesday, February 05, 2014

Nel mirino dell'Italia violenta


Il professor Panebianco, il cronista Luciano Bruno, il reporter Massimo Numa, il senatore Stefano Esposito, il giornalista Giovanni Tizian: un brutto gennaio per loro, con minacce e intimidazioni

Oggi, 29 gennaio 2014

di Mauro Suttora

Il giorno prima Angelo Panebianco, professore di scienze politiche a Bologna, aveva scritto uno dei suoi editoriali sul Corriere della Sera. Chiedeva che sull’immigrazione ci sia un dibattito concreto, fuori dalle ideologie contrapposte buonisti/rigoristi: «Di quanti immigrati abbiamo bisogno? Di che tipo? Di che religione? Possono integrarsi meglio i cristiani ortodossi dell’Europa orientale, o i musulmani?».  

Urla e scritte fino al corridoio

«Razzista», ha subito sentenziato il collettivo Hobo («vagabondo», in inglese). Che il 14 gennaio ha organizzato una spedizione punitiva all’università, con lanci di petardi, urla, slogan, striscioni e scritte sui muri. Una combriccola violenta, ma Panebianco è sceso dal suo ufficio per dialogare. Non l’avesse mai fatto. I suoi contestatori volevano solo insultarlo e intimidirlo: «Non ci interessa il confronto con un barone schiavista». Sono saliti nel corridoio del suo ufficio e ne hanno imbrattato la porta con vernice rossa.

Il professor Panebianco è rimasto incolume. Non così Luciano Bruno, giornalista de I siciliani, mensile fondato da Pippo Fava (ucciso dai mafiosi esattamente trent’anni fa). L’11 gennaio stava scattando foto al quartiere Librino di Catania, devastato da spacciatori e criminali. È stato circondato da sei uomini armati che l’hanno minacciato puntandogli una pistola alla testa. Poi l’hanno picchiato, perché colpevole di avere denunciato lo strapotere mafioso.

Gli hanno rotto un dente. Hanno fatto i nomi dei suoi familiari, per fargli capire che anche loro sono minacciati. Luciano Bruno a Librino di abita. Pubblica spesso articoli su questo quartiere progettato dall’archistar Kenzo Tange negli anni Sessanta, ma poi abbandonato al degrado e lasciato in mano ai mafiosi (clan Arena).

Luciano Bruno stava fotografando il famigerato Palazzo di Cemento, costruito trent’anni fa ma mai consegnato al comune di Catania perché privo della certificazione antincendio: «Mi hanno portato via la macchina fotografica. E un incisivo».

Pagina intimidatoria su facebook

«Non comprerò più La Stampa finché ci scrive Massimo Numa»: è il titolo di una pagina Facebook contro questo reporter del quotidiano torinese. «Che credibilità può avere un giornalista che (sic) lo vedi sempre in compagnia della polizia?» spiega la pagina ad personam. E continua: «Un vero giornalista sente tutte le parti in causa, non credo possa farsi vedere tranquillamente in mezzo ai no Tav».

Dalle parole ai fatti. Dopo qualche minaccia di troppo, a Numa è stata data una scorta. Niente da fare. I suoi nemici il 13 gennaio gli hanno fatto recapitare un video in cui lui viene pedinato mentre esce di casa per far pisciare il cane. Come dire: «Sappiamo dove abiti». Anzi, tutti i suoi dati privati (numero di telefono, targhe di auto, indirizzo) sono stati pubblicati in rete. Un invito al linciaggio. E in redazione è arrivata una bomba mascherata da hard disk.

A settembre, alle rimostranze degli oppositori del treno veloce si è aggiunta la pubblicazione, da parte dello «sciacallo e pennivendolo» Numa, di un libro sulle stragi di fascisti nel dopoguerra. E i suoi avversari hanno chiesto a La Stampa di «allontanare il neofascista dal giornale».

Stessa città (Torino) e stessa trincea (il Treno alta velocità per Lione in costruzione nella val Susa, contestato da molti abitanti) per il senatore del Partito democratico Stefano Esposito. Che il 13 gennaio si è ritrovato tre bottiglie molotov sul pianerottolo di casa.

Il vicepresidente della commissione Trasporti da anni difende la galleria con la Francia, ma questa volta sembra demoralizzato: «Non posso continuare a far pagare a mia moglie e ai miei figli questa vita da inferno».

Le minacce, infatti, sono continue. «Torna in prefettura [dove Esposito lavorava prima di darsi alla politica, ndr], altrimenti farai bum bum ora che non c’è più il procuratore Caselli a proteggerti», c’era scritto in un biglietto accanto alle bottiglie incendiarie. Un particolare deprimente: né Numa né Esposito hanno ricevuto solidarietà da parte dei  capi del movimento no Tav. I quali raramente si dissociano dalle azioni violente dei centri sociali, anche se giurano di essere pacifici.

La ’ndrangheta a Modena

Originario di Bovalino (Reggio Calabria), Giovanni Tizian da anni vive e lavora da giornalista a Modena. I mafiosi hanno ucciso suo padre bancario nel 1989 in Calabria, forse perché non aveva concesso un fido a persone sospette. Caso mai risolto.

Dopo aver pubblicato un libro sulle infiltrazioni delle mafie al Nord, e sul riciclaggio, sono arrivate minacce anche a lui. Da due anni deve girare con la scorta: due agenti armati e uno in borghese.

Il 9 gennaio Tizian si è costituito parte civile nel processo Black Money iniziato a Bologna contro il clan Femia della ’ndrangheta, da lui accusato di lucrare sul gioco d’azzardo e dal quale erano arrivate le minacce di morte.

Ecco, queste sono cinque storie esemplari di cittadini «eroi per caso», costretti a ricorrere alla protezione della polizia per le intimidazioni subìte. Ci sono abbastanza scorte per loro? Forse, se se ne togliessero alcune inutili ai politici, loro sarebbero più tranquilli.
Mauro Suttora

Thursday, January 23, 2014

Paola Taverna, stella a 5 stelle

NUOVI PERSONAGGI: PASSIONI E PICCOLI SEGRETI DELLA SENATRICE-POETESSA GRILLINA

Insulta Berlusconi, è adorata dagli attivisti (che però, se serve, tratta male), il suo slogan «Parlamentari siete Gneeente!» spopola in rete. Ormai è diventata la più popolare del movimento di Grillo e Casaleggio

di Mauro Suttora

Oggi, 3 gennaio 2014

«Vabbe’, sempre de me stamo a parla’? Niente personalismi, sono più importanti le idee. Nun t’azzarda’ a ffa’ gossip, ggiornalista...».
E giù una gorgogliante risata, di quelle che sdrammatizzano. Perché lei è famosa anche come la Trilussa grillina: scrive sonetti in romanesco che affilano tutti. «Compresi i miei colleghi 5 stelle se mettono su qualche sussiego di troppo, con le loro cravatte da parlamentari».

È scatenata, Paola Taverna, 44 anni, donna fiera delle proprie origini borgatare. Vive col figlio a Torre Maura, ma è nata e cresciuta al Quarticciolo, quartiere popolare dove Mussolini sistemò gli sfrattati dopo gli sventramenti di via della Conciliazione.

Palazzo Madama, secondo piano. Parla con Oggi nel suo ultimo giorno da presidente dei senatori del Movimento 5 stelle (i capigruppo del M5s ruotano ogni tre mesi).

Perché così spesso?
«Pratichiamo quel che predichiamo. Siamo normali cittadini che offrono un breve periodo - massimo due mandati - al servizio pubblico. E anche le cariche interne ruotano».

Bilancio del suo trimestre?
«Ottimo. Anzi, pessimo. La politica in questi palazzi è peggio di quel che pensavo. Ogni giorno una schifezza: tangenti sul terremoto dell’Aquila, consiglio regionale illegale in Piemonte, telefonate imbarazzanti della ministra Nunzia De Girolamo... Sembra che i partiti facciano a gara per stancare la gente e regalarci voti».

Davvero peggio di quanto immaginasse?
«Ripeto: ogni giorno una porcata. Ci hanno appena detto no al taglio delle pensioni d’oro, all’aumento di quelle minime da finanziare con tasse sul gioco d’azzardo, no a un dibattito sui ministri in bilico come la Cancellieri. In compenso è passata la privatizzazione della Banca d’Italia, che regalerà decine di milioni alle banche private».

Paola Taverna ormai è diventata una stella dei 5 stelle. Dopo Beppe Grillo e il misterioso Richelieu Gianroberto Casaleggio, è lei la più amata. Ogni volta che mette un post su Facebook le arrivano centinaia di “mi piace” in pochi minuti. I suoi video su Youtube hanno migliaia di visualizzazioni.

La invitano in tutta Italia nei week-end, neanche fosse la Madonna pellegrina: da Pomigliano (Napoli) ai paesi terremotati dell’Emilia. Radio 105 ha addirittura inaugurato una rubrica satirica (Casa Taverna) in cui la dipingono come una casalinga collerica. E dopo il suo discorso contro Silvio Berlusconi in Senato, sono nati fan club scherzosi come i Tavernicoli o la Senatruce col mattarellum.

Durante un comizio si era lasciata andare: «A Silvio je sputo in testa». Scuse ufficiali, ma grillini in delirio. «Sì, in effetti ci sono toni un po’ da tifo in giro», ammette lei. «Ma è naturale, finché questi non schiodano. La gente è stufa, metà non va più a votare».

Beh, questo lo sappiamo da anni.
«Però ora i nodi vengono al pettine. All’ultimo V-day di Grillo, in piazza a Genova a dicembre, mi hanno assediato centinaia di signore, giovani, anziani che mi imploravano: “Siete la nostra ultima speranza!”».

E lei come risponde?
«Attivatevi in prima persona, non fidatevi più dei politici di carriera».

Ora però c’è Renzi. È più nuovo di voi.
«Nuovo quello? Ma se è in politica da vent’anni».

Vuole tagliare un miliardo l’anno di costi, cominciando dal Senato.
«Cominciasse a tagliarsi lui il finanziamento pubblico Pd. Noi abbiamo rinunciato a 40 milioni, e prendiamo solo 2.900 euro al mese di stipendio».

 Lei quanto guadagnava prima?
«Novecento euro, part-time in un ambulatorio di analisi mediche. Lavoro da quando avevo 19 anni, dopo l’istituto linguistico. Mancò mio padre, addio università».

Torniamo al movimento: com’è finita coi dissidenti?
«Quali dissidenti? Si parla, ci si confronta. Nei miei tre mesi, niente problemi».

Ma se vi siete spaccati anche per eleggere il suo successore, Maurizio Santangelo: 26 ‘talebani’ contro 23 ‘dialoganti’.
«Non ci siamo ‘spaccati’, abbiamo solo votato. È la democrazia, la applichiamo fra noi. Non siamo teleguidati da Grillo. Comunque, sulle cose importanti siamo uniti».

Una legge che è riuscita a far passare?
«Ho trovato i soldi per lo screening neonatale delle malattie rare».

Interessi extrapolitici?
«Mio figlio. È tutta la mia vita. E gioco a Candy Crush sul telefonino».

I due collaboratori, Ilaria e Fabio Massimo, la avvertono: deve andare a una riunione del movimento. Li accompagno al Testaccio, ci sono una settantina di attivisti. Atmosfera surreale: un’assemblea per decidere come fare un’altra assemblea. Quando arriva la applaudono, perché non si dà mai arie.

Poi però gli oratori si perdono in quisquilie organizzative, e la senatrice si trasforma in pantera, chiede la parola, non esita a dire in faccia ai noiosi militanti “de bbase” quel che pensa. Qualcuno la fischia. Lei non si scompone, anzi rincara. Proprio come nel suo discorso ormai leggendario, quando urlò la famosa invettiva ai senatori: “Siete gneeente!”

Il presidente del Senato Piero Grasso non la interruppe. Anzi, sorrideva sornione. Dicono abbia un debole per la focosa Taverna. E gli mancherà, alle riunioni dei capigruppo che lei rendeva sempre frizzanti.
Mi scuso per il gossip.
Mauro Suttora

Wednesday, January 15, 2014

Politici: nuovo stile "povero"


UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA FA RINUNCIARE AI SIMBOLI DEL POTERE




















Oggi, 9 gennaio 2014

di Marianna Aprile e Mauro Suttora

Fra i meriti che ora tutti riconoscono a Pier Luigi Bersani, ora convalescente, c’è quello di non aver mai esibito la pompa del potere. Nessun codazzo di gorilla da segretario Pd, poco uso di auto blu. Era facile incontrarlo solo, senza scorta (neanche un portaborse) sui voli di linea Roma-Milano, seduto in posti non privilegiati.

Con l’aria che tira, non è più l’unico. Diversi politici, in tutto il mondo, esibiscono una nuova consapevolezza. Il nuovo sindaco di New York, Bill de Blasio, è arrivato in metro alla propria cerimonia di inaugurazione. Per la verità anche Mike Bloomberg, suo miliardario predecessore, non disdegnava la subway.

Ma con i politici non si sa mai se le paparazzate di vita sobria siano casuali, combinate, o addirittura sollecitate: magari vanno sempre in elicottero, però l’unica volta che ci rinunciano si fanno fotografare. Quel che è sicuro, è che la cancelliera tedesca Angela Merkel usa ancora sci di fondo vecchi di vent’anni e costruiti nella sua ex Germania Est. È caduta, si è fratturata il bacino.

Pisapia a piedi, fa la spesa da solo

E in Italia? Niente trucchi per il sindaco di Milano Giuliano Pisapia: neanche un vigile di scorta, gli piace andare a piedi, anche al super per la spesa. Quella stessa spesa (all’Ikea) che ha invece distrutto le speranze quirinalizie di Anna Finocchiaro, sorpresa a far spingere il suo carrello da un agente.

Sono le scorte per ragioni di sicurezza la scusa per le auto blu: «Ci rinuncerei, ma me la impongono», è il ritornello. L’attentato dello squilibrato contro il carabiniere di Palazzo Chigi lo scorso aprile ne ha interrotto lo sfoltimento. E provocato qualche segreto sospiro di sollievo fra qualche politico.

Ma non è solo l’auto lo status symbol del potere. C’è la fantozziana metratura dell’ufficio. Megagalattico quello proposto nove mesi fa al neo consigliere regionale lombardo 5 stelle Eugenio Casalino: «Erano 200 metri quadri, mezzo 23esimo piano del Pirellone. Solo perché ho la carica di segretario dell’ufficio di presidenza. Ho rinunciato a tre stanze su sette. Ma qui in regione Lombardia i grandi sprechi avvengono negli staff per gli assessori e nelle società partecipate e controllate: Lombardia Informatica, Infrastrutture Lombarde, Aler (case popolari) e Finlombarda».

Il deputato bresciano Mario Sberna (Scelta Civica) ogni anno fa un fioretto quaresimale: indossa ovunque sandali senza calze. Si presentò così anche in Parlamento, appena eletto. A Roma alloggia in un convento di suore (20 euro al giorno). Cinque figli, Sberna è ex presidente dell’Associazione famiglie numerose. Il deputato francescano trattiene dallo stipendio solo 2.500 euro e le spese per i suoi giorni romani, tutte documentate. Sul suo sito pubblica l’elenco dei versamenti alle associazioni cui va il resto del suo stipendio.

Come lui fanno tutti i 150 parlamentari 5 stelle. Che devolvono la differenza a un fondo per le piccole e medie imprese. Ma solo Paola Taverna si è presentata con le infradito in Senato d’estate.

Ministri Bray, Delrio e Bonino a piedi

E i ministri? Nel maggio 2013 Massimo Bray (Beni culturali), è stato fotografato sulla Circumvesuviana mentre si recava in visita privata a Pompei. Una passeggera lo ha riconosciuto e ha twittato la foto di lui in piedi, con le cuffiette nelle orecchie (ascoltava Asaf Avidan). Poi il treno si è guastato, e il ministro ha chiesto un passaggio a un passeggero per raggiungere Pompei.

Graziano Delrio (Affari regionali), nove figli, ha tenuto la poltrona di sindaco di Reggio Emilia, ma ha rinunciato agli 80 mila euro di stipendio. E alla scorta che il ruolo gli attribuiva automaticamente, contro il parere del ministero degli Interni. Al giuramento al Quirinale è arrivato a piedi, come Emma Bonino. A piedi e senza scorta si muovono anche il due volte premier Romano Prodi e il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio (M5S).

Notoriamente i sindaci di Firenze Matteo Renzi (neosegretario Pd) e di Roma Ignazio Marino vanno in bici. Ma le due ruote nella capitale non fanno notizia: le utilizzava già vent’anni fa il primo cittadino Francesco Rutelli, seppur motorizzato. Ora i motorini sono diventati «scooteroni»: ne usa uno la 5 stelle Roberta Lombardi.

La moda della bici  ha colpito (per poco) persino Daniela Santanchè: all’inizio della legislatura, complice la ventata di low profile grillino, la pitonessa prese ad andare alla Camera in bici. Durò poco: smise causa tacco 12.

Ben 57 mila agenti per le scorte

Ventata di austerity anche ai piani alti: il premier Enrico Letta si è presentato al Quirinale per ricevere l’incarico dal presidente Giorgio Napolitano con la Fiat Ulysse di sua moglie (auto aziendale da giornalista del Corriere della Sera), ha trascorso pochi giorni di vacanze estive nel giardino di casa a Pisa nella piscinetta gonfiabile, e a Capodanno ha preso un volo di linea per la Croazia.

Ma quanti sono i personaggi scortati, in Italia? Mezzo migliaio (dati del sindacato Sap, ottobre 2013), suddivisi in quattro livelli di protezione: 17 di primo livello (tre auto blindate con ben tre agenti per auto); 82 di secondo livello (due auto con tre agenti per auto); 312 di terzo livello con un’auto e due agenti; 102 con un’auto e un agente. Totale: 1900 agenti al giorno (57mila al mese) tra polizia, Carabinieri, Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale. Costo: 250 milioni di euro l’anno.

Nel 2012 sono state tagliate scorte di quarto livello a 70 parlamentari; nel 2013, invece, nessun taglio. Le auto blu sono 63.700, le grigie (auto di servizio non blindate e senza autista) 54.250, per un costo annuo di 2 miliardi di euro. A usufruire delle auto grigie sono, per esempio, i Prefetti. Quelli delle grandi città, in genere, ne hanno una assegnata “in esclusiva”. Quelli delle città medio-piccole, invece, ne condividono l’uso con gli altri dirigenti delle Prefetture. Dispongono di un’auto grigia, quasi sempre in esclusiva, anche i dirigenti e gli alti burocrati di ministeri ed enti (Csm, Authorities, Corte Costituzionale).

Tra tutti i personaggi (giornalisti, politici o ex politici) scortati, ce ne sono alcuni che più di altri fanno storcere il naso. Qualche esempio? Fonti vicine al Viminale confermano che sono sottoposti a protezione l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, sua moglie Sandra Lonardo, gli ex ministri Paolo Cirino Pomicino, Oliviero Diliberto e persino Claudio Scajola (che da ministro dell’Interno negò la scorta al giuslavorista Marco Biagi, poi ucciso dalle nuove Br). Ancora sotto scorta gli ex presidenti della Camera Fausto Bertinotti e Pierferdinando Casini, e del Senato Marcello Pera.

Nell’estate 2013 Gianfranco Fini, allora presidente della Camera, finì sui giornali per gli 80 mila euro che costò il soggiorno della sua (legittima) scorta in nove stanze di un hotel nel centro di Orbetello durante le vacanze di Fini e famiglia ad Ansedonia (Grosseto).

Hanno ancora la scorta l’ex presidente del Lazio Renata Polverini, ora deputata, l’ex ministro Elsa Fornero, l’ex pm Antonino Ingroia, l’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, l’ex presidente della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita. Tra i giornalisti sottoposti a tutela, figura Emilio Fede (condannato a 7 anni in primo grado per favoreggiamento della prostituzione).

Piccola nota: gli ex ministri non possono rinunciare alla scorta per i tre mesi successivi alla fine dell’incarico. Prima era un anno, poi un provvedimento dell’ex Guardasigilli Paola Severino ha stabilito fossero tre mesi; dopo, un comitato valuta se la personalità in questione ne ha ancora davvero bisogno.
Marianna Aprile e Mauro Suttora

Tuesday, December 24, 2013

Forconi: chi sono

I LORO CAPI UNITI DA DEBITI, TASSE NON PAGATE E DISASTRI ELETTORALI 

Oggi, 18 dicembre 2013

di Mauro Suttora

Il movimento dei Forconi, attrezzo con cui vorrebbero cacciare i politici, è stato fondato l’anno scorso da Mariano Ferro, 53 anni, agricoltore con venti ettari ad Avola (Siracusa) e assegni protestati per 7 mila euro. Le disavventure col fisco uniscono tutti i capi della protesta.
Danilo Calvani, 51 anni, agricoltore di Pontinia (Latina), una compagna, quattro figli, ragioniere mancato, ha un’azienda fallita per 140mila euro fra tasse non pagate, debiti con le banche e contributi per i dipendenti non versati all’Inps. È diventato famoso per essere arrivato a un corteo sulla Jaguar di un amico camionista.
Lucio Chiavegato, 48 anni, ex falegname di Bovolone (Verona), tre figli, ditta di arredamenti per hotel, fondatore vent’anni fa degli anti-fisco di Life (Liberi imprenditori federalisti europei) e oggi animatore dei secessionisti di Veneto indipendente, ha debiti bancari per 320 mila euro.
Questi sono i tre coordinatori nazionali dei Forconi autorizzati a parlare con i media. Ma anche gli altri hanno problemi con Equitalia: l’industriale siderurgico Giovanni Zanon (ipoteca per 11 mila euro) e l’allevatore Giorgio Bissoli (27 mila).

Non è vero che ai Forconi non interessa fare un partito. In realtà ci hanno già provato tutti, ma con risultati disastrosi. Ferro, ex candidato sindaco per Forza Italia nella sua Avola, alle regionali siciliane 2012 prese soltanto l’1,5 per cento. Calvani, candidato sindaco a Latina due anni fa: 320 voti, lo 0,4 per cento. Peggio Chiavegato capolista del Partito nasional veneto alle regionali 2010: 141 voti, lo 0,18 per cento.

Ora i capi dei Forconi litigano fra loro. Andrea Zunino, 60 anni, convertito all’islam, è stato cacciato dopo una frase contro i «banchieri ebrei». Ferro e Chiavegato si sono dissociati da Calvani sulla manifestazione nazionale a Roma del 18 dicembre: «Troppi rischi di infiltrazioni violente».

Estremisti di destra (Forza nuova, Casa Pound) e di sinistra (centri sociali come Askatasuna a Torino) approfittano delle proteste pacifiche dei Forconi per attaccare le forze dell’ordine.
Le quali hanno adottato una strategia morbida. A Milano, per esempio, non sono intervenute per sgomberare gli appena 200 manifestanti che per ben quattro giorni hanno fatto impazzire il traffico nella zona nevralgica di piazza Loreto. Gli unici a usare le maniere forti sono stati i tifosi dell’Ajax per far passare il loro pullman.

Cosa vogliono i Forconi? Protestano contro tasse (Equitalia, Guardia di finanza), politici (tutti, grillini compresi) e la crisi in genere. Niente richieste specifiche. Gli autotrasportatori, che incassano ogni anno 1,4 miliardi di sconti sul gasolio, si sono dissociati.

Forza Italia e Movimento 5 stelle sperano di approfittare di questi moti di piazza, raccogliendo i voti dei Forconi alle europee del prossimo maggio. Ma nessun partito si era accorto della protesta che montava su Internet con la parola d’ordine «Il 9 dicembre blocchiamo l’Italia». 

Wednesday, December 18, 2013

Renzi: buoni e cattivi


di Mauro Suttora

Oggi, 11 dicembre 2013

Doppia vittoria per Matteo Renzi alle primarie del Partito democratico: 68 per cento con 2,6 milioni di votanti. Il nuovo segretario del Pd appena due anni fa sembrava un esagitato che urlava di voler rottamare tutti i dirigenti del proprio partito. Oggi se n’è impadronito, e per chi non è salito sul suo carro (come gli accorti Walter Veltroni ed Enrico Franceschini) si annunciano tempi duri.

«Ridurrò i costi della politica di un miliardo», promette Renzi, «sostituirò i senatori con un’assemblea di sindaci e presidenti di regione che lavoreranno gratis». Beppe Grillo trema: lo scettro dell’Uomo nuovo passa nelle mani del sindaco di Firenze. Ma anche gli altri protagonisti della politica italiana, da Silvio Berlusconi a Mario Monti, sembrano cariatidi rispetto a questo 38enne arrembante.

Ecco chi sale e chi scende (in politica, ma anche in economia, tv, mondo dello spettacolo e cultura) con l’inizio dell’era Renzi.

Romano Prodi sale: ha deciso in extremis di andare a votare, per vendicarsi dei 101 anonimi parlamentari Pd che otto mesi fa lo pugnalarono nella corsa al Quirinale. Massimo D’Alema, viceversa, scende: è stato lui il maggiore avversario del sindaco dentro al partito, e anche adesso non si tira indietro: «Ne ho visti tanti, passerà anche lui».
 
Piero Fassino, segretario Pd fino al 2007 e oggi sindaco di Torino, sale: diventerà presidente del partito. Stefano Fassina, viceministro dell’Economia ed esponente della sinistra interna, non condividerà il nuovo corso liberale.

Carlo De Benedetti, proprietario del giornale La Repubblica, ha messo le vele al vento: «È necessario saltare una generazione per cambiare il pd». Eugenio Scalfari invece, quasi 90enne fondatore di quel quotidiano, ha scritto sprezzante: «Renzi è un avventuriero, come piacione meglio Fabio Volo e i suoi libri».

Tempi duri per Mario Orfeo, direttore del Tg1: troppo accondiscendente con il premier Enrico Letta. Salgono in Rai le quotazioni di Monica Maggioni, direttrice Rainews (nonostante il buco sulla morte di Nelson Mandela), e Gerardo Greco (Agorà, Rai3).

Tempi durissimi per Susanna Camusso e tutti i sindacati: «È arrivato il momento di discutere seriamente dei loro bilanci e del loro ruolo in questo mondo del lavoro che cambia così velocemente», minaccia Renzi. Il cui volto nuovo, in tv, è l’angelica ma tosta 33enne Maria Elena Boschi, sua concittadina avvocata, una dei pochi deputati renziani.

Jovanotti è passato da Veltroni a Matteo, surfando sull’onda delle canzoni adottate come inni alle convention di Firenze. Fabio Fazio invece pare abbia votato Pier Luigi Bersani alle scorse primarie e Gianni Cuperlo in queste: doppio fallo. Come per il regista/attore Nanni Moretti.

Debora Serracchiani, rottamatrice della prima ora, adesso è governatrice della regione Friuli-Venezia Giulia. Per lei un futuro a Roma (ministro?). Della variopinta corte renziana fanno parte anche Oscar Farinetti (Eataly, presente a Leopolda 2) e lo scrittore Alessandro Baricco. Pippo Baudo ha votato per lui nel gazebo di piazza del Popolo.

Fra gli antipatizzanti nel mondo dello spettacolo Sabrina Ferilli (comunista storica, arroccata a Cuperlo come Monica Guerritore), Alba Parietti («Renzi ha una figura berlusconiana»), gli attori Elio Germano (sprezzante: «Sono di sinistra, quindi col Pd non c’entro») e Riccardo Scamarcio: «Incredibile che dei politici vestano giubbotti di pelle. Gli attori siamo noi, perché vogliono rubarci il mestiere? È avanspettacolo». Duro anche Claudio Sabelli Fioretti (Un giorno da pecora, Radio2): ««La linea di Renzi sarà un dramma per il Pd».

Fra i simpatizzanti, Victoria Cabello («È l'uomo del rinnovamento che serve al Pd e all'Italia») e Neri Marcorè: «Ha carisma e capacità». Il regista Fausto Brizzi (Notte prima degli esami, Femmine contro maschi), ospita Renzi a casa sua quando dorme (raramente) a Roma.

Sarà strage fra i dirigenti Pd: Anna Finocchiaro, Rosy Bindi, Bersani, Franco Marini, anche giovani ministri come Andrea Orlando (Ambiente). Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Filippo Patroni Griffi e il viceministro dello Sviluppo economico Antonio Catricalà sono detestati da Renzi in quanto boiardi di Stato: «Chi guadagna di più nella pubblica amministrazione? Ridurre la burocrazia vale due punti di Pil». 

Fuori anche la ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri per le telefonate ai Ligresti. Niente di buono in vista, infine, per Berlusconi (che preferì Enrico Letta a Renzi come premier in aprile), Monti e Letta stesso (nonostante la colleganza di partito: due galli in un pollaio sono troppi).

Si sono invece riciclati in tempo Roberto Giachetti, Goffredo Bettini, Paolo Gentiloni. Che però dovranno obbedire a Luca Lotti, nuovo vice-Renzi a Roma. Gran furbo anche il ricco costruttore ed editore Francesco Gaetano Caltagirone  che fiutando il nuovo corso ha incontrato Renzi e ora lo loda, preferendolo al genero Pier Ferdinando Casini.

Nel mondo economico sono renziani anche il gestore di fondi Davide Serra (liquidato come «speculatore delle Cayman» da Bersani), Andrea Guerra (ad Luxottica), Francesco Micheli (banca Lazard, 10 mila euro da suo figlio Carlo al comitato Renzi), il finanziere Guido Roberto Vitale (5 mila euro), Yoram Gutgeld (ex consulente McKinsey, fatto eleggere deputato) e Fabrizio Palenzona (vicepresidente Unicredit e potente capo dell’Aiscat, concessionarie autostradali).
Mauro Suttora

Wednesday, December 11, 2013

Cgia di Mestre

In teoria dovrebbero limitarsi ad assistere gli artigiani di Venezia. In pratica, i loro comunicati fanno tremare ministri e imbestialire i burocrati romani. Ecco chi sono i «cervelloni» del Centro sudi più citato d'Italia

dall'inviato Mauro Suttora

Mestre (Venezia), 5 dicembre 2013

Gli americani hanno i Nobel del Mit di Boston, gli inglesi i professori di Cambridge, i tedeschi i think tank di Francoforte. Noi abbiamo gli artigiani di Mestre. Altro che Istat, o uffici studi Bankitalia e Bocconi. È la «Cgia di Mestre» quella che da vent’anni fa le pulci, inesorabilmente, a ogni provvedimento del governo italiano.

Letta promette sgravi fiscali? Nei tg la Cgia (sigla misera per un nome altisonante: Confederazione Generale Italiana Artigianato) lo ridicolizza subito, calcolando che sono solo 14 euro al mese. Tremonti annunciava meno tasse? La Cgia lo smentiva dopo poche ore. Monti vedeva «la luce in fondo al tunnel»? La Cgia sghignazzava, scodellando dati pessimi.

Ormai il dibattito politico/economico in Italia vede da una parte i ministeri romani, e dall’altra questa imperscrutabile Cgia. La quale gode di un successo incredibile presso tv e giornali: dal 1994 ha avuto 1.340 suoi comunicati ripresi dall’agenzia Ansa. Solo quest’anno siamo già arrivati a 300. Una cascata di notizie che arrivano sempre al momento giusto. Dopo l’alluvione in Sardegna, per esempio, la Cgia ha denunciato: soltanto l’uno per cento dei 43 miliardi di tasse «ambientali» che paghiamo va alla reale protezione del territorio.

Arruolato pure l’addetto alle paghe
Chi sono questi maghi di Mestre? E i loro dati sono attendibili? Andiamo a trovarli. Scopriamo che stanno in una avveniristica torre di vetro e acciaio alla periferia della città. Lavorano per l’ufficio studi 15 degli 85 dipendenti della Cgia provinciale veneziana. Ma perché mai gli artigiani qui sono così combattivi, e dedicano tante risorse alla polemica politica?

La risposta è tutta in un nome e cognome: Giuseppe Bortolussi. È il 65enne presidente della Cgia, per la quale lavora da un terzo di secolo. Ed è un vero «rompibae», come dicono da queste parti.
Documentatissimo e fluviale nell’eloquio, dirige la sua squadra ormai quasi a memoria. Ogni mattina si riuniscono e individuano i temi al centro dell’attenzione. Poi sfornano dati per giornalisti affamati di notizie, ma troppo pigri per trovarle da soli.
«E non ci vogliono professoroni per fare quattro calcoli», assicura Bortolussi, «basta il nostro funzionario addetto alle paghe o l’esperto sindacale per smascherare le bugie di Roma».

Parla un leghista apostolo degli evasori del Nordest? Macché. Bortolussi era candidato del Pd alle ultime regionali in Veneto nel 2010. Ha preso il 30%, contro il 60 di Lega Nord e Pdl. Ora è consigliere regionale. Prima, è stato a lungo assessore di Venezia nella giunta di sinistra di Massimo Cacciari.
I suoi 2.500 iscritti (a 200 euro l’anno) non protestano per questa sua caratterizzazione politica? «Nessuno. Perché difendiamo bene i loro interessi».

L’ufficio di Bortolussi, al quinto piano, è in cucina. Una cameretta con frigo, lavabo e gas progettata come foresteria. Ma a lui piaceva: ha aggiunto un tavolo, una sedia, e da lì fa tremare i ministri dell’Economia. Su uno scaffale i libri dei suoi economisti preferiti: Peter Drucker e Philip Kotler.
La sua apoteosi è arrivata il 15 novembre, quando il ministro Fabrizio Saccomanni ha dovuto smentire il proproprio dipartimento Finanze sui lavoratori dipendenti che pagherebbero più tasse degli imprenditori. «Non era mai successo che facessero marcia indietro su carta intestata», gongola Bortolussi.

Per conquistare valanghe di citazioni sui media la Cgia usa alcuni accorgimenti. Il principale è quello di sfornare i propri comunicati di sabato e domenica, quando spesso i giornalisti non sanno come riempire pagine e tg. «Ma non è un trucco», avverte Bortolussi, «lo facciamo perché molti nostri associati non hanno tempo di leggere i giornali quando lavorano, durante la settimana, e quindi lo fanno soprattutto nei week-end».

Bortolussi non è laureato (gli mancava la tesi di Legge). Ma, se è per questo, non lo sono neppure Bill Gates (Microsoft), Steve Jobs (Apple), Mark Zuckerberg (Facebook).
In compenso l’ufficio studi abbonda di titoli accademici e ha trenta collaboratori esterni, con molti docenti universitari. Paolo Zabeo coordina l’ufficio stampa, Catia Ventura i ricercatori.

Poca dimestichezza con le cifre
In un Paese come l’Italia, con scarsa dimestichezza per i numeri, abbondano i cialtroni (specie fra certe «associazioni dei consumatori») che spesso spacciano cifre clamorose ma infondate. Per esempio, le tredicesime che sarebbero quasi completamente ingoiate dalle tasse.
«Noi controlliamo i dati cinque volte», assicura Bortolussi, «non spariamo alla cieca per poi essere smentiti».

Unica fortuna dei burocrati statali: il «rompibae» non abita a Milano o Roma. Quindi le sue apparizioni in tv sono limitate dalla lontananza fisica dagli studi. E i collegamenti in video con Mestre non sono così efficaci come la presenza fisica.
Mauro Suttora