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Friday, February 28, 2020

Casaleggio, Big Pharma e coronavirus

di Mauro Suttora


Linkiesta, 28 febbraio 2020

Uno dei clienti della società del fondatore di Rousseau è la multinazionale farmaceutica americana Gilead, che ha brevettato il farmaco pare più promettente contro l'epidemia.
Ora il governo a guida grillina dovrà decidere se autorizzarlo, e quanto farlo pagare.
Conflitto d'interesse?


Ottimo fiuto quello di Davide Casaleggio, capo della piattaforma Rousseau e quindi leader del Movimento Cinque Stelle. Nel 2018 la sua società di consulenza, ereditata dal padre, ha redatto un rapporto sull’innovazione digitale nella sanità per un evento riservato che si è tenuto a Milano il 21 giugno. Finanziatrice del rapporto e dell’evento: Gilead Sciences, multinazionale farmaceutica Usa, all’ottavo posto mondiale fra i colossi Big Pharma. E adesso Gilead balza all’onore delle cronache mondiali: il suo farmaco Remdesivir sembra essere il più promettente per curare il virus corona.
La coppia cinese internata un mese fa allo Spallanzani di Roma è guarita grazie al Remdesivir. E anche in Cina, dove la Gilead lo ha brevettato, è in corso una sperimentazione su centinaia di malati per arrivare a una definizione certa delle sue proprietà. Un vicedirettore dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha dichiarato che il farmaco si sta dimostrando il più utile per la cura del virus. E sono bastate poche sue parole per far guadagnare il 5% alle azioni Gilead a Wall Street. Un balzo che ha portato a 12 miliardi di dollari il rialzo della sua capitalizzazione nella Borsa Usa nell’ultimo mese.
Le cifre sono colossali. Gilead, con sede a Foster City nella Silicon Valley californiana, ha fatturato 22 miliardi di dollari nel 2018, con utili per 5,4 miliardi: il 25%. Ed è di gran lunga la più redditizia fra i giganti farmaceutici anche come fatturato per dipendente: ne ha 11mila, quindi ciascuno di loro “produce” due milioni di dollari. Il quadruplo di concorrenti come Pfizer o Novartis. Come tutte la società Big Pharma, anche Gilead è stata al centro di controversie legali.
Ha subìto class action da parte di malati Aids che l’hanno accusata di aver rallentato la commercializzazione di un nuovo farmaco più efficace e con meno controindicazioni, per continuare a raccogliere profitti da un suo precedente prodotto. Il Remdesivir era stato sviluppato contro l’Ebola, con lunghe ricerche e sperimentazioni su macachi nel 2016. Ma è chiaro che ora chi vincerà la gara per sconfiggere il nuovo incubo mondiale del corona virus si aggiudicherà una fetta importante del mercato globale dei medicinali: la torta vale 1.400 miliardi di dollari nel 2020.
La società Casaleggio due anni fa ricevette una cifra minuscola dalla Gilead, rispetto a quelle in gioco, per il suo lavoro: 15mila euro. Ma tanto è bastato a qualche grillino purista per storcere il naso: Casaleggio junior pagato da Big Pharma, oggetto per vent’anni degli strali di Beppe Grillo. E adesso si apre un nuovo capitolo: i grillini sono il primo partito d’Italia, la governano, e quindi decideranno anche loro, con il ministero della Salute e indirettamente attraverso l’Aifa (Azienda italiana del farmaco), le sorti del Redemsivir nel nostro Paese. Autorizzarlo? Quanto farlo pagare? Un altro rischio di conflitto di interessi per il giovane Casaleggio.
Mauro Suttora

Wednesday, March 19, 2014

Roche e Novartis condannate a 180 milioni di multa


DOPO LO SCANDALO AVASTIN/LUCENTIS: CHI DECIDE I PREZZI DEI MEDICINALI

di Mauro Suttora

Oggi, 10 marzo 2014

Truffa, disastro doloso, associazione a delinquere: sono i reati su cui indagano i magistrati per lo scandalo Avastin/Lucentis. Che ha già portato a un’astronomica multa (180 milioni di euro) da parte dell’Agcom (Autorità garante della concorrenza e mercato, in breve Antitrust) contro le multinazionali produttrici dei due farmaci: Roche e Novartis.
Le case farmaceutiche avrebbero collaborato per ostacolare l’utilizzo di un farmaco 50 volte più economico (Avastin) a favore di uno molto più costoso (Lucentis) contro una grave malattia della vista: la maculopatia senile degenerativa.

Ne soffrono 300mila pazienti in Italia: la maculopatia è la prima causa di cecità dopo i 75 anni. «E sono 100mila i malati che dal 2012 hanno subìto danni per il rallentamento delle cure», ci spiega Matteo Piovella, presidente dei 5mila oculisti riuniti nella Soi (Società oftalmologica italiana), che ha denunciato il caso due anni fa. «Non potendo più praticare le iniezioni intravitreali di Avastin, infatti, i medici hanno dovuto centellinare quelle del costosissimo Lucentis».

Com’è potuto accadere? Quali sono le regole per stabilire i prezzi dei nuovi farmaci, controllandone l’immissione in vendita? E che cosa non ha funzionato?

Ogni anno le medicine ci costano 26 miliardi di euro. Una cifra immensa, che fa gola a molti. Ciascuno di noi spende in media, in farmacia, 300 euro. Ma, aggiungendo i farmaci dispensati da Asl e ospedali, sono 434 euro a testa. Spesi bene?
«I prezzi delle medicine variano da un euro a migliaia di euro», ci spiega Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano e autore di Fa bene o fa male? (ed. Sperling & Kupfer, 2013). «Dipendono dal costo della materia prima? No. I principi attivi costituiscono solo una piccola frazione del prezzo. E anche le spese per la ricerca farmaceutica sono sorprendentemente basse. Infatti, nonostante vengano diffusi dati di grande impatto emozionale come “sviluppare un nuovo farmaco costa un miliardo di euro!”, la ricerca in realtà rappresenta solo l’8 per cento sul totale del fatturato delle aziende farmaceutiche».

I prezzi dei farmaci sono almeno proporzionali al loro beneficio? «Se fosse così, i prezzi dovrebbero essere molto bassi», sostiene amaro Garattini. «Su 280 nuovi farmaci messi in commercio negli ultimi dieci anni, il 51% incrementa una buona qualità della vita di solo un mese. Solo nel 12% dei casi il miglioramento è di almeno un anno. I farmaci antitumorali più recenti costano parecchie migliaia di euro per ciclo ma, alla fin fine, aumentano la sopravvivenza di un paio di mesi».

Cosa condiziona allora il prezzo di un medicinale? «La “promozione”, che incide per oltre un terzo del prezzo.  Far conoscere un farmaco costa parecchio. Bisogna organizzare congressi e meeting, realizzare materiali stampati, e soprattutto occorre mettere in moto la giostra degli informatori farmaceutici, che devono visitare i medici per persuaderli a prescrivere i farmaci».
Infine, un altro terzo del prezzo al pubblico va in spese di distribuzione: 3% ai grossisti, 30 alle farmacie.

L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), che dipende dal ministero della Salute, decide per ogni farmaco la classe di rimborsabilità. Quelli senza obbligo di prescrizione (ricetta del medico) hanno prezzo libero, a carico del paziente. L’Aifa controlla solo quelli non rimborsati ma con obbligo di ricetta: aumenti permessi solo ogni due anni, e senza superare l’inflazione programmata. Poi ci sono i medicinali rimborsati dal Servizio sanitario nazionale: su questi l’Aifa negozia il prezzo con le aziende produttrici. Anche perché sette miliardi di euro annui vengono spesi direttamente da ospedali e Asl.

Proprio in ambito ospedaliero è scoppiato il caso Avastin/Lucentis. Avastin era stata registrata nel 2004 per la cura contro il cancro dalla Roche. Poi si è scoperto che funzionava anche contro la maculopatia essudativa. Due anni dopo Novartis ha brevettato un farmaco specifico contro la maculopatia: Lucentis. Ora si scopre che le due aziende hanno favorito il secondo trattamento più costoso a svantaggio del primo. In questo modo, grazie ai rapporti che legano le due società, entrambe avrebbero ricevuto i propri guadagni.

Roche ha interesse a favorire le vendite di Lucentis, perché ottiene così delle royalties: il farmaco è stato infatti sviluppato dall’americana Genentech, controllata da Roche. E Novartis, oltre a guadagnarci direttamente, lo fa anche indirettamente, attraverso la sua partecipazione (il 30%) in Roche. La Guardia di Finanzia ha sequestrato e-mail fra dirigenti italiani delle due società che si mettono d’accordo, utilizzando anche articoli compiacenti della stampa specializzata e «pareri» favorevoli di medici.
 
Nel 2007, infatti, proprio l’Aifa permise l’utilizzo di Avastin per la cura delle maculopatie nella forma «off label»: espressione che indica l’utilizzo di un farmaco al di fuori delle indicazioni terapeutiche ufficiali. Si è andati avanti così fino al 2012, quando l’Aifa decide di escludere Avastin dagli «off label». Da allora la sanità pubblica ha passato solo il Lucentis, spendendo 45 milioni di euro in più rispetto all’Avastin.
  
Non è certo la prima volta che una casa farmaceutica (o due in combutta fra loro) favorisce un farmaco più remunerativo a scapito di farmaci ugualmente efficaci e sicuri ma più economici. È successo ad esempio per il gabapentin e il pregabalin, due principi attivi molto simili che si usano contro il dolore neuropatico. Il primo è più vecchio: quando il brevetto è scaduto il produttore, Pfizer, ha messo il secondo sul mercato con un costo più alto, organizzando campagne per decantarne le proprietà innovative.

Ed ecco un altro problema. Spiega Garattini: «Ci sono molti farmaci, forse troppi, con le stesse indicazioni terapeutiche. Degli antipertensivi, per esempio, si contano alcune centinaia di confezioni. Come mai? Sono tutti necessari? Per l’approvazione di un nuovo farmaco la legge europea richiede tre caratteristiche: qualità, efficacia, sicurezza. “Qualità”: il farmaco deve possedere sempre la stessa composizione, essere stabile per un certo periodo, così da fissarne la scadenza, e assorbibile per poter penetrare nel sangue. “Efficacia”: capacità d’esercitare un effetto benefico, mentre “sicurezza” significa conoscenza degli effetti collaterali. Nulla da eccepire, senonché queste caratteristiche non sono valori assoluti: andrebbero confrontati con quanto già esiste in terapia per le stesse indicazioni. Ma i confronti non vengono richiesti dalla legge, quindi c’è la possibilità che un nuovo farmaco sia meno attivo o più tossico di quelli già disponibili».

C’è, infine, un problema di buon senso. Avastin costa 15 euro a iniezione, Lucentis 750. Quando fu introdotto, il suo prezzo era addirittura 1.500. «Se il produttore si fosse accontentato di un prezzo superiore ma accettabile, per esempio 200 euro, il caso non sarebbe nato», spiega il dottor Piovella. Insomma, le case farmaceutiche hanno il diritto di guadagnare dai farmaci che producono. Anche perché i loro brevetti scadono dopo vent’anni. Ma con misura.
Mauro Suttora
Ha collaborato Valentina Arcovio