Saturday, September 11, 2021

Prima statua per una donna a Milano: Cristina Belgioioso

E nel 150esimo della morte Pier Luigi Vercesi pubblica ’La donna che decise il suo destino. Vita controcorrente di Cristina di Belgioioso (ed. Neri Pozza)

di Mauro Suttora

HuffPost, 12 settembre 2021 



“Ma se facciamo studiare i figli dei contadini, poi chi coltiverà le nostre terre?”. Non sono le parole di un signorotto medievale: a esprimersi così è Alessandro Manzoni, liberale immaginario. Ce l’aveva con Cristina Belgioioso, la principessa che nel 1840 aprì la prima scuola per i bambini dei suoi possedimenti a Locate Triulzi (Milano), scuotendo le certezze dei nobili lombardi, illuminati ma non troppo. 

Mercoledì 15 settembre la Belgioioso verrà onorata da Milano con l’inaugurazione della prima statua dedicata a una donna, davanti al palazzo che porta il suo nome (e accanto a casa Manzoni).

Incredibilmente, su 121 statue nelle sue vie e parchi, Milano finora aveva un solo monumento dedicato nel 2019 a un personaggio femminile: la scultrice Rachele Bianchi in via Vittor Pisani. Ma è la statua di una figura femminile indeterminata, opera della stessa Bianchi. E su 4.200 strade, soltanto 135 portano il nome di una  donna. La stessa Belgioioso non ha una via in centro, ma in estrema periferia e in condominio col comune di Baranzate di Bollate, accanto al carcere. 

Né sono trattate meglio le altre due patriote più famose d’Italia: Costanza Arconati (il cui salotto parigino rivaleggiò con quello della Belgioioso) e Luisa Sanfelice hanno solo due viuzze a Porta Vittoria. Dove, per rimediare al maschilismo del ricordo, l’anno prossimo verrà installata una statua di Margherita Hack, nel centenario della nascita. 

A ricordare la bella e ricca principessa Belgioioso, coraggiosa protofemminista, ci ha pensato la Fondazione Brivio Sforza con le Dimore del Quartetto. E nel 150esimo della morte Pier Luigi Vercesi pubblica ’La donna che decise il suo destino. Vita controcorrente di Cristina di Belgioioso (ed. Neri Pozza). “Fu intelligente, determinata, seducente, sfidò le convenzioni e combatté per le proprie convinzioni”: così la descrive Vercesi. Nata nel 1808 in una delle famiglie più antiche e facoltose dell’aristocrazia lombarda, i Trivulzio, orfana del padre, a sedici anni sposò contro il volere della famiglia il nobile più ammirato di Milano: Emilio Barbiano di Belgioioso Este. Un playboy. Cristina non riuscì a redimerlo, e a soli vent’anni si separò. 

Divenne una carbonara, lottò per l’indipendenza dell’Italia dall’Austria, finanziò rivolte, fuggì all’estero, gli austriaci le bloccarono il patrimonio. Cosicché finì a Parigi in povertà: per mantenersi fece la cucitrice, poi traduzioni e ritratti, viveva in una mansarda. “Fu adottata dal marchese di Lafayette, l’eroe delle due rivoluzioni, quella americana e quella francese, che a settant’anni si innamorò platonicamente di lei”, racconta Vercesi. 

Si risollevò, parte dei suoi soldi furono dissequestrati dall’Austria. Per una decina d’anni, fino al 1840, nel suo salotto si radunarono l’intellighenzia francese e gli esuli di tutt’Europa. Fece innamorare Heine, De Musset, Liszt e Balzac. Lei si muoveva a suo agio in quegli ambienti, tenendo a bada i pretendenti e soprattutto dicendo la sua in politica. Non si limitava a finanziare giornali e moti, li indirizzava.

Perorò la causa italiana presso il futuro Napoleone III assai prima della Castiglione, e senza finirci a letto. Assorbì le idee dei socialisti Fourier e Saint-Simon, poi soppiantati da Marx, scrisse libri sul dogma cattolico e Giambattista Vico. Carlo Cattaneo la definì “prima donna d’Italia”. Tornò in Italia, trasformò il suo castello di Locate in una tenuta modello, con mense e medici per i contadini. 

Partecipò alle Cinque Giornate di Milano, e poi alla Repubblica Romana del 1849 dove, ben prima della Nightingale, organizzò un ospedale per i feriti, arruolando come infermiere nobildonne e prostitute. Negli anni ’50 un altro avventuroso esilio, questa volta in Turchia, dove fondò un’azienda agricola e diede lavoro a esuli italiani. Giornalista, scrisse reportages spingendosi a cavallo fino a Gerusalemme. Tornò infine nell’Italia unita durante l’ultimo decennio della sua vita. Ma al suo funerale, nel 1871, non partecipò alcun politico.

Mauro Suttora

 

Saturday, September 04, 2021

Conte appeso alle comunali

Se il 3 ottobre i grillini crolleranno sotto il 10%, per l'ex premier saranno guai

intervista a Mauro Suttora

ilsussidiario.net, 4 settembre 2021

Il ministro della Transizione ecologica Cingolani con le sue dichiarazioni pronucleare e anti-ambientalismo radical chic ha provocato un terremoto presso Conte e la sua parte di M5s: dovremo temere sfracelli?

No, perché di Cingolani si era innamorato Grillo, non Conte. Forse per prossimità geografica, visto che Cingolani dirigeva l'Istituto di tecnologia di Genova, la città di Grillo. È uno dei molti entusiasmi tanto improvvisi quanto immotivati del comico, come quello per Draghi.

A Conte non resta che protestare ogni volta che Cingolani dice cose non gradite, esattamente come fa Salvini con la Lamorgese. Ma in concreto non farà  nulla.

Allora il M5s dovrà temere un'altra perdita di voti? È sempre stato per il no al nucleare.

Anche Cingolani parla tanto, ma non sarà certo lui a resuscitare il nucleare, morto e sepolto dopo Cernobyl e Fukushima.

In altri tempi avremmo detto: ci penserà Grillo. O il suo tempo è finito?

Grillo e Casaleggio junior hanno perso definitivamente la partita contro Conte. Quel che resta dei grillini ora va dietro all'ex premier.

Ma è veramente stabile la leadership di Conte rispetto a Grillo? Da chi deve guardarsi l'ex premier?

Conte deve guardarsi solo dai risultati delle comunali fra un mese. Se saranno a una cifra, sparirà anche lui. Altrimenti, potrà continuare a sperare di resuscitare i grillini. Deve guardarsi da Di Maio e Di Battista, cioè l'ala destra e sinistra del M5s.

Come tutti i partiti, però, anche il M5s spera nelle prossime amministrative. Due le carte da giocare: Raggi (contro Gualtieri) a Roma e patto di ferro M5s-Pd a Bologna. Due scenari diversi: M5s solo contro tutti, patto organico in una città storica del Vaffa. E un uomo chiave: Bugani. Qual è il modello vincente?

Nessuno dei due. A Roma, a meno di un clamoroso scivolone del Pd, Gualtieri dovrebbe farcela ad andare al ballottaggio contro il centrodestra. Certo, sempre che Raggi e Calenda non gli rosicchino troppi voti. A Bologna nessuno si accorgerà della presenza dei grillini: come in tutto il nord, staranno ampiamente sotto il 10%. E Bugani non è conosciuto fuori dal M5s.

Finora Di Maio è stato l'"anti-Conte" più efficace. Che cosa aspetta a prendere il suo posto?

Ora Di Maio pensa al ministero degli Esteri: la sua tournée in Turkmenistan e Uzbekistan dopo il disastro Afghanistan gli darà prestigio. Vive della luce riflessa di Draghi e del suo peso internazionale. Gli uomini della corrente di Di Maio, come Spadafora, punzecchiano Conte, ma il redde rationem arriverà con la scelta dei candidati alle politiche. Se l'ex premier penalizzerà i dimaiani, loro si rivolteranno.

Torniamo a Roma. Diamo la Raggi al secondo turno. Secondo te a quel punto cosa succede?

Perderà, così come perderà Gualtieri. Roma mi sembra saldamente in mano al centrodestra, nonostante il loro candidato sia un personaggio pittoresco.

Vedi movimenti interessanti tra i fuoriusciti, eletti o non eletti, e gli ex? Dibba dov'è finito? Cosa sta facendo?

Non lo so, ogni tanto scrive su Facebook. Chissà se abboccherà agli ami del furbo Conte, che lo vuole usare contro Di Maio. 

Sarà interessante vedere quanto prenderà il 3 ottobre l'ex leghista ed ex grillino Paragone, col suo Italexit. Temo per lui che non superi l'1%.

A Milano invece Conte sembra abbia trovato un accordo con Sala, che sui temi ambientali pare si sia spinto molto avanti, superando "a sinistra" Pd e M5s. E che ha in mente una cosa nuova: una balena verde (cfr. nostro retroscena). È una soluzione vincente? E questo il "nuovo corso" che ha in mente Conte per il Nord?

Conte e i grillini non contano più nulla a Milano e in tutto il nord. Anche questa volta, come cinque anni fa, hanno fatto fuori la loro candidata sindaca votata dalla base alle primarie. Democrazia zero. Magari si aggrapperanno a Sala per disperazione, in cambio di un posto da assessore.

In breve, un tuo flash su M5s dopo la tornata delle comunali.

Se il risultato sarà deludente, tutti addosso a Conte. Se invece supererà il 12-13%, tutti dietro. I grillini sono abituati a obbedire, prima a Grillo e ai Casaleggio, ora all'ex premier.

Alla scadenza del Colle i 5 Stelle saranno determinanti. Cosa faranno?

I grillini, come quasi tutti i parlamentari tranne i Fratelli d'Italia, non vogliono andare a votare, perché la maggior parte di loro perderebbe il seggio.

Quindi non eleggeranno Draghi, perché cadrebbe il suo governo e, con un nuovo presidente della Repubblica, si aprirebbe una nuova fase politica. Che necessiterebbe di nuove elezioni.

Chi, allora, al posto del candidato naturale Draghi? Mistero.

Federico Ferraù

Saturday, August 28, 2021

Capo di un’Europa veramente unita: questo si merita Mario Draghi

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 agosto 2021

Ci rendiamo conto che mai, nella storia d'Italia, abbiamo avuto un leader di così grande prestigio mondiale?

Da due settimane Mario Draghi, dopo il disastro Afghanistan, si è attivato per organizzare a Roma un vertice dei G20, i Paesi che rappresentano l'80% del pil mondiale e il 60% degli abitanti.

Sembra logico che giganti come Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica o Arabia Saudita vengano coinvolti per trovare una strategia comune verso talebani e Isis.

Draghi non si è montato la testa: spetta a lui 'convocare' il mondo intero, perché quest'anno la presidenza a rotazione dei G20 tocca all'Italia; e perché comunque il vertice dei capi di stato è già previsto per il 30 ottobre. Si tratta soltanto di anticiparlo di un mese, a settembre.

Ma egualmente il turbinio di telefonate e incontri in cui si è lanciato il nostro premier risulterebbe velleitario, se egli non godesse di un prestigio planetario pressoché unanime. Forse l'unico che gli serba rancore è il turco Erdogan, da lui definito "dittatore".

Il suo principale estimatore è Biden: quando gli hanno chiesto cosa gli avrebbe detto durante il loro primo incontro, ha risposto: "A Draghi non si parla, a Draghi si chiede consiglio e lo si ascolta".

Il presidente Usa conosce bene superMario, perché i suoi otto anni da vice di Obama hanno coinciso con quelli di Draghi al vertice della Banca centrale europea.

Anche Boris Johnson si è lanciato nell'usuale complimento durante il G7 di Giugno in Cornovaglia: "A Draghi è bastata una frase per salvare l'euro".

Insomma, Draghi ha le carte in regola per dare le carte a tutti i potenti della Terra.

Ci riuscirà? Le prime difficoltà sono emerse durante l'incontro a Roma con il ministro degli esteri russo Lavrov, che gli ha chiesto di allargare il G20 a Iran e Pakistan, vicini dell'Afghanistan. Idea sensata, ma anche un trappolone: come ottenere il sì dei sauditi, nemici giurati degli iraniani, e degli indiani, che detestano i pakistani?

Draghi ha subito telefonato al premier indiano Modi. La soluzione potrebbe essere includere Teheran e Islamabad nel vertice G20 come 'invitati': lo status di cui gode in permanenza la Spagna.

Ma questi sono dettagli tecnici. Così come la presenza fisica a Roma di tutti i leader (chi volesse snobbare il vertice accamperà la scusa del virus per collegarsi solo in video) e l'accavallamento con l'abituale settimana settembrina a New York per l'Assemblea generale Onu.

Ecco, l'Onu. Spetterebbe al Palazzo di vetro l'iniziativa per affrontare il nodo Afghanistan. Ma purtroppo è da vent'anni che risulta desaparecido: dai tempi del deplorevole discorso di Powell sulle inesistenti armi chimiche in Iraq.

Quindi, in uscita la Merkel e in bilico Macron prima del voto francese, per colmare il vuoto di potere non resta che Draghi.

Usa e Regno Unito, umiliati a Kabul, riluttano a parlare troppo presto di talebani e Isis in un consesso dove risulterebbero minoritari e senza il diritto di veto di cui godono all'Onu. Ma li conforta il filoatlantismo d'acciaio di superMario. E comunque anche nel G20 vige la regola del consenso.

Se ce la farà, insomma, e se dal suo vertice romano uscirà una soluzione convincente, Draghi verrà incoronato "Grande saggio" mondiale. A pensarci bene, era da secoli (azzardiamo: da Giulio Cesare? Da Marco Aurelio?) che un italiano non dominava la scena planetaria come lui. Altro che Cavour o Garibaldi. Mussolini era un illuso a Monaco nel 1938, così come Berlusconi a Pratica di Mare nel 2002.

Per questo ogni ipotesi sul suo futuro risulta inadeguata. Premier o capo dello Stato? Entrambi, approviamo subito una legge apposita. 

Segretario generale Onu? Peccato, il mediocre Guterres è stato appena rieletto per altri cinque anni. Poco male: superMario lì risulterebbe imbalsamato. 

Presidente della Commissione Ue al posto della Von der Leyen alla sua scadenza nel 2024? Solo se la carica venisse accorpata a quella di presidente del Consiglio Ue. 

Capo di un'Europa veramente unita: questo meriterebbe Draghi.

Mauro Suttora 

Wednesday, August 25, 2021

Montanari, De Pasquale e le piccole bizze agostane tra comunisti e fascisti

di Mauro Suttora

HuffPost , 25 agosto 2021

Poiché fascisti e comunisti si sostengono a vicenda, a destra ora chiedono le dimissioni da rettore dell’Università per stranieri di Siena di Tomaso Montanari, stimato professore di estrema sinistra. Assurdo.

Per lui, come per tutti, vale la competenza professionale nella propria materia, indipendentemente dalle idee politiche personali. La destra protesta perché Montanari pretende la revoca della nomina di Andrea De Pasquale a direttore dell’Archivio centrale dello Stato. 

La ‘colpa’ di De Pasquale? Avere accettato la donazione dell’Archivio Rauti alla Biblioteca Nazionale che dirige. E averla annunciata con un comunicato apparso per qualche ora sul sito del ministero, che definiva “statista” Rauti. 

Il ministro della Cultura Franceschini, che ha nominato De Pasquale, lo difende spiegando che il comunicato, evidentemente stilato dalla famiglia Rauti e quindi agiografico, fu inserito per sbaglio (pigrizia?) da un funzionario, e che De Pasquale si scusò subito per il disguido. 

Franceschini inoltre loda De Pasquale per avere acquisito anche altri archivi personali, come quelli di Pasolini, Elsa Morante e Calvino. Niente da fare. Montanari insiste, e oggi sul Fatto annuncia le proprie dimissioni dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali, insultando Franceschini. 

“Montanari se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato”: così si potrebbe liquidare l’episodio, come Togliatti quando Elio Vittorini, 70 anni fa, stracciò la tessera Pci. Ma il rettore di Siena insiste. Inserisce la nomina del povero De Pasquale in una più ampia ‘manovra’ di rivalutazione del fascismo. Che avrebbe come suo acme l’istituzione del Giorno del ricordo per l’esodo di 300mila istriani e dalmati e per le foibe. 

E qui scatta il riduzionista. Montanari infatti accusa niente meno che il presidente Mattarella di avere esagerato, in un suo discorso del 2020, l’importanza degli infoibati: “Erano solo 800”. Peccato che tutti gli storici seri concordino in stime sui 4-8mila. Poi gli rimprovera di aver definito l’esodo “pulizia etnica”: secondo Montanari la fuga del 90% degli abitanti di Fiume, Pola e Zara non lo fu? Ci voleva una percentuale maggiore? E come reagirebbero gli ebrei se qualche negazionista riducesse a un decimo, 600mila, le vittime dell’Olocausto?

In ogni caso, fra i 300mila profughi istriano-dalmati c’era la stessa percentuale di fascisti che nel resto d’Italia. Quindi non si capisce perché il prof si scandalizzi per il Giorno del Ricordo, che non si contrappone ma si aggiunge a quello della Memoria (per la Shoah), e infatti nel 2004 fu votato dall’unanimità del Parlamento (tranne Rifondazione comunista, ma con l’astensione di Bertinotti).

Si dirà: la solita tempesta in un bicchier d’acqua agostana della politichetta italiana. Vero. Ma fino a quando daremo importanza alle faziosità di opposti estremismi che valgono al massimo il 3% ciascuno? Perché tanti sono coloro che si definiscono fascisti o comunisti oggi in Italia. 

Per l’ottimo Montanari, poi, un’aggravante: Togliatti avrebbe subito liquidato questo suo imbizzarrimento odierno come ‘settarismo’. Vizio capitale del comunismo.

Mauro Suttora 

Saturday, August 21, 2021

E io sposto i confini




















di Mauro Suttora


Io Donna (Corriere della Sera), 21 agosto 2021


Portano in dote intere regioni. Governano i regni d’Italia e ne ridisegnano la geografia. O lottano per preservarne l’eredità culturale. Sono personalità femminili forti, ma a noi spesso ignote, quelle che un libro ci fa riscoprire


Mai due donne hanno avuto tanto potere assieme, nella storia d'Italia. Nel 1077 la duchessa Matilde di Canossa, che governa su Toscana, Emilia e Lombardia, costringe l'imperatore Enrico IV alla famosa umiliazione prima di poter incontrare il papa nel suo castello.


Quel che pochi sanno, è che assieme a Matilde c'è Adelaide di Susa, contessa di Savoia. Suocera dell'imperatore, è lei ad aver architettato la trappola. Ed è lei che ha portato in dote il Piemonte alla dinastia sabauda sposando Oddone di Savoia. Grazie ad Adelaide, figlia del marchese di Susa e Torino, i Savoia debordano al di qua delle Alpi e diventano italiani.


Sono tante le donne che hanno determinato i limiti dell'Italia. Le ho incontrate scrivendo Confini, storia e segreti delle nostre frontiere (ed.Neri Pozza, 2021). Alcune di loro, come Adelaide o Elisabetta del Tirolo, con le loro nozze hanno spostato intere regioni. Altre, come Eudossia Lascaris a Ventimiglia, Teresina Bontempi in Canton Ticino o Ariella Rea in Venezia Giulia, hanno testimoniato con le loro vite (e morti) le vicissitudini delle zone di frontiera.


Adelaide, la suocera dell'imperatore


Adelaide di Susa diventa contessa di Savoia quando nel 1046 sposa Oddone, e si ritrova sovrana di un territorio che va dal lago di Ginevra fino ad Asti e Albenga. Promette in sposa la figlia Berta di soli tre anni all'imperatore Enrico IV. Il quale però, dopo averla impalmata 14enne, vuole ripudiarla. Ma il papa non gli concede il divorzio.


La suocera Adelaide è furibonda, anche perché Enrico maltratta Berta. Ottiene la sua vendetta pochi anni dopo, quando fra l'imperatore e il papa scoppia la guerra delle investiture per le nomine dei vescovi: entrambi pretendono questo diritto.


Papa Gregorio VII scomunica Enrico, che deve scendere in Italia per ottenere la revoca della sanzione. Passa per il Piemonte, Adelaide vede la figlia deperita e s'infuria. Accompagna il genero degenere a Canossa (Reggio Emilia) e prepara con Matilde la sua umiliazione: prima di incontrare il papa, Enrico deve aspettare tre giorni fuori dal portone del castello di Matilde sotto una bufera di neve, scalzo, in ginocchio, col saio e il capo coperto di cenere.


Eudossia Lascaris e la contea di Ventimiglia


È un matrimonio orrendo, quello celebrato a Costantinopoli il 28 luglio 1261. La tredicenne Eudossia Lascaris, figlia dell’imperatore bizantino Teodoro II, è promessa sposa al futuro Pietro III d’Aragona. Ma l’usurpatore Michele VIII Paleologo la costringe a sposare il trentunenne Guglielmo Pietro, conte di Ventimiglia.


Finisce così la dinastia Lascaris, che ha regnato per mezzo secolo sull’impero bizantino. E inizia il casato dei conti Lascaris di Ventimiglia e Tenda, che si ramificherà in tutta Europa lasciando splendidi palazzi come quello che oggi a Torino ospita il consiglio regionale.


Il conte Ventimiglia era andato a Bisanzio per conquistare ricchi bottini. E invece torna a casa con una principessa di sangue imperiale, seppure spodestata. Il matrimonio non finisce bene. I conti di Ventimiglia, vinti dai genovesi, devono lasciare il loro castello in riva al mare ai confini dell'Italia e trasferirsi a Tenda, villaggio alpino in mezzo al nulla: certo non degno di una “porfirogenita”, nata nella porpora, come sono chiamati i successori di Costantino.


Eudossia si trasferisce nella più cosmopolita Nizza e poi scappa in Sicilia. Infine si trasferisce in Aragona sotto la protezione di re Giacomo, figlio del suo primo promesso sposo. Ha comunque dato a Guglielmo Pietro ben sette figli prima di eclissarsi (o di essere ripudiata, secondo altre fonti un po’ maschiliste). Si spegne nel 1311, dopo avere fondato un santuario di clarisse in Catalogna dove si ritira. Ma il suo ricordo è legato alla contea di Ventimiglia, già mille anni fa baluardo dell'italianità alla frontiera con la Francia provenzale.


Elisabetta e il destino del Tirolo


Sorpresa: la culla del Tirolo non si trova in Austria, ma alla periferia di Merano. Qui nel XII secolo sorge il castello di Tirolo. E questa famiglia nel 1238 espande i propri domini su Innsbruck, oltre il Brennero, nella valle dell’Inn. Non con una guerra, ma grazie al matrimonio di Elisabetta, figlia del conte Alberto III del Tirolo, con l’ultimo esponente della casata di Andechs, che possiede Innsbruck: Ottone II. Costui è un personaggio notevole. Cugino dell'imperatore Federico II, dal suo castello bavarese regna non solo sull'attuale Tirolo austriaco, ma anche su Borgogna, Istria, Carniola (Slovenia) e Merania, un ducato dalmata.


La tirolese Elisabetta diventa così una delle donne più importanti della sua epoca, con stati al di qua e al di là delle Alpi. Ma nel 1248 suo marito muore a soli trent'anni, avvelenato. A Elisabetta rimane soltanto il Tirolo austriaco, perché quello italiano fino al Brennero va a sua sorella Adelaide: ecco che si prefigura l'attuale confine italo-austriaco. 

Ma pochi anni dopo Elisabetta muore senza figli, e si ricostituisce il Tirolo 'allargato' che durerà fino al 1918, sotto gli Asburgo: suo nipote Mainardo di Gorizia, figlio di Adelaide, lo eredita tutto intero. Nel 1420, infine, la capitale del Tirolo viene spostata da Merano a Innsbruck.


Teresina Bontempi e l’italianità del Canton Ticino


La svizzera Teresina Bontempi (1883-1968), figlia del segretario generale dell’Istruzione del Canton Ticino, è ispettrice delle scuole elementari, in cui introduce i metodi di Maria Montessori. Nel 1912 fonda la rivista L’Adula, dal nome della montagna che divide il Ticino dalla Svizzera tedesca, per denunciare la germanizzazione del cantone. Ci scrivono Prezzolini, Papini, Stuparich, Slataper.

Molti ticinesi risentono la crescente influenza e ricchezza degli svizzero-tedeschi, che dominano l’economia cantonale senza integrarsi. Non parlano italiano, e frequentano soltanto i propri locali e circoli.


Le autorità sospendono più volte il giornale, la allontanano dall’insegnamento. Negli anni ’30 la rivista assume toni fascisti. La Bontempi viene condannata per irredentismo ad alcuni mesi di prigione, finché nel 1936 chiede asilo politico in Italia.


Torna a Locarno nel dopoguerra, dimenticata da tutti. In realtà Teresina non voleva annettere il Ticino all’Italia, ma soltanto valorizzare l’italianità del cantone. Nel 1996 si è infine realizzato un suo sogno: la nascita dell’università della Svizzera italiana. Vittoria postuma di una donna energica.


Ariella Rea e i sogni imperialisti di Mussolini


Tanto il confine italo-svizzero è pacifico (record mondiale: mezzo millennio senza conflitti), tanto quello orientale è stato sanguinoso: lo scorso secolo le due guerre mondiali ci sono costate quasi un milione di morti nella Venezia Giulia.


Ariella Rea è una maestra che nel 1941, tutta presa dal suo entusiasmo di giovane fascista, si trasferisce a insegnare nella Lubiana appena occupata dalle truppe italiane. Invasione scellerata, voluta da Mussolini per spartirsi pezzi di Jugoslavia con Hitler. In Slovenia si scatena la resistenza, e nel giugno 1942 la ventiseienne triestina viene uccisa in un attentato dinamitardo dei partigiani comunisti del maresciallo Tito. Lubiana, circondata di filo spinato, viene rastrellata, e 878 sloveni inviati in campi di concentramento. Alla fine dell'occupazione, l'8 settembre 1943, le vittime slovene saranno varie migliaia. Fra i deportati nel lager dell'isola di Arbe più di mille sloveni, comprese donne e bambini, muoiono di inedia, fame e malattie. Nel 1945 arriva la vendetta: gli italiani infoibati, annegati e desaparecidos saranno 15mila, e 300mila gli esuli da Istria e Dalmazia.



LE ALTRE DONNE ITALIANE ‘DI FRONTIERA’


La prima donna a decidere un confine italiano è stata Teodolinda. Nel 589 suo padre Garibaldo, re di Baviera, la dà 18enne in sposa al re longobardo Autari in segno di pace. E la frontiera tra i due regni viene fissata a Salorno, fra Trento e Bolzano, che ancora oggi è il limite fra chi parla italiano e tedesco.


Anna, ultima contessa di Tenda (cittadina delle Alpi Marittime ceduta alla Francia nel 1947) sposa a 11 anni un nobile francese, rimane vedova a 13, e nel 1501 unisce la sua contea al Piemonte sposando Renato di Savoia il Bastardo. Potente e rispettata in tutta Europa, soprannominata 'La grande maitresse', nel suo castello fra Nizza e Cannes il papa, Francesco I e Carlo IV decidono nel 1538 il passaggio di Milano dalla Francia alla Spagna.


Nel 1515 è Luisa Borgia, figlia di Cesare, a fissare il confine italo-svizzero a Chiasso (frontiera assurda, completamente artificiale, senza alcun limite naturale - fiume, lago, monte): rifiutandola come moglie, Massimiliano Sforza perde Milano dopo la sconfitta di Marignano contro i francesi, che si accordano con gli svizzeri sul confine di Chiasso.


Elda Simonett-Giovanoli, scomparsa nel 2018 a 94 anni, era una maestra elementare che ha preservato l'italiano nel suo paese di Blivio (Grigioni), unico comune svizzero oltre lo spartiacque alpino dove la nostra era la lingua ufficiale fino a pochi anni fa.


Anche la cantante Marisa Sannia ha a che fare con i nostri confini: viene immortalata nel 1967 come milionesima autista che transita nel nuovo tunnel del Monte Bianco sulla sua Alfa Duetto.

Mauro Suttora

Friday, August 13, 2021

Nando dalla Chiesa: "Gino Strada un grande. Emergency nacque in un ristorante milanese"



Dalla Chiesa ricorda gli anni '70 passati assieme: "Poche chiacchiere, s'occupava di cose vere" 
 
di Mauro Suttora

HuffPost, 13 agosto 2021

 
‘Medicina al servizio delle masse proletarie’: si chiamava così il giornale che i giovani del Movimento studentesco milanese distribuivano all’università Statale negli anni ’70. Fra loro, Gino Strada.

“Un grande italiano”, commenta Nando dalla Chiesa, suo compagno fra i contestatori sessantottini, “chissà se ora, dopo la sua scomparsa, qualcuno lo riconoscerà”.

Due strade parallele, quelle imboccate da Strada e Dalla Chiesa dopo i furori studenteschi. Il primo, laureato in chirurgia nel 1978, gira il mondo per specializzarsi, da Stanford in California all’ospedale di Barnard a Città del Capo. Poi, dopo anni nella Croce Rossa Internazionale, fonda Emergency nel 1994.

Dalla Chiesa, bocconiano, intraprende invece la carriera universitaria. Ma anche lui declina l’impegno politico fuori dalle istituzioni, con libri e giornali: il circolo e il mensile ‘Società Civile’ (assieme fra gli altri a Gherardo Colombo, padre Turoldo, Pansa, Garzanti) dal 1985 al ’92 sono l’unica opposizione alla ‘Milano da bere’ craxiana, visto che il Pci era in giunta col Psi.

“Parecchi di noi ex del Movimento studentesco ci trovavamo in un ristorante di viale Monza, il Tempio d’Oro, e proprio lì nacque Emergency, la creatura di Strada”, ricorda Dalla Chiesa. “Nei primi tempi faticava a trovare contributi per il suo primo ospedale in zona di guerra, finché un’apparizione al Maurizio Costanzo Show lo rese popolare, e i finanziamenti arrivarono”.

Dalla Chiesa poi sarà parlamentare tre volte (Rete, verdi, Pd) e sottosegretario all’Università nell’ultimo governo Prodi, prima di tornare alla cattedra di sociologia.

“Gino Strada e i suoi colleghi impegnati in Medicina democratica già negli anni ’70 ci sembravano appartenere a un pianeta diverso. Poche chiacchiere, si occupavano di cose vere, concrete: Seveso, medicina del lavoro, del territorio. E sono riusciti a cambiare il modo di affrontare il problema salute in Italia. Anche l’infettivologo del Sacco Massimo Galli era fra loro, così come Paolo Setti Carraro, fratello di Manuela, prima di andare a combattere l’Ebola in Africa”.

Il Movimento studentesco di Mario Capanna nel 1976 si presentò alle elezioni nel cartello di estrema sinistra Dp (Democrazia proletaria). Poi divenne Mls (Movimento lavoratori per il socialismo), confluì nel Pdup e infine nel Pci.

“Strada diceva che il suo vero maestro, anche politico, era il professor Vittorio Staudacher, che gli insegnò la chirurgia d’urgenza. Ma la determinazione a fare le cose era tutta sua. La sua frase tipica, anche da studente, era: ‘Chi l’ha detto che non si può fare?’”

Dalla cesta di quel movimento arrivano anche Cofferati e Paolo Gentiloni, ex premier e chissà, oggi papabile per il Quirinale.
Strada invece è sempre rimasto un estremista. Memorabile, recentemente, una sua reazione stizzita contro Mario Giordano in tv: “Fate tacere quella gallina!”.

Ed è un’incredibile coincidenza che se ne sia andato proprio nei giorni in cui i talebani si stanno riprendendo l’Afghanistan.
Lui, come medico, non faceva differenza fra loro e gli afghani filoamericani: “Per me le vittime della guerra sono tutti uguali: sono solo persone che ho il dovere di salvare”.
Mauro Suttora

Good morning, Afghanistan!






Gli americani se ne vanno lasciandosi dietro una scia di disastri, come in Vietnam, per chi lo ricorda. Vent’anni di guerra e occupazione inutili


di Mauro Suttora

HuffPost, 13 agosto 2021


Good morning, Afghanistan!

Chi ha più di 60 anni ricorda il disastro Vietnam: nel 1975, quando gli Usa se ne andarono, arrivò una dittatura comunista che dura tuttora e produsse milioni di profughi (fra cui i boat-people, con 250mila annegati) più una guerra contro la Cina.

In Cambogia, peggio: ecco Pol Pot e il più grosso genocidio della storia umana, in proporzione agli abitanti: tre milioni di cambogiani ‘borghesi’ sterminati su 7,5 milioni di abitanti in soli tre anni e mezzo.

Ora i talebani stanno per prendere Kabul. Non in sei mesi, come prevedevano gli americani, ma in pochi giorni. Sempre attendibile, la Cia.

L’Afghanistan diventerà un altro stato islamista da incubo come quello Isis in Siria e Iraq fino al 2017? O una nuova base mondiale per i terroristi, come ai tempi di Al Qaeda?

Non ci resta che auspicare un incubo minore: la solita teocrazia islamica già al potere negli anni 90 fino al 2001, donne schiavizzate in casa, monumenti non musulmani distrutti, un simpatico medioevo solo un po’ peggiore di Iran e Arabia Saudita.

Ma almeno senza ambizioni di esportare la loro ‘guerra santa’ nel mondo. E se proprio i talebani dovessero debordare (chi li arma?), speriamo che la prossimità geografica li indirizzi più contro Russia (remember Beslan?) e Cina (poveri uiguri) che verso l’Occidente.

Ah, grazie presidente Bush junior per questi vent’anni di guerra e occupazione inutili, cui ha contribuito anche l’Italia (con otto miliardi di euro e 55 morti, il doppio della strage irachena di Nassiriya). Tutti lo avvertivano che l’Afghanistan è da sempre indomabile, come dimostrato dalle sconfitte inglese e sovietica. 

Niente da fare: il complesso militare industriale Usa non poteva lasciarsi scappare un’occasione così ghiotta di spesa militare (mille miliardi di dollari) e profitti immensi, dopo la fine della guerra fredda.

Ci dispiace per le giovani afghane delle splendide foto di McCurry, che erano uscite felici di casa e avevano cominciato a studiare.

Ricorderemo con ammirazione almeno estetica, se non politica, il primo presidente dell’Afghanistan (per troppo poco) democratico, Karzai: elegantissimo, un vero signore.

Purtroppo naufragano le velleità degli ‘esportatori di democrazia’, in buona (con Emma Bonino ci avevo creduto anch’io) e cattiva fede (i neocon Usa). Hanno vinto i burka. E Massimo Fini, solitario fan italiano del mullah Omar.

Unici indifferenti, i coltivatori di papaveri. Quelli hanno continuato tranquilli a produrre oppio sotto qualsiasi regime: sovietici, talebani, americani.

Mauro Suttora


Friday, August 06, 2021

Rossi e Buffon: quanto è doloroso il viale del tramonto. Viva Aznavour

È sempre difficile dire basta per un campione. Ma una stella cometa c'è: Aznavour

di Mauro Suttora

HuffPost, 5 agosto 2021


Evviva la sincerità. Gigi Buffon, 44 anni a gennaio, oggi ha spiegato a Repubblica perché continua a giocare. Lascia la Juve e va al Parma in serie B. Perché? “Mi sento un artista, quindi ho sempre il desiderio di mettere in mostra il gesto. Per appagamento personale e una certa dose di narcisismo”. 

Auguriamo al grande campione lo stesso successo che ha avuto il ritorno del 39enne Ibrahimovic al Milan.

Poche ore dopo, un altro mito dello sport mondiale rende invece noto il proprio ritiro a fine stagione: Valentino Rossi. Chi ha ragione? Il portierone o il dottore? Qual è il momento giusto per andarsene?

“Devi sapere lasciar la tavola/ la dignità devi salvar/ Alzarti con indifferenza/ mentre in silenzio soffri tu”, cantava Aznavour. Il quale peraltro si è esibito fino a 94 anni, pochi mesi prima di morire. Nello sport, nell’arte, in politica e in tutti i campi della vita compreso l’amore, è difficile dire basta. A volte impossibile. 

“Non vi preoccupate, sono morto tante volte”, dice Charlie Chaplin alla fine di ‘Luci della ribalta’. Ma in realtà, soltanto Gesù Cristo è risorto. E non per finire in serie B. 

Fa bene Buffon a giocare fino a quando si diverte. E a fregarsene di chi sentenzia che è meglio lasciare quando si è ancora all’apice del successo. Per evitare mestizie come quelle capitate a Valentino nelle ultime due stagioni.

Ma in fondo, cosa cambia? Se Napoleone non fosse scappato dall’Elba avrebbe evitato Waterloo, però avrebbe continuato l’esilio in un’isola vicina invece che lontana. 

Sono scommesse, qualcuno le vince: Muhammad Ali contro Foreman, Amintore ‘rieccolo’ Fanfani ancora premier a 79 anni, i ritorni di Churchill e De Gaulle negli anni ’50, Scalfari editorialista 97enne del suo giornale.

Buffon ha davanti a sé l’esempio del portiere inglese Shilton in campo fino a 47 anni, e anche il laziale Ballotta ne aveva quasi 44 quando disputò l’ultima partita in Champions. 

Quanto a Valentino Rossi, probabilmente lo ha tenuto in pista la voglia di raggiungere Giacomo Agostini (ritiratosi a 35 anni) nel numero dei GP vinti: 122 a 115, record inarrivabile perché allora si gareggiava contemporaneamente in due classi. O forse l’esempio di Max Biaggi, campione mondiale di Superbike a 41 anni.

Alla fine, comunque, decide il mercato. Oppure Spalletti, nel caso del suo martire personale Totti. Finché una squadra o una scuderia ti vogliono, perché no? 

La verità è che Sunset Boulevard è uno dei viali più belli e lunghi di Los Angeles, nessuna attinenza al malinconico film sul ‘Viale del Tramonto’ della patetica attrice che non vuole mollare. 

Ecco, piuttosto: “Non mollare mai”. Uno dei più agghiaccianti e popolari slogan degli ultimi tempi. Finché lo sventolano sventurati e svalvolati atleti vincitori alle Olimpiadi, li perdoniamo: sono solo vittime dei loro mental coach, ai quali tocca gasarli per guadagnarsi lo stipendio.

Il dramma è quando questa cieca ostinazione si impossessa di tutti noi. Raggiungendo lo zenit fra gli innamorati respinti, e allora gli esiti possono essere tragici: dalle molestie allo stalking, giù fino al femminicidio. 

Rischio che non corre il nostro amatissimo Buffon, felice marito di una delle donne più belle e intelligenti d’Europa.

Mauro Suttora

Tuesday, August 03, 2021

Covid: duecento milioni. Diamo un po' di numeri, con qualche sorpresa

di Mauro Suttora

HuffPost, 3 agosto 2021

I contagi covid nel mondo supereranno fra poche ore la barriera dei 200 milioni. I decessi sono quattro milioni e 250mila. La letalità (rapporto morti/malati) è quindi del 2,1%: dimezzata rispetto alla prima ondata. E fra i dati ufficiali Oms troviamo parecchie sorprese.

L’Italia, innanzitutto: i casi aumentano, però abbiamo pochi decessi (ieri solo 20, assai meno dei 50 di Francia e Spagna) e il minimo di terapie intensive fra i grandi Paesi (249 contro 11mila in Usa, 2300 in Russia, 1800 in Spagna, e poi Francia 1200, Regno Unito 889, Giappone 700, Germania 376).

Buone notizie anche da Londra: casi giornalieri dimezzati a 21mila e decessi crollati a 24. Ottime notizie da tutta l’Europa dell’Est, che era stata risparmiata dalla prima ondata e invece devastata dalla seconda: Croazia solo 29 casi giornalieri, Slovenia 31, Slovacchia 6, Cechia 75, Polonia 91, Ungheria 155 (ma con un solo decesso e undici terapie intensive).

Può stare tranquillo anche chi parte per Grecia (duemila casi giornalieri ma appena otto morti) e Portogallo (1190 casi, nove decessi). Preoccupante invece la situazione in Russia, oltre che per i dati (ieri 785 decessi, superata nel mondo solo dai 1568 dell’Indonesia, e più dei 420 in India, 411 in Iran, 337 in Brasile e 129 negli Usa), anche per la loro scarsa attendibilità. 

Da due settimane infatti i morti appaiono fissi ogni giorno appena sotto gli 800, come se Putin avesse ordinato di non superare questa cifra (già un anno fa si scoprì che Mosca falsifica le proprie statistiche).

Nonostante gli allarmi sui nuovi lockdown totali, invece, la Cina ieri ha dichiarato solo 98 casi, nessun decesso e 24 terapie intensive. Peggio Cuba: 9279 contagi, 68 morti e 385 in rianimazione.

Israele ha denunciato per la prima volta nove morti, rispetto ai 2-3 giornalieri dell’ultimo mese, e ben 3130 casi. Tel Aviv cerca di rimediare con la terza dose del vaccino Pfizer per i +60 che hanno effettuato il richiamo almeno cinque mesi fa.

Tornando all’Italia, tranquillità ai nostri confini: ieri in Svizzera un solo morto e 36 terapie intensive, seppure con duemila casi; anche in Austria un solo decesso, e appena 364 nuovi contagi.

Il golpe in Tunisia, invece, si spiega con i suoi dati drammatici: ieri 209 morti e 609 in rianimazione. In proporzione ai 12 milioni di tunisini, sarebbe come se in Italia avessimo oltre mille morti al giorno (livello da noi mai raggiunto) e tremila terapie intensive.

Mauro Suttora

 

Thursday, July 29, 2021

Concerto per il Bangladesh: mezzo secolo di carità in musica

L’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con l'idea di George Harrison

di 
Mauro Suttora

HuffPost, 29 luglio 2021

È tutto cominciato 50 anni fa al Madison Square Garden di New York: l’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con quello per il Bangladesh organizzato da George Harrison.

Il più giovane e tranquillo dei Beatles era appassionato di India da quando, primo al mondo, inserì un sitar nella canzone ‘Norwegian Wood’. Poi l’infatuazione per il guru Maharishi, le inascoltabili nenie indiane piazzate nei dischi dei Fab Four e il pellegrinaggio collettivo sul Gange (dove fece gettare le sue ceneri nel 2001). L’atarassia raggiunta grazie all’induismo gli servì soprattutto per sopportare il tradimento della moglie Pattie Boyd col suo migliore amico, Eric Clapton.

Quando scoppia la guerra di indipendenza del Bangladesh contro il Pakistan, a ruota arriva una tremenda carestia. Il sitarista Ravi Shankar (poi padre di Norah Jones) prega Harrison di fare qualcosa. E in sole cinque settimane George organizza il concerto di raccolta fondi.

È la quinta grande storica esibizione rock dopo quelle di Monterey 1967 (con gli hippies di San Francisco), Woodstock 1969, Altamont con il morto durante il set degli Stones, e l’annuale kermesse europea dell’isola di Wight, dal 1968 al ’70.

Ma è il primo benefit concert. Un centinaio di milioni di dollari andarono agli affamati grazie agli incassi di biglietti, dischi e film. Però le liti col fisco Usa che non voleva applicare l’aliquota agevolata riconosciuta alle fondazioni (Harrison non pensò a costituirne una) si protrassero per dieci anni.

Musicalmente, il concerto fu un miracolo. Harrison riuscì a riportare Bob Dylan su un palco Usa dopo ben cinque anni. E se John Lennon avesse accettato di esibirsi senza Yoko, e Paul McCartney si fosse irrigidito per la presenza dell’odiato manager Allen Klein, si sarebbero riformati i Beatles.

Infatti il batterista Ringo Starr era presente, anche se dimenticò le parole della sua canzone (‘It Don’t Come Easy’). Nel supergruppo brillavano Clapton alla chitarra solista e al piano Leon Russell, reduce da un trionfale tour mondiale con Joe Cocker.

Probabilmente la versione di ‘My Sweet Lord’ del concerto è migliore di quella con cui Harrison aveva appena dominato le hit parades del pianeta. Era lui il Beatle che, dopo lo scioglimento del 1970, aveva raccolto i maggiori successi. Lennon lo eguagliò pochi mesi dopo con ‘Imagine’. E McCartney solo nel 1973 con ‘My love’.

Dopo il concerto per il Bangladesh sono state tante le buone cause accoppiate a buona musica, fino all’ineguagliato exploit intercontinentale del 1985 con il Live Aid di Bob Geldof, e ai numerosi Pavarotti & Friends.

Dal No Nukes del 1979 al concerto per New York dopo l′11 settembre 2001, fino all’ultimo prima della pandemia, per le vittime degli incendi in Australia nel febbraio 2020, le rockstar si sono esibite spesso gratis.

A volte perfino troppo, quando hanno approfittato dei benefit concert per rinverdire fortune declinanti. Scherzò una volta Jackson Browne: “Cosa farebbero Crosby, Stills e Nash senza i charity?”

Mauro Suttora

Tuesday, July 27, 2021

Lo spirito olimpico sembrava aleggiare su Tokyo...

...poi è arrivato Butbul

Il judoka israeliano boicottato due volte. Prima un algerino, poi un sudanese si sono ritirati per solidarietà ai palestinesi

di 
Mauro Suttora

HuffPost, 27 luglio 2021 


Alla fine Tohar Butbul, il campione di judo israeliano, è stato eliminato da un sudcoreano ai quarti di finale. Ma per arrivarci Butbul ha disputato un solo incontro, perché tutti i suoi avversari sparivano. Prima un algerino, poi un sudanese. Si sono ritirati in nome della solidarietà al popolo palestinese. L’algerino subito spedito a casa e punito dalla sua stessa federazione. Il sudanese non si sa. Ma se dovessero prendere piede questi boicottaggi individuali, le olimpiadi potrebbero anche chiudere. E lo sport stesso perderebbe di significato.

Eppure era iniziata bene. Per la prima volta a Tokyo una cerimonia inaugurale ha commemorato gli 11 atleti israeliani trucidati nel 1972 da un commando palestinese a Monaco. E per la seconda volta partecipa ai giochi una squadra di rifugiati, aumentati a 29 dai 10 di Rio. Fra loro Dina Puryunes Langerudi, campionessa iraniana di taekwondo scappata in Olanda nel 2015. E tanti siriani, congolesi, eritrei, afghani. Anche un pugile venezuelano.

Insomma, lo spirito olimpico sembrava aleggiare sul Giappone. Non come nel 2008, quando Putin invase la Georgia proprio alla vigilia dei giochi di Pechino, infrangendo la regola bimillenaria della tregua olimpica. O come nel 1980 e 1984, quando le olimpiadi di Mosca e Los Angeles furono dimezzate dai boicottaggi prima di decine di Paesi anticomunisti e poi comunisti.

Quanto politica e sport debbano rimanere separati, è argomento controverso. Il boicottaggio più lungo è stato quello contro il Sudafrica, fino alla fine dell’apartheid nel 1991. Ma era giustificato: i razzisti bianchi pretendevano di mandare alle olimpiadi solo atleti bianchi (in alternativa, una volta proposero spudoratamente una squadra di soli neri). La Nuova Zelanda, unico Paese che nel rugby accettava di incontrare il Sudafrica, fu a sua volta boicottata.

Per il resto, poca roba. L’unica a rifiutarsi di andare a Berlino nel 1936 per i giochi di Hitler fu la Spagna, vittima dei franchisti appoggiati dai nazisti. Nel 1956 Olanda e Svizzera non parteciparono alle olimpiadi di Melbourne dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, ed egualmente Egitto, Iraq e Libano per la guerra di Suez.

Ma Israele fa parte del Cio (Comitato olimpico internazionale), e non discrimina i propri atleti arabi. È stata espulsa da parecchie federazioni sportive asiatiche su impulso dell’Iran, trovando accoglienza in Europa. Però nel 2019 proprio la federazione internazionale judo ha bandito per quattro anni Teheran da ogni gara dopo che gli ayatollah ordinarono a un atleta di non battersi con un israeliano.

Insomma, fra boicottaggi e controboicottaggi, collettivi e individuali, continentali e regionali, si rischia di non finirla più. Innumerevoli sono infatti i conflitti nel mondo. Ed è triste che gli unici presi di mira siano gli israeliani. Dopo che Tohar Butbul sconfisse un judoka degli Emirati ad Abu Dhabi nel 2017, quello non solo rifiutò di stringergli la mano, ma gli voltò la schiena. E quando un altro israeliano vinse l’oro, gli Emirati impedirono che si alzasse la sua bandiera e si suonasse il suo inno, sostituito da quello del Cio.

Ma forse, con fine humour ebraico, la verità l’ha scritta un commentatore di Tel Aviv: “Altro che politica, il judoka algerino ‘chickened out’”. È scappato per paura di perdere. Come un pollo. O un coniglio.

Mauro Suttora 

Saturday, July 24, 2021

Arrestato Barrack, ex padrone della Costa Smeralda. Ma la giustizia italiana aspetta ancora

di Mauro Suttora


HuffPost, 24 luglio 2021


Hanno arrestato Tom Barrack, proprietario della Costa Smeralda dal 2003 al 2012. La comprò dal fondatore Aga Khan per 280 milioni di euro, rivendendola all'emiro del Qatar per 680. Plusvalenza di 400 milioni e 170 milioni di tasse evase, secondo la procura di Tempio Pausania.

Ma le manette ai polsi del finanziere libano-americano non le ha fatte scattare la giustizia italiana. Dopo anni di indagini, da noi il processo non è ancora iniziato. 

Barrack, amicissimo di Trump, è finito in carcere a Los Angeles perché non aveva dichiarato di fare il lobbista per conto degli Emirati Arabi Uniti. Reato grave negli Usa: data la vicinanza col presidente, questo suo grande finanziatore poteva influire sulla politica estera statunitense.

E pensare che Barrack non è riuscito a influire neanche sul piccolo comune di Arzachena (Olbia). Il consorzio Costa Smeralda da decenni cerca di costruire altri hotel di lusso sui suoi 2.400 ettari, ma le leggi sarde lo bloccano. Ecco perché l'Aga Khan vendette, e anche Barrack se n'è andato.


Lo intervistai (https://www.newsweek.com/vacationing-mr-b-135963per Newsweek nel 2003 a Porto Cervo, era arrivato da poco. La Sardegna quell'estate produceva foto incredibili, Berlusconi in bandana scarrozzava Blair. Fareed Zakaria, direttore del settimanale Usa, non mi credeva quando gli descrivevo la Dolce vita della Costa Smeralda, fra il Billionaire di Briatore, Naomi Campbell e Heidi Klum, Valentino e Gwyneth Paltrow, gli eccessi sugli yacht e le imprese di attori, calciatori e proto-olgettine. Eppure il mio articolo superò l'esame dei severi fact-checkers di Newsweek.


Quella che non è stata superata quasi vent'anni dopo è la lentezza della giustizia italiana. Bypassata su Barrack da quella Usa, che lo ha arrestato per fatti di due anni fa. Sempre a Tempio non hanno ancora rinviato a giudizio il figlio di Grillo: prossima udienza a novembre, con calma.

Scopriamo che è ancora in corso il processo per la strage di Bologna di 41 anni fa, hanno appena trovato un nuovo colpevole. E a Genova dopo tre anni il ponte è stato ricostruito, ma non siamo arrivati neanche all'udienza preliminare. Il direttore di Newsweek non ci crederebbe.

Mauro Suttora

Wednesday, July 14, 2021

A Cuba mancano polli e uova. E da 62 anni la libertà

Se gli Usa togliessero l'embargo andrebbe un po' meglio. Ma la dittatura resterebbe

di Mauro Suttora

HuffPost

, 14 luglio 2021

È colpa degli Stati Uniti. No, di Obama che non ha tolto tutto l’embargo. No, di Trump che lo ha inasprito. No, di Biden che non ha tolto gli inasprimenti di Trump. Macché, i cubani si rivoltano perché la pandemia ha fatto sparire i turisti, principale fonte di reddito.

È buffo leggere le spiegazioni sulle proteste a Cuba. Di solito manca sempre una parola. Una parolina semplice, antica, tremenda: dittatura.

Da 62 anni nella maggiore isola caraibica non c’è libertà. Ma poiché la libertà non si mangia, i nostalgici del comunismo sono convinti che i cubani scendano in piazza perché invece mancano polli, uova ed elettricità.

Il che è vero. Ed è anche vero che se gli Usa togliessero l’embargo l’economia andrebbe meglio. Ma Cuba resterebbe una dittatura. E peggio di una dittatura c’è soltanto una dittatura ereditaria. Come quella dei Duvalier haitiani o dei Kim coreani.

I fratelli Castro cubani dimostrano che il potere assoluto allunga la vita. Fidel è morto a 90 anni, Raul li ha compiuti un mese fa. Ma ad aprile ha compiuto un errore imperdonabile: ha passato lo scettro di segretario del partito comunista a Miguel Diaz.

Perché un errore? Perché peggio di una dittatura ereditaria c’è solo una dittatura senza dittatori. Miguel non ha carisma, e un Paese che ha prodotto il più grande mito del ’900, il comandante Che Guevara, non può essere comandato da un burocrate poliziesco laureato in ingegneria elettronica.

Il quale l’altro ieri ha compiuto il secondo errore. Invece di rispondere ai giovani rivoltosi “Avete ragione, vi daremo più polli, più uova, meno controlli su internet e più visti per gli Usa”, ha detto: “Cari giovani libertari, ora arrivano i miei squadristi in borghese, i guardiani della rivoluzione cubana invece che iraniana, e vi menano”.

Può anche darsi che ce la faccia. In Venezuela Maduro è da anni sull’orlo del crollo, la fame è la stessa, ma i suoi poliziotti, militari e manganellatori fanno il loro mestiere.

Il mestiere più difficile è però quello di presidente degli Stati Uniti. Il gigante che sta a cento miglia da quella grande prigione a cielo aperto che è Cuba, la quale a sua volta contiene la piccola prigione Usa di Guantanamo.

Le hanno tentate tutte. Il volenteroso Obama ha tolto metà embargo, ha ‘aperto’ alla dittatura, ha portato quasi un milione di ricchi turisti Usa di nuovo a Cuba in crociera, e i cubani con i dollari hanno comprato tanti polli e uova. Ma niente libertà: sempre divise, soldati, burocrati, partito unico, carcere per artisti, intellettuali, dissidenti. Per i gay un po’ meglio, ma guardate il film ‘Prima che sia notte’ di Julian Schnabel.

Il sesso a pagamento sul Malecon ora è per ogni gusto. Gli ultimi difensori del castrismo, attestati sull’obiezione multiuso “E allora Batista?” (invece delle foibe), sanno bene che ai tempi del precedente dittatore filo-Usa, nel 1958, il numero delle prostitute cubane equivaleva all’attuale. Stessa fame.

Il povero Obama era anche andato a Cuba, come il papa, gli Stones e Madonna. Niente da fare, non hanno innescato alcuna glasnost e perestroika cubana. Permessa solo la piccola proprietà privata di ristoranti e b&b.

Poi Trump, per ringraziare i fascisti cubani in esilio che lo fecero vincere in Florida, ripristinò le chiusure, compresa quella delle preziose rimesse dall’estero (stipendio medio cubano: 80€).

Ora Biden è indeciso fra carota e bastone. Da 60 anni il regime cubano dà la colpa del proprio disastro all’embargo Usa. Togliere l’alibi può servire?

Da noi gli illusi del ‘socialismo tropicale’ sono pari ai delusi. Commovente l’anno scorso l’ingenuità con cui abbiamo accolto a Crema i 50 medici e infermieri spediti dalla propaganda cubana ad “aiutarci”. Fingendo di non sapere che i due terzi dei loro stipendi portavano valuta al governo.

Ora scopriamo che l’“ottima” sanità dell’Avana ha vaccinato solo il 15%, e che il virus impazza. L′11 luglio Cuba ha avuto 6.923 nuovi casi e 47 morti. Anche le terapie intensive sono più delle nostre.

Ma è da trent’anni, dal crollo dell’Urss, che il regime cubano è in rianimazione. Magari adesso, dopo i fratelli sovietici e venezuelani, arriverà la falce e martello dei cinesi con nuove bombole di ossigeno.

Mauro Suttora 

Monday, July 12, 2021

Gli inglesi usciti dall'Europa sono più europei che mai


I fischi all'inno, le simulazioni in campo, la medaglia "dismessa"... C'era una volta l'eccezione british  

di Mauro Suttora

HuffPost, 12 luglio 2021


Sorpresa: proprio ora che sono usciti dall’Europa, gli inglesi sembrano essere profondamente europei, tendenza Europa del sud, diciamo. E recidivi: criticati dal mondo intero per aver fischiato gli inni nazionali delle squadre avversarie a inizio partita, hanno ripetuto la performance ieri sera con l’Italia (specialità nostra, ricordate i fischi del ’90 all’inno argentino? Solo che noi ora gli altri inni non li fischiamo più). Fischi e buu che sono tornati ogni volta che gli azzurri impostavano un’azione. Lontani i tempi in cui i tifosi inglesi erano rinomati perché si limitavano a cori di sostegno alla propria squadra, rispettando le altre.

E i cascatori? Pensavamo che le sceneggiate fossero una nostra specialità, ma Sterling e compagni hanno dimostrato di avere ottimamente imparato la lezione, tipo Ciro Immobile, che però ci ha provato una volta sola. “Sono iniziati i tuffi”, si è lamentato l’allenatore inglese col quarto uomo alla prima caduta di un nostro giocatore. Ma poi i suoi hanno inventato spinte e prodotto smorfie di esagerazione che l’arbitro avrebbe potuto punire, visto che esistono i falli di simulazione.

Il catenaccio, poi. A metà ripresa e per tutti i supplementari è avvenuto un miracolo: gli italiani padroni del campo, sembravamo noi gli spagnoli del tikitaka. Uno snervante possesso palla perché quelli si sono rinchiusi nel loro fortino, rinunciando a giocare. Terrorizzati dal nostro contropiede, anche dopo l’uscita dello stellare Chiesa hanno mirato solo a fare passare il tempo, sperando nella roulette dei rigori.

Ben altre sono le regole del fair play, parola che dovremo abbandonare per una traduzione italiana, perché pure gli inglesi talvolta si scordano che significhi. Talvolta, perché per fortuna c’è quel gran signore di Gary Lineker che prima ha implorato i tifosi di non fischiare il nostro inno, e poi si è complimentato per la nostra vittoria: “meritata”, ha scritto su Twitter.

Ma l’apoteosi è arrivata alla fine, quando i loro giocatori si sono tolti la medaglia d’argento ricevuta alla premiazione, uno dopo l’altro. Uno spettacolo incredibile in mondovisione. Accettare le sconfitte con dignità è una delle principali regole dello sport. Anche questa parola inglese, da loro dimenticata. Pure il brasiliano Neymar si è tolto la medaglia l’altra sera, battuto dall’Argentina. Ma sono abitudini sudamericane, appunto.

Non infieriamo sulla resurrezione dei teppisti, che hanno assaltato i nostri tifosi prima e dopo la partita. Ci avevano detto che gli hooligans ubriachi erano quasi spariti dopo la strage dell’Heysel nel 1985. Invece ieri in centinaia hanno cercato di entrare a Wembley senza biglietto, e 45 sono stati arrestati nella guerriglia dopo la partita. E probabilmente erano sobri quando puntavano il laser al volto del portiere danese Kasper Schmeichel per disturbarlo durante i rigori.

Mattarella, infine. Più imperturbabile di un inglese, si è leggermente mosso dopo il gol italiano. Non conosciamo le regole del protocollo internazionale, ma nel 1982 il re spagnolo accolse caloroso Pertini accanto a lui in tribuna. Il povero Mattarella invece era desolantemente solo, ignorato dal principe William.

Insomma, dicevano a noi Pigs: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, indebitati, indisciplinati, inaffidabili. Ora invece assistiamo sgomenti alla scomparsa dell’english style, quello che fa dir loro “I beg your pardon”, imploro il vostro perdono, invece di un semplice “scusi”. L’aplomb è emigrato da Londra ed è volato a Madrid posandosi su Luis Enrique, il gentiluomo spagnolo di questi europei, e fratello gemello di Pep Guardiola che, dopo la sconfitta in finale di Champion’s, la sua medaglia se l’à baciata e tenuta lo stesso.

Aveva proprio ragione Salgari: il suo campione della flemma era Yanez de Gomera, portoghese.

“You are a good sport”, sei un amico, diceva sempre il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Ma ora allo sport delle latitudini londinesi sembra più attagliarsi questa sarcastica, feroce definizione: “Lo sport non ha niente a che fare col fair play. È legato ad astio, gelosia, vanagloria, noncuranza di qualsiasi regola, e al sadico piacere di assistere a manifestazioni di violenza. Insomma, è come la guerra. Ma senza l’esecuzione”.

Parola di George Orwell. Inglese.

Mauro Suttora