NUOVI PERSONAGGI: PASSIONI E PICCOLI SEGRETI DELLA SENATRICE-POETESSA GRILLINA
Insulta Berlusconi, è adorata dagli attivisti (che però, se serve, tratta male), il suo slogan «Parlamentari siete Gneeente!» spopola in rete. Ormai è diventata la più popolare del movimento di Grillo e Casaleggio
di Mauro Suttora
Oggi, 3 gennaio 2014
«Vabbe’, sempre de me stamo a parla’? Niente personalismi, sono più importanti le idee. Nun t’azzarda’ a ffa’ gossip, ggiornalista...».
E giù una gorgogliante risata, di quelle che sdrammatizzano. Perché lei è famosa anche come la Trilussa grillina: scrive sonetti in romanesco che affilano tutti. «Compresi i miei colleghi 5 stelle se mettono su qualche sussiego di troppo, con le loro cravatte da parlamentari».
È scatenata, Paola Taverna, 44 anni, donna fiera delle proprie origini borgatare. Vive col figlio a Torre Maura, ma è nata e cresciuta al Quarticciolo, quartiere popolare dove Mussolini sistemò gli sfrattati dopo gli sventramenti di via della Conciliazione.
Palazzo Madama, secondo piano. Parla con Oggi nel suo ultimo giorno da presidente dei senatori del Movimento 5 stelle (i capigruppo del M5s ruotano ogni tre mesi).
Perché così spesso?
«Pratichiamo quel che predichiamo. Siamo normali cittadini che offrono un breve periodo - massimo due mandati - al servizio pubblico. E anche le cariche interne ruotano».
Bilancio del suo trimestre?
«Ottimo. Anzi, pessimo. La politica in questi palazzi è peggio di quel che pensavo. Ogni giorno una schifezza: tangenti sul terremoto dell’Aquila, consiglio regionale illegale in Piemonte, telefonate imbarazzanti della ministra Nunzia De Girolamo... Sembra che i partiti facciano a gara per stancare la gente e regalarci voti».
Davvero peggio di quanto immaginasse?
«Ripeto: ogni giorno una porcata. Ci hanno appena detto no al taglio delle pensioni d’oro, all’aumento di quelle minime da finanziare con tasse sul gioco d’azzardo, no a un dibattito sui ministri in bilico come la Cancellieri. In compenso è passata la privatizzazione della Banca d’Italia, che regalerà decine di milioni alle banche private».
Paola Taverna ormai è diventata una stella dei 5 stelle. Dopo Beppe Grillo e il misterioso Richelieu Gianroberto Casaleggio, è lei la più amata. Ogni volta che mette un post su Facebook le arrivano centinaia di “mi piace” in pochi minuti. I suoi video su Youtube hanno migliaia di visualizzazioni.
La invitano in tutta Italia nei week-end, neanche fosse la Madonna pellegrina: da Pomigliano (Napoli) ai paesi terremotati dell’Emilia. Radio 105 ha addirittura inaugurato una rubrica satirica (Casa Taverna) in cui la dipingono come una casalinga collerica. E dopo il suo discorso contro Silvio Berlusconi in Senato, sono nati fan club scherzosi come i Tavernicoli o la Senatruce col mattarellum.
Durante un comizio si era lasciata andare: «A Silvio je sputo in testa». Scuse ufficiali, ma grillini in delirio. «Sì, in effetti ci sono toni un po’ da tifo in giro», ammette lei. «Ma è naturale, finché questi non schiodano. La gente è stufa, metà non va più a votare».
Beh, questo lo sappiamo da anni.
«Però ora i nodi vengono al pettine. All’ultimo V-day di Grillo, in piazza a Genova a dicembre, mi hanno assediato centinaia di signore, giovani, anziani che mi imploravano: “Siete la nostra ultima speranza!”».
E lei come risponde?
«Attivatevi in prima persona, non fidatevi più dei politici di carriera».
Ora però c’è Renzi. È più nuovo di voi.
«Nuovo quello? Ma se è in politica da vent’anni».
Vuole tagliare un miliardo l’anno di costi, cominciando dal Senato.
«Cominciasse a tagliarsi lui il finanziamento pubblico Pd. Noi abbiamo rinunciato a 40 milioni, e prendiamo solo 2.900 euro al mese di stipendio».
Lei quanto guadagnava prima?
«Novecento euro, part-time in un ambulatorio di analisi mediche. Lavoro da quando avevo 19 anni, dopo l’istituto linguistico. Mancò mio padre, addio università».
Torniamo al movimento: com’è finita coi dissidenti?
«Quali dissidenti? Si parla, ci si confronta. Nei miei tre mesi, niente problemi».
Ma se vi siete spaccati anche per eleggere il suo successore, Maurizio Santangelo: 26 ‘talebani’ contro 23 ‘dialoganti’.
«Non ci siamo ‘spaccati’, abbiamo solo votato. È la democrazia, la applichiamo fra noi. Non siamo teleguidati da Grillo. Comunque, sulle cose importanti siamo uniti».
Una legge che è riuscita a far passare?
«Ho trovato i soldi per lo screening neonatale delle malattie rare».
Interessi extrapolitici?
«Mio figlio. È tutta la mia vita. E gioco a Candy Crush sul telefonino».
I due collaboratori, Ilaria e Fabio Massimo, la avvertono: deve andare a una riunione del movimento. Li accompagno al Testaccio, ci sono una settantina di attivisti. Atmosfera surreale: un’assemblea per decidere come fare un’altra assemblea. Quando arriva la applaudono, perché non si dà mai arie.
Poi però gli oratori si perdono in quisquilie organizzative, e la senatrice si trasforma in pantera, chiede la parola, non esita a dire in faccia ai noiosi militanti “de bbase” quel che pensa. Qualcuno la fischia. Lei non si scompone, anzi rincara. Proprio come nel suo discorso ormai leggendario, quando urlò la famosa invettiva ai senatori: “Siete gneeente!”
Il presidente del Senato Piero Grasso non la interruppe. Anzi, sorrideva sornione. Dicono abbia un debole per la focosa Taverna. E gli mancherà, alle riunioni dei capigruppo che lei rendeva sempre frizzanti.
Mi scuso per il gossip.
Mauro Suttora
Thursday, January 23, 2014
Monday, January 20, 2014
Wednesday, January 15, 2014
Politici: nuovo stile "povero"
UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA FA RINUNCIARE AI SIMBOLI DEL POTERE
Oggi, 9 gennaio 2014
di Marianna Aprile e Mauro Suttora
Fra i meriti che ora tutti riconoscono a Pier Luigi Bersani, ora convalescente, c’è quello di non aver mai esibito la pompa del potere. Nessun codazzo di gorilla da segretario Pd, poco uso di auto blu. Era facile incontrarlo solo, senza scorta (neanche un portaborse) sui voli di linea Roma-Milano, seduto in posti non privilegiati.
Con l’aria che tira, non è più l’unico. Diversi politici, in tutto il mondo, esibiscono una nuova consapevolezza. Il nuovo sindaco di New York, Bill de Blasio, è arrivato in metro alla propria cerimonia di inaugurazione. Per la verità anche Mike Bloomberg, suo miliardario predecessore, non disdegnava la subway.
Ma con i politici non si sa mai se le paparazzate di vita sobria siano casuali, combinate, o addirittura sollecitate: magari vanno sempre in elicottero, però l’unica volta che ci rinunciano si fanno fotografare. Quel che è sicuro, è che la cancelliera tedesca Angela Merkel usa ancora sci di fondo vecchi di vent’anni e costruiti nella sua ex Germania Est. È caduta, si è fratturata il bacino.
Pisapia a piedi, fa la spesa da solo
E in Italia? Niente trucchi per il sindaco di Milano Giuliano Pisapia: neanche un vigile di scorta, gli piace andare a piedi, anche al super per la spesa. Quella stessa spesa (all’Ikea) che ha invece distrutto le speranze quirinalizie di Anna Finocchiaro, sorpresa a far spingere il suo carrello da un agente.
Sono le scorte per ragioni di sicurezza la scusa per le auto blu: «Ci rinuncerei, ma me la impongono», è il ritornello. L’attentato dello squilibrato contro il carabiniere di Palazzo Chigi lo scorso aprile ne ha interrotto lo sfoltimento. E provocato qualche segreto sospiro di sollievo fra qualche politico.
Ma non è solo l’auto lo status symbol del potere. C’è la fantozziana metratura dell’ufficio. Megagalattico quello proposto nove mesi fa al neo consigliere regionale lombardo 5 stelle Eugenio Casalino: «Erano 200 metri quadri, mezzo 23esimo piano del Pirellone. Solo perché ho la carica di segretario dell’ufficio di presidenza. Ho rinunciato a tre stanze su sette. Ma qui in regione Lombardia i grandi sprechi avvengono negli staff per gli assessori e nelle società partecipate e controllate: Lombardia Informatica, Infrastrutture Lombarde, Aler (case popolari) e Finlombarda».
Il deputato bresciano Mario Sberna (Scelta Civica) ogni anno fa un fioretto quaresimale: indossa ovunque sandali senza calze. Si presentò così anche in Parlamento, appena eletto. A Roma alloggia in un convento di suore (20 euro al giorno). Cinque figli, Sberna è ex presidente dell’Associazione famiglie numerose. Il deputato francescano trattiene dallo stipendio solo 2.500 euro e le spese per i suoi giorni romani, tutte documentate. Sul suo sito pubblica l’elenco dei versamenti alle associazioni cui va il resto del suo stipendio.
Come lui fanno tutti i 150 parlamentari 5 stelle. Che devolvono la differenza a un fondo per le piccole e medie imprese. Ma solo Paola Taverna si è presentata con le infradito in Senato d’estate.
Ministri Bray, Delrio e Bonino a piedi
E i ministri? Nel maggio 2013 Massimo Bray (Beni culturali), è stato fotografato sulla Circumvesuviana mentre si recava in visita privata a Pompei. Una passeggera lo ha riconosciuto e ha twittato la foto di lui in piedi, con le cuffiette nelle orecchie (ascoltava Asaf Avidan). Poi il treno si è guastato, e il ministro ha chiesto un passaggio a un passeggero per raggiungere Pompei.
Graziano Delrio (Affari regionali), nove figli, ha tenuto la poltrona di sindaco di Reggio Emilia, ma ha rinunciato agli 80 mila euro di stipendio. E alla scorta che il ruolo gli attribuiva automaticamente, contro il parere del ministero degli Interni. Al giuramento al Quirinale è arrivato a piedi, come Emma Bonino. A piedi e senza scorta si muovono anche il due volte premier Romano Prodi e il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio (M5S).
Notoriamente i sindaci di Firenze Matteo Renzi (neosegretario Pd) e di Roma Ignazio Marino vanno in bici. Ma le due ruote nella capitale non fanno notizia: le utilizzava già vent’anni fa il primo cittadino Francesco Rutelli, seppur motorizzato. Ora i motorini sono diventati «scooteroni»: ne usa uno la 5 stelle Roberta Lombardi.
La moda della bici ha colpito (per poco) persino Daniela Santanchè: all’inizio della legislatura, complice la ventata di low profile grillino, la pitonessa prese ad andare alla Camera in bici. Durò poco: smise causa tacco 12.
Ben 57 mila agenti per le scorte
Ventata di austerity anche ai piani alti: il premier Enrico Letta si è presentato al Quirinale per ricevere l’incarico dal presidente Giorgio Napolitano con la Fiat Ulysse di sua moglie (auto aziendale da giornalista del Corriere della Sera), ha trascorso pochi giorni di vacanze estive nel giardino di casa a Pisa nella piscinetta gonfiabile, e a Capodanno ha preso un volo di linea per la Croazia.
Ma quanti sono i personaggi scortati, in Italia? Mezzo migliaio (dati del sindacato Sap, ottobre 2013), suddivisi in quattro livelli di protezione: 17 di primo livello (tre auto blindate con ben tre agenti per auto); 82 di secondo livello (due auto con tre agenti per auto); 312 di terzo livello con un’auto e due agenti; 102 con un’auto e un agente. Totale: 1900 agenti al giorno (57mila al mese) tra polizia, Carabinieri, Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale. Costo: 250 milioni di euro l’anno.
Nel 2012 sono state tagliate scorte di quarto livello a 70 parlamentari; nel 2013, invece, nessun taglio. Le auto blu sono 63.700, le grigie (auto di servizio non blindate e senza autista) 54.250, per un costo annuo di 2 miliardi di euro. A usufruire delle auto grigie sono, per esempio, i Prefetti. Quelli delle grandi città, in genere, ne hanno una assegnata “in esclusiva”. Quelli delle città medio-piccole, invece, ne condividono l’uso con gli altri dirigenti delle Prefetture. Dispongono di un’auto grigia, quasi sempre in esclusiva, anche i dirigenti e gli alti burocrati di ministeri ed enti (Csm, Authorities, Corte Costituzionale).
Tra tutti i personaggi (giornalisti, politici o ex politici) scortati, ce ne sono alcuni che più di altri fanno storcere il naso. Qualche esempio? Fonti vicine al Viminale confermano che sono sottoposti a protezione l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, sua moglie Sandra Lonardo, gli ex ministri Paolo Cirino Pomicino, Oliviero Diliberto e persino Claudio Scajola (che da ministro dell’Interno negò la scorta al giuslavorista Marco Biagi, poi ucciso dalle nuove Br). Ancora sotto scorta gli ex presidenti della Camera Fausto Bertinotti e Pierferdinando Casini, e del Senato Marcello Pera.
Nell’estate 2013 Gianfranco Fini, allora presidente della Camera, finì sui giornali per gli 80 mila euro che costò il soggiorno della sua (legittima) scorta in nove stanze di un hotel nel centro di Orbetello durante le vacanze di Fini e famiglia ad Ansedonia (Grosseto).
Hanno ancora la scorta l’ex presidente del Lazio Renata Polverini, ora deputata, l’ex ministro Elsa Fornero, l’ex pm Antonino Ingroia, l’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, l’ex presidente della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita. Tra i giornalisti sottoposti a tutela, figura Emilio Fede (condannato a 7 anni in primo grado per favoreggiamento della prostituzione).
Piccola nota: gli ex ministri non possono rinunciare alla scorta per i tre mesi successivi alla fine dell’incarico. Prima era un anno, poi un provvedimento dell’ex Guardasigilli Paola Severino ha stabilito fossero tre mesi; dopo, un comitato valuta se la personalità in questione ne ha ancora davvero bisogno.
Marianna Aprile e Mauro Suttora
Tuesday, December 24, 2013
Forconi: chi sono
I LORO CAPI UNITI DA DEBITI, TASSE NON PAGATE E DISASTRI ELETTORALI
Oggi, 18 dicembre 2013
di Mauro Suttora
Il movimento dei Forconi, attrezzo con cui vorrebbero
cacciare i politici, è stato fondato l’anno scorso da Mariano Ferro, 53 anni, agricoltore con venti ettari ad Avola
(Siracusa) e assegni protestati per 7 mila euro. Le disavventure col fisco uniscono
tutti i capi della protesta.
Danilo Calvani,
51 anni, agricoltore di Pontinia (Latina), una compagna, quattro figli,
ragioniere mancato, ha un’azienda fallita per 140mila euro fra tasse non pagate,
debiti con le banche e contributi per i dipendenti non versati all’Inps. È
diventato famoso per essere arrivato a un corteo sulla Jaguar di un amico
camionista.
Lucio Chiavegato,
48 anni, ex falegname di Bovolone (Verona), tre figli, ditta di arredamenti per
hotel, fondatore vent’anni fa degli anti-fisco di Life (Liberi imprenditori
federalisti europei) e oggi animatore dei secessionisti di Veneto indipendente,
ha debiti bancari per 320 mila euro.
Questi sono i tre coordinatori nazionali dei Forconi
autorizzati a parlare con i media. Ma anche gli altri hanno problemi con
Equitalia: l’industriale siderurgico Giovanni Zanon (ipoteca per 11 mila euro)
e l’allevatore Giorgio Bissoli (27 mila).
Non è vero che ai Forconi non interessa fare un partito. In
realtà ci hanno già provato tutti, ma con risultati disastrosi. Ferro, ex
candidato sindaco per Forza Italia nella sua Avola, alle regionali siciliane 2012
prese soltanto l’1,5 per cento. Calvani, candidato sindaco a Latina due anni
fa: 320 voti, lo 0,4 per cento. Peggio Chiavegato capolista del Partito
nasional veneto alle regionali 2010: 141 voti, lo 0,18 per cento.
Ora i capi dei Forconi litigano fra loro. Andrea Zunino, 60
anni, convertito all’islam, è stato cacciato dopo una frase contro i «banchieri
ebrei». Ferro e Chiavegato si sono dissociati da Calvani sulla manifestazione
nazionale a Roma del 18 dicembre: «Troppi rischi di infiltrazioni violente».
Estremisti di destra (Forza nuova, Casa Pound) e di sinistra
(centri sociali come Askatasuna a Torino) approfittano delle proteste pacifiche
dei Forconi per attaccare le forze dell’ordine.
Le quali hanno adottato una strategia morbida. A Milano, per
esempio, non sono intervenute per sgomberare gli appena 200 manifestanti che
per ben quattro giorni hanno fatto impazzire il traffico nella zona nevralgica
di piazza Loreto. Gli unici a usare le maniere forti sono stati i tifosi
dell’Ajax per far passare il loro pullman.
Cosa vogliono i Forconi? Protestano contro tasse (Equitalia,
Guardia di finanza), politici (tutti, grillini compresi) e la crisi in genere.
Niente richieste specifiche. Gli autotrasportatori, che incassano ogni anno 1,4
miliardi di sconti sul gasolio, si sono dissociati.
Forza Italia e Movimento 5 stelle sperano di approfittare di
questi moti di piazza, raccogliendo i voti dei Forconi alle europee del
prossimo maggio. Ma nessun partito si era accorto della protesta che montava su
Internet con la parola d’ordine «Il 9 dicembre blocchiamo l’Italia».
Wednesday, December 18, 2013
Renzi: buoni e cattivi
di Mauro Suttora
Oggi, 11 dicembre 2013
Doppia vittoria per Matteo Renzi
alle primarie del Partito democratico: 68 per cento con 2,6 milioni di votanti.
Il nuovo segretario del Pd appena due anni fa sembrava un esagitato che urlava
di voler rottamare tutti i dirigenti del proprio partito. Oggi se n’è
impadronito, e per chi non è salito sul suo carro (come gli accorti Walter
Veltroni ed Enrico Franceschini) si annunciano tempi duri.
«Ridurrò i costi della politica
di un miliardo», promette Renzi, «sostituirò i senatori con un’assemblea di
sindaci e presidenti di regione che lavoreranno gratis». Beppe Grillo trema: lo
scettro dell’Uomo nuovo passa nelle mani del sindaco di Firenze. Ma anche gli
altri protagonisti della politica italiana, da Silvio Berlusconi a Mario Monti,
sembrano cariatidi rispetto a questo 38enne arrembante.
Ecco chi sale e chi scende (in
politica, ma anche in economia, tv, mondo dello spettacolo e cultura) con
l’inizio dell’era Renzi.
Romano Prodi sale: ha deciso in
extremis di andare a votare, per vendicarsi dei 101 anonimi parlamentari Pd che
otto mesi fa lo pugnalarono nella corsa al Quirinale. Massimo D’Alema,
viceversa, scende: è stato lui il maggiore avversario del sindaco dentro al
partito, e anche adesso non si tira indietro: «Ne ho visti tanti, passerà anche
lui».
Piero Fassino, segretario Pd fino
al 2007 e oggi sindaco di Torino, sale: diventerà presidente del partito. Stefano
Fassina, viceministro dell’Economia ed esponente della sinistra interna, non
condividerà il nuovo corso liberale.
Carlo De Benedetti, proprietario
del giornale La Repubblica, ha messo le vele al vento: «È necessario saltare
una generazione per cambiare il pd». Eugenio Scalfari invece, quasi 90enne
fondatore di quel quotidiano, ha scritto sprezzante: «Renzi è un avventuriero,
come piacione meglio Fabio Volo e i suoi libri».
Tempi duri per Mario Orfeo,
direttore del Tg1: troppo accondiscendente con il premier Enrico Letta. Salgono
in Rai le quotazioni di Monica Maggioni, direttrice Rainews (nonostante il buco
sulla morte di Nelson Mandela), e Gerardo Greco (Agorà, Rai3).
Tempi durissimi per Susanna
Camusso e tutti i sindacati: «È arrivato il momento di discutere seriamente dei
loro bilanci e del loro ruolo in questo mondo del lavoro che cambia così
velocemente», minaccia Renzi. Il cui volto nuovo, in tv, è l’angelica ma tosta 33enne
Maria Elena Boschi, sua concittadina avvocata, una dei pochi deputati renziani.
Jovanotti è passato da Veltroni a
Matteo, surfando sull’onda delle canzoni adottate come inni alle convention di
Firenze. Fabio Fazio invece pare abbia votato Pier Luigi Bersani alle scorse
primarie e Gianni Cuperlo in queste: doppio fallo. Come per il regista/attore
Nanni Moretti.
Debora Serracchiani, rottamatrice
della prima ora, adesso è governatrice della regione Friuli-Venezia Giulia. Per
lei un futuro a Roma (ministro?). Della variopinta corte renziana fanno parte
anche Oscar Farinetti (Eataly, presente a Leopolda 2) e lo scrittore Alessandro
Baricco. Pippo Baudo ha votato per lui nel gazebo di piazza del Popolo.
Fra gli antipatizzanti nel mondo
dello spettacolo Sabrina Ferilli (comunista storica, arroccata a Cuperlo come
Monica Guerritore), Alba Parietti («Renzi ha una figura berlusconiana»), gli
attori Elio Germano (sprezzante: «Sono di sinistra, quindi col Pd non c’entro»)
e Riccardo Scamarcio: «Incredibile che dei politici vestano giubbotti di pelle.
Gli attori siamo noi, perché vogliono rubarci il mestiere? È avanspettacolo».
Duro anche Claudio Sabelli Fioretti (Un giorno da pecora, Radio2): ««La linea
di Renzi sarà un dramma per il Pd».
Fra i simpatizzanti, Victoria
Cabello («È l'uomo del rinnovamento che serve al Pd e all'Italia») e Neri
Marcorè: «Ha carisma e capacità». Il regista Fausto Brizzi (Notte prima degli esami, Femmine contro
maschi), ospita Renzi a casa sua quando dorme (raramente) a Roma.
Sarà strage fra i dirigenti Pd:
Anna Finocchiaro, Rosy Bindi, Bersani, Franco Marini, anche giovani ministri
come Andrea Orlando (Ambiente). Il sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio Filippo Patroni Griffi e il viceministro dello Sviluppo economico
Antonio Catricalà sono detestati da Renzi in quanto boiardi di Stato: «Chi
guadagna di più nella pubblica amministrazione? Ridurre la burocrazia vale due
punti di Pil».
Fuori anche la ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri
per le telefonate ai Ligresti. Niente di buono in vista, infine, per Berlusconi
(che preferì Enrico Letta a Renzi come premier in aprile), Monti e Letta stesso
(nonostante la colleganza di partito: due galli in un pollaio sono troppi).
Si sono invece riciclati in tempo
Roberto Giachetti, Goffredo Bettini, Paolo Gentiloni. Che però dovranno
obbedire a Luca Lotti, nuovo vice-Renzi a Roma. Gran furbo anche il ricco
costruttore ed editore Francesco Gaetano Caltagirone che fiutando il nuovo corso ha incontrato Renzi e ora lo
loda, preferendolo al genero Pier Ferdinando Casini.
Nel mondo economico sono renziani
anche il gestore di fondi Davide Serra (liquidato come «speculatore delle
Cayman» da Bersani), Andrea Guerra (ad Luxottica), Francesco Micheli (banca
Lazard, 10 mila euro da suo figlio Carlo al comitato Renzi), il finanziere Guido
Roberto Vitale (5 mila euro), Yoram Gutgeld (ex consulente McKinsey, fatto
eleggere deputato) e Fabrizio Palenzona (vicepresidente Unicredit e potente
capo dell’Aiscat, concessionarie autostradali).
Mauro Suttora
Wednesday, December 11, 2013
Cgia di Mestre
In teoria dovrebbero limitarsi ad assistere gli artigiani di Venezia. In pratica, i loro comunicati fanno tremare ministri e imbestialire i burocrati romani. Ecco chi sono i «cervelloni» del Centro sudi più citato d'Italia
dall'inviato Mauro Suttora
dall'inviato Mauro Suttora
Mestre (Venezia), 5 dicembre 2013
Gli americani hanno i Nobel del Mit di Boston, gli inglesi i professori di Cambridge, i tedeschi i think tank di Francoforte. Noi abbiamo gli artigiani di Mestre. Altro che Istat, o uffici studi Bankitalia e Bocconi. È la «Cgia di Mestre» quella che da vent’anni fa le pulci, inesorabilmente, a ogni provvedimento del governo italiano.
Letta promette sgravi fiscali? Nei tg la Cgia (sigla misera per un nome altisonante: Confederazione Generale Italiana Artigianato) lo ridicolizza subito, calcolando che sono solo 14 euro al mese. Tremonti annunciava meno tasse? La Cgia lo smentiva dopo poche ore. Monti vedeva «la luce in fondo al tunnel»? La Cgia sghignazzava, scodellando dati pessimi.
Ormai il dibattito politico/economico in Italia vede da una parte i ministeri romani, e dall’altra questa imperscrutabile Cgia. La quale gode di un successo incredibile presso tv e giornali: dal 1994 ha avuto 1.340 suoi comunicati ripresi dall’agenzia Ansa. Solo quest’anno siamo già arrivati a 300. Una cascata di notizie che arrivano sempre al momento giusto. Dopo l’alluvione in Sardegna, per esempio, la Cgia ha denunciato: soltanto l’uno per cento dei 43 miliardi di tasse «ambientali» che paghiamo va alla reale protezione del territorio.
Arruolato pure l’addetto alle paghe
Chi sono questi maghi di Mestre? E i loro dati sono attendibili? Andiamo a trovarli. Scopriamo che stanno in una avveniristica torre di vetro e acciaio alla periferia della città. Lavorano per l’ufficio studi 15 degli 85 dipendenti della Cgia provinciale veneziana. Ma perché mai gli artigiani qui sono così combattivi, e dedicano tante risorse alla polemica politica?
La risposta è tutta in un nome e cognome: Giuseppe Bortolussi. È il 65enne presidente della Cgia, per la quale lavora da un terzo di secolo. Ed è un vero «rompibae», come dicono da queste parti.
Documentatissimo e fluviale nell’eloquio, dirige la sua squadra ormai quasi a memoria. Ogni mattina si riuniscono e individuano i temi al centro dell’attenzione. Poi sfornano dati per giornalisti affamati di notizie, ma troppo pigri per trovarle da soli.
«E non ci vogliono professoroni per fare quattro calcoli», assicura Bortolussi, «basta il nostro funzionario addetto alle paghe o l’esperto sindacale per smascherare le bugie di Roma».
Parla un leghista apostolo degli evasori del Nordest? Macché. Bortolussi era candidato del Pd alle ultime regionali in Veneto nel 2010. Ha preso il 30%, contro il 60 di Lega Nord e Pdl. Ora è consigliere regionale. Prima, è stato a lungo assessore di Venezia nella giunta di sinistra di Massimo Cacciari.
I suoi 2.500 iscritti (a 200 euro l’anno) non protestano per questa sua caratterizzazione politica? «Nessuno. Perché difendiamo bene i loro interessi».
L’ufficio di Bortolussi, al quinto piano, è in cucina. Una cameretta con frigo, lavabo e gas progettata come foresteria. Ma a lui piaceva: ha aggiunto un tavolo, una sedia, e da lì fa tremare i ministri dell’Economia. Su uno scaffale i libri dei suoi economisti preferiti: Peter Drucker e Philip Kotler.
La sua apoteosi è arrivata il 15 novembre, quando il ministro Fabrizio Saccomanni ha dovuto smentire il proproprio dipartimento Finanze sui lavoratori dipendenti che pagherebbero più tasse degli imprenditori. «Non era mai successo che facessero marcia indietro su carta intestata», gongola Bortolussi.
Per conquistare valanghe di citazioni sui media la Cgia usa alcuni accorgimenti. Il principale è quello di sfornare i propri comunicati di sabato e domenica, quando spesso i giornalisti non sanno come riempire pagine e tg. «Ma non è un trucco», avverte Bortolussi, «lo facciamo perché molti nostri associati non hanno tempo di leggere i giornali quando lavorano, durante la settimana, e quindi lo fanno soprattutto nei week-end».
Bortolussi non è laureato (gli mancava la tesi di Legge). Ma, se è per questo, non lo sono neppure Bill Gates (Microsoft), Steve Jobs (Apple), Mark Zuckerberg (Facebook).
In compenso l’ufficio studi abbonda di titoli accademici e ha trenta collaboratori esterni, con molti docenti universitari. Paolo Zabeo coordina l’ufficio stampa, Catia Ventura i ricercatori.
Poca dimestichezza con le cifre
In un Paese come l’Italia, con scarsa dimestichezza per i numeri, abbondano i cialtroni (specie fra certe «associazioni dei consumatori») che spesso spacciano cifre clamorose ma infondate. Per esempio, le tredicesime che sarebbero quasi completamente ingoiate dalle tasse.
«Noi controlliamo i dati cinque volte», assicura Bortolussi, «non spariamo alla cieca per poi essere smentiti».
Unica fortuna dei burocrati statali: il «rompibae» non abita a Milano o Roma. Quindi le sue apparizioni in tv sono limitate dalla lontananza fisica dagli studi. E i collegamenti in video con Mestre non sono così efficaci come la presenza fisica.
Mauro Suttora
Candidati primarie Pd
IDENTIKIT
di Mauro Suttora
Oggi, 4 dicembre 2013
MATTEO RENZI: IL FAVORITO
età e luogo di nascita: 38, Firenze.
formazione: liceo classico, laurea in Legge, scout.
carriera: presidente della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, poi sindaco di Firenze.
famiglia: moglie Agnese, tre figli: Francesco, Emanuele, Ester.
promesse difficili: «Taglierò di un miliardo i costi della politica, a partire dal Senato».
bugia: «Non ho dietro geni del marketing».
peggior avversario: il comico Maurizio Crozza. La sua imitazione su La 7 ogni venerdì sera è devastante.
merkel all’alba: lo scorso luglio la Cancelliera lo ha sì ricevuto, ma dandogli appuntamento alle sei e mezzo del mattino.
simpatizzanti imbarazzanti: «Se Flavio Briatore la prossima volta vota Pd invece che Berlusconi, sono contento».
sogni per il futuro: «Spero di avere una vita anche dopo la politica. Mi piacerebbe diventare conduttore televisivo».
incubo: che il governo di Enrico Letta duri troppo a lungo (fino al 2015), impedendogli di candidarsi a premier.
auto, camper e jet: ha una monovolume Volkswagen. Massimo D’Alema lo ha accusato di girare l’Italia su un aereo privato, salendo sul camper solo all’ultimo minuto. Lui ha ammesso di averlo preso, ma solo una volta: «Per andare al funerale di Pier Luigi Vigna. E me lo sono pagato io, non con strani giochetti».
GIANNI CUPERLO: L'EX COMUNISTA
età e luogo di nascita: 52, Trieste.
laurea: Dams di Bologna, 1985. Tesi in Sociologia della comunicazione.
famiglia: sposato con Ines Loddo, come lui ex dirigente dei giovani comunisti. Si sono fidanzati, pare, durante un viaggio in Corea del Nord. Una figlia (Sara), un cane (Floyd).
carriera: ultimo segretario dei giovani comunisti (1988-92). Deputato dal 2006.
“musicista”: scelse La Canzone popolare di Ivano Fossati come inno dell’Ulivo vincente di Romano Prodi nel ’96. Scelse anche Il cielo è sempre più blu come inno Ds per la segreteria Fassino (2001-07).
citazione: «Il futuro entra in noi molto prima che accada» (Rilke). Lo scelse come slogan nel congresso Pds del 1996.
lavoro: sempre nel partito a Roma dal 1987. Ha insegnato Comunicazione politica all’Università di Teramo.
auto e moto: Mercedes Classe A del 1998 e Vespa 300.
umiliazioni: scriveva i discorsi per D’Alema segretario Pds. Lui li apprezzava molto, ma non li leggeva mai.
ha detto sua figlia dopo il confronto con Renzi e Civati: «La politica si è ridotta a un minuto e mezzo di esposizione e 30 secondi di replica».
PIPPO CIVATI: LA SORPRESA
età e luogo di nascita: 38, Monza. (All’anagrafe Giuseppe).
formazione: Laurea e master in filosofia.
primo comizio: a 17 anni nell’aula magna del liceo classico Zucchi di Monza.
carriera: consigliere comunale Ds a 22 anni, regionale in Lombardia dal 2005 al 2013. Deputato Pd da febbraio.
lavoro: ha insegnato filosofia a Milano, Firenze e Barcellona.
passioni: nel 2002 diploma in «Civiltà dell’umanesimo» all’Istituto Studi sul Rinascimento di Firenze.
auto: Audi A4
svolta: nel 2010 organizza con Renzi il primo «raduno dei rottamatori» alla Leopolda.
tradimento: nel 2011 rompe con Renzi e si allea con Debora Serracchiani.
insulti: «Occhi da cerbiatto», «Cane da riporto»: Grillo lo accusa di voler comprare i suoi parlamentari.
barba: se l’è fatta crescere quest’estate per sembrare più uomo, imitando Franceschini.
famiglia: padre di una bimba di un anno avuta dalla compagna Giulia.
indagato: per 3 mila euro di rimborsi da consigliere regionale della Lombardia.
servizio civile: nell’Arci.
dicono di lui: «È la parte migliore di Renzi» (i perfidi).
dice lui: «Sono un rinnovatore, non un rottamatore. E non punto al “recuperlo”». «Prossimo presidente? Prodi o Rodotà».
blog: dal 2004 www.ciwati.it (pronuncia: «ci voti»).
Monday, December 09, 2013
Guerra di Esselunga
IL PADRE-PADRONE 88ENNE BERNARDO CAPROTTI CONTRO I FIGLI GIUSEPPE E VIOLETTA
di Mauro Suttora
Oggi, 4 dicembre 2013
«Spero sempre in una riconciliazione con mio padre»: questo è l’unico commento che Giuseppe Caprotti fa con Oggi sul dissidio che da dieci anni lo contrappone al padre Bernardo, fondatore di Esselunga.
Il padrone quasi novantenne della più redditizia catena di supermercati in Italia (ben 230 milioni di utile su un fatturato di 6,8 miliardi l’anno scorso, con un clamoroso +3% nonostante la crisi) ha appena sparato a zero sui due figli del primo matrimonio con Giorgina Venosta (poi moglie di Aldo Bassetti): «Negli anni ho dato a Giuseppe 82 milioni, 74 a Violetta e quattro al suo ex marito newyorkese». Più la villa di famiglia con parco di Albiate (Monza Brianza) a lui, e un castello in Svizzera a lei.
Questo per rispondere alla clamorosa notizia secondo cui Caprotti senior li a vrebbe quasi diseredati: negli ultimi dieci anni, infatti, su 80 milioni di donazioni ne ha dati solo due a Giuseppe e sette a Violetta, contro 30 alla seconda moglie Giuliana, dieci alla figlia di secondo letto Marina Sylvia, e soprattutto altri dieci alla fedele segretaria 65enne Germana Chiodi. Troppo fedele, secondo alcuni: nominerebbe lei i dirigenti di Esselunga e licenzierebbe quelli non graditi.
Scene da film, con auto nere
Una vera Dinasty lombarda, insomma, con scene degne di un film. Come quella del 2004 quando Bernardo fece parcheggiare quattro Mercedes nere con autista sotto la sede centrale Esselunga a Pioltello (Milano). Dopo una burrascosa riunione licenziò in tronco tre dei massimi dirigenti, accusandoli di aver preso tangenti e facendoli portar via dalle auto.
«La quarta era per me?», gli domanda il figlio Giuseppe, che dopo una gavetta di dieci anni era diventato amministratore delegato. «Non ancora», gli rispose il padre, ridendo. Ma da allora i rapporti si sono guastati, e Giuseppe è stato esautorato.
Il 3 dicembre c’è stata un’udienza del processo in cui i figli si oppongono al padre che nel 2011 li ha privati delle loro quote nella società fiduciaria proprietaria di Esselunga. Ma i tempi della giustizia sono eterni. Intanto, Caprotti senior ha annunciato che il 23 dicembre va in pensione. Non seminerà più il panico ogni mattina negli uffici del colosso con 20mila dipendenti e 140 supermercati (due in apertura a Roma, i primi così a sud). Ma c’è da scommettere che, come azionista, continuerà a piombare di sorpresa fra casse e scaffali con le sue ispezioni.
Insomma, alla fine la guerra dei Caprotti verrà decisa all’apertura del testamento. Come in tante famiglie ricche e illustri, dai Berlusconi in giù, con dissidi fra figli di primo e secondo letto.
Lusso fra Londra e New York
E pensare che all’Esselunga fino a dieci anni fa tutto sembrava procedere per il meglio. L’irrequieta Violetta, disinteressata a una carriera aziendale, viveva fra Londra e New York. Due mariti (2004 e 2010), due sfarzosi matrimoni: il primo all’hotel Dorchester con 600 invitati, il secondo con un gallerista belga e ricevimento doppio, a Venezia e Saint Tropez.
Il tranquillo Giuseppe, invece, dopo la laurea in storia alla Sorbona e stages in catene di supermarket negli Stati Uniti, si era fatto strada nell’azienda famigliare. Sotto la sua guida Esselunga si era tolta di dosso l’immagine di catena «dura»: guerra al sindacato, severità con i dipendenti, cassiere che si lamentavano di non potere andare in bagno a fare la pipì. Caprotti junior aveva introdotto vendite online e prodotti biologici.
Poi l’improvvisa rottura, e versioni contrapposte: l’anziano padre accusa il figlio di non far quadrare i conti, il figlio risponde con una spiegazione psicologica tratta dall’Adriano di Marguerite Yourcenar: «Eravamo troppo diversi perché potesse trovare in me quel continuatore docile che avrebbe usato i suoi stessi metodi e fatto i suoi stessi errori. Ma era obbligato ad accettarmi. Ed era un’eccellente ragione per odiarmi».
Mauro Suttora
Monday, November 25, 2013
D'Annunzio socialista: come Grillo
Pochi sanno che il Vate per un anno fu deputato del Psi, e addirittura candidato nel 1900 per il partito allora di estrema sinistra. Usava toni da Grillo, e riuscì a ingannare i dirigenti socialisti. Ma gli elettori bocciarono questa sua capriola
di Mauro Suttora
Sette (Corriere della Sera), 22 novembre 2013
«Sono spinto dal disgusto per gli altri
partiti. Non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere. Ciò
che esiste adesso è nulla, marciume, morte che si oppone alla vita. Bisogna
dapprima saccheggiare tutto».
Beppe Grillo? No: Gabriele D'Annunzio. Era il 1899,
e il Vate passò ai socialisti dopo due anni da deputato di destra. Uno
Scilipoti ante litteram. Non aspettò neppure la conclusione del mandato per
compiere il salto della quaglia, come facevano di solito i trasformisti alla
Depretis per salvare il decoro. Lui, principale precursore e ispiratore del
fascismo, ci mise poco a passare da un estremo all'altro del Parlamento.
L'occasione fu l'ostruzionismo contro le leggi
liberticide del governo Pelloux. «Vado verso la vita!», fu la celebre frase con
cui il poeta giustificò il tradimento. Che non fu di poco conto: i socialisti,
allora, erano gli estremisti dell'opposizione di sinistra (repubblicani,
radicali). Entravano e uscivano di prigione, i cannoni del generale Bava
Beccaris li avevano massacrati durante la rivolta del 1898. E proprio
D'Annunzio era uno dei loro principali zimbelli: odiavano quel poetucolo nano,
strafottente e decadente, idolo della piccola borghesia. Il quale a sua volta
non perdeva occasione per irridere le loro idee di eguaglianza.
Si sta concludendo l'anno dannunziano (150°
dalla nascita, 1863). Quasi nessuno ha ricordato l'anno socialista del poeta di
Pescara, parentesi minima in una turbolenta vita tutta spesa all'estrema
destra: dalla beffa di Buccari all'impresa di Fiume, dal volo su Vienna al ritiro
nel Vittoriale.
Ma, soprattutto, risulta incredibile l'infatuazione dei massimi
dirigenti socialisti, dal direttore del quotidiano Avanti! Leonida Bissolati al segretario Filippo Turati, per il Vate
individualista ed esibizionista. Il quale nei pochi mesi in cui sventolò la
«bandiera color vermiglio» (gli dava noia chiamarla rossa) non abbandonò
affatto le proprie idee da superuomo nietzschiano. Ciononostante, il Psi si
lasciò prendere da un incomprensibile entusiasmo per il convertito. Un po' come
oggi, quando chiunque a destra si opponga a Silvio Berlusconi (da Gianfranco
Fini ad Angelino Alfano) viene immediatamente rivalutato e portato sugli altari
dal Pd.
Gli unici a mantenere un po' d'equilibrio furono
gli elettori di sinistra: fecero subito giustizia di quella banderuola
arrogante, bocciandolo nel collegio fiorentino dove il Psi lo aveva candidato
nelle politiche anticipate dell’agosto 1900.
Ricostruiamo questa grottesca vicenda 'contro
natura' grazie a documenti inediti o dimenticati rinvenuti dal professor
Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, che
sta pubblicando il libro D'Annunzio
socialista. «Il poeta, eletto deputato nel 1897 per la destra in un
collegio della sua terra d'origine, Ortona in provincia di Chieti», ricorda
Alosco, «si batteva per il ripristino della grandezza della patria sul modello
di Roma imperiale. Anelava alla supremazia di una classe dominante che
possedesse virtù aristocratiche, appannate dal dominio della borghesia
bottegaia. Nazionalista, disprezzava profondamente ogni principio democratico».
Cosa provocò, allora, il voltafaccia del 1899?
«L'ostruzionismo della sinistra contro i provvedimenti straordinari proposti
dal governo del generale Luigi Pelloux», spiega il professor Alosco, «al quale
in giugno si unirono anche i liberali illuminati di Giolitti e Zanardelli.
L'ostruzionismo era un metodo fino ad allora sconosciuto nelle nostre aule
parlamentari. Ma era giustificato dalla gravità delle leggi in votazione:
domicilio coatto ripristinato anche per motivi politici, polizia che poteva
vietare riunioni in luoghi pubblici, scioglimento di associazioni ritenute
sovversive, impiegati pubblici militarizzati, restrizioni alla libertà di
stampa».
Fu quest'ultimo provvedimento a urtare la
suscettibilità di D'Annunzio, che scriveva da anni su giornali nazionali: il
governo non poteva limitare la sfera degli uomini di pensiero. Dopo mesi di
grandi turbolenze, il 23 marzo 1900 votò anche lui contro il governo. Più per
motivi estetici che politici. Il giorno dopo, infatti, aderì ufficialmente
all'Estrema sinistra, accolto da un'ovazione, con queste parole: «Da una parte
vi sono molti morti che urlano, dall'altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come
uomo d'intelletto, vado verso la vita».
Tre giorni dopo D’Annunzio riprende la metafora
vivi/morti, oggi cara a Grillo, in un articolo sul Mattino di Napoli diretto dal suo amico-nemico Edoardo Scarfoglio.
Poi vota un ordine del giorno per la scuola laica. Tanto basta ai giovani
socialisti fiorentini per mandargli subito un telegramma: «Studenti plaudono
vostro atto generoso osato in mezzo tanta viltà».
Il Vate si sente già un capo della sinistra. Sull'ostruzionismo
dichiara a un giornale inglese: «Non fuvvi battaglia, ma una ritirata che vale
più di una battaglia […] Non ho alcuna speranza nella pacificazione invocata.
Se avvenisse non potrebbe essere sincera». Non sembra il Berlusconi di oggi?
Il governo comunque, indebolito, per ridimensionare
la sinistra scioglie la Camera e indice nuove elezioni. Il Psi candida
D'Annunzio a Firenze, dove il poeta risiede da due anni nella villa La
Capponcina, a Settignano.
L'Avanti!
di Bissolati si sbrodola: «L'adesione di D'Annunzio all'Estrema ha un alto
significato. L'impulso intellettuale che spinse il finissimo artista a correre
con noi sta ad indicare quanto l'azione dell'Estrema risponda alle ragioni
della dignità civile». Precisa: «Da D'Annunzio ci separa il concetto che noi
abbiamo della vita sociale. Ma ad esso ci uniscono il bisogno di libertà e
l'esigenza di condizioni civili che assicurino il pieno e rigoglioso sviluppo
dell'individuo, così come del corpo sociale».
Nei mesi seguenti l'organo socialista accentua
l'ammirazione per il Vate: «Artista superiore e illustre», «Figura gloriosa di
letterato, poeta, commediografo, romanziere, viva e fulgida gloria d'Italia».
Nota il professor Alosco: «L'Avanti!
dà più spazio a lui che a esponenti di primo piano del partito come Andrea
Costa, cui dedica poche righe di cronaca dei comizi. Ma, soprattutto, pubblica
in prima pagina suoi articoli e ampie recensioni delle sue opere. Nei titoli
usa perfino lo stile aulico dannunziano: 'secondo assalto' invece di ballottaggio,
'vigilia d'armi', 'dopo la lotta'». E pazienza se il Psi, pacifista, detesta
tutto ciò che sa di militarismo.
D'Annunzio pubblica il libro Il Fuoco? Bissolati gli regala un lungo
articolo in prima. «Del tutto inusitato in un giornale politico, figurarsi in
quello del partito socialista», si sorprende Alosco. Il Vate ricambia
sull'unico terreno comune che trova con la sinistra: scrive un'ode a Garibaldi.
E nei comizi tesse elogi degli agricoltori.
Anche Turati considera D'Annunzio un
rivoluzionario sia nell'arte, sia nel sociale. Aveva scritto infatti già nel
1881 sul giornale La Farfalla: «Se lo
lasciano fare è capace del suo bravo colpo di stato artistico, sconvolgendo gli
ordini e le gerarchie costituite». E l'anno dopo: «Coscientemente o incoscientemente,
è socialista e ribelle».
Ciononostante, l'Inimitabile al voto viene
sconfitto: il conte di destra Tommaso Combray Digny raccoglie quasi il doppio
dei suoi suffragi, 1.158 contro 619. D'Annunzio si consola solo per aver
raddoppiato i trecento voti del proprio predecessore candidato di
sinistra.
Dopo il disastro l'infatuazione socialista
scema. D'Annunzio dice al Times dopo
la sconfitta: «Credete che io sia socialista? Io sono sempre lo stesso; fra
quella gente e me esiste una barriera. Sono e rimango individualista ad
oltranza, individualità feroce. Mi piacque entrare un istante nella fossa dei
leoni, ma vi fui spinto per disgusto degli altri partiti. Il socialismo in
Italia è un'assurdità. Da noi non c'è più altra possibile politica che quella
del distruggere». E via, verso nuove avventure. Ingrato.
Mauro Suttora
Wednesday, November 20, 2013
parla McCurry
IL FOTOGRAFO PIU' FAMOSO DEL MONDO
di Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Milano, 13 novembre 2013
Mille persone in fila sotto la pioggia in via San Vittore. Soltanto 180 riescono a entrare nella sala del Museo della Scienza e della Tecnica. C’è una conferenza di Steve McCurry, 63 anni, il fotografo più famoso del mondo. Popolare come una rockstar: la scorsa estate ha parlato a Siena, all’inaugurazione di una sua mostra (prorogata fino al 6 gennaio), stessa folla.
McCurry è diventato una celebrità nel giugno 1985, grazie al ritratto della ragazza afghana. Ma non ha smesso di viaggiare. Ancor oggi si lancia in avventure sconsiderate, in zone di guerra. Perché?
«Suona banale dirlo, ma è per l’adrenalina. Mi eccita schivare le pallottole».
È pericoloso.
«Ma è anche il mestiere più bello del mondo. Lo faccio da 40 anni, non smetterei mai».
Fa più fatica, oggi?
«Al contrario. Con l’esperienza sono diventato più bravo. Forse perché sono basso: riesco a intrufolarmi dappertutto».
Deve passare inosservato?
«Sì. La prima volta che andai in Afghanistan, nel 1978, ero oggetto di una curiosità esotica. Tutti mi si affollavano attorno, curiosi per la mia attrezzatura».
Come fece?
«Aspettavo. La dote principale per un fotografo è saper aspettare. Quando la gente si abitua a me, posso cominciare a lavorare».
Dopo quanto tempo?
«Se sei fortunato, bastano quindici secondi per convincere una persona a regalarti la sua anima. Altrimenti, bisogna attendere che la guardia si abbassi».
E quando si è abbassata?
«Allora fa capolino l’essenza dell’anima, l’esperienza scolpita sul viso di una persona».
Come fa a catturarla con un clic?
«Cerco di far capire cosa vuol dire essere quella persona. Una persona imprigionata in un paesaggio più ampio, cui si può dare il nome di “condizione umana”».
Qual è il suo posto preferito?
«L’India. Fotograficamente, è il Paese più affascinante del mondo. Non ce n’è un altro così ricco e vario per geografia e cultura».
Quante volte c’è stato?
«Circa 85. Mi piace il caos e la confusione di Bombay e Calcutta. Città pazze, quindi fantastiche per lavorarci. Ma tutta l’Asia è più ricca, visivamente, dei Paesi occidentali».
Perché?
«Perché lì la vita scorre per strada. Giocano, lavorano, mangiano, vivono all’aperto. Dove fa più freddo la gente si rintana dentro casa. E nelle città ricche la vita è troppo ordinata e organizzata per essere interessante».
In più, lei vuole la guerra.
«No. Le conseguenze della guerra. È importante che qualcuno le mostri, e che siano conosciute da tutti».
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