Monday, April 26, 1999

Sprechi militari: trucchi e disastri dei nostri generali

SPRECHI MILITARI: TRUCCHI E DISASTRI DEI NOSTRI GENERALI

di Mauro Suttora

Erba, 26 aprile 1999

L’aereo Usa Stealth «pseudoinvisibile» caduto in Serbia costava 70 miliardi. Se questa cifra vi è sembrata assurda per un solo velivolo, seppure da guerra, tenetevi forte: l’Italia sta per comprare ben 130 aerei Eurofighter 2000 (Efa) al prezzo di 160 miliardi l’uno. Spesa totale: 20.400 miliardi. «Come, tutti questi soldi all’Aeronautica e a noi nulla?», hanno allora protestato invidiosi gli ammiragli della Marina. Subito accontentàti: la commissione Difesa della Camera ha approvato un anno fa la costruzione di una portaerei da quattromila miliardi.

Sono solo due esempi degli sprechi enormi che caratterizzano le nostre Forze armate. Le quali, imbaldanzite dalla guerra in Kosovo, ne approfittano per battere cassa. Tutto questo nel silenzio dei mass media, di destra e di sinistra. Anzi, un settimanale come l’Espresso ha dedicato l’unico articolo sui bilanci militari a una lamentela per la loro supposta esiguità da parte del generale Pietro Giannattasio, deputato di Forza Italia. «La caratteristica più impressionante della commissione Difesa», conferma Mauro Paissan, che vi rappresenta i verdi, «è il clima da unità nazionale che la pervade. È l’unica commissione dove non c’è mai divisione fra maggioranza e opposizione».

L’acquiescenza dei Ds di fronte alle pretese dei generali è dimostrata da due recenti episodi. Nell’ultima legge finanziaria, il ministero della Difesa è stato l’unico a non dover ridurre del 5 per cento gli stanziamenti per gli investimenti. E in marzo a Roma i diessini hanno organizzato un convegno ipotizzando una cifra di 160mila soldati per il prossimo esercito professionale, senza più giovani di leva. Un livello non lontano dai 210mila richiesti dalle gerarchie militari e avallati dal ministro della Difesa, il cossighiano Carlo Scognamiglio. «Ma spropositato rispetto alle reali esigenze dell’Italia, per le quali in realtà bastano meno di centomila uomini».

Le gerarchie in uniforme, invece, vagheggiano una forza d’intervento da media potenza, e vorrebbero scimmiottare inglesi e francesi: 70mila soldati professionisti sempre pronti a partire, «ready to combat», con «capacità di proiezione autonoma» in tutto il mondo. Totale, moltiplicato per rispettando gli standard militari sui cambi e la logistica,: 210mila militari. 

Il sospetto, naturalmente, è che i nostri generali più che alla difesa della Patria pensino a quella della propria poltrona: perché sono loro stessi un piccolo esercito di 400 persone, contro i 350 generali degli Stati Uniti. Quanto agli ufficiali, oggi ne abbiamo 29.100, ma un decreto legge del ‘97 stabilisce che devono diminuire a 21.900 entro otto anni. «Lancio una parola d’ordine: cassa integrazione e prepensionamento per gli alti gradi delle forze armate», propone Paissan, «perché il loro sovrannumero è la vera motivazione delle cifre folli fatte da Scognamiglio».

Stefano Semenzato, unico verde nella commissione Difesa del Senato, abbassa ancora di più il numero: «Alle missioni armate Onu di interposizione all’estero l’Italia può contribuire degnamente con un corpo di 20mila uomini. E anche triplicando questa cifra,  si arriva a 60mila».

Cifre gonfiate per gli organici, e truccate per i bilanci. Dieci anni fa è caduto il muro di Berlino, l’impero sovietico si è liquefatto, vari eserciti dell’Est sono stati accolti nella Nato: venuta meno la principale minaccia alla nostra sicurezza, avremmo potuto incassare i cosiddetti «dividendi della pace», riducendo le spese militari. Invece no. Come denuncia un informatissimo documento della Campagna Venti di Pace curato da Marco Donati, mentre fra il 1990 e il ‘97 la Germania ha diminuito i propri bilanci militari del 30%, gli Usa e la Gran Bretagna del 26% e la Francia dell’8, il risparmio per l’Italia è stato appena del 5%. La Nato informa che siamo stati gli unici, assieme a Turchia e Grecia (bella compagnia) ad aver aumentato le spese militari rispetto al Pil: dall’1,8% del 1995 (per un totale di 30mila miliardi) al 2% dell’anno scorso (40mila miliardi.

Sempre secondo i dati Nato, certo non sospetti di pacifismo, ogni cittadino statunitense ha pagato nel 1997 ben 400 dollari in meno rispetto al 1990 per la difesa, un tedesco 330 in meno, un britannico quasi 200 e un francese circa cento in meno; un italiano, invece, ne spende a malapena 39 in meno. Insomma, le manovre finanziarie «lacrime e sangue» degli anni Novanta hanno risparmiato soltanto le manovre militari.

Ma c’è di più: il bilancio italiano della Difesa è falso. Le gerarchie militari, infatti, per farlo apparire più leggero, caricano molte spese su altri dicasteri. Quello dell’Industria, per esempio, nel ‘97 si è accollato ben 393 miliardi così distribuiti: 96 per l’«aggiornamento» di 15 elicotteri armati da combattimento A-129, 24 per acquistare due aerei Do-228, 78 per dotare una cinquantina di velivoli di un «efficace sistema di autoprotezione integrato»,,fino al 2008), viene anch’essa coperta dai fondi d’accantonamento del ministero dell’Industria, guidato dal generoso diessino Pierluigi Bersani. 

«Il programma Efa è un vero scandalo», sottolinea Semenzato, «sia perché costa cifre incredibili extrabilancio, sia perché quando saranno pronti quegli aerei saranno già vecchi: fra pochi anni gli Usa avranno velivoli di una generazione superiore, i Joint strike fighters, costati la metà di ciascun Eurofighter, come ha dovuto ammettere lo stesso ex ministro della Difesa Beniamino Andreatta». Non a caso la Francia si è tirata fuori dal programma Efa e sta sviluppando autonomamente il proprio Rafale (alla faccia dell’Europa unita), e la Germania fino all’ultimo ha messo in forse la sua partecipazione al consorzio con l’italiana Alenia, la British Aerospace e la spagnola Casa.

«Ci sono poi gli aerei Amx», continua Semenzato, «un programma italo-brasiliano che si trascina dal 1974, con apparecchi costati 54 miliardi l’uno, ma dei quali a tutt’oggi non è stato completato l’ammodernamento: 40 su 112 giacciono incellophanati negli hangar, e vengono usati come miniere di pezzi di ricambio per gli altri». 

Infine, l’opera buffa: quasi 1.300 miliardi richiesti dai generali per comprare 13 aerei Stovl a decollo verticale. Da piazzare sulla portaerei citata all’inizio dell’articolo, che gli ammiragli vorrebbero battezzare Luigi Einaudi: una scelta bizzarra, quella di dedicare un monumento dello spreco proprio al più rigoroso fra i presidenti della Repubblica.

Ma perché gli aerei a decollo verticale, e non quelli normali? Perché il trattato di pace firmato dopo la Seconda guerra mondiale proibisce agli Stati perdenti (Italia, Germania e Giappone) di avere portaerei. Così, con i nostri soliti giochi di parole, abbiamo messo elicotteroni da 94 miliardi su una quasi portaerei. Il capo di stato maggiore della Marina sogna «di operare non soltanto in tutto il Mediterraneo, ma anche di partecipare a operazioni su scala più ampia: in particolare in Corno d’Africa, oceano Indiano e golfo Persico».

Attendendo di combattere sull’intero orbe terracqueo, ci consoliamo buttando 1.700 miliardi per il carrarmato Ariete, carro di seconda generazione inadeguato secondo gli stessi militari alle loro esigenze (gli altri Paesi sono arrivati alla terza generazione di panzer), e che richiede quindi ulteriori interventi: nel solo 1997 sono stati spesi 11 miliardi per rinforzare la corazzatura di 25 esemplari, al costo di quasi mezzo miliardo l’uno. 

Oppure il nuovo sommergibile autarchico S-90 studiato dalla Fincantieri: il suo costo aveva raggiunto livelli così inaccettabili che è stato più conveniente comprare i sommergibili tedeschi U-212. «Con buona pace di tutti i miliardi spesi nel frattempo, oltre ai 1.750 miliardi necessari per le due nuove unità», commentano i ricercatori di «Venti di pace».

Come uscire da questo guazzabuglio di sperperi? «La soluzione è l’Europa», afferma Semenzato, «perché le nostre forze armate si devono integrare fortemente con quelle dell’Unione. Solo così si eviteranno inutili doppioni. Altro che “capacità di proiezione autonoma” della sola Italia!» 

L’altro nodo sul tappeto è quello dell’abolizione della leva. «Non sono contrario in linea di principio, non è più tempo di golpismo», concede Paissan. Ma, come abbiamo visto, i numeri proposti dai verdi (i ventimila del «nocciolo duro» di pronto intervento con bandiera Onu) sono molto lontani da quelli «governativi»: rappresentano appena il 10 per cento dell’armata di oltre 200mila soldati professionisti sognata dalle gerarchie militari.

«Il ministro Scognamiglio prevede solo 1.500 miliardi in più per l’esercito professionale», spiega Massimo Paolicelli, portavoce dell’Associazione Obiettori Nonviolenti, «ma sono stime fasulle, perché a queste bisogna aggiungere i costi del migliore equipaggiamento dei volontari, un casermaggio decente, la formazione, i lavori di corvée da appaltare all’esterno, il venir meno dei 60mila giovani in servizio civile nella pubblica amministrazione”.

Spese militari in % sul pil:

      1995       1998

Italia 1,8 2,0

Germania 1,7 1,5

Francia 3,1 2,8

Olanda 2,0 1,8

Norvegia         2,4 2,1

G.Bretagna 3,1 2,7

Spagna 1,5 1,3

Portogallo 2,7 2,4

Canada 1,6 1,2

Stati Uniti 4,0 3,3

(fonte: Nato Review n.1, 1999)


Aumento della spesa militare dell’Italia (miliardi di lire):

1995: 31.561

1996: 36.170

1997: 38.701

1998: 40.089

(fonte: Nato Review n.1, 1999) 

Wednesday, April 21, 1999

Dopo la strage del Monte Bianco

LE GALLERIE SONO GIUNGLE PER LE CARICHE DI BISONTE SELVAGGIO

di Mauro Suttora

21 aprile 1999

«L’ultimo incendio lo abbiamo avuto domenica scorsa...». Come, dopo la strage del Monte Bianco c’è stato un incendio anche nella vostra galleria e nessuno ha saputo niente? 
«Guardi, qui da noi fra princìpi di incendio e incidenti vari ne abbiamo in media tre alla settimana. Ma è quello che succede normalmente in tutte le strade e gallerie del mondo. L’importante è che i singoli incidenti non si trasformino in disastri. E questo, grazie ai nostri sistemi di sicurezza, è impossibile».

È rassicurante, il geometra Paolo Manzo dell’Anas, responsabile dei 18 chilometri di galleria sulla strada statale 36 fra Lecco e Colico, incubo e delizia di tutti i lombardi che devono raggiungere la Valtellina: Sondrio, Madesimo, Bormio o Sankt Moritz. 
Incubo, perché fino al prossimo 25 ottobre (data in cui finalmente aprirà la nuova galleria di Monte Barro) decine di migliaia di macchine sopporteranno, come fanno da dieci anni, code di ore ogni fine settimana per l’attraversamento di Lecco; delizia, perché grazie ai tunnel che coprono il 42 per cento del tracciato lungo il ramo orientale del lago di Como (quello del Manzoni), la Valtellina si è avvicinata al mondo.

Come si può vedere nella cartina che pubblichiamo, la Lecco-Colico è una galleria «a doppia canna», per usare le parole degli esperti. Ha cioè due tunnel paralleli, uno per ogni senso di marcia. E questo, come si è purtroppo constatato dopo il disastro del traforo del Monte Bianco (a galleria unica), la rende automaticamente sicura. 

Ma quanto ci si può fidare di tutte le altre gallerie italiane? D’ora in poi dovremo entrare sempre col batticuore nei 1.200 tunnel della rete stradale Anas, o nei 150 chilometri di gallerie autostradali, o nei ben 1.200 chilometri di trafori ferroviari (senza contare i 60 chilometri di metropolitane)?

«Di per sè, le gallerie sono sicure», risponde Dario Balotta, uno dei massimi esperti sindacali del trasporto in Italia. «I claustrofobici possono detestarle, ma non ricordo notizia di crolli improvvisi che abbiano provocato vittime. Dopo il Giappone, siamo il Paese che ne ha di più al mondo. Quelle ferroviarie, in particolare, non hanno mai causato problemi, a parte la bomba sull’Italicus nella galleria di San Benedetto di Val di Sambro del ’74, che però fu un atto terroristico isolato. Eppure, l’85 per cento dei tunnel ferroviari sono stati costruiti prima del 1940, e il 60 per cento addirittura prima del 1905. Ma resistono benissimo».

Diverso è il discorso per le gallerie stradali. Su queste, Balotta è molto meno rassicurante. E punta il dito sui Tir: «Tutti coloro che viaggiano in autostrada nei giorni feriali si rendono subito conto che ormai il sistema sta arrivando al collasso. I Tir sono già troppi, e non è piacevole vederseli davanti o dietro a velocità spesso folli mentre si cerca di viaggiare tranquilli. E quando si entra nelle gallerie, spesso il viaggio in automobile si trasforma in un incubo: chilometri e chilometri di enormi camion incolonnati occupano costantemente una corsia e, non di rado, compiono azzardi anche in quella di sorpasso. 
Per di più, tutto ciò peggiorerà: la Commissione europea, infatti, stima che entro l’anno 2010 il Nord Italia subirà un traffico di attraversamento dei valichi alpini di 176 milioni di tonnellate di merci all’anno, contro i 101 del 1992».

Noi automobilisti siamo quindi impotenti contro le imprudenze dei camionisti, come si è visto sotto il Monte Bianco. Certo, possiamo mantenere le distanze di sicurezza anche in galleria, magari raddoppiarle, rispettare noi stessi i divieti di sorpasso invece di scalpitare nervosi contro i gas di scarico dei bisonti della strada. Però, in prossimità di una galleria, se ci sentiamo stretti fra un Tir e l’altro, c’è poco da fare: meglio non azzardare sorpassi in extremis. E accostare nella corsia di emergenza soltanto per lasciarci superare è espressamente vietato (ma, per carità, fatelo pure, se vi accorgete che il camion di fronte a voi sta lasciando una scia di fumo!).

Stabilito quindi che la pericolosità delle gallerie non dipende dalle gallerie stesse, ma dal traffico che vi scorre dentro, si deve però dire che alcuni tunnel sono più sicuri di altri. Il traforo del Gran Sasso, per esempio, è meglio di quelli alpini perché ha due gallerie. Certo, sotto le viscere del monte ospita anche un laboratorio atomico del Cnr, e in caso d’incendio chissà quali fuochi d’artificio si sprigionerebbero. 
Tuttavia, è evidente che l’esistenza di una galleria parallela rappresenta una grossa garanzia. Per tre motivi: impedisce gli scontri frontali, rappresenta una via di fuga in caso d’incendio, e perché la corrente d’aria e i sistemi d’areazione permettono di respirare, senza morire soffocati dal fumo com’è successo alle 50 vittime del Monte Bianco.

«Attenzione, però», avvertono gli esperti, «perché avere due gallerie parallele è inutile se i bypass [cioè le aperture che collegano un tunnel all’altro, ndr] sono troppo pochi, o troppo distanziati fra loro, o non è chiaramente indicata sulle pareti la loro esistenza, ubicazione e lontananza, con frecce che indirizzino gli eventuali appiedati verso quello più vicino. Ovviamente, sono inservibili ai fini dell’emergenza anche le gallerie scavate una sopra all’altra, su piani diversi». 
Comunque, sono doppi tutti i tunnel delle autostrade, e 141 chilometri su 482 delle gallerie Anas.

I trafori alpini, invece (oltre al Bianco, che risale al 1965, ci sono il Fréjus dell’80, il Gran San Bernardo del ’64 e il San Gottardo, tutto svizzero, dell’80), sono a galleria unica. Il San Gottardo, che con i suoi 16 chilometri è il tunnel stradale più lungo del mondo (il Channel Tunnel sotto la Manica, del ’94, è ferroviario: le auto salgono sopra i vagoni, come sul nostro Sempione), ha però una galleria di servizio pressurizzata parallela che permette la fuga a piedi. Per accedervi ci sono, ogni 250 metri, portelloni che in caso d’emergenza si richiudono automaticamente. Inoltre, quattro pozzi intermedi bucano la montagna per centinaia di metri fino alla superficie, garantendo una ventilazione supplementare.

Domandiamo al responsabile della sicurezza, l’ingegner Mario Gagliardi, se, in caso d’incendio, questi pozzi non rischiano di funzionare da camini, con relativo tiraggio e quindi invasione di fumo: «Certo, servono a liberare la galleria dal fumo, ma poiché sono divisi a metà, garantiscono anche l’afflusso di aria pulita. Noi, però, a differenza del Bianco, abbiamo il condotto di ventilazione protetto da una soletta sopra la galleria. Quindi, anche in caso di temperature altissime, la ventilazione non si blocca».

Anche nel Gottardo, come nella Lecco-Colico e in tutti i tunnel più recenti, costruiti negli ultimi vent’anni, ci sono colonnine d’emergenza con telefono, telecamera ed estintore. Ed è garantita la copertura per i telefonini cellulari. Ma adesso, con la chiusura almeno per sei mesi del traforo del Bianco, sulla direttrice Milano-Chiasso-San Gottardo-Germania si aspetta un aumento del traffico nord-sud, che non si dirotterà tutto sul Fréjus.

Ancora una volta, comunque, il vero problema sono i Tir: «In Svizzera non possono passare quelli superiori a 28 tonnellate», ci spiega l’ingegner Gagliardi, «anche se le potentissime lobbies degli autotrasportatori italiani e tedeschi premono sul nostro governo per fare avere il via libera anche ai “mostri” da 40 tonnellate. Purtroppo, in vista di una futura adesione della Svizzera all'Unione europea, dal 2001 il loro transito sarà consentito. E questo provocherà un aumento intollerabile dell’inquinamento nelle strette valli del Ticino e di Uri. Certo, come gli austriaci potremo imporre alte tasse di transito, maggiori delle 280 mila lire che costava il passaggio dal Monte Bianco. Ma senza un cambiamento della politica europea dei trasporti, con il potenziamento delle ferrovie, verremo invasi».

La soluzione arriverà soltanto nel 2012, quando entrerà in funzione il nuovo tunnel ferroviario del San Gottardo, lungo ben 50 chilometri (un altro record mondiale), per il quale sono iniziati i lavori pochi mesi fa: i camion verranno obbligati ad attraversare le Alpi salendo a bordo di treni speciali. Così non si ripeterà per il Gottardo l’insostenibile aumento di Tir (dai 450 mila nell’85 agli 835 mila del ’93), che è stato la principale causa della strage sotto il Monte Bianco.
Mauro Suttora

Wednesday, April 07, 1999

Il padre di Hitler era ebreo

PER QUESTO IL FUHRER RASE AL SUOLO IL SUO PAESE IN AUSTRIA

«A Dollersheim era nato suo padre, ufficialmente figlio di N.N., probabilmente di un ebreo», ci dice Franz Eigl, uno dei 7mila abitanti costretti ad andarsene nel 1938, dopo l'annessione nazista. «Trasformò la regione in una zona militare: lo è ancor oggi». I retroscena di una delle pagine più oscure del nazismo

dal nostro inviato Mauro Suttora
foto di Gianni Gelmi

Oggi, 9 aprile 1999

L'ultimo mistero di Adolf Hitler, a 110 anni dalla nascita, è sepolto qui, sotto le rovine del villaggio fantasma di Dollersheim. Sulle cartine di oggi non esiste, o al massimo è indicato fra parentesi, perché 61 anni fa venne cancellato. Inghiottito dalla furia dei nazisti tedeschi che nel 1938 annessero l'Austria, quattro anni dopo averne assassinato il cancelliere Engelbert Dolfuss.

Una enorme area di 24mila ettari attorno a Dollersheim venne requisita, e settemila contadini austriaci furono costretti ad andarsene. Arrivarono panzer, Ss e bandiere con la svastica. La zona fu trasformata in un immenso poligono di tiro: la più grande area di esercitazioni militari del Terzo Reich. Villaggi e fattorie furono poco a poco distrutti da bombe e granate.

Qualcosa rimase in piedi, ma poi arrivarono i sovietici che occuparono questa parte di Austria 150 km a nordovest di Vienna, vicino al confine boemo. Incredibilmente, però, anche nei decenni seguenti e fino a oggi, l'area è rimasta in mano ai militari austriaci per le loro manovre. Tuttora l'ingresso è vietato, e un grande cartello in quattro lingue ci blocca la strada due chilometri prima delle rovine di Dollersheim.

In una fattoria vicina ci spiegano che l'esercito apre eccezionalmente la strada soltanto durante poche ore per qualche giorno all'anno, nei periodi di calma fra un'esercitazione e l'altra.

Si è fatto tardi, è buio, raggiungiamo la cittadina di Zwettl. Proviamo a entrare nella biblioteca che si trova nella piazza centrale, e alla bibliotecaria domandiamo se si possono consultare libri o documenti su Dollersheim. «Perché?», ci chiede sospettosa.

Lei lo sa il perché. Lo sa benissimo. Nei 50mila libri, saggi e articoli pubblicati su Hitler sta scritto che il padre del dittatore, Alois, nacque proprio in questo villaggio austriaco nel 1837. Forse la signora ci ha preso per nostalgici nazisti. Le spieghiamo che siamo giornalisti e che veniamo apposta da Milano per indagare sull'ultimo mistero di Hitler: suo padre.

La signora si tranquillizza, ma sussurra: «Noi non abbiamo nulla su questo argomento. Provate domani in Comune. Però sappiate che qui la gente non ama parlare di Hitler».

Perché? «È ancora una questione imbarazzante, visto l'entusiasmo con cui molti austriaci accolsero i nazisti dopo l'Anschluss del 1938».

Ancora più imbarazzanti, però, dovevano essere le origini di suo padre per Hitler stesso, che fece evacuare e distruggere la sua "Vatersheimat", il paese paterno, soltanto poche settimane dopo esserne entrato in possesso. E a ragione. Innanzitutto perché il vero cognome di Alois non era Hitler, ma Schicklgruber. Ve li immaginate settanta milioni di tedeschi a gridare «Heil Schicklgruber!»? Ridicolo, peggio del Grande Dittatore di Charlie Chaplin.

Eppure il padre di Hitler, ciabattino e poi doganiere, cambiò il suo nome da Schicklgruber in Hiedler e poi in Hitler soltanto nel 1877: appena dodici anni prima che venisse al mondo Adolf, nato dal suo terzo matrimonio con l'ex donna di servizio Klara Polzl.

Questa girandola di cognomi nasconde altri motivi di vergogna per Hitler. Suo padre era figlio di N.N. La nonna Maria Anna Schicklgruber, infatti, povera contadina di Dollersheim, iscrisse Alois alla parrocchia del paese, che fungeva da anagrafe, dandogli il proprio cognome.

E su questo particolare gli storici si sono scatenati. Da poco è stato pubblicato in Italia Il mistero di Hitler (Mondadori) scritto da Ron Rosenbaum, il quale rilancia una sconvolgente ipotesi: il nonno paterno del Furher era ebreo.

L'ormai quarantenne e nubile Maria Anna Schicklgruber, infatti, nel 1836 era a servizio come cuoca presso la ricca famiglia ebrea Frankenberger di Graz. Il figlio 19enne di Frankenberger mise incinta la donna e il padre, per tacitare lo scandalo, accettò di pagare a Maria Anna, tornata al paese natio, un assegno di mantenimento per il piccolo Alois fino al compimento dei 14 anni.

Questa ricostruzione è opera di Hans Frank, avvocato personale di Hitler, poi ministro della Giustizia del Terzo Reich e infine governatore della Polonia occupata, dove sterminò milioni di ebrei. Per questo Frank fu condannato a morte nel 1946 al processo di Norimberga e giustiziato.

Ma, prima di essere impiccato, scrisse un memoriale di mille pagine pubblicato nel 1953 e conservato oggi a Gerusalemme, nel museo dell'Olocausto.

Fu lo stesso Hitler, nel 1930, a ordinare a Frank di indagare sulle proprie origini, perché era vittima di un ricatto da parte del figlio del proprio fratellastro: questi lo minacciava di rivelare che il sangue che aveva nelle vene era per un quarto ebraico. Così Frank spedì dei collaboratori in Austria, e questi scoprirono la verità più scandalosa che si potesse concepire per il campione dell'antisemitismo.

Quando Frank gli riferì il risultato delle ricerche genealogiche, il Fuhrer si mise a strepitare: «Non è vero! Mio padre mi rivelò di essere il frutto della relazione di sua madre con Georg Hiedler, un mugnaio di Dollersheim che lei sposò cinque anni dopo. Sì, Maria Anna Schicklgruber lavorò dai Frankenberger, ma questi la pagarono soltanto perché  lei li ricattò, fingendo che il padre fosse il giovane Frankenberger».

In questo labirinto di sordidi ricatti, avvenuti a un secolo di distanza l'uno dall'altro, si inserisce un altro particolare certo: il piccolo Alois Schicklgruber non fu allevato da sua madre e da Hiedler, ma dal fratello di questi, Johann Nepomuk Huttler, un contadino un po' più agiato e già sposato.

La differenza dei cognomi fra i due fratelli non stupisca: le anagrafi di campagna in quell'epoca, in una delle zone più arretrate dell'impero austriaco, non erano un modello di precisione.

Ma perché, se veramente fosse stato il padre di Alois, Georg Hiedler non lo riconobbe quando sposò Maria Anna nel 1842? E perché Alois tornò a Dollersheim solo all'età di 40 anni, quando grazie a due testimoni si fece cambiare il cognome da Schicklgruber in Hiedler e poi, non ritenendolo abbastanza 'marziale', in Hitler? Mistero.

Ricapitolando, finora sono tre i nonni possibili di Adolf Hitler: l'ebreo Frankenberger, Hiedler o lo "zio" Huttler (tutti cognomi comunque sospetti per un antisemita perché derivanti, come il più diffuso Hutter, dalla comune radice ebraica "hut", "cappello").

Ma le supposizioni non finiscono qui. Perché, come in ogni storia di contadine che si rispetti, c'è anche la possibilità che il vero padre di Alois fosse il principe del vicino castello di Ottenstein.

Infine, una vera bomba: secondo l'industriale Fritz Thyssen, il capo del nazismo avrebbe avuto come nonno paterno addirittura un barone Rothschild di Vienna, di cui Anna Maria Schicklgruber fu pure domestica. Lo avrebbe scoperto il cancelliere austriaco Dollfuss, che anche per questo sarebbe stato eliminato da Hitler.

Ma quest'ultima ipotesi è considerata la più romanzesca, anche se è stata avanzata da un professore dell'università di Harvard, Walter Langer, in un rapporto reso pubblico nel 1972.

«In ogni caso Hitler si vergognava di suo padre, di sua nonna e di Dollersheim», ci spiega Franz Eigl, 75 anni, uno dei pochissimi anziani di Zwettl che accetta di parlare di quel periodo. «Non voleva che la sua "patria ancestrale" si trasformasse in luogo di pellegrinaggio. Per questo, poche settimane dopo l'Anschluss, fece evacuare Dollersheim.

«Ufficialmente la scusa fu che c'era bisogno di un campo d'addestramento vicino alla Cecoslovacchia in vista dell'invasione [che avvenne nell'aprile 1939, ndr], ma sarebbe stata una coincidenza incredibile. Hitler in realtà voleva coscientemente distruggere Dollersheim. Gli abitanti furono indennizzati con buoni del tesoro, che con la guerra diventarono carta straccia. Io c'ero, avevo 13 anni, e ricordo che i nazisti  fecero chiudere anche tutte le scuole private della zona».

Nonostante i divieti d'entrata e di foto imposti dai militari, entriamo nella zona proibita di Dollersheim. È rimasta in piedi solo la chiesa, con metà campanile. La vicina dimora del parroco, invece, è completamente sventrata. I registri anagrafici con le vergogne di Hitler erano conservati lì dentro. Fotografiamo anche ciò che rimane dell'ospedale.

Il silenzio è spettrale. Le rovine coperte d'erba sembrano quelle di Roma antica, invece testimoniano una tragedia avvenuta appena 50 anni fa. Entriamo nel cimitero dietro la chiesa, con qualche brivido. A Zwettl, infatti, Rupert Leutgeb, uno studioso della storia locale, ci ha procurato la foto della tomba di Maria Anna Schicklgruber.

Ma sulla croce della tomba della nonna di Hitler i nazisti avevano compiuto un falso storico, indicandola come Maria A. Hitler, cognome di cui lei non sentì mai parlare. Infatti la Schicklgruber (e anche il suo tardivo marito Hiedler) morì molti anni prima del giorno in cui suo figlio Alois ripudiò il cognome materno, scegliendo quello che avrebbe sparso il terrore nel mondo.

Quella croce non è più al suo posto: è stata divelta dalla tomba, privata della scritta e appoggiata a un muro dell'abside. Un estremo insulto ha cancellato per sempre la memoria di quella contadina.
Mauro Suttora


Monday, March 08, 1999

Energie alternative

VENTO, SOLE, BIOMASSA

settimanale 'Erba', organo dei Verdi, 8 marzo 1999

VENTO (Benevento)

Combatte contro i mulini a vento, ma non è affatto un Don Chisciotte: Gianfranco Marcasciano, sindaco di San Bartolomeo in Galdo (Benevento), paese di seimila abitanti al confine fra Campania, Puglia e Molise, è riuscito a bloccare una centrale eolica della potente multinazionale giappoamericana Ivpc (Italian vento power corporation). Il suo consiglio comunale l’ha bocciata, anche se in cambio San Bartolomeo avrebbe avuto una nuova palestra (valore: un miliardo e 200 milioni), la bonifica di una discarica (400 milioni) e lo sgombero della neve (cento milioni).

Che questa provincia sia l’ideale per sfruttare l’energia eolica lo dice la parola stessa: «Benevento». Ma è tutta la dorsale appenninica dall’Aquila fino a Potenza a garantire il vento forte e stabile necessario a far muovere le turbine eoliche. La Ivpc ha già installato centrali a vento in molti paesi della Val Fortore: Montefalcone (26 megawatt), San Giorgio la Molara (venti Mw), Molinara (14), San Marco dei Cavoti (11), Baselice (sette), Foiano (cinque megawatt). Anche in provincia di Foggia, nel subappennino dauno, il vento produce elettricità a Sant’Agata (25 megawatt), Monteleone (17 Mw), Anzano (sette) e Alberona (tre megawatt). Oltre alla Ivpc, c’è anche una società italiana impegnata nell’eolico: la Wind Power della Riva Calzoni, di cui la Montedison ha acquistato il 60% tre mesi fa, e che produce le turbine a Foggia.

È un settore promettente, che però deve fare i conti con l’opposizione guidata dal quotidiano Il Sannio: «Gli abitanti e gli enti locali sopportano l’inquinamento visivo e acustico», spiega Michele Raffa della Cispel Services, «ma non vedono il ritorno di questo sacrificio. Per far sì che le fonti rinnovabili siano accettate bisogna che almeno una parte degli utili prodotti venga reinvestita in loco, per valorizzare i prodotti agroalimentari e il turismo». Invece, sanniti e dauni vedono le proprie montagne deturpate per produrre elettricità che poi finisce in gran parte a Napoli e Bari.


SOLE (Stromboli)

I pannelli della centrale fotovoltaica avrebbero coperto 6.500 metri quadri di terreno sui fianchi del vulcano. «E poi c’era un capannone di cinque metri d’altezza per 15 di lunghezza, tutto in lamiera metallica. Ma siccome lo volevano verniciare di verde, l’hanno definito ”ecocompatibile”», ironizza il tedesco Ulrich Stulgies, iscritto ai verdi nella sezione Eolie, uno dei venti abitanti di Ginostra d’inverno.
Ginostra è un paesino sull’isola di Stromboli, dalla parte opposta rispetto al capoluogo. È raggiungibile solo via mare, ma il piccolo molo permette l’attracco di un’unica barca per volta. Così le navi da Lipari e Panarea si fermano in mezzo al mare, e i passeggeri devono scendere su una scialuppa per arrivare a Ginostra. Questo isolamento è assai apprezzato dai turisti, che in agosto fanno aumentare la popolazione fino a 600 abitanti. L’elettricità è prodotta da generatori o da pannelli fotovoltaici casa per casa. Per l’acqua calda e il riscaldamento ci sono pannelli solari termici.

È il classico caso in cui il chilowattora fotovoltaico risulterebbe economicamente conveniente. «Ma come al solito l’Enel ha voluto imporre il proprio impianto senza consultare nessuno», spiega Francesco Ferrante di Legambiente, «e poiché quell’area era prevista a riserva naturale, la centrale è stata bloccata dall’assessorato all’Ambiente della regione Sicilia». «Era un impianto mostruoso sovradimensionato per le nostre esigenze», aggiunge Stulgies, «perché qui non c’è molto spazio. Oltretutto, altri mille metri quadri lì accanto sarebbero stati mangiati da una seconda piattaforma di eliporto imposta in deroga alla riserva dal ministero degli Interni, al solo scopo di far atterrare due volte al mese l’elicottero del tecnico che controlla un sismografo del Cnr. In totale, quindi, un quarto della riserva del Timpano sarebbe stata distrutta».

Proprio il mese scorso il ministero tedesco dell’Industria e della Scienza ha ritirato il finanziamento di due miliardi e mezzo che cinque anni fa era stato messo a disposizione del progetto, in cambio dell’utilizzo di prodotti Siemens e Telefunken made in Germania. E adesso? «Che lo Stato ci aiuti almeno nella manutenzione dei pannelli solari installati dieci anni fa con fondi Ue: dobbiamo sostituire gli accumulatori», chiede Stulgies. «Oppure, che si installi un cavo sottomarino per portare l’elettricità da Stromboli: il deputato verde Sauro Turroni aveva ottenuto dalla Pirelli un preventivo di poco più di due miliardi».


BIOMASSA (Forlì)

Il gruppo Marcegaglia (Emma, figlia del fondatore Steno, guida i giovani di Confindustria) vuole realizzare, accanto al proprio tubificio di Forlimpopoli (Forlì), un impianto che, bruciando 250mila tonnellate all’anno di materiale di origine legnosa, produca venti megawatt di elettricità con il metodo della biomassa. La pratica è stata presentata lo scorso 20 ottobre, e il progetto è attualmente sottoposto a Via (Valutazione di impatto ambientale) da parte della regione Emilia-Romagna.

Intanto, però, il comune di Forlimpopoli ha già dichiarato la propria contrarietà, spinto da un comitato che ha raccolto ben 12mila firme contro il bruciatore. Molte, visto che la stessa Forlimpopoli non arriva a 12mila abitanti. «L’opposizione è provocata da una concentrazione di progetti considerata eccessiva nell’area industriale Villaselva, posta tra Forlì e Forlimpopoli», spiega Maria Luisa Bargossi, ds, assessore provinciale all’Ambiente. «Nella stessa zona è prevista infatti anche la realizzazione di uno scalo merci ferroviarioe di un nuovo tracciato per la via Emilia-bis. Si verrebbe quindi a creare, secondo gli oppositori, un fenomeno di congestione ambientale con consumo di terreno agricolo, e ulteriore inquinamento atmosferico e acustico».

Il fatto che l’impianto di biomassa sia inserito in una zona già industriale non lo salva dalla contestazione. «Forlimpopoli è un comune piccolo, ma con una forte attività agroindustriale», dice l’assessore Bargossi, «e lo zuccherificio e la distilleria già presenti sono energivori e idroesigenti. Le prime case distano 500 metri dalla zona industriale, il centro è a due chilometri. Gli abitanti temono il viavai dei camion per l’approvvigionamento della centrale. Però non tengono conto che, proprio in quanto zona agricola, la provincia di Forlì-Cesena produce comunque migliaia di tonnellate di residui delle potature degli alberi da frutta e delle viti, e di altri scarti legnosi dalle attività forestali. E questi vengono comunque bruciati nei campi o gestiti in forma non controllata.

Molto meglio, allora, distruggerli ottenendo contemporaneamente energia elettrica. Inoltre gli agricoltori otterranno un prezzo per il materiale conferito. È per questo che l’Unione europea classifica come “rinnovabile” il metodo della biomassa legnosa e lo considera a emissione «zero» di co2. Ormai la gente è contro gli inceneritori in generale, qualunque cosa brucino. Ma la Provincia baserà il suo parere su un bilancio ambientale più ampio, che terrà conto del parere di via emesso dalla regione, dell’opinione dei comuni interessati, e dei potenziali vantaggi per l’intera provincia».

Mauro Suttora

Monday, February 01, 1999

Vip e mattone

Non per soldi ma per passione

Casa: anche per i vip il mattone e' un fattore di sicurezza piu' che di prestigio. E a dispetto di Visco e delle tasse nessuno intende rinunciarci. Anzi

Capital, 01/02/1999

di Mauro Suttora

La storia e' sempre la stessa: il fisco vorace che minaccia di fare sfracelli, i cittadini che vedono nella casa il loro sogno di sicurezza e di tranquillita' anche psicologica. Nel rapporto tra gli italiani e il mattone il punto e' proprio questo: a dispetto degli alti e bassi dei prezzi, a dispetto delle voglie piu' o meno brutali del ministro delle Finanze Visco, a dispetto delle noie burocratiche, la casa rimane al centro degli interessi. Costi quel che costi.

NON SI TARTASSANO COSI' I SOGNI
Alba Parietti, attrice:
"La casa e' in assoluto la cosa che amo di piu' . E' l' unico oggetto in cui veramente mi riconosco. Questo perche' non me n' e' mai importato nulla degli status symbol: non mi interessano le automobili e i vestiti; li cambio troppo spesso per affezionarmi a qualcosa in particolare. La casa, invece, rappresenta un rifugio totale, quasi terapeutico. In alcune stanze della mia villa a Milano Tre, come la camera da letto, mi trovo come in una specie di ventre materno".

Possiede seconde case?
"No. Trovo piu' conveniente affittarle. Sarebbe una follia spendere 2 miliardi per acquistare cento metri quadrati a Cortina o a Porto Cervo, accollandosi fra l' altro un sacco di pensieri e di spese fisse, quando con poche decine di milioni posso avere quelle stesse case per uno o due mesi, negli unici periodi in cui veramente mi servono. Questo e' anche il motivo per cui non mi passa per la testa di trasferirmi in centro a Milano: per avere gli stessi metri quadri che ho attualmente, 200, dovrei tirar fuori una cifra pazzesca. E rinunciando, in ogni caso, alla piscina".

Ha sentito parlare dell' aumento degli estimi catastali?
"No. Non so nulla di tasse, paga tutto il mio commercialista. So solo che verso al fisco il 51% dei miei guadagni. Se me ne occupassi mi arrabbierei troppo, come mi capito' quando comprai questa mia casa all' inizio della carriera: fra una cosa e l' altra, al prezzo pattuito si aggiunsero tante di quelle tasse che all' indomani dell' acquisto mi ritrovai improvvisamente poverissima. Trovo comunque ingiusto che qualcuno voglia tartassare le case, ben sapendo che sono il bene rifugio di tutti noi italiani".


UN ATTICO CHIAMATO DESIDERIO
Annamaria Bernardini De Pace, avvocato matrimonialista:

"Sto in affitto e cerco casa come una pazza. E' da piu' di due anni che ci provo, sono sempre in giro per Milano a visitare appartamenti, e di fronte a ogni palazzo che mi piace mi fermo subito a prendere i numeri dei cartelli "vendesi". Niente. Finora avro' visto un' ottantina di case, ma nessuna che mi soddisfi totalmente, fino al punto di farmi dire: "Eccola, e' questa, la voglio proprio comprare". "La casa e' oggi la cosa piu' importante nella mia vita: mi e' venuta la sindrome della rondine, mi piace poter tornare ogni sera al nido tutto mio, al contenitore... Ne ho una piccolissima a Saint Tropez, ma finora non me ne sono mai potuta permettere una di mia proprieta' in centro a Milano". Qual e' la caratteristica principale della casa dei suoi sogni ? "Voglio che sia bello quello che si vede guardando fuori dalle finestre. Voglio tanti pezzi di cielo".

E da tutti questi anni in affitto, quali conclusioni trae?
"Una sola: che ci vuole la massima liberta' di mercato. Basta protezionismi disastrosi come quello dell' equo canone: torniamo alle contrattazioni alla pari fra inquilini e proprietari". La casa piu' bella che ha avuto ? "Quella che devo prendere. E, naturalmente, ricordo con nostalgia la casa di Chiavenna, in provincia di Sondrio, in cui sono nata e vissuta per dieci anni, in mezzo ai prati".


QUEL MATTONE PASSA DI PADRE IN FIGLIO
Enrico Finzi, sociologo:

"Da quando sono nato vivo nella stessa casa, che percio' non e' piu' soltanto una "macchina per abitare e dormire", ma si e' caricata di valori affettivi e simbolici. Gli aspetti economici, quindi, hanno scarso peso nel valutarla: non ci e' mai passato per la testa di venderla, anche se l' imposizione fiscale e' rilevante. Ne' conosco il valore delle singole imposte immobiliari che pago. Nell' attaccamento alla casa di famiglia i piu' clamorosamente conservatori si sono dimostrati i miei figli di 21 e 25 anni: anche se dal nostro appartamento non si vede neanche una fogliolina di verde, hanno sempre rifiutato l' ipotesi di un trasferimento. Cosi' , poiche' sono nato nel 1946, e quindi appartengo a una generazione che considera ancora i muri come la forma piu' rassicurante di investimento, ho comprato io per loro due appartamenti. La passione per il mattone mi ha spinto anche all' acquisto di cento metri quadri sul Canal Grande, a Venezia. L' ho fatto per mia moglie, che ci teneva moltissimo, ma si e' rivelato anche un investimento fortunato: l' appartamento veneziano si e' rivalutato due volte in 15 anni".


E' IL CATTIVO GUSTO IL VERO DRAMMA
Roberto D' Agostino, scrittore:

"Vivo e lavoro in casa, quindi il mio appartamento romano e' un antro, un rifugio, una grotta, un biglietto da visita. Ce l' ho da quattro anni in affitto, l' ho arredato io e ci tengo da morire. Anzi, non l' ho arredato: lo sto arredando, perche' il vero arredamento non termina mai, e' un work in progress. Ho anche un altro appartamento a Roma, quello dove abitavo prima, di proprieta' . Ma ho preferito trasferirmi in questo perche' la casa e' anche un ritrovo per gli amici, un vero e proprio abito sociale. La verita' e' che parecchie case sono inguardabili, basta un' occhiata appena entrati e si capisce subito che i proprietari sono soltanto dei parvenu. Ci vuole cultura per arredare una casa, scegliere tende, quadri, divani: il difficile non e' comprare, ma, lo ripeto, scegliere. Questo e' il problema del nostro Paese, ovviamente a tutti i livelli. Per esempio una delle case piu' disastrose che mi e' capitato di vedere ultimamente e' quella di Massimo D' Alema... Diciamolo, il vero dramma delle case italiane non sono le tasse, ma quello che c' e' dentro. Possibile che l' Italia, cioe' uno dei Paesi leader del design mondiale, la patria di Sottsass e di Munari, si sia ridotta ad avere delle case cosi' di merda ? E anche quello che propongono le riviste di arredamento non e' meglio dell' atroce gusto medio dei nostri connazionali".

AH, SE FOSSE COME IN FRANCIA...
Renato Mannheimer, esperto in sondaggi:

"Pago una quantita' straordinaria di tasse sulla mia casa di proprieta' , e mi sembra che aumentino ogni anno. Ma il mio commercialista, che e' anche un amico, per non farmi venire un collasso me le illustra un po' per volta, mai tutte assieme. Ciononostante non mi e' mai passato per la testa di vendere, anche perche' non conoscerei un altro investimento altrettanto solido, che possa soddisfare la voglia atavica di sicurezza che c' e' in ognuno di noi. Ho una seconda casa in Francia, e anche li' pago tante tasse. Con un vantaggio, pero' : li' una volta all' anno mi spediscono un modulo chiarissimo tutto colorato, e mi spiegano esattamente quello che devo fare. Cosi' versare le imposte diventa quasi una soddisfazione".

Ha mai avuto case in affitto ?
"No. Ma in questo campo sono per un liberismo quasi sfrenato. L' equo canone ha provocato pasticci, e a chi sostiene la necessita' di regole che proteggano i meno abbienti rispondo cosi' : non mi pare che in tutti questi anni i meno abbienti siano stati tutelati".

COMPRARE CONVIENE, VE LO DICO IO!
Martina Colombari, presentatrice tv:

"Dopo la vittoria a Miss Italia ho continuato per due anni a vivere a Riccione a casa dei miei, coccolata come tutte le figlie uniche. Avevo pero' impegni frequenti a Milano per lavoro, quindi facevo avanti e indietro e stavo in un residence. Quattro anni fa ho cominciato a non poterne piu' di questo tipo di vita. Cosi' ho affittato una bella mansarda dai soffitti alti, in una zona abbastanza centrale, dove vivo tuttora. Ma non per molto: fra sei mesi io e il mio fidanzato, il calciatore del Milan Billy Costacurta, andremo a vivere insieme in un appartamento di circa 200 metri quadri, che abbiamo appena comprato in un palazzo nuovo.

Il trasloco potremmo farlo anche subito, ma al piano di sotto gli operai stanno ancora terminando i lavori, e comincerebbero ad assordarci alle otto del mattino con i loro martelli pneumatici. Cosi' ci stiamo prendendo tutto il tempo per arredarlo, ma egualmente ce ne resta poco per scegliere i mobili: riusciamo a vedere un divano ogni due settimane, e una tappezzeria al mese... Quanto ai soldi, tutte le faccende economiche e fiscali le segue mio padre: anche se ho 23 anni, in questo campo mi sento ancora inesperta, e poi mi fido completamente di lui. Quindi non so niente di affitti, tasse, prezzi e cosi' via. So comunque che da qualche anno e' conveniente comprar case, ed e' quello che abbiamo fatto: a Riccione, pero' , dove abbiamo effettuato qualche piccolo investimento immobiliare".


CONFESSO, SONO UN COLLEZIONISTA
Beppe Severgnini, giornalista e scrittore:

"Come molte famiglie italiane della media borghesia, anche la mia ha assistito all' innamoramento verso il mattone da parte di mio padre, notaio a Crema per mezzo secolo. Quindi, a partire dagli anni Sessanta, dopo la casa di proprieta' sono arrivate le seconde case in Sardegna e in montagna. E io, volente o nolente, mi trovo adesso a fare i conti ogni sei mesi con i bollettini dell'Ici. La cosa non mi spaventa: tutto sommato sono laureato in legge e poi, sempre a causa della professione di mio padre, fin da piccolo ho sentito risuonare in casa la parola "Invim" piu' spesso che non "Saint Moritz". Fortunatamente per me. Senza il tramite del commercialista, quindi, mi rendo conto personalmente del salasso subito a causa delle imposte sulla casa. Ma non mi sognerei mai di vendere, neanche se l' affitto si rivelasse piu' conveniente. Anzi, ho rischiato di fare il contrario. Quando ero corrispondente, ho affittato due case: a Londra nel quartiere di Kensington, e a Washington nella zona di Georgetown. Alloggi adorabili, anche se non lussuosi. Ebbene, ogni volta mi e' venuta la tentazione di comprarli: evidentemente ho l' istinto della tartaruga, che ama un bel tetto pesante e sicuro sopra di se' . E che, di conseguenza, sopporta la vigliaccheria di tutti i governi, i quali amano tassare le case perche' non sanno come farlo con i capitali finanziari sempre piu' volatili, dall' euro a Internet. Tuttavia, lo ripeto: la casa e' un investimento anche affettivo, a medio e lungo termine. Magari la rendita e' inferiore, ma nessun estratto conto di azioni o di fondi puo' regalarmi la stessa soddisfazione che provo guardando la magnolia della mia casa vecchia 200 anni a Crema".


SOGNO UNA FATTORIA PER LE MIE PAPERE
Anna Falchi, attrice:

"Il mio sogno e' sempre stato quello di abitare in una casa magnifica nel cuore di Roma, e sono stata fortunatissima: sette anni fa, infatti, ho trovato in affitto un appartamento di 97 metri quadri, piu' 60 di terrazza giardino pensile, proprio dietro a piazza del Popolo. Ho fatto tutto io: architetto, arredatore, giardiniere. E ancora adesso passo molto del mio tempo libero aoccuparmi della casa: sono affezionatissima alla mia collezione di papere.

So bene quanto pago di tasse: il 46% di imposta sul reddito. E questa percentuale versero' anche quando realizzero' il mio secondo sogno: comprarmi una bella fattoria sulle colline dietro a Riccione, dove sono nata 26 anni fa. Questo in Romagna sara' il mio primo grande investimento immobiliare, e ho gia' incominciato ad andare in giro per cercarmi il mio secondo nido. Penso che anche quando mi sposero' , conservero' una casa tutta per me: come rifugio, per leggere, studiare, stare in pace. E anche per potere litigare tranquillamente, sapendo che comunque un posto dove andare ce l' ho...".

Mauro Suttora

Friday, March 13, 1998

Giacinto Auriti

chi e' l' ispiratore di Beppe Grillo

CHE STRANA COPPIA

Dietro l'ultima crociata del comico genovese contro la Banca d'Italia c'e' un docente di diritto internazionale, consulente di Alleanza nazionale

di Mauro Suttora

settimanale «Il Mondo», 13 marzo 1998

"Una volta c'erano i gangster, adesso si chiamano bankster. Sono i governatori delle banche centrali mondiali: Tietmeyer, Greenspan, Matsushita. Comandano loro, sono i nuovi Toto' Riina, hanno tutto in mano. Ti prestano i tuoi soldi e ti chiedono pure gli interessi...". "Anche qui da noi, il vero padrone del Paese e' il governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio. I ministri del Tesoro dei governi italiani sono sempre stati i camerieri della Banca d'Italia..."

Come avranno avuto modo di sentire i suoi tanti fan, quest'anno il bersaglio principale del nuovo spettacolo di Beppe Grillo e' la Banca d'Italia. Nessuno conosce, pero', l'ispiratore dell'ultima crociata del comico genovese, un professore universitario abruzzese. Per la precisione Giacinto Auriti, 74 anni, docente di diritto internazionale alla facolta' di giurisprudenza a Teramo e avvocato cassazionista. Ma non solo, perche' il professore, oltre che di Grillo, e' consulente anche di Alleanza nazionale, tanto che parlamentari di An, Forza Italia e Ccd hanno presentato una proposta di legge per concretizzare le sue teorie sulla "moneta popolare". Anche se il discepolo piu' accanito del professore resta Nicola Cucullo, sindaco di Chieti dal 1993, rieletto tre mesi fa con il 59% dei voti. Cucullo milita nel Movimento sociale-Fiamma tricolore di Pino Rauti, e ha dedicato la sua ultima vittoria a Benito Mussolini. Singolare compagnia, per l'anarchico-verde di sinistra Beppe Grillo.

"Io sono apartitico", precisa Auriti. "Anche Rifondazione comunista mi ha invitato ai suoi convegni, vado da chi mi chiama". E' stato Grillo, pero', ad andare da lui un anno fa, a una conferenza tenutasi ad Atri (Teramo) per il Corso di perfezionamento postuniversitario in Studi dei valori giuridici e monetari diretto dal professore. E a rimanerne conquistato. Tanto da nominarlo sul campo ispiratore delle tesi del suo nuovo spettacolo.

Esproprio

Auriti, infatti, conduce da anni una solitaria battaglia contro la Banca d'Italia, che accusa, senza ombra di smentite e senza il beneficio del dubbio, di "avere espropriato i cittadini della sovranita' monetaria". "Oggi noi ci illudiamo di essere i proprietari dei soldi che abbiamo in tasca", sostiene convinto, "ma in realta' non e' cosi'. Tutti sappiamo, infatti, che anche se sulle banconote leggiamo 'lire centomila pagabili a vista al portatore', la Banca d'Italia non ci dara' mai l'equivalente in oro. Quindi, la Banca d'Italia spaccia per moneta una falsa cambiale. I cittadini sono convinti che la moneta sia dello Stato, ma non e' cosi': e' Bankitalia a emetterla e a 'prestarla' poi allo Stato e alle banche pretendendo gli interessi. Ma perche' lo Stato, cioe' tutti noi, quando ha bisogno di soldi e' costretto a chiederli in prestito, con gli interessi, alla Banca d'Italia? Chi e' disposto a pagare l'affitto per una casa di sua proprieta'?".

Com'e' evidente, l'invettiva del suggeritore di Grillo non va tanto per il sottile, anche quando affronta aspetti delicati e complessi. "Una volta le Casse di risparmio erano enti morali, ma oggi sono anch'esse spa, cioe' societa' anonime a scopo di lucro. Da sola la Cariplo controlla il 19 % della Banca d'Italia. Ma adesso, dopo il suo matrimonio con il privatissimo Banco Ambroveneto, c'e' il rischio che la Banca d'Italia cada in mano a dei privati. Non sono solo io a dirlo, tant'e' vero che molti vogliono riportare Bankitalia sotto il controllo del Tesoro. Ma a quel punto, tanto varrebbe che fosse il ministro a firmare le banconote, e non piu' il governatore della Banca d'Italia".

Il trattato di Maastricht, pero', vieta il controllo politico sulle banche centrali. E qui il professor Auriti va a nozze: "Infatti. Noi stiamo regalando il principale potere di uno Stato, quello di battere moneta, a dei governatori centrali che nessuno ha mai eletto. Bella democrazia. Perfino Carlo Azeglio Ciampi si e' reso conto di quest'assurdita', e ha chiesto una qualche forma di controllo democratico sulla futura Banca centrale europea".

Domanda d'obbligo: ma se il sistema attuale funziona bene, perche' cambiarlo?
"Perche' e' una truffa", esclama il professore. "I cittadini, oltre a ignorare che la moneta non e' dello Stato, sono convinti che essa abbia un valore perche' esiste una certa quantita' di oro depositato nelle Banche centrali. Ma anche questo e' falso. Dal 1971, come si sa, e' stata abolita la convertibilita' in oro e oggi il valore nominale del denaro in circolazione supera, solo nei Paesi occidentali, di 10-12 volte quello dell'oro nei forzieri".

Secondo Auriti e Grillo le banconote sono solo dei pezzi di carta. "Dobbiamo riappropriarci dei nostri soldi istituendo la "proprieta' popolare della moneta" e dando a ogni cittadino il diritto di percepire la sua quota di reddito dell'emissione monetaria e del capitale amministrato dallo Stato. Bisogna cominciare dal basso. Il consiglio comunale di Chieti, ma anche quelli di Teramo e Pescara, hanno gia' detto si' al mio progetto..."

Chi poi cerca un esempio nella realta' lo puo' gia' trovare in America: la citta' di Ithaca, 40 mila abitanti, nello Stato di New York, ha emesso sue banconote. E cosi' altre citta' statunitensi piu' grandi, come Santa Fe, Kansas City e Indianapolis. Con l'approvazione dei tribunali. Insomma, il comico genovese e il suo singolare ispiratore vogliono tornare agli assegnini da 100 o 500 lire che le banche italiane stampavano vent'anni fa, quando mancavano gli spiccioli. Altro che Euro.

Mauro Suttora

Wednesday, June 18, 1997

Urbano Lazzaro: "Così arrestai Mussolini"

L'ULTIMO PARTIGIANO DI DONGO: "VI RACCONTO COME HO ARRESTATO IL DUCE"

Il mitico "Bill" che bloccò Mussolini in fuga: "Su quella vicenda, mezzo secolo di menzogne. Io volevo la rappacificazione già nel '45"

dal nostro inviato Mauro Suttora

San Germano (Vercelli), 18 giugno 1997

Non capita spesso di arrestare e uccidere un dittatore. Anzi, non succede quasi mai: soltanto Benito Mussolini e Nicolae Ceausescu, fra tutti i (numerosi) tiranni del nostro secolo, sono stati giustiziati. Così, in questo paesino fra le risaie vicino a Vercelli, vive un pezzo di Storia. Quella con la S maiuscola, che rimarrà scritta nei libri anche fra duecento anni.

Nel nostro caso la Storia si chiama Urbano Lazzaro, ha 72 anni, e una faccia simpatica a metà tra Frank Sinatra e papa Wojtyla. È lui il famoso «partigiano Bill", che alle tre e mezzo del pomeriggio del 27 aprile 1945 salì su un camion di soldati tedeschi in fuga a Dongo, sul lago di Como, riconobbe Mussolini che indossava una divisa dell'esercito di Hitler, lo disarmò, lo strappò ai nazisti incaricati di proteggerlo e lo arrestò "in nome del popolo italiano".

Lazzaro è l'ultimo sopravvissuto di quegli eventi drammatici e ancora misteriosi. Perché in realtà nessuno sa bene cosa sia successo nelle ore successive, fino alla fucilazione del dittatore e della sua amante Claretta Petacci.

Soltanto nel gennaio dell'anno scorso, infatti, il Pds ha messo a disposizione degli storici le carte del cosiddetto "memoriale Lampredi" conservate negli archivi del Pci.
E sempre nel '96, poco prima di morire, lo storico del fascismo De Felice avanzò l'ipotesi che siano stati gli inglesi ad ammazzare Mussolini, perché temevano che rendesse pubbliche le lettere segrete di plauso che gli aveva mandato Winston Churchill.

È materia che scotta, quindi, sulla quale sono stati scritti decine di libri. Quattro portano la firma di Lazzaro: il primo negli anni '60, l'ultimo (Dongo, mezzo secolo di menzogne) pubblicato appena due mesi fa negli Oscar Mondadori.

Ma solo adesso, 52 anni dopo quei tragici giorni, gli animi si sono placati al punto che perfino i post-fascisti di Alleanza nazionale hanno chiamato il partigiano Bill a tenere una conferenza, venerdì 13 giugno, nella loro sede di Vercelli.

«Ho invitato Lazzaro", ci spiega Lodovico Ellena, 40 anni, dirigente di An, professore di filosofia e vicepreside di un liceo scientifico a Torino, "perché erano anni che volevamo sentire la sua voce. Per la verità non pensavamo che accettasse. Invece, eccolo qui. Sono emozionato nel vederlo per la prima volta in faccia".
Siamo stati noi di Oggi, infatti, a combinare il primo incontro fra Ellena e Lazzaro nella casa di quest'ultimo, prima dell'evento di Vercelli.

L'imbarazzo è palpabile. Soprattutto da parte di Ellena, il quale non rinnega di avere militato nel Msi fin dai caldi anni '70, quando la politica fra estremisti di destra e sinistra si faceva a colpi di spranga e manganello. E quando per i giovani neofascisti come lui Mussolini era un mito.

Ellena non nasconde che la decisione di invitare il partigiano che distrusse il Mito, impedendogli di scappare in Svizzera o in Germania, e comunque di salvare in qualche modo la pelle, è stata sofferta: "Non tutti i soci del nostro circolo erano d'accordo. Curiosamente, però, a opporsi non sono stati i più anziani, che ricordano direttamente quei giorni, ma alcuni dei più giovani. Però la maggioranza è d'accordo con quest'atto di riappacificazione..."

Il vecchio partigiano Bill interrompe Ellena sul divano di casa sua, lo guarda fisso negli occhi e gli dice: "Il primo che ha voluto la pace sono stato io. E sa quando? Nel maggio 1945. Al funerale di un mio compagno partigiano ucciso dai fascisti, del quale avevamo riesumato la salma per dargli una normale sepoltura, io dissi queste solenni parole: 'Adesso che la guerra è finita, di fronte al mio compagno morto per la libertà chiedo a tutti di perdonare'. Ma molti non furono d'accordo con me".

Non solo molti non furono d'accordo con Urbano Lazzaro, il quale a soli vent'anni era stato eletto vicecommissario della Cinquantaduesima brigata Garibaldi, ma per il partigiano Bill che non ha mai voluto conformarsi alle 'verità di partito' i guai cominciarono allora.

"Già quando mi portarono via Mussolini, che era sotto la mia custodia, sentii puzza di bruciato", dice Lazzaro. "L'avevamo arrestato noi, e assieme a lui avevamo preso anche un tale che diceva di essere console della Spagna, sua moglie, i due figlioletti e una donna che non conoscevo. Poi mi dissero che il 'console' era Marcello Petacci, e che la donna era sua sorella Claretta. Ma mentre noi eravamo occupati a controllare che la colonna di nazisti non aprisse il fuoco, e che non piombassero su di noi reparti di camicie nere, Mussolini e la sua amante furono portati via dal municipio di Dongo, prima a Germasino e poi a Bonzanigo, dove passarono l'ultima notte".

I partigiani avrebbero dovuto consegnare Mussolini agli alleati, per un pubblico processo. Ma i capi milanesi dei partiti di sinistra (Sandro Pertini per i socialisti, Luigi Longo per i comunisti e Leo Valiani per gli azionisti) temevano che così Mussolini l'avrebbe in qualche modo fatta franca, e decisero di portarlo a piazzale Loreto per fucilarlo.

A Milano, però, arrivò solo il cadavere del duce. Non solo, ma secondo alcuni Mussolini e la Petacci furono ammazzati prima dell'esecuzione ufficiale a Giulino di Mezzegra. Ormai, mezzo secolo dopo, questi possono sembrare particolari irrilevanti. Ma può darsi che i partigiani siano stati preceduti dagli inglesi. Oppure che abbiano voluto giustificare l'uccisione di una donna, la Petacci, che aveva l'unica colpa di amare Mussolini.

"In ogni caso", ribadisce Lazzaro, "l'alto dirigente del Pci giunto da Milano col nome di battaglia di 'colonnello Valerio' per eseguire la condanna a morte non era Walter Audisio, ma Luigi Longo. Io l'ho visto, e la sua faccia me la ricordo bene".

Longo non avrebbe potuto ammettere la sua partecipazione, perché questo avrebbe pregiudicato la sua carriera politica: fu segretario nazionale del Pci dal '64, dopo la morte di Palmiro Togliatti, al '72, quando gli subentrò Enrico Berlinguer.

L'altro grande mistero è quello dell'"oro di Dongo": l'equivalente di 60 miliardi di oggi che il duce e i gerarchi avevano con sé. Lazzaro ripete di avere depositato le borse sequestrate a Mussolini alla Cariplo di Domaso (Como), e d'altra parte sia lui sia altri accusati di avere trafugato il tesoro sono stati assolti in un processo a Padova nel '57.

Buona parte di quella cifra finì probabilmente nelle tasche del Pci, che la investì fra l'altro per acquistare palazzi come quello dove oggi sta il cinema Arlecchino in via San Pietro all'Orto a Milano, o la tipografia romana dell'Unità.
Adesso il partigiano Bill ha detto la sua verità anche agli ex nemici. Ma i libri di storia aspettano ancora la versione ufficiale.

Mauro Suttora

Saturday, May 10, 1997

Passante di Milano

Schiaffo passante

Grandi opere. come Zurigo ha battuto Milano

Identica lunghezza. stessa data d'inizio dei lavori. Ma il tunnel che collega le stazioni della citta' svizzera funziona da sette anni. ed e' costato un decimo di quello lombardo. Che non vede la fine

Il Mondo, 10 maggio 1997

di Mauro Suttora

"La prima esplosione per lo scavo dell'Hirschengrabentunnel la fissammo, per scaramanzia, alle ore 11 e 11 dell'11.11.1987", ricorda sorridendo l'ingegner Bernhard Wust, capoprogetto del passante di Zurigo. "Ando' tutto bene, e come previsto la S - Bahn (Stadt - Bahn, ferrovia cittadina, e' il nome tedesco dei passanti, ndr) venne inaugurata nel maggio 1990".

Che tristezza, sentir raccontare la storia del passante di Zurigo. Perche' paragonandolo con quello di Milano, lungo esattamente gli stessi chilometri (12) e iniziato nello stesso anno (1983), si tocca con mano la distanza che separa l'Italia dall'Europa. Il passante milanese, se andra' bene, sara' pronto nel 2002. Se andra' bene, costera' 7 mila miliardi invece dei 400 previsti inizialmente (ma erano soltanto 80 nel 1978, quando la Regione Lombardia approvo' il primo progetto). Quindi, i contribuenti lo pagheranno dieci volte piu' di quello svizzero, oppure il 50 % in piu' del tunnel sotto la Manica, in proporzione alla lunghezza: infatti il costo a chilometro di Milano ha ormai raggiunto i 580 miliardi.

Per non limitarsi alla lamentela, conviene andare a Zurigo e cercare di capire perche' gli svizzeri ce l'hanno fatta e i milanesi no. Almeno per non ripetere con le grandi opere dei prossimi anni (Giubileo, Olimpiadi, Alta velocita') gli stessi errori del recente passato.

Ricchi e parsimoniosi.

"L'idea del passante ferroviario nasce a Berlino nel 1930", spiega Reto Corman, portavoce delle Ferrovie svizzere, "quando i tratti urbani di binario vengono utilizzati come metropolitana a cielo aperto, moltiplicando le stazioni". Da allora molte citta' tedesche costruiscono la propria S - Bahn, da non confondere con le U - Bahn (Unter - Bahn), ovvero le metropolitane sotterranee. A Zurigo negli anni 70 si scarta l'idea della U - Bahn: troppo costosa.

I ricchi ma parsimoniosi svizzeri optano invece per un collegamento sotterraneo nel centro della citta': unira' tutte le direttrici ferroviarie, creando cosi' un reticolo di otto linee che dall'Hauptbanhof, la stazione centrale, porta in ogni direzione.

E' lo stesso progetto che, sull'esempio di Monaco di Baviera, in quegli anni avvince anche gli urbanisti del Pim (Piano intercomunale milanese), i quali gia' nel 1967 propongono il primo schema di passante per Milano. L'idea e' semplice: collegare le ferrovie in entrata a Milano da Bergamo, Treviglio, Lodi - Piacenza, Pavia, Vigevano, Novara, Varese e Como. Cosi' i treni regionali usati dai pendolari, invece di finire la corsa alla stazione Centrale oppure a Lambrate, Rogoredo, Cadorna o Garibaldi, vanno sottoterra all'altezza di quest'ultima stazione, percorrono il centro con le fermate Repubblica, Venezia e Dateo, e risalgono in superficie a Porta Vittoria. O viceversa. Lo stesso convoglio, quindi puo' collegare da Ovest a Est Novara a Bergamo, oppure da Nord a Sud Varese a Pavia. Un treno ogni mezz'ora su ciascuna direttrice, e quindi, nel tratto centrale sotterraneo, una corsa ogni tre minuti nelle ore di punta. Trentaseimila viaggiatori all'ora, 300 mila pendolari al giorno.

Ma fra il dire e il fare c'e' di mezzo la burocrazia. Il primo si' della Regione Lombardia risale al settembre 1978, pero' l'accordo a tre con Comune di Milano e Ferrovie dello Stato arriva solo due anni dopo. Intanto la spesa ipotizzata e' gia' salita da 80 a 200 miliardi. Dev'essere divisa in parti eguali fra i tre enti, ma la Regione non ha una lira, le casse del Comune sono prosciugate dalla costruzione del metro' e le Fs sono in deficit. Cosi' nel dicembre 1982, quando Giovanni Spadolini inaugura il primo cantiere in piazza Repubblica, ci sono solo 50 miliardi disponibili. Mentre il preventivo, complice l'inflazione, e' arrivato a 400 miliardi.

Referendum.

Gli svizzeri fanno l'esatto contrario. Calcolati i costi al centesimo (700 miliardi in lire italiane, l'80 % a carico del cantone di Zurigo e il resto dalle Ferrovie federali), il cantone di Zurigo gia' dagli anni 70 comincia ad accantonare 40 miliardi all'anno in previsione della grossa spesa. Con un referendum nel 1981 il 73 % degli abitanti di Zurigo approva l'esborso dei 560 miliardi di competenza cantonale, cancellando pero' la prevista stazione dell'Universita', ritenuta non valida in termini di costi / benefici. Cosi' nel 1983, quando i lavori partono, i ritmi di scavo vanno al massimo perche' i finanziamenti sono garantiti.

Il calvario del passante milanese, invece, e' soltanto agli inizi. Nel 1984 arriva il si' definitivo del Comune, che pero' nel marzo 1986 cambia in extremis il progetto: due stazioni (Lancetti e Dateo) vengono spostate. Poco male: i lavori procedono a singhiozzo, i cantieri aperti sono pochi. Anzi, proprio in quell'anno si fermano del tutto perche' alle imprese costruttrici non arriva piu' una lira. In realta' il metodo apparentemente garibaldino del "Partiamo alla cieca, poi si vedra" e' giustificato dall'inerzia del governo centrale. Infatti, poiche' in Italia al contrario che in Svizzera gli enti locali non hanno autonomia finanziaria, Milano e' sempre riuscita a farsi dare controvoglia soldi da Roma per il proprio metro' mettendo i ministeri di fronte al fatto compiuto. Questa volta pero' il giochetto non funziona, anche perche' negli anni 80 la quota di Fondo trasporti destinata a Milano viene assorbita dalla costruzione della terza linea metropolitana.

Nel 1988 l'ex sindaco milanese Carlo Tognoli, diventato ministro delle Aree urbane, riesce a far stanziare dalla legge finanziaria 476 miliardi per il passante. Comune e Regione ne hanno gia' spesi 485, ma ormai i costi sono lievitati a 1.700 miliardi: ne mancano quindi piu' di 700. Da quel momento sara' una rincorsa fra fondi elargiti col contagocce (216 miliardi con le finanziarie dal 1990 al '92) e cantieri costretti a lavorare a singhiozzo.

Storia infinita.

Il 27 maggio 1990 e' una giornata triste per la fanfara dei bersaglieri del secondo battaglione Governolo di Legnano: va in trasferta a Zurigo per suonare all'inaugurazione del passante ferroviario, ma la banda svizzera che avrebbe dovuto allietare una cerimonia simile a Milano resta a casa perche' da noi i lavori sono in alto mare. Salta quindi il gemellaggio stabilito nel 1983, all'inizio contemporaneo dei lavori. Poi arriva Tangentopoli, e si scopre che le imprese costruttrici gonfiavano le spese a suon di tangenti. "Abbiamo ridotto di un terzo il costo a chilometro", annuncia orgoglioso il nuovo sindaco leghista Marco Formentini nel 1994, un anno dopo essere stato eletto. Pero' i soldi da "Roma ladrona" non arrivano neppure a lui, anche perche' nel frattempo tutte le opere pubbliche sono bloccate: un po' per la questione morale, un po' per i tagli di bilancio. Nel frattempo i costi sono esplosi a 6 mila miliardi, ma alla fine si arrivera' a 7 mila con la sistemazione della stazione di Porta Vittoria e l'acquisto del materiale rotabile.

Pero' la storia del Passante milanese non e' finita. Anzi, nell'ultimo tratto non e' neppure cominciata. Nonostante l'enorme buco che ormai da anni blocca viale Piceno in prossimita' della stazione Porta Vittoria, per questa non esiste neppure il progetto. Intanto le autorita' hanno deciso di inaugurare almeno il primo tratto Garibaldi - Repubblica - Venezia. Servira' a poco o nulla: un passante che non passa, bloccandosi a meta', e' una contraddizione in termini. Comunque la cerimonia era stata fissata per questo aprile. Poi e' slittata, perche' Fs e Ferrovie Nord hanno scoperto in extremis che manca la cosa piu' importante: i treni. Adesso tutto e' rimandato al prossimo 28 settembre. Ma si accettano scommesse.

Svizzeri felici.

E a Zurigo? Il passante macina passeggeri: 230mila al giorno (per un'area urbana di poco piu' di un milione di abitanti, contro i quattro che gravitano su Milano). Tutti sottratti all'auto: i pendolari che usano i mezzi pubblici sono cresciuti dal 50 al 59 % , l'inquinamento da gas di scarico e' diminuito. Certo, le spese sono notevoli: biglietti e abbonamenti coprono soltanto il 60 % dei costi dei trasporti pubblici zurighesi. Ma i 14 comuni del Cantone si accollano i 450 miliardi (in lire italiane) di deficit annuo, in cambio di molto: ogni frazione con piu' di 300 abitanti ha 12 corse giornaliere garantite, in metro, tram o bus.

Insomma, l'esatto contrario di Milano, dove dall'hinterland e' scomodissimo raggiungere il centro con i mezzi pubblici. Risultato: ogni mattina un milione di auto private da' l'assalto ai viali di accesso alla citta', causando code chilometriche, ritardi di ore, ricerche snervanti di un parcheggio e nuvole di monossido di carbonio.

Mauro Suttora


lettera al Mondo n.22, 07/06/1997, pag. 129

passante di Milano, le ragioni dello scandaloso ritardo

In merito all'articolo apparso sul numero 18 dal titolo "Schiaffo Passante" a firma di Mauro Suttora, la scrivente Societa', quale incaricata del Project Management, della progettazione e della realizzazione delle opere e degli impianti civili del Passante Ferroviario, precisa:

1. Per quanto riguarda Zurigo, al progetto non e' stata attribuita la funzione di trasporto urbano anche perche' a Zurigo non esiste una vera rete di linee di forza quali quelle di Milano con le 3 linee metropolitane. Il Passante di Zurigo infatti e' piu' simile all'interramento di una ferrovia extra urbana, avendo una sola vera stazione interrata paragonabile alle 6 di Milano, oltre le 2 fermate di porta alla tratta in galleria. Mentre i costi per tratte omogenee sono comparabili se rapportati all'epoca della costruzione e riferiti a modalita' costruttive analoghe, sui tempi di realizzazione hanno ovviamente molto influito le diverse modalita' di finanziamento che nel caso italiano non sono state in grado di garantire neppure la continuita' dei finanziamenti e nel caso svizzero hanno consentito la totale disponibilita' delle somme necessarie con l'inizio dei lavori.

2. Il Passante Ferroviario di Milano consiste di una tratta urbana e di una serie di interventi di adeguamento sulle reti e sulle infrastrutture esterne.

3. I committenti sono due: Regione Lombardia e Comune di Milano, i quali concorrono alla spesa nella misura del 50 % ciascuno

4. Le ferrovie dello Stato realizzano a loro cura e spese tutti i necessari interventi esterni alla "tratta urbana", nonche' gli impianti elettroferroviari della "tratta urbana".

5. Gli accordi, le procedure e gli strumenti per la realizzazione dell'opera, unica nel suo genere in Italia per importanza strategica, sono stati formalizzati in una Convenzione Generale (1983) tra ben quattro soggetti: Regione Lombardia, Comune di Milano, Fs e Fnm.

6. I lavori sono iniziati alla fine del 1984 sulla base del progetto originario che prevedeva 8,5 km circa di linea e n. 4 stazioni sotterranee per un costo complessivo di 437 miliardi di lire. La rivalutazione monetaria di quest'importo e l'adeguamento dell'Iva dal 2 al 10 % corrispondono ad un valore attuale di 1.367 miliardi di lire.

7. Nel corso degli anni sono state concordate tra Regione Lombardia, Comune di Milano, Fs e Fnm importanti varianti al progetto originario. Tutto cio' premesso, la situazione, alla data odierna, valutata in lire correnti e' cosi' sintetizzabile: costo dell'intera opera1.673 miliardi di lire (Iva inclusa), di cui finanziamenti attivati 1.447 miliardi di lire; somme impegnate 1.430 miliardi di lire; opere gia' eseguite 1.330 miliardi di lire (93 % ); opere ancora da eseguire 343 miliardi di lire.

Risponde Mauro Suttora.

La stima dei costi per il Passante Ferroviario di Milano e' ricavata da uno studio dell'Irer (l'Ufficio di ricerche istituzionale della Regione Lombardia) del 1994. Il professor Renato Pugno ha calcolato una cifra totale di 7.952 miliardi, comprensiva di 3.146 miliardi di interessi al 6 % , ovvero il "costo di opportunita' del capitale immobilizzato" durante la costruzione.

A questa stima conservativa (nel caso di interessi al 10 % il rapporto ufficiale della Regione Lombardia indica un costo totale di ben 9.874 miliardi) abbiamo sottratto il costo del materiale rotabile, che ci e' stato indicato da fonti autorevoli in circa mille miliardi (cento convogli da dieci miliardi l'uno). Settemila miliardi, quindi, e nel dettaglio: 685 a carico di MM (Metropolitana Milanese), la quale peraltro nella sua lettera conferma piu' o meno questa cifra, che pero' secondo l'Irer sale a 2.600 miliardi con gli interessi al 6 % , piu' 2.500 miliardi a carico delle Ferrovie Nord, e circa 2.000 a carico delle Fs.

Saturday, May 03, 1997

Futuro: parlano Negroponte e Vacca


AIUTO, È IN ARRIVO IL FUTURO

di Mauro Suttora

3 maggio 1997

Io Donna (Corriere della Sera)
 
«Volate in faccia al modo di pensare tradizionale. Rinnovatevi in continuazione. Coltivate un sano disprezzo per l’autorità». Ormai Nicholas Negroponte, fondatore e direttore del Medialab al Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, parla come un guru: non argomenta più, si limita a inviare messaggi. E la principale preoccupazione del massimo futurologo mondiale, oggi, sembra essere quella di propagandare l’anarchia: «La sfida più importante che abbiamo davanti è quella di non diventare noi stessi l’establishment», ci fa sapere, ermetico, nell’intervista (rigorosamente in e-mail) che gli facciamo.

L’autore di 'Essere digitali' (insuperata Bibbia del cyberpensiero) è polemico contro «i burocrati di ogni governo che vorrebbero controllare tutto e imbrigliare il futuro». Sullo sfondo, le roventi polemiche su Internet: come punire i siti pedofili e la pornografia on-line? Ma, più concretamente: come faranno gli Stati a riscuotere le tasse sugli scambi - di merci, di capitali - via computer?

Di questo (e di molto altro) si parlerà al Futurshow di Bologna dal 9 al 12 aprile. Quello che è diventato ormai un appuntamento obbligato per tutti i cybermaniaci italiani (l’anno scorso i visitatori sono stati 350mila) quest’anno festeggia i trent’anni dallo sbarco sulla Luna. Ma, ovviamente, lo sguardo al passato della fiera bolognese servirà soltanto come trampolino verso il futuro. E nei padiglioni verranno esposte tutte le più importanti novità tecnologiche che ci stanno cambiando la vita. Eccone alcune, accompagnate dalle riflessioni di Negroponte e del nostro Roberto Vacca.

1) LA CASA TECNOLOGICA
Ogni stanza avrà almeno uno schermo. O quello di un televisore, o quello di un computer. Fissi e portatili, grandi e piccoli, non importa: saranno le nostre finestre verso il mondo. Questi terminali video potranno collegarsi indifferentemente con tv, Internet, giochi, telefono, programmi di scrittura o di lettura. È questo il significato della parola «multimedia»: vedere la tv sullo schermo di un personal, oppure usare il televisore per collegarsi con Internet, sarà indifferente.

Squilla il telefono? Se ci troviamo in bagno, schiacciamo un bottone e sullo schermo apparirà la nonna che ci vuole parlare. Se non siamo proprio nudi in vasca, potremo attivare una delle tante telecamerine (anch’esse in ogni stanza) e farci vedere anche noi dalla nonna. Le telecamere servono anche per controllare cosa succede a casa quando siamo fuori, con una semplice videotelefonata sul cellulare, o cliccando sul computer dall’ufficio.

Azzardiamo un necrologio? Morirà prima il ventenne videoregistratore del cinquantenne televisore. Spariranno novità relativamente recenti come le videocassette e le catene di negozi che le noleggiano. Questo perché dagli schermi di casa ci collegheremo direttamente a cataloghi, cineteche e banche dati con centinaia di migliaia film, documentari, concerti e archivi tv, che al costo di pochi euro invieranno istantaneamente il programma prescelto. E poiché anche le canzoni si possono trasformare in bit, pure dischi e cassette diventeranno obsoleti.

2) OCCUPAZIONE, SCUOLA, LAVORO
Roberto Vacca, il nostro massimo «futurologo» (è in uscita il suo ultimo libro, 'Consigli a un giovane manager', ed. Einaudi), è però pessimista: «L’Italia sta perdendo la partita della cultura, che è alla base di tutta l’economia. Dovremmo creare valore aggiunto, cioè prodotti sofisticati, e invece che cosa esportiamo? I soliti vestiti, piastrelle, marmo, macchine per il legno. Nell’export di software siamo superati perfino dall’India, che ha venti politecnici contro i nostri due, e dall’Ungheria, che ha scuole migliori delle nostre.

«Le aziende di Modena e Piacenza, che vantavano successi nelle macchine per la meccanica, ora vengono spiazzate dai concorrenti malesi. La merce del futuro è l’intelligenza, ma i due terzi degli italiani hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo. Gli Stati Uniti, a parità di popolazione, hanno dodici volte più università di noi. I giornali non veicolano più il sapere, sono pieni di stupidaggini, radio e tv ancora peggio. E il nostro primato mondiale in fatto di telefonini significa solo che la merce che gira di più è la chiacchiera».

Un quadro fosco. Quali le vie d’uscita? Scuole professionali di modello tedesco, con apprendistati pratici presso artigiani e aziende; meno materie umanistiche e più scienza nei licei, ma anche laboratori di chimica e fisica che funzionino sul serio (meno formule da imparare a memoria sui libri, e più esperimenti); informatica e inglese già dalle elementari, ribaltando però il metodo di insegnamento delle lingue straniere: molta conversazione, e poca letteratura.

3) TECNOLOGIA, DEMOCRAZIA, EUTANASIA
Nel 1976 Erich Fromm in 'Avere o essere' ipotizzava l’uso della telematica per allargare la democrazia: ad esempio, organizzando referendum via computer ogni anno sui dieci maggiori argomenti di dibattito pubblico. «Ma partecipare senza sapere rischia di essere il grande equivoco del prossimo secolo», avverte Vacca. Già oggi, infatti, grazie alla forza di sondaggi telematici effettuati sull’onda dell’emotività (come i programmi tv che domandano «Siete favorevoli agli immigrati?» subito dopo aver trasmesso documentari raccapriccianti in un senso o nell’altro), si ottengono risultati facilmente manipolabili da qualsiasi demagogo.

L’eutanasia diventerà uno degli argomenti più scottanti della politica, perché nei Paesi ricchi si vivrà fino a 90-100 anni, ma i lavoratori saranno sempre più riluttanti a finanziare l’assistenza agli anziani. Questo problema assumerà fatalmente toni razzisti in Paesi come l’Italia, dove il crollo demografico degli autoctoni bianchi verrà compensato soltanto dall’afflusso di immigrati.

Infine: sopravviveranno gli Stati? «Neanche per sogno», risponde sicuro Negroponte, «perché non sono né abbastanza grandi per essere globali, né abbastanza piccoli per essere locali. La vita evolutiva dello Stato-nazione così come lo conosciamo oggi risulterà perfino più corta di quella di uno pterodattilo. Si svilupperanno al suo posto governi locali, di comunità. E alla fine si arriverà a un pianeta unito».

4) GIOCHI
Come evolveranno i videogiochi? La battaglia è tutta fra i produttori giapponesi: stiamo assistendo proprio in questi mesi all’incredibile successo della Playstation Sony. Ma la vera scommessa, per l’industria, è quella di coinvolgere anche le femminucce, rimaste finora refrattarie davanti al joystick.

Dice Justine Cassell, docente al Medialab del Mit di Boston: «Alle bambine piace giocare parlando, raccontando storie, e quindi non sono attratte dai videogiochi. Ebbene, stiamo mettendo a punto programmi che assecondino la naturale preferenza delle femminucce per l’esplorazione delle relazioni sociali. Viceversa, spingiamo i maschietti a una maggiore elaborazione sfruttando la loro passione per le nuove tecnologie». Sfuma così il pericolo di sfornare generazioni di alienati cresciuti davanti allo schermo della tv o di un computer?

«Di fronte a reazioni come quella di una bambina che, dopo ore di videogioco, ha detto a un suo amichetto “Non mi piace essere tua amica, voglio solo fare la regina!”, è naturale che i genitori si preoccupino», spiega la Cassell. «Ma ora si sta formando una strana alleanza fra creative femministe e industriali - i quali vogliono vendere anche alle bambine - per “femminilizzare” i videogiochi, attenuandone le caratteristiche distruttrici e misantrope».

5) CITTÀ SENZA ORARI
«Vivremo vite completamente asincroniche, non ci dovremo più alzare tutti assieme per andare al lavoro al mattino, e poi di corsa a fare la spesa alla sera», promette Negroponte, «la sveglia e gli ingorghi stradali saranno solo un ricordo della stupidità del passato. Ci sarà un rinascimento della vita in campagna. E nel giro di qualche decennio non avremo più bisogno neanche delle grandi città».

Ma poiché cibo, vestiti e mobili non sono trasformabili in bit e trasportabili via cavo, rifioriranno i piccoli negozi artigianali specializzati. «Sopravviverà soltanto il minuscolo e il molto grande, ma per le aziende l’unico valore dell’essere enormi sarà la possibità di perdere miliardi di dollari prima di guadagna ».

«Qualsiasi negozio che non rimanga aperto 24 ore su 24 fallirà», profetizza Negroponte. Commercianti suicidatevi, allora? Tranquilli. Anzi, il negozio come luogo fisico potete anche chiuderlo. O tenerlo aperto soltanto nelle ore che preferite. L’importante, è aprire un sito Internet con un catalogo attraente e un efficientissimo servizio di consegne a domicilio.

Per il resto, la bottega servirà soltanto come luogo d’incontro, di socializzazione. Lo shopping per sentirsi meno soli. Verso il 2030 chiuderanno molti super e ipermercati: non sarà più conveniente tenere aperte strutture così mastodontiche, dopo che il commercio elettronico avrà conquistato i due terzi del mercato.
Mauro Suttora

Friday, April 04, 1997

Pannella e l'Ordine dei giornalisti

CINQUANT'ANNI DI ROSE E PUGNI TRA PANNELLA E I GIORNALISTI

IL REFERENDUM CONTRO L'ORDINE È L'ULTIMA FASE Dl UN RAPPORTO CONTRASTATO. L'ANTAGONISMO CON SCALFARI

Il leader radicale si innamorò della stampa a quindici anni. Comprava due copie al giorno di Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli da dove Einaudi attaccava la corporazione. Gli anni del Mondo, del Giorno, e la comune militanza politica con il direttore di Repubblica

Di Mauro Suttora

Il Foglio, 4 aprile 1997

Milano. I milioni di italiani che andranno a votare per il referendum sull'Ordine dei giornalisti lo ignorano, ma quel voto è il risultato finale di un intenso rapporto di amore-odio: quello che da più di mezzo secolo lega Marco Pannella a giornali e giornalisti, e in particolare al più ricco (di gloria e di miliardi) fra loro, Eugenio Scalfari. 

I giornali Marco li ha sempre amati. Da quando, studente 15enne al liceo classico Giulio Cesare di Roma nel '45, si imbatte in Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli. Già eccessivo allora, non si limita a comprarne una copia: "Mi interessò talmente, che da quel giorno ne ho sempre prese due: una per me e una per i miei compagni di scuola". 
Proprio su Risorgimento liberale Luigi Einaudi sferrava quelli che a oggi rimangono i più lucidi attacchi alla corporazione dei giornalisti. 

Marco nel '49 viene folgorato da un secondo giornale: il Mondo, appena fondato da Mario Pannunzio. Pannella si affaccia sempre più spesso nella redazione a Campo Marzio. Ma non è l'unico giovane a essere attratto da quel cenacolo di galantuomini i quali, oltre a confezionare il settimanale più sofisticato dell'epoca, trasformano la redazione in un salotto intellettuale perenne. 
In concorrenza con Marco per farsi notare dagli 'anziani' della cultura liberale italiana infatti c'è Scalfari. E come Marco anche Eugenio, più vecchio di sei anni, è un attivista della corrente di sinistra del Pli.

La competizione fra i due giovani galli nel troppo affollato (d'ingegni) pollaio liberal-radicale è inevitabile. Pannella negli anni 50 diventa il capo degli universitari italiani. Scalfari invece va a lavorare nella banca Commerciale a Milano, scrive articoli per l'Europeo di Arrigo Benedetti e sposa la figlia del direttore della Stampa. Nel 1955 fonda sia l'Espresso con Benedetti, sia il partito radicale con Valiani, Carandini e tanti altri. Compreso Pannella. 

Intanto anche Marco nel '59 debutta nel giornalismo con una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera. Però esagera, calca troppo i toni e viene bocciato: dal Migliore, che lo liquida tre giorni dopo, sempre sul Paese ("Non accettiamo queste polemiche"), ma soprattutto da Scalfari che emette addirittura un comunicato pubblico per sconfessarlo, e perfino dal Mondo che gli dà del "cretino". 

Disgustato, Marco lascia l'Italia. Approda a Parigi dove, a corto di soldi, si presenta alla redazione del Giorno in rue Saint Simon, 7° arrondissement. Comincia a collaborare con la corrispondente in carica Elena Guicciardi. Copre il turno di notte. 
"Era già polemico - ricorderà l'allora caporedattore Angelo Rozzoni - invece di mandare il servizio richiesto inviava tre-quattro cartelle di 'controinformazione'. Era molto bravo e diligente, gli avrei dato un sette, ma aveva l'inveterata abitudine di fare a modo suo".

Nel dicembre '62, dopo i rituali 18 mesi di praticantato, Marco diventa giornalista professionista. Poi contesterà sempre l'Ordine e rifiuterà gli sconti su aerei, treni e autostrade. Il suo stipendio a Parigi è di 20 mila lire il mese. 

Di politica non si può occupare, c'è già la Guicciardi. Ma nelle pagine di cronaca riesce a infilare un'intervista a Jean-Paul Sartre sulla tortura, viene inviato a Cannes al festival del cinema, va a Tolosa per un'inchiesta sulle caserme, si occupa di Dalida.

Una volta, da Milano lo incaricano di cercare Gina Lollobrigida a Parigi. "Le ho lasciato un messaggio in albergo", risponde sbrigativo con un telex che trasuda disinteresse. 

Nel gennaio '63 Pannella si dimette dal Giorno. "Mi licenziarono dopo un'inchiesta sull'Eni e Mattei - è la sua versione - dopodiché fui messo all'indice. Ero vietato da tutti, sia come firma che come notizia". 

Iniziano così 30 anni di giustificata paranoia, con giornali e tv sempre ossessivamente nel mirino. All'interno del Pr, Pannella guida l'opposizione a Scalfari con la propria corrente "Sinistra radicale", di cui fanno parte gli ex goliardi Massimo Teodori (futuro editorialista di Messaggero e Giornale), Gianfranco Spadaccia (giornalista dell'agenzia Italia) e Angiolo Bandinelli, collaboratore del Mondo.

Nel '63 Pannella conquista il partito radicale. Vuoto, però. In quegli anni l'attività ruota attorno a una battagliera agenzia di notizie, visto che la maggior parte del gruppo dirigente è formata da giornalisti. Memorabili le campagne contro l'Eni di Eugenio Cefis e il sindaco di Roma Petrucci (che finirà in galera), oltre a quelle per l'obiezione di coscienza (vinta nel '72) e per il divorzio (vinta nel '70 con la legge, e quattro anni dopo col referendum). 

Ma quest'ultima, iniziata nel '65, ottiene solo l'appoggio del settimanale plebeo-erotico Abc, e anche le altre iniziative radicali vengono snobbate dalla grande stampa. Così lievita il livore di Pannella verso i "colleghi".

La direzione di Lotta continua

La situazione non migliora negli anni 70. Il Pci vede come il fumo negli occhi il referendum sul divorzio, perché rischia di "spaccare le masse" e ostacolare il "compromesso storico" con la Dc. Invece Pannella accentua il suo impegno anticlericale e si riavvicina a Scalfari. 

Nel '71 fondano assieme la Lega per l'abrogazione del Concordato (cui aderiscono Leonardo Sciascia, Eugenio Montale, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Alessandro Galante Garrone) e tengono comizi anticoncordatari in giro per l'Italia. 

Sarà anche a causa di questa eccessiva vicinanza al libertario Pannella, oltre che per l'ostilità di Craxi, che nel 72 Scalfari perderà il seggio di deputato socialista conquistato nel '68 (per sottrarsi al processo sul caso Sifar). 

Intanto a Pannella arrivano una ventina di denunce per avere diretto il giornale sessantottino Lotta continua. Lui concedeva la propria firma a qualsiasi pubblicazione avesse bisogno di un direttore responsabile. Unica condizione: "Non voglio vedere una riga di quel che pubblicate".

Per Lotta continua vengono incriminati anche Pier Paolo Pasolini e Marco Bellocchio. Umberto Eco, Lucio Colletti, Giovanni Raboni, Paolo Mieli, Natalia Ginzburg e altri intellettuali firmano un appello a favore degli imputati. 

Ma il bastian contrario Pannella prende le distanze anche da loro: "Dubito che di 'pensiero', marxista o no, ce ne sia molto in chi pensa di 'fare la rivoluzione impugnando le armi contro lo Stato' [una delle frasi incriminate, ndr]. Questo non un reato: è un'imbecillità, coeva più alle spedizioni fiumane di D'Annunzio che alla lotta politica odierna". 

Nel '73 Pannella torna alla professione di giornalista. Segue per l'Espresso le elezioni in Francia. Ma si arrabbia per i tagli e alcune censure subite dai suoi articoli. Due anni dopo l'Espresso aiuterà il partito radicale a raccogliere le firme per il referendum sull'aborto, e affiderà una rubrica settimanale a Pannella. Ma Marco la interrompe per protesta dopo il licenziamento da via Po del suo amico Lino Jannuzzi. 

Nella seconda metà del '73, in vista del referendum sul divorzio, Pannella fonda il quotidiano Liberazione, sull'esempio del neonato Libération parigino diretto da Sartre (vent'anni dopo cederà la testata a Rifondazione). 
Ma il compito è sovrumano, perché la redazione è composta soltanto da Pannella stesso, da Vincenzo Zeno-Zencovich (poi docente universitario, editorialista sul Sole 24 Ore, avvocato e autore del pamphlet 'Contro la libertà di stampa'), Rolando Parachini e Roberto della Rovere (poi al Corriere della Sera).
Dopo un mese Liberazione diventa bisettimanale, ma nel febbraio '74 chiude. 

Le dimissioni del presidente della Rai 

Nel 1974, sull'onda del referendum vittorioso che conferma la legge sul divorzio, i radicali propongono otto referendum. Uno di questi è contro l'Ordine dei giornalisti. Aderiscono Norberto Bobbio, Arrigo Benedetti, Adele Cambria, Gigi Ghirotti, Adriano Sofri, Giovanni Russo. Ma le firme raccolte si fermano a 170 mila.

In compenso, quell'estate Pannella è il primo a pronunciare alla tv italiana le parole "aborto", "lesbiche" e "omosessuali". Nonostante gli sforzi del capufficio stampa Rai Giampaolo Cresci (poi direttore del Tempo), lo scandalo è enorme. Alla fine il potentissimo presidente Rai Ettore Bernabei si deve dimettere.

Sul caso Pannella intervengono sul Corriere della Sera Pasolini, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Spadolini e Maurizio Ferrara, sull'Espresso Sciascia, Alberto Moravia e Giorgio Bocca. Il leader radicale diventa un personaggio nazionale, e nel '76 deputato. 

Nelle liste del Pr abbondano i giornalisti: Enzo Marzo, Massimo Alberizzi, Riccardo Chiaberge e Cesare Medail del Corsera, Valter Vecellio (oggi inviato del Tg2) e Marco Taradash (per anni al mensile Prima Comunicazione), inventori delle rassegne stampa su Radio radicale. 

Stefano Rodotà, allora editorialista della neonata Repubblica, simpatizza. Ma è l'attuale commentatore di punta del Corriere della Sera Angelo Panebianco, assieme a Teodori, Piero Ignazi (poi editorialista di Repubblica) e al docente universitario Lorenzo Strik Lievers, il teorico più raffinato del radicalismo.

I1 culmine dello scontro tra Marco ed Eugenio

Nelle politiche del '79 alla pattuglia radicale si aggiungono sul versante giornalistico Maria Antonietta Macciocchi, Gigi Melega, Gianni Vattimo, Alfredo Todisco, Fernanda Pivano e Barbara Alberti. Scalfari appoggia Pannella nella battaglia contro la fame nel mondo.

Ma l'ennesima rottura (mai più ricomposta) fra i due avviene nel 1981, sulla "linea della fermezza" durante il sequestro Br del magistrato D'Urso. Pannella scatena i militanti radicali, i quali mandano in tilt i centralini di Repubblica che rifiuta di pubblicare i comunicati brigatisti, condizione per la liberazione. Svela perfino i numeri di casa di Scalfari. 

"I brigatisti hanno definito Pannella 'sciocco demagogo' - risponde furibondo Scalfari in un editoriale - demagogo lo è certamente, sciocco assolutamente no, come può testimoniare chi lo conosce da trent'anni. (...) Pannella è un sovversivo, ne più ne meno delle Br. Le Br usano le pistole, Pannella le parole e lo psicodramma di massa". 

"Da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer, si è ricostituito il partito della forca, come ai tempi di Moro. Hanno bisogno di un cadavere per fare un golpe", replica Pannella da Radio radicale mobilitata giorno e notte dal direttore Jannuzzi. 

Nell'84 Scalfari viene condannato a risarcire Pannella con 70 milioni per un articolo diffamatorio sul caso Cirillo. Il direttore di Repubblica si vendica tre anni dopo, attaccando Pannella per la candidatura di Cicciolina. 

Ma è soprattutto su Bettino Craxi che i due hanno posizioni opposte: Pannella lo corteggia; Scalfari, innamorato del segretario dc Ciriaco De Mita, lo detesta. 
Il culmine dello scontro fra Marco ed Eugenio viene raggiunto nel '93, quando Pannella organizza addirittura un convegno ad hoc contro Scalfari, Caracciolo e De Benedetti: "Sono associati per delinquere - spara - Scalfari è un libertino mascherato da tartufo, che con una mano indica il dio della democrazia e con l'altra tocca le cosce dell'autoritarismo e della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava". 

Finirà mai la rivalità fra il politico 67enne che non è riuscito a fare il giornalista e il giornalista 73enne che non è riuscito a fare il politico (anche se il primo si illude di distruggere i giornalisti con il referendum, e il secondo spera in un posto da ministro o da senatore a vita)?
Mauro Suttora