JOSETTE SHEERAN, UN’AMERICANA A ROMA PER CONTO DI BUSH
Chi è il nuovo direttore del Pam (Programma alimentare mondiale)
Il Foglio, sabato 23 febbraio 2008
di Mauro Suttora
Una delle eredità positive che George Bush lascerà a fine mandato fra un anno si chiama Josette Sheeran. È una bella signora bionda di 53 anni che da nove mesi si è trasferita a Roma per dirigere il Pam (Programma alimentare mondiale, Wfp nell’acronimo inglese), una delle agenzie più efficienti dell’Onu: vanta appena il sette per cento in costi di struttura.
Una decina digiorni fa la Sheeran ha effettuato la sua prima uscita pubblica in Italia. A Milano, dove, assieme al sindaco Letizia Moratti, al giocatore del Milan Ricardo Kakà e al presidente del Ghana, ha lanciato la campagna “Fill the cup” (riempi la tazza), con cui il Pam incita a donare ogni giorno venti centesimi per sconfiggere la piaga della fame nel mondo. “Venti centesimi garantiscono un pasto caldo a ognuno dei venti milioni di bambini che assistiamo, facendoli anche andare a scuola», ha detto Josette Sheeran.
Quest’anno il Pam fornisce aiuto alimentare a oltre 70 milioni di persone in circa 80 paesi. È il più grande organismo umanitario mondiale. Dalla sede di Roma (vicino a Fiumicino) e dalla base operativa di Brindisi (dove stanno i magazzini con le scorte alimentari, e da dove sono pronti a decollare gli aerei per le emergenze) partono gli aiuti che fanno sopravvivere popolazioni intere. Tutto il Darfur, per esempio, da anni ormai purtroppo dipende totalmente dal Pam.
La Sheeran è la più giovane fra le tre donne attualmente alla guida di un’agenzia Onu. Le altre sono le sessantenni Louise Arbour (la canadese ex pm del tribunale internazionale dell’Aia che quattro anni fa soffiò ad Emma Bonino il posto di Alta commissaria per i diritti umani) e Margaret Chang, una cinese alla testa dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità).
Il suo curriculum è interessante. Tutta la sua vita pubblica, infatti, si svolge a destra. Nel 1975 fece notizia, appena ventunenne. Un anno prima di laurearsi all’università del Colorado finì sul settimanale Time perché suo padre denunciò la setta del reverendo coreano Moon (quella della moglie del vescovo Milingo) per avergli plagiato le tre figlie, fra cui Josette. La quale nella setta Moon c’è rimasta ventidue anni, facendo una gran carriera come giornalista. Approdata al quotidiano moonista conservatore Washington Times nell’82, ne è uscita solo nel ’97 con il grado di managing editor (vicedirettrice). Ha ricevuto una nomination per il premio Pulitzer, del quale è stata poi giurata.
Dieci anni fa la rottura con Moon: Sheeran passa alla chiesa episcopale, e contemporaneamente William Bennett, già ministro reaganiano dell’Istruzione, le offre la presidenza del suo think tank di destra Empower America, che oggi si chiama Freedom Works. Slogan: “Meno stato, meno tasse, più libertà”. Nel ’99, un tuffo a Wall Street: la poliedrica Josette diventa managing director di Tis Worldwide, multinazionale informatica con 1.200 dipendenti.
Un’esperienza manageriale che le torna preziosa quando l’amministrazione Bush la richiama a Washington nel 2001, collocandola in posizione di rilievo al Commercio estero. Lì Sheeran fa la sherpa ai vertici G8, familiarizza con la finanza internazionale e diventa numero due. Nel 2005, infine, l’approdo al Dipartimento di stato: sottosegretaria di Condi Rice per gli Affari economici ed agricoli.
Alla fine del 2006 comincia la corsa per l’ambita poltrona di direttore del Pam, che gestisce un bilancio ragguardevole (due miliardi di dollari annui) con ben undicimila dipendenti sparsi nel mondo. Un potente braccio operativo di cui l’allora ambasciatore Usa all’Onu, il falco neocon John Bolton, reclama la guida per gli Stati Uniti. Siamo alla fine del mandato di Kofi Annan. Per sancire il ritorno alla collaborazione Usa-Onu dopo la guerra d’Iraq, cosa di meglio che nominare una statunitense bushiana nell’agenzia meno burocratica delle Nazioni Unite?
Il disgelo passa quindi per Roma, dove Josette Sheeran approda lo scorso maggio e resterà per altri quattro anni. Ironia della sorte: anche il suo nuovo principale si chiama Moon, ed è coreano: Ban ki Moon, nuovo segretario generale dell’Onu. Lei affronta il nuovo incarico con il consueto entusiasmo americano, adora Roma e ormai in città si sente a casa: in un ristorante di via Margutta ha incontrato per caso David Letterman, che cenava in un tavolo vicino.
Tuesday, February 26, 2008
Monday, February 25, 2008
I radicali e il Pd
ACCORDO: NOVE PARLAMENTARI E TRE MILIONI DI EURO
di Mauro Suttora
Libero, 22 febbraio 2008
Tre milioni di euro. È l’incredibile cifra che i radicali sono riusciti a strappare a Walter Veltroni in cambio di nulla. Perché se i Democratici non avessero offerto loro nove posti da parlamentare, più questa sontuosa fetta di finanziamento pubblico, i pannelliani sarebbero scomparsi dal parlamento. Impossibile infatti che raggiungano il quattro per cento, quota-ghigliottina per i non apparentati, da soli o magari riesumando la Rosa nel pugno con i socialisti, che due anni fa si fermò mesta al due virgola qualcosa. Oggi i sondaggi unanimi assegnano loro l’uno-due per cento. E nessun altro forno - Berlusconi, Bertinotti - li vuole. Nessuna alternativa, quindi.
Eppure, trattando e lamentandosi, Marco Pannella ed Emma Bonino hanno spuntato condizioni di lusso. Il governo italiano - qualunque governo - dovrebbe nominarli immediatamente plenipotenziari per tutti i negoziati internazionali che aspettano il nostro Paese. Si sono dimostrati più abili di qualsiasi pokerista incallito, trader di Wall Street o vucumprà da spiaggia. Eccezionali.
Pannella, d’altronde, è sempre stato eccezionale. Da quando a quindici anni, nel 1945, comprò la prima copia del giornale di Benedetto Croce, ‘Risorgimento liberale’, e s’innamorò del partito omonimo. Pochi anni dopo lui ed Eugenio Scalfari erano i due galletti più promettenti nel vivaio del Pli. Ma stavano troppo a sinistra per i filo-confindustriali, e allora nel ’55 fondarono il partito radicale. Dopodiché, sono sempre andati a scrocco. Alle politiche si allearono con il Pri, ma presero l’1,4. Nel ’60 si appiccicarono al Psi e andò un po’ meglio: 51 consiglieri comunali radicali eletti in Italia (fra i quali Arnoldo Foà in Campidoglio e Scalfari a Milano, col quadruplo dei voti di un giovane Bettino Craxi).
Poi ci fu un’alleanza a Roma addirittura con i filosovietici dello Psiup: Pannella arrivò terzo ma non fu eletto. La strategia del cuculo funzionò invece nell’89, quando i radicali stabilirono un record mondiale. Riuscirono a candidarsi eurodeputati in ben quattro liste diverse: Pannella con Pri-Pli, Adelaide Aglietta con i verdi, Marco Taradash con gli antiproibizionisti sulla droga. E Giovanni Negri finì nel Psdi, unico non eletto.
Nel ’63 fu il Pci a fare la corte a Pannella, proprio come oggi: Giancarlo Pajetta in persona offrì tre posti da indipendenti di sinistra ai radicali. Ma loro rifiutarono sdegnosamente. Allora se lo potevano permettere, perché nessuno faceva il politico di mestiere: Pannella e Gianfranco Spadaccia erano giornalisti, Angiolo Bandinelli professore, Sergio Stanzani dirigente Iri, Mauro Mellini avvocato.
Oggi, invece, la «baracca» radicale è una piccola multinazionale dei diritti umani con uffici a Bruxelles e New York, una bella sede nel centro di Roma proprio sopra al night Supper club, e un’ottima radio che copre tutta Italia e offre la migliore rassegna stampa ai patiti di politica: quella del direttore Massimo Bordin.
Loro, che si considerano sempre il sale della terra, preferiscono autodefinirsi umilmente “galassia”, e vantano un sacco di associazioni collaterali: da ‘Nessuno tocchi Caino’ che ha appena strappato la moratoria sulle esecuzioni capitali all’Onu alla ‘Luca Coscioni’ che si batte per la libertà della ricerca scientifica e il testamento biologico (caso Welby), dagli ecologisti di ‘Rientro dolce’ agli umanitaristi internazionali di ‘Non c’è pace senza giustizia’.
Il che, molto prosaicamente, vuol dire decine di stipendi che Pannella si trova sul groppone. Ora, grazie a Walter, verranno erogati per altri cinque anni. Quanto a Radio radicale, da decenni riesce nel miracolo di incassare contributi statali sia come organo di partito, sia come emittente super partes delle sedute parlamentari.
Intendiamoci, però: i pannelliani non sono imbroglioni clientelari. La loro radio, per esempio, trasmette con spirito voltairiano convegni e congressi di tutti i partiti. Tanto che, all’ultima assemblea di An, un oratore ha chiesto in extremis la parola a Gianfranco Fini giustificandosi così: «Devo dimostrare a mia moglie in ascolto dalla Sicilia che sono veramente qui».
Nel 1996 fu Berlusconi a trovarsi nei panni di Veltroni. Allora Pannella trattò con lui l’entrata dei radicali nel Polo, chiedendo lo stesso numero di collegi sicuri offerti ai cattolici di Ccd-Cdu. Ma aveva sottovalutato l’abilità di Casini, Mastella e Buttiglione, che alla fine spuntarono cento posti contro i 43 offerti ai radicali. «Non entrerò più nel suk di via dell’Anima!», tuonò Marco, che si vendicò presentando candidati autonomi. Un disastro: nessun deputato, e solo un senatore eletto in Sicilia (Piero Milio) grazie a una desistenza concordata in extremis.
Ammaestrato da quella esperienza, che tenne i radicali fuori da Montecitorio per un decennio, questa volta Pannellik ha bluffato solo fino all’ultimo secondo. Poi i suoi fidatissimi Rita Bernardini e Marco Cappato hanno acchiappato al volo quel che offriva Goffredo Bettini, il generoso (o sprovveduto?) luogotenente di Veltroni, probabilmente anche lui succube del fascino di SuperMarco fin dal ’93, quando assieme architettarono la prima sindacatura romana vincente di Francesco Rutelli.
Chi saranno adesso i nove radicali nel partito democratico? Pro forma è stato convocato un comitato nazionale radicale per il weekend. Però come sempre deciderà Pannella, gran libertario fuori ma leninista all’interno del suo partitino. I due giovani radicali più brillanti, quelli della svolta liberista degli anni Novanta che fruttò l’exploit dell’otto per cento alla lista Bonino nel ’99 (con punte del 15% in alcune città del nord), se ne sono andati con Berlusconi. Benedetto Della Vedova è riuscito a mantenere rapporti cordiali con Marco, mentre con Daniele Capezzone si è passati direttamente dall’amore all’odio. Eppure Pannella è spesso generoso con i suoi. A volte quasi scialacquatore. Due anni fa, per esempio, regalò due seggi che spettavano ai radicali (nell’alleanza con i socialisti) agli ex comunisti Lanfranco Turci e Salvatore Buglio - quest’ultimo unico ex operaio eletto alla Camera.
Molti sono gli ex portaborse radicali che devono essere sistemati. (La definizione non suoni insulto: chi ha portato la borsa a Pannella è destinato a carriere mirabolanti, come Elio Vito in Forza Italia e lo stesso Rutelli). Non ci saranno quindi esterni di lusso, come Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Domenico Modugno. E neanche scandali viventi come Toni Negri o Cicciolina.
Bandinelli, possibile senatore, ha 80 anni come Ciriaco De Mita, ma Veltroni ha un debole per lui: sedettero assieme nel consiglio comunale a Roma di Luigi Petroselli negli anni ’70 (prima carica di Walter). Oggi Bandinelli è un po’ imbarazzato, perché dopo avere scritto sul mitico ‘Mondo’ di Mario Pannunzio negli anni ’50 e ’60 è approdato al ‘Foglio’. Ma la svolta clericale di Giuliano Ferrara lo ha spiazzato, anche se conserva la sua column settimanale in nome della “dissenting opinion”.
Quanto a Pannella, a 78 anni non è un mistero che ambisca a un posto da senatore. A vita, però. Prima o poi, c’è da scommetterlo, riuscirà ad ammaliare anche qualche presidente della Repubblica, che sarà costretto a nominarlo dopo uno sciopero della fame o della sete. Per evitare un’altra bevuta di pipì, come quella che l’incorreggibile inflisse al povero Carlo Azeglio Ciampi nel 2002.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, 22 febbraio 2008
Tre milioni di euro. È l’incredibile cifra che i radicali sono riusciti a strappare a Walter Veltroni in cambio di nulla. Perché se i Democratici non avessero offerto loro nove posti da parlamentare, più questa sontuosa fetta di finanziamento pubblico, i pannelliani sarebbero scomparsi dal parlamento. Impossibile infatti che raggiungano il quattro per cento, quota-ghigliottina per i non apparentati, da soli o magari riesumando la Rosa nel pugno con i socialisti, che due anni fa si fermò mesta al due virgola qualcosa. Oggi i sondaggi unanimi assegnano loro l’uno-due per cento. E nessun altro forno - Berlusconi, Bertinotti - li vuole. Nessuna alternativa, quindi.
Eppure, trattando e lamentandosi, Marco Pannella ed Emma Bonino hanno spuntato condizioni di lusso. Il governo italiano - qualunque governo - dovrebbe nominarli immediatamente plenipotenziari per tutti i negoziati internazionali che aspettano il nostro Paese. Si sono dimostrati più abili di qualsiasi pokerista incallito, trader di Wall Street o vucumprà da spiaggia. Eccezionali.
Pannella, d’altronde, è sempre stato eccezionale. Da quando a quindici anni, nel 1945, comprò la prima copia del giornale di Benedetto Croce, ‘Risorgimento liberale’, e s’innamorò del partito omonimo. Pochi anni dopo lui ed Eugenio Scalfari erano i due galletti più promettenti nel vivaio del Pli. Ma stavano troppo a sinistra per i filo-confindustriali, e allora nel ’55 fondarono il partito radicale. Dopodiché, sono sempre andati a scrocco. Alle politiche si allearono con il Pri, ma presero l’1,4. Nel ’60 si appiccicarono al Psi e andò un po’ meglio: 51 consiglieri comunali radicali eletti in Italia (fra i quali Arnoldo Foà in Campidoglio e Scalfari a Milano, col quadruplo dei voti di un giovane Bettino Craxi).
Poi ci fu un’alleanza a Roma addirittura con i filosovietici dello Psiup: Pannella arrivò terzo ma non fu eletto. La strategia del cuculo funzionò invece nell’89, quando i radicali stabilirono un record mondiale. Riuscirono a candidarsi eurodeputati in ben quattro liste diverse: Pannella con Pri-Pli, Adelaide Aglietta con i verdi, Marco Taradash con gli antiproibizionisti sulla droga. E Giovanni Negri finì nel Psdi, unico non eletto.
Nel ’63 fu il Pci a fare la corte a Pannella, proprio come oggi: Giancarlo Pajetta in persona offrì tre posti da indipendenti di sinistra ai radicali. Ma loro rifiutarono sdegnosamente. Allora se lo potevano permettere, perché nessuno faceva il politico di mestiere: Pannella e Gianfranco Spadaccia erano giornalisti, Angiolo Bandinelli professore, Sergio Stanzani dirigente Iri, Mauro Mellini avvocato.
Oggi, invece, la «baracca» radicale è una piccola multinazionale dei diritti umani con uffici a Bruxelles e New York, una bella sede nel centro di Roma proprio sopra al night Supper club, e un’ottima radio che copre tutta Italia e offre la migliore rassegna stampa ai patiti di politica: quella del direttore Massimo Bordin.
Loro, che si considerano sempre il sale della terra, preferiscono autodefinirsi umilmente “galassia”, e vantano un sacco di associazioni collaterali: da ‘Nessuno tocchi Caino’ che ha appena strappato la moratoria sulle esecuzioni capitali all’Onu alla ‘Luca Coscioni’ che si batte per la libertà della ricerca scientifica e il testamento biologico (caso Welby), dagli ecologisti di ‘Rientro dolce’ agli umanitaristi internazionali di ‘Non c’è pace senza giustizia’.
Il che, molto prosaicamente, vuol dire decine di stipendi che Pannella si trova sul groppone. Ora, grazie a Walter, verranno erogati per altri cinque anni. Quanto a Radio radicale, da decenni riesce nel miracolo di incassare contributi statali sia come organo di partito, sia come emittente super partes delle sedute parlamentari.
Intendiamoci, però: i pannelliani non sono imbroglioni clientelari. La loro radio, per esempio, trasmette con spirito voltairiano convegni e congressi di tutti i partiti. Tanto che, all’ultima assemblea di An, un oratore ha chiesto in extremis la parola a Gianfranco Fini giustificandosi così: «Devo dimostrare a mia moglie in ascolto dalla Sicilia che sono veramente qui».
Nel 1996 fu Berlusconi a trovarsi nei panni di Veltroni. Allora Pannella trattò con lui l’entrata dei radicali nel Polo, chiedendo lo stesso numero di collegi sicuri offerti ai cattolici di Ccd-Cdu. Ma aveva sottovalutato l’abilità di Casini, Mastella e Buttiglione, che alla fine spuntarono cento posti contro i 43 offerti ai radicali. «Non entrerò più nel suk di via dell’Anima!», tuonò Marco, che si vendicò presentando candidati autonomi. Un disastro: nessun deputato, e solo un senatore eletto in Sicilia (Piero Milio) grazie a una desistenza concordata in extremis.
Ammaestrato da quella esperienza, che tenne i radicali fuori da Montecitorio per un decennio, questa volta Pannellik ha bluffato solo fino all’ultimo secondo. Poi i suoi fidatissimi Rita Bernardini e Marco Cappato hanno acchiappato al volo quel che offriva Goffredo Bettini, il generoso (o sprovveduto?) luogotenente di Veltroni, probabilmente anche lui succube del fascino di SuperMarco fin dal ’93, quando assieme architettarono la prima sindacatura romana vincente di Francesco Rutelli.
Chi saranno adesso i nove radicali nel partito democratico? Pro forma è stato convocato un comitato nazionale radicale per il weekend. Però come sempre deciderà Pannella, gran libertario fuori ma leninista all’interno del suo partitino. I due giovani radicali più brillanti, quelli della svolta liberista degli anni Novanta che fruttò l’exploit dell’otto per cento alla lista Bonino nel ’99 (con punte del 15% in alcune città del nord), se ne sono andati con Berlusconi. Benedetto Della Vedova è riuscito a mantenere rapporti cordiali con Marco, mentre con Daniele Capezzone si è passati direttamente dall’amore all’odio. Eppure Pannella è spesso generoso con i suoi. A volte quasi scialacquatore. Due anni fa, per esempio, regalò due seggi che spettavano ai radicali (nell’alleanza con i socialisti) agli ex comunisti Lanfranco Turci e Salvatore Buglio - quest’ultimo unico ex operaio eletto alla Camera.
Molti sono gli ex portaborse radicali che devono essere sistemati. (La definizione non suoni insulto: chi ha portato la borsa a Pannella è destinato a carriere mirabolanti, come Elio Vito in Forza Italia e lo stesso Rutelli). Non ci saranno quindi esterni di lusso, come Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Domenico Modugno. E neanche scandali viventi come Toni Negri o Cicciolina.
Bandinelli, possibile senatore, ha 80 anni come Ciriaco De Mita, ma Veltroni ha un debole per lui: sedettero assieme nel consiglio comunale a Roma di Luigi Petroselli negli anni ’70 (prima carica di Walter). Oggi Bandinelli è un po’ imbarazzato, perché dopo avere scritto sul mitico ‘Mondo’ di Mario Pannunzio negli anni ’50 e ’60 è approdato al ‘Foglio’. Ma la svolta clericale di Giuliano Ferrara lo ha spiazzato, anche se conserva la sua column settimanale in nome della “dissenting opinion”.
Quanto a Pannella, a 78 anni non è un mistero che ambisca a un posto da senatore. A vita, però. Prima o poi, c’è da scommetterlo, riuscirà ad ammaliare anche qualche presidente della Repubblica, che sarà costretto a nominarlo dopo uno sciopero della fame o della sete. Per evitare un’altra bevuta di pipì, come quella che l’incorreggibile inflisse al povero Carlo Azeglio Ciampi nel 2002.
Mauro Suttora
Saturday, February 23, 2008
La fantastica Marianna Madia
di Mauro Suttora
Libero, 23 febbraio 2008
“È urgente ritrovare il tempo delle idee e dell’amore”. C’è una poetessa nel posto di capolista più importante d’Italia per il partito democratico (precederà Walter Veltroni a Roma). Si chiama Marianna Madìa e ha 27 anni.
Ieri si è presentata ai giornalisti e ha assicurato il suo impegno, oltre che per l’amore come promise Cicciolina vent’anni fa, anche per “fare uno scatto portando la femminilità in settori come l'economia senza inseguire modelli maschili”.
Infine, la signorina si preoccuperà per “la Terra e il suo stato di salute”. Nientedimenoche. Infatti Marianna ha scoperto che è proprio questo “uno degli elementi di precarietà per le nuove generazioni”.
Altro che precarietà del lavoro: no, non è quella ad angustiare i giovani secondo Marianna. Anche perché lei un posto già ce l’ha. Anzi, tre. Il primo è presso un ente la cui inutilità è direttamente proporzionale alla lunghezza del nome: Segreteria tecnica dell’Osservatorio per la piccola e media impresa del Dipartimento per lo Sviluppo delle Economie Territoriali della Presidenza del Consiglio (uffici in centro a Roma, via della Mercede).
Il secondo lavoro di Marianna è conduttrice Rai: proprio la scorsa notte l’abbiamo potuta ammirare subito dopo Marzullo, come ogni venerdì da ottobre, per una mezz’oretta nel suo programma eCubo.
Infine Marianna collabora con l’Arel, il centro studi economici democristiano fondato da Beniamino Andreatta.
Insomma, fra una consulenza e l’altra la ragazza appare già bene incistata nella nomenklatura pariolo-democratica: figlia dell’attore Stefano Madia, già consigliere comunale a Roma nella Lista per Veltroni (purtroppo deceduto tre anni fa), è protetta sia dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta (che dell’Arel è segretario generale), sia da Veltroni, il quale si dichiara pazzo di lei: «Marianna ha un’intensità e una luminosità interiore che considero una ricchezza», si è lanciato ieri.
Ma l'intensa Madia in fatto di pigmalioni incassa l'en plein: è stato infatti Giovanni Minoli, a sua volta leggendario biraccomandato (Psi come craxiano, Dc come marito della figlia del direttore generale Rai Bernabei), ad affidarle il programma su Raiuno. Lei li ha ringraziati tutti nella conferenza stampa, senza imbarazzo.
Letta? “Mi ha preso che ero una ragazzina non ero ancora laureata”. Veltroni? “Ha accolto la dote che posso offrire, la mia straordinaria inesperienza”. Minoli? “Maestro di vita e di pensiero”.
Intimoriti da tante iperboli e litoti, ci inchiniamo di fronte alla nuova generazione di politici del centrosinistra. Dopo la conferenza stampa il sito Dagospia ha subito rilanciato un’indiscrezione messa in rete dal perfido blog ‘nullo.ilcannocchiale.it’:
“Nella sua disperata rincorsa dell’antipolitica, Veltroni cerca di contrastare il risentimento contro ‘i soliti noti’ candidando una ragazza qualunque. Peccato però che Marianna Madia Veltroni non l’abbia trovata in fila al supermercato: no, Marianna Madia è la figlia di Stefano Madia. Lei non è solo giovane, donna, figlia di un suo amico morto, collaboratrice di Minoli ed Enrico Letta (a proposito, dalle parti di Letta fanno sapere che la Madia non sarà un loro candidato: ci tengono a dire che è in quota Veltroni). Marianna Madia è anche la ex del figlio del presidente della Repubblica: sembra infatti che la storia con Giulio Napolitano, quarantenne professore di diritto pubblico all’Università della Tuscia, sia finita.”
Questi sono i giovani meritevoli secondo Veltroni. Viva il merito, abbasso le raccomandazioni.
Mauro Suttora
Wednesday, February 20, 2008
Raoul Bova: nessuno tocchi Caino!
Nel suo nuovo film, che aiuta l'associazione Nessuno Tocchi Caino, l'attore denuncia la barbarie della pena di morte. Perche' l'orrore continua, nonostante la moratoria
di Mauro Suttora
Oggi, 20 febbraio 2008
Dopo aver sbancato i botteghini con il film 'Scusa ma ti chiamo amore', Raoul Bova torna all’impegno politico. Sta finendo di girare un cortometraggio contro la pena di morte. Ha dichiarato Raoul: «Dopo l’approvazione da parte dell’Onu della moratoria internazionale, ritengo che sia importantissimo realizzare un film con forte potenziale civile, capace di offrire a ogni spettatore occasioni di dibattito».
Non è la prima volta che Bova contribuisce in prima persona alla lotta contro la pena capitale, assieme all’associazione «Nessuno tocchi Caino»: «È una questione che mi coinvolge come cittadino e uomo. Su questo tema prediligo film come 'Un condannato a morte è fuggito' di Robert Bresson, 'Porte aperte' di Gianni Amelio, con il quale vorrei tanto lavorare, 'Arrivederci ragazzi' di Louis Malle, 'Dead Man Walking' di Tim Robbins».
Oggi negli Stati Uniti la Corte suprema ha decretato che il metodo dell’iniezione letale è disumano. E per questo le esecuzioni sono ferme da mesi. Erano comunque calate a una sessantina all’anno, quasi tutte nel Texas. Il governo di Washington ha però annunciato di voler chiedere la pena di morte per sei detenuti nel carcere di Guantanamo, accusati di aver partecipato direttamente alle stragi dell’11 settembre 2001.
E nel resto del mondo, a che punto siamo nella lotta contro la pena di morte?
«La risoluzione per la moratoria universale è stata approvata dall’Assemblea generale dell’Onu lo scorso 18 dicembre con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti», spiega a Oggi Elisabetta Zamparutti, dirigente di «Nessuno tocchi Caino». «Prevede, oltre alla richiesta rivolta ai Paesi che ancora praticano la pena di morte di introdurre una moratoria in vista dell’abolizione, un altro punto molto importante: gli Stati devono fornire al segretario generale dell’Onu informazioni sull’uso della pena capitale, per redarre un rapporto sull’attuazione della risoluzione che verrà presentato alla prossima Assemblea generale».
Insomma, la moratoria proclamata dall’Onu è solo un invito, non un obbligo. Per questo la campagna continua: «La richiesta di informazioni è assai importante per gli stati totalitari e illiberali come Cina, Iran o Pakistan, in molti dei quali la pena di morte è segreto di Stato, e che sono responsabili per il 98 per cento delle esecuzioni nel mondo», aggiunge la Zamparutti.
In Cina le stime su quante siano le condanne ogni anno variano di molto: si va dalle quattro alle novemila. «In vista dei Giochi Olimpici in agosto verranno coinvolti atleti perché sostengano la moratoria e l’abolizione del segreto».
Un altro Paese dove le cose non vanno bene è l’Iran. Dopo l’approvazione della moratoria all’Onu il regime degli ayatollah ha addirittura aumentato le esecuzioni, compiacendosi di esibire pubblicamente le macabre impiccagioni dalle gru. Ed è addirittura ritornato in voga, lì come in Arabia Saudita e in altri Paesi islamici, il barbaro costume di lapidare con pietre le donne accusate di adulterio.
In Africa invece le cose procedono piuttosto bene: «In quel continente c’è il maggior numero di Paesi abolizionisti di fatto, ventuno stati su 33 non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni», dice Zamparutti, «quindi la situazione è matura per attuare la moratoria della pena di morte e, in alcuni casi, per abolirla completamente. Quest’anno condurremo una campagna per la moratoria nella Repubblica democratica del Congo e in altri Paesi dove l’evoluzione del processo democratico può portare all’abolizione della pena di morte. In Congo organizzeremo una conferenza a sostegno dell’abolizione, dopo che la pena capitale non è stata contemplata dalla nuova costituzione del 2005 e dopo l’impegno assunto - e mantenuto - dal presidente Joseph Kabila con Emma Bonino a non giustiziare nessuno, neppure gli assassini di suo padre, fino a che sulla questione non si fosse pronunciato il Parlamento.
E per quanto riguarda l’Asia, «Nessuno tocchi Caino» organizzerà un secondo seminario, dopo quello del 2006, in Kazakistan. Lì il presidente Nursultan Nazarbayev nel dicembre 2003 ha introdotto una moratoria sulla pena di morte, fino alla prevista abolizione».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 20 febbraio 2008
Dopo aver sbancato i botteghini con il film 'Scusa ma ti chiamo amore', Raoul Bova torna all’impegno politico. Sta finendo di girare un cortometraggio contro la pena di morte. Ha dichiarato Raoul: «Dopo l’approvazione da parte dell’Onu della moratoria internazionale, ritengo che sia importantissimo realizzare un film con forte potenziale civile, capace di offrire a ogni spettatore occasioni di dibattito».
Non è la prima volta che Bova contribuisce in prima persona alla lotta contro la pena capitale, assieme all’associazione «Nessuno tocchi Caino»: «È una questione che mi coinvolge come cittadino e uomo. Su questo tema prediligo film come 'Un condannato a morte è fuggito' di Robert Bresson, 'Porte aperte' di Gianni Amelio, con il quale vorrei tanto lavorare, 'Arrivederci ragazzi' di Louis Malle, 'Dead Man Walking' di Tim Robbins».
Oggi negli Stati Uniti la Corte suprema ha decretato che il metodo dell’iniezione letale è disumano. E per questo le esecuzioni sono ferme da mesi. Erano comunque calate a una sessantina all’anno, quasi tutte nel Texas. Il governo di Washington ha però annunciato di voler chiedere la pena di morte per sei detenuti nel carcere di Guantanamo, accusati di aver partecipato direttamente alle stragi dell’11 settembre 2001.
E nel resto del mondo, a che punto siamo nella lotta contro la pena di morte?
«La risoluzione per la moratoria universale è stata approvata dall’Assemblea generale dell’Onu lo scorso 18 dicembre con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti», spiega a Oggi Elisabetta Zamparutti, dirigente di «Nessuno tocchi Caino». «Prevede, oltre alla richiesta rivolta ai Paesi che ancora praticano la pena di morte di introdurre una moratoria in vista dell’abolizione, un altro punto molto importante: gli Stati devono fornire al segretario generale dell’Onu informazioni sull’uso della pena capitale, per redarre un rapporto sull’attuazione della risoluzione che verrà presentato alla prossima Assemblea generale».
Insomma, la moratoria proclamata dall’Onu è solo un invito, non un obbligo. Per questo la campagna continua: «La richiesta di informazioni è assai importante per gli stati totalitari e illiberali come Cina, Iran o Pakistan, in molti dei quali la pena di morte è segreto di Stato, e che sono responsabili per il 98 per cento delle esecuzioni nel mondo», aggiunge la Zamparutti.
In Cina le stime su quante siano le condanne ogni anno variano di molto: si va dalle quattro alle novemila. «In vista dei Giochi Olimpici in agosto verranno coinvolti atleti perché sostengano la moratoria e l’abolizione del segreto».
Un altro Paese dove le cose non vanno bene è l’Iran. Dopo l’approvazione della moratoria all’Onu il regime degli ayatollah ha addirittura aumentato le esecuzioni, compiacendosi di esibire pubblicamente le macabre impiccagioni dalle gru. Ed è addirittura ritornato in voga, lì come in Arabia Saudita e in altri Paesi islamici, il barbaro costume di lapidare con pietre le donne accusate di adulterio.
In Africa invece le cose procedono piuttosto bene: «In quel continente c’è il maggior numero di Paesi abolizionisti di fatto, ventuno stati su 33 non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni», dice Zamparutti, «quindi la situazione è matura per attuare la moratoria della pena di morte e, in alcuni casi, per abolirla completamente. Quest’anno condurremo una campagna per la moratoria nella Repubblica democratica del Congo e in altri Paesi dove l’evoluzione del processo democratico può portare all’abolizione della pena di morte. In Congo organizzeremo una conferenza a sostegno dell’abolizione, dopo che la pena capitale non è stata contemplata dalla nuova costituzione del 2005 e dopo l’impegno assunto - e mantenuto - dal presidente Joseph Kabila con Emma Bonino a non giustiziare nessuno, neppure gli assassini di suo padre, fino a che sulla questione non si fosse pronunciato il Parlamento.
E per quanto riguarda l’Asia, «Nessuno tocchi Caino» organizzerà un secondo seminario, dopo quello del 2006, in Kazakistan. Lì il presidente Nursultan Nazarbayev nel dicembre 2003 ha introdotto una moratoria sulla pena di morte, fino alla prevista abolizione».
Mauro Suttora
Sant'Egidio, 40 anni di pace
Il compleanno della comunità romana: ecco perché piacciono a papi e popi, Clinton e Bush, destra e sinistra
Oggi, 20 febbraio 2008
Sono fra i pochi sessantottini che hanno fatto sul serio la rivoluzione. E l’hanno pure vinta. I loro coetanei di sinistra, inneggianti a Lenin, Stalin e Mao, oggi sono in gran parte accomodati sulle stesse poltrone delle autorità che allora contestavano. I giovani di Sant’Egidio, invece, nel febbraio 1968 cominciarono ad andare per baraccopoli. Quella accanto all’ex cinodromo dell’Ostiense, per esempio, dove fondarono la loro prima «scuola popolare». Davano ripetizioni e insegnavano a leggere e scrivere ai poveri.
«Volevamo anche noi fare la rivoluzione», ricorda Mario Marazziti, 55 anni, dirigente Rai, «ma senza violenza. Nel nome di Gesù, con lo spirito dei primi cristiani, di San Francesco e del Concilio Vaticano II». Erano giovani «bene», abitavano nei quartieri della ottima borghesia (per esempio, Andrea Riccardi, oggi 57enne professore universitario di storia, era figlio del presidente di una banca e frequentava il liceo Virgilio). La loro ricetta era semplice: «Per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi», dice Riccardi.
Hanno fatto entrambe le cose, in questi quarant’anni. E continuano a lavorare: nessuno ha ridotto la politica, la carità o il volontariato a mestiere a tempo pieno. Nelle ore libere e con i propri soldi aiutano ancora i poveri di Roma (che non sono più i «borgatari», ma gli immigrati; danno loro da mangiare gratis nella mensa di via Dandolo). Ma si sono allargati al mondo intero: oggi sono cinquantamila, presenti in 70 Paesi.
Nel 1992 hanno fatto fare la pace dopo decenni di guerriglia ai mozambicani. Idem in Guatemala quattro anni dopo. Hanno provato e non ci sono riusciti in Algeria. Hanno aiutato i kosovari nel ’98. Hanno raccolto milioni di firme contro la pena di morte e due mesi fa sono riusciti a far approvare la moratoria all’Onu. Ma essi stessi si sono trasformati in una piccola Onu, grazie alle loro capacità di mediatori («costruttori di pace», come dice il Vangelo): «Le Nazioni Unite di Trastevere», scherzano.
Il miracolo americano
Hanno messo d’accordo non solo militari e guerriglieri del Terzo mondo, ma anche democratici e repubblicani degli Stati Uniti. Li ha lodati sia Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Bill Clinton, sia il presidente George Bush, che ha voluto incontrarli a Roma l’anno scorso.
Quanto alla religione, sono ormai ventun anni che organizzano i principali vertici ecumenici del mondo, cui partecipano papi cattolici, popi ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici, lama buddisti e imam musulmani. Sono diventati i beniamini di papa Wojtyla fin dal loro primo incontro, nel ’79. E il feeling continua con Papa Ratzinger, che pochi mesi fa ha partecipato a un loro megaraduno a Napoli.
All’inizio qualche monsignore di curia storceva un po’ il naso: chi sono questi ragazzotti che pretendono di fare concorrenza alle millenarie doti diplomatiche del Vaticano? Che si limitino ad assistere i barboni a Roma e i malati di Aids in Africa, che alle cose serie pensiamo noi.
Oggi, invece, la messa solenne per il loro quarantesimo compleanno l’ha voluta celebrare il segretario di Stato in persona, il cardinale Tarcisio Bertone. In prima fila c’erano politici di destra e sinistra: Gianni Letta e Rocco Buttiglione, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Piero Fassino e Romano Prodi. Il numero due del Vaticano ha divertito tutti citando Woody Allen addirittura in omelia: «Marx è morto, Dio sta male e neppure io mi sento troppo bene...»
Sulla porticina della loro sede, convento di suore di clausura fino al 1970, non c’è neppure una targa. Piazza Sant’Egidio ogni sera si trasforma in un carnevale a cielo aperto come tutta Trastevere, con studenti di tutto il mondo che si ubriacano di birra. Ma basta suonare il campanello e si entra in un altro mondo: chiostri, cortili e silenzi.
Mi accoglie un distinto portinaio di mezza età. Scoprirò che anche lui è docente universitario: come tutti fa il volontario a turno durante le ore di tempo libero. «Il nostro bilancio annuale ufficiale è di 20 milioni di euro», mi spiega Marazziti, «ma calcolando il valore di tutta l’attività gratuita dei nostri aderenti nel mondo questa cifra si decuplica. Quasi tutti i nostri dirigenti che vanno in Africa, per esempio, usufruiscono di ferie o aspettative non retribuite, e si pagano le spese di viaggio».
Donazioni a buon fine
Solo un terzo di quei venti milioni proviene da aiuti pubblici. Tutto il resto sono donazioni private. Così Sant’Egidio evita la disgrazia che purtroppo colpisce molti enti benefici e ong (organizzazioni non governative): la burocrazia. «Le spese di struttura sono del 4 per cento», assicura Marazziti. Insomma, 96 euro su cento dati a Sant’Egidio finiscono direttamente ai bisognosi. «Il vertice dei Paesi africani ad Abuja nel 2006 ha decretato che i due programmi anti-Aids più efficienti sono il nostro e quello della fondazione di Bill Gates».
All’inizio il gruppo di Sant’Egidio gravitava attorno a Comunione e liberazione. Fu in quel periodo che Buttiglione si avvicinò a loro. Poi, negli anni ’70, veniva assimilato alle comunità di base e ai cristiani del dissenso (contrari al referendum sul divorzio voluto dalle gerarchie vaticane). Cattocomunisti, insomma. Negli anni ’80, pacifisti. E nel 2003, contrari alla guerra in Iraq. Ma Riccardi, Marazziti e oggi il presidente Marco Impagliazzo sono riusciti sempre a sfuggire alle etichette ideologiche, grazie al loro impegno concreto: il servizio ai poveri.
Il primo prete che li accolse in una parrocchia romana, don Vincenzo Paglia, è diventato vescovo di Terni. Di Riccardi si sussurra addirittura un incarico da ministro degli Esteri in un ipotetico governo Veltroni. Ma per ora la misura del successo della loro rivoluzione nonviolenta sta nel trasloco che ha dovuto effettuare la loro preghiera comunitaria (ogni sera alle 20.30, il sabato Messa): dalla chiesetta di Sant’Egidio alla vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Per mancanza di spazio.
Mauro Suttora
riquadro:
LA DIPLOMAZIA DEI POVERI
Sono passati quindici anni, ma nel palazzo della Farnesina se lo ricordano ancora quel giorno del 1992, quando nei corridoi felpati del ministero degli Esteri irruppe una folla festante per celebrare l’accordo di pace fra governo del Mozambico e guerriglieri. Nella foto qui sopra si vede l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo fra i due firmatari, ma a destra in prima fila ad applaudire c’era anche Mario Marazziti della comunità di Sant’Egidio, la vera artefice delle trattative.
Grazie ai suoi numerosi contatti nei Paesi del Terzo mondo e alla fiducia conquistata con le opere di solidarietà, Sant’Egidio ha provato spesso a mediare fra le parti di guerre e guerriglie che devastano molti Paesi. Un altro successo c’è stato nel ‘96 in Guatemala, mentre in Algeria i tentativi sono stati infruttuosi. Non sempre questa «diplomazia parallela» viene apprezzata dagli ambasciatori di professione, alcuni dei quali considerano i volontari di Sant’Egidio come dei dilettanti allo sbaraglio. Ma i risultati ci sono stati, ed è questo quello che conta.
«La guerra è la “madre di tutte le povertà”», spiegano loro, «perché distrugge l’impegno umanitario per il futuro di interi popoli. La guerra è anche assenza di ogni giustizia, come si vede in tanti Paesi dove il conflitto rende impossibile la difesa dei diritti umani basilari».
Mauro Suttora
Oggi, 20 febbraio 2008
Sono fra i pochi sessantottini che hanno fatto sul serio la rivoluzione. E l’hanno pure vinta. I loro coetanei di sinistra, inneggianti a Lenin, Stalin e Mao, oggi sono in gran parte accomodati sulle stesse poltrone delle autorità che allora contestavano. I giovani di Sant’Egidio, invece, nel febbraio 1968 cominciarono ad andare per baraccopoli. Quella accanto all’ex cinodromo dell’Ostiense, per esempio, dove fondarono la loro prima «scuola popolare». Davano ripetizioni e insegnavano a leggere e scrivere ai poveri.
«Volevamo anche noi fare la rivoluzione», ricorda Mario Marazziti, 55 anni, dirigente Rai, «ma senza violenza. Nel nome di Gesù, con lo spirito dei primi cristiani, di San Francesco e del Concilio Vaticano II». Erano giovani «bene», abitavano nei quartieri della ottima borghesia (per esempio, Andrea Riccardi, oggi 57enne professore universitario di storia, era figlio del presidente di una banca e frequentava il liceo Virgilio). La loro ricetta era semplice: «Per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi», dice Riccardi.
Hanno fatto entrambe le cose, in questi quarant’anni. E continuano a lavorare: nessuno ha ridotto la politica, la carità o il volontariato a mestiere a tempo pieno. Nelle ore libere e con i propri soldi aiutano ancora i poveri di Roma (che non sono più i «borgatari», ma gli immigrati; danno loro da mangiare gratis nella mensa di via Dandolo). Ma si sono allargati al mondo intero: oggi sono cinquantamila, presenti in 70 Paesi.
Nel 1992 hanno fatto fare la pace dopo decenni di guerriglia ai mozambicani. Idem in Guatemala quattro anni dopo. Hanno provato e non ci sono riusciti in Algeria. Hanno aiutato i kosovari nel ’98. Hanno raccolto milioni di firme contro la pena di morte e due mesi fa sono riusciti a far approvare la moratoria all’Onu. Ma essi stessi si sono trasformati in una piccola Onu, grazie alle loro capacità di mediatori («costruttori di pace», come dice il Vangelo): «Le Nazioni Unite di Trastevere», scherzano.
Il miracolo americano
Hanno messo d’accordo non solo militari e guerriglieri del Terzo mondo, ma anche democratici e repubblicani degli Stati Uniti. Li ha lodati sia Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Bill Clinton, sia il presidente George Bush, che ha voluto incontrarli a Roma l’anno scorso.
Quanto alla religione, sono ormai ventun anni che organizzano i principali vertici ecumenici del mondo, cui partecipano papi cattolici, popi ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici, lama buddisti e imam musulmani. Sono diventati i beniamini di papa Wojtyla fin dal loro primo incontro, nel ’79. E il feeling continua con Papa Ratzinger, che pochi mesi fa ha partecipato a un loro megaraduno a Napoli.
All’inizio qualche monsignore di curia storceva un po’ il naso: chi sono questi ragazzotti che pretendono di fare concorrenza alle millenarie doti diplomatiche del Vaticano? Che si limitino ad assistere i barboni a Roma e i malati di Aids in Africa, che alle cose serie pensiamo noi.
Oggi, invece, la messa solenne per il loro quarantesimo compleanno l’ha voluta celebrare il segretario di Stato in persona, il cardinale Tarcisio Bertone. In prima fila c’erano politici di destra e sinistra: Gianni Letta e Rocco Buttiglione, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Piero Fassino e Romano Prodi. Il numero due del Vaticano ha divertito tutti citando Woody Allen addirittura in omelia: «Marx è morto, Dio sta male e neppure io mi sento troppo bene...»
Sulla porticina della loro sede, convento di suore di clausura fino al 1970, non c’è neppure una targa. Piazza Sant’Egidio ogni sera si trasforma in un carnevale a cielo aperto come tutta Trastevere, con studenti di tutto il mondo che si ubriacano di birra. Ma basta suonare il campanello e si entra in un altro mondo: chiostri, cortili e silenzi.
Mi accoglie un distinto portinaio di mezza età. Scoprirò che anche lui è docente universitario: come tutti fa il volontario a turno durante le ore di tempo libero. «Il nostro bilancio annuale ufficiale è di 20 milioni di euro», mi spiega Marazziti, «ma calcolando il valore di tutta l’attività gratuita dei nostri aderenti nel mondo questa cifra si decuplica. Quasi tutti i nostri dirigenti che vanno in Africa, per esempio, usufruiscono di ferie o aspettative non retribuite, e si pagano le spese di viaggio».
Donazioni a buon fine
Solo un terzo di quei venti milioni proviene da aiuti pubblici. Tutto il resto sono donazioni private. Così Sant’Egidio evita la disgrazia che purtroppo colpisce molti enti benefici e ong (organizzazioni non governative): la burocrazia. «Le spese di struttura sono del 4 per cento», assicura Marazziti. Insomma, 96 euro su cento dati a Sant’Egidio finiscono direttamente ai bisognosi. «Il vertice dei Paesi africani ad Abuja nel 2006 ha decretato che i due programmi anti-Aids più efficienti sono il nostro e quello della fondazione di Bill Gates».
All’inizio il gruppo di Sant’Egidio gravitava attorno a Comunione e liberazione. Fu in quel periodo che Buttiglione si avvicinò a loro. Poi, negli anni ’70, veniva assimilato alle comunità di base e ai cristiani del dissenso (contrari al referendum sul divorzio voluto dalle gerarchie vaticane). Cattocomunisti, insomma. Negli anni ’80, pacifisti. E nel 2003, contrari alla guerra in Iraq. Ma Riccardi, Marazziti e oggi il presidente Marco Impagliazzo sono riusciti sempre a sfuggire alle etichette ideologiche, grazie al loro impegno concreto: il servizio ai poveri.
Il primo prete che li accolse in una parrocchia romana, don Vincenzo Paglia, è diventato vescovo di Terni. Di Riccardi si sussurra addirittura un incarico da ministro degli Esteri in un ipotetico governo Veltroni. Ma per ora la misura del successo della loro rivoluzione nonviolenta sta nel trasloco che ha dovuto effettuare la loro preghiera comunitaria (ogni sera alle 20.30, il sabato Messa): dalla chiesetta di Sant’Egidio alla vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Per mancanza di spazio.
Mauro Suttora
riquadro:
LA DIPLOMAZIA DEI POVERI
Sono passati quindici anni, ma nel palazzo della Farnesina se lo ricordano ancora quel giorno del 1992, quando nei corridoi felpati del ministero degli Esteri irruppe una folla festante per celebrare l’accordo di pace fra governo del Mozambico e guerriglieri. Nella foto qui sopra si vede l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo fra i due firmatari, ma a destra in prima fila ad applaudire c’era anche Mario Marazziti della comunità di Sant’Egidio, la vera artefice delle trattative.
Grazie ai suoi numerosi contatti nei Paesi del Terzo mondo e alla fiducia conquistata con le opere di solidarietà, Sant’Egidio ha provato spesso a mediare fra le parti di guerre e guerriglie che devastano molti Paesi. Un altro successo c’è stato nel ‘96 in Guatemala, mentre in Algeria i tentativi sono stati infruttuosi. Non sempre questa «diplomazia parallela» viene apprezzata dagli ambasciatori di professione, alcuni dei quali considerano i volontari di Sant’Egidio come dei dilettanti allo sbaraglio. Ma i risultati ci sono stati, ed è questo quello che conta.
«La guerra è la “madre di tutte le povertà”», spiegano loro, «perché distrugge l’impegno umanitario per il futuro di interi popoli. La guerra è anche assenza di ogni giustizia, come si vede in tanti Paesi dove il conflitto rende impossibile la difesa dei diritti umani basilari».
Mauro Suttora
Monday, January 21, 2008
Mister Prezzi
ANTONIO LIROSI SORVEGLIA L'INFLAZIONE
di Mauro Suttora
Roma, 30 gennaio 2008
Caro «mister Prezzi», la metto subito alla prova. Il parcheggio di Villa Borghese, qua vicino, ha appena aumentato del 23 per cento l’abbonamento mensile per i residenti: da 135 a 165 euro. Un po’ tanto, anche perché un anno fa c’era già stato un aumento dell’otto per cento. Le sembra giusto?
«I prezzi dei parcheggi sono regolamentati dai Comuni che li danno in concessione».
Quindi dobbiamo protestare con il Comune di Roma?
«Esatto».
Beh, viva la sincerità. Inutile promettere interventi che non si possono fare. Antonio Lirosi, 47 anni, di Polistena (Reggio Calabria), dirigente al ministero dello Sviluppo economico, è stato appena nominato Garante per la sorveglianza dei prezzi dal premier Romano Prodi. Precisa che la sua non sarà l’ennesima Authority, carrozzone burocratico aggiunto al pesante apparato per dare l’impressione di risolvere qualche problema.
«Il mio è un incarico non retribuito e a tempo. Tre anni per fare quattro cose. Primo, creare un sistema di sorveglianza sui prezzi che ci permetta di individuare i fenomeni speculativi in tempo reale. E qui servono le segnalazioni dei cittadini. Ogni Camera di commercio nei capoluoghi di provincia avrà un ufficio prezzi che raccoglierà per telefono, con numeri verdi ed e-mail, le denunce dei consumatori».
Però i governi non hanno potere sui prezzi. Siamo in un libero mercato, quindi ogni commerciante propone i prezzi che vuole.
«Sì, ma dopo avere effettuato una prima verifica sulle lamentele, noi possiamo fare tre cose: mandare la Guardia di finanza in ispezione, segnalare all’Antitrust violazioni della concorrenza come i “cartelli” per tenere alti i prezzi, e infine possiamo rivolgerci direttamente a chi pratica prezzi che si discostano troppo dalle rilevazioni ufficiali».
E che cosa gli dite?
«Qui entriamo nel nostro secondo compito: persuasione e deterrenza. Possiamo scoraggiare comportamenti sul nascere convocando le imprese».
Come fa il ministro dello Sviluppo economico Bersani quando i petrolieri aumentano il prezzo della benzina?
«Esatto. Osservando l’andamento europeo dei prezzi, è facile constatare un divario fra l’Italia e gli altri Paesi proprio in coincidenza degli esodi di agosto e di Natale».
Insomma, i petrolieri fanno i «furbetti» e con la scusa degli sceicchi ci aggiungono qualcosa pure loro.
«Guardi, tutti vorremmo tornare a un anno fa, col petrolio a 50 dollari al barile rispetto ai 100 attuali. Contro l’inflazione importata siamo impotenti: evitiamo almeno di farci più male da soli».
I petrolieri obiettano che in realtà è lo Stato quello che si arricchisce di più grazie agli aumenti dei carburanti, visto che li tassa al 60 per cento.
«Gli aumenti saranno defiscalizzati: non si pagheranno più accise né Iva».
Riuscirete a «raffreddare» anche gli altri prezzi? Con i costi internazionali di materie prime come il grano in aumento, ormai la nostra inflazione sfiora il tre per cento.
«Effettueremo pressione e controllo sociale sulle categorie, promuovendo accordi fra le associazioni delle imprese e dei consumatori. È la nostra terza arma: coordinamento e confronto».
Le dico un nome: Vespasiano.
«L’imperatore che emanò il primo editto sui prezzi?»
Appunto. Fallito, come tutti i calmieri della storia.
«Se è per questo, oggi siamo ancora più esposti alle fluttuazioni dei prezzi mondiali. Quando cinesi e indiani mangiano, bevono e consumano di più, le materie prime scarseggiano e quindi il loro costa aumenta. Ma l’unico modo per abbassare i prezzi è la concorrenza, quindi maggiori liberalizzazioni. Combattiamo il carovita con l’apertura dei negozi la domenica e l’allungamento degli orari».
È questa la vostra quarta arma?
«No. Il quarto obiettivo è la valorizzazione delle buone pratiche. Cioè premiare le iniziative di chi abbassa i prezzi. Pubblicheremo “liste bianche”, offrendo visibilità e promozione ai virtuosi».
Come?
«Con comunicati, campagne, segnalazioni sul nostro sito www.osservaprezzi.it».
Ha un modello estero cui ispirarsi?
«Il sorvegliante dei prezzi in Svizzera. Non fa parte dell’Unione europea, quindi ha più spazio d’intervento. Ma ha ottenuto risultati soprattutto sui prezzi “amministrati”».
Auguri, Mister Prezzi. Speriamo che da questo suo ufficio all’angolo di via Veneto riesca a essere il nostro miglior alleato.
Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino, commenta così la sua nomina: «Lirosi, grazie alla sua esperienza nella tutela dei consumatori, è la persona giusta per questo incarico. Dobbiamo però evitare la dispersione delle risorse in decine di osservatori dei prezzi a volte inefficienti e spesso clientelari. E occorre che la figura di mister Prezzi sia dotata di forti poteri sanzionatori con efficacia immediata, che possano anche sostituirsi ad altri soggetti inefficienti (enti locali, Camere di commercio), arrivando fino alla sospensione o revoca di licenze e autorizzazioni nei casi più gravi».
Come l’incredibile aumento del 32 per cento in soli dodici mesi per il parcheggio romano di Villa Borghese imposto dalla società privata Saba-Abertis. Ma autorizzato dal Comune di Roma.
riquadro: IL MISTER PREZZI SVIZZERO
Viene dall’Emmental, il «Preisüberwacher» (Sorvegliante dei prezzi) svizzero. Rudolph Strahm è nato nella valle dell’Emmen (Emmental, appunto) 64 anni fa, si è diplomato chimico e laureato in economia, e dopo undici anni da deputato socialista nel 2004 è diventato il primo «mister Prezzi» della Svizzera. Fra pochi mesi lascerà il suo incarico (i politici elvetici vanno in pensione a 65 anni).
Niente aumenti postali.
La sua ultima impresa: è riuscito a fermare gli aumenti delle tariffe che le Poste svizzere volevano far scattare dal primo gennaio 2008. Le decisioni dell’anno scorso riguardano fra l’altro le tariffe elettriche e i biglietti del cinema (più costosi che in Germania e Francia, ma dei quali Strahm non ha imposto la diminuzione).
Mediazione sulla sanità.
In una disputa fra le assicurazioni sanitarie private (obbligatorie) e gli ospedali del cantone di Vaud il mister Prezzi ha fatto da mediatore. E ha approvato l’aumento del tre per cento dei biglietti ferroviari dal 9 dicembre 2007, escludendo però i supplementi per le linee a lunga percorrenza.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Roma, 30 gennaio 2008
Caro «mister Prezzi», la metto subito alla prova. Il parcheggio di Villa Borghese, qua vicino, ha appena aumentato del 23 per cento l’abbonamento mensile per i residenti: da 135 a 165 euro. Un po’ tanto, anche perché un anno fa c’era già stato un aumento dell’otto per cento. Le sembra giusto?
«I prezzi dei parcheggi sono regolamentati dai Comuni che li danno in concessione».
Quindi dobbiamo protestare con il Comune di Roma?
«Esatto».
Beh, viva la sincerità. Inutile promettere interventi che non si possono fare. Antonio Lirosi, 47 anni, di Polistena (Reggio Calabria), dirigente al ministero dello Sviluppo economico, è stato appena nominato Garante per la sorveglianza dei prezzi dal premier Romano Prodi. Precisa che la sua non sarà l’ennesima Authority, carrozzone burocratico aggiunto al pesante apparato per dare l’impressione di risolvere qualche problema.
«Il mio è un incarico non retribuito e a tempo. Tre anni per fare quattro cose. Primo, creare un sistema di sorveglianza sui prezzi che ci permetta di individuare i fenomeni speculativi in tempo reale. E qui servono le segnalazioni dei cittadini. Ogni Camera di commercio nei capoluoghi di provincia avrà un ufficio prezzi che raccoglierà per telefono, con numeri verdi ed e-mail, le denunce dei consumatori».
Però i governi non hanno potere sui prezzi. Siamo in un libero mercato, quindi ogni commerciante propone i prezzi che vuole.
«Sì, ma dopo avere effettuato una prima verifica sulle lamentele, noi possiamo fare tre cose: mandare la Guardia di finanza in ispezione, segnalare all’Antitrust violazioni della concorrenza come i “cartelli” per tenere alti i prezzi, e infine possiamo rivolgerci direttamente a chi pratica prezzi che si discostano troppo dalle rilevazioni ufficiali».
E che cosa gli dite?
«Qui entriamo nel nostro secondo compito: persuasione e deterrenza. Possiamo scoraggiare comportamenti sul nascere convocando le imprese».
Come fa il ministro dello Sviluppo economico Bersani quando i petrolieri aumentano il prezzo della benzina?
«Esatto. Osservando l’andamento europeo dei prezzi, è facile constatare un divario fra l’Italia e gli altri Paesi proprio in coincidenza degli esodi di agosto e di Natale».
Insomma, i petrolieri fanno i «furbetti» e con la scusa degli sceicchi ci aggiungono qualcosa pure loro.
«Guardi, tutti vorremmo tornare a un anno fa, col petrolio a 50 dollari al barile rispetto ai 100 attuali. Contro l’inflazione importata siamo impotenti: evitiamo almeno di farci più male da soli».
I petrolieri obiettano che in realtà è lo Stato quello che si arricchisce di più grazie agli aumenti dei carburanti, visto che li tassa al 60 per cento.
«Gli aumenti saranno defiscalizzati: non si pagheranno più accise né Iva».
Riuscirete a «raffreddare» anche gli altri prezzi? Con i costi internazionali di materie prime come il grano in aumento, ormai la nostra inflazione sfiora il tre per cento.
«Effettueremo pressione e controllo sociale sulle categorie, promuovendo accordi fra le associazioni delle imprese e dei consumatori. È la nostra terza arma: coordinamento e confronto».
Le dico un nome: Vespasiano.
«L’imperatore che emanò il primo editto sui prezzi?»
Appunto. Fallito, come tutti i calmieri della storia.
«Se è per questo, oggi siamo ancora più esposti alle fluttuazioni dei prezzi mondiali. Quando cinesi e indiani mangiano, bevono e consumano di più, le materie prime scarseggiano e quindi il loro costa aumenta. Ma l’unico modo per abbassare i prezzi è la concorrenza, quindi maggiori liberalizzazioni. Combattiamo il carovita con l’apertura dei negozi la domenica e l’allungamento degli orari».
È questa la vostra quarta arma?
«No. Il quarto obiettivo è la valorizzazione delle buone pratiche. Cioè premiare le iniziative di chi abbassa i prezzi. Pubblicheremo “liste bianche”, offrendo visibilità e promozione ai virtuosi».
Come?
«Con comunicati, campagne, segnalazioni sul nostro sito www.osservaprezzi.it».
Ha un modello estero cui ispirarsi?
«Il sorvegliante dei prezzi in Svizzera. Non fa parte dell’Unione europea, quindi ha più spazio d’intervento. Ma ha ottenuto risultati soprattutto sui prezzi “amministrati”».
Auguri, Mister Prezzi. Speriamo che da questo suo ufficio all’angolo di via Veneto riesca a essere il nostro miglior alleato.
Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino, commenta così la sua nomina: «Lirosi, grazie alla sua esperienza nella tutela dei consumatori, è la persona giusta per questo incarico. Dobbiamo però evitare la dispersione delle risorse in decine di osservatori dei prezzi a volte inefficienti e spesso clientelari. E occorre che la figura di mister Prezzi sia dotata di forti poteri sanzionatori con efficacia immediata, che possano anche sostituirsi ad altri soggetti inefficienti (enti locali, Camere di commercio), arrivando fino alla sospensione o revoca di licenze e autorizzazioni nei casi più gravi».
Come l’incredibile aumento del 32 per cento in soli dodici mesi per il parcheggio romano di Villa Borghese imposto dalla società privata Saba-Abertis. Ma autorizzato dal Comune di Roma.
riquadro: IL MISTER PREZZI SVIZZERO
Viene dall’Emmental, il «Preisüberwacher» (Sorvegliante dei prezzi) svizzero. Rudolph Strahm è nato nella valle dell’Emmen (Emmental, appunto) 64 anni fa, si è diplomato chimico e laureato in economia, e dopo undici anni da deputato socialista nel 2004 è diventato il primo «mister Prezzi» della Svizzera. Fra pochi mesi lascerà il suo incarico (i politici elvetici vanno in pensione a 65 anni).
Niente aumenti postali.
La sua ultima impresa: è riuscito a fermare gli aumenti delle tariffe che le Poste svizzere volevano far scattare dal primo gennaio 2008. Le decisioni dell’anno scorso riguardano fra l’altro le tariffe elettriche e i biglietti del cinema (più costosi che in Germania e Francia, ma dei quali Strahm non ha imposto la diminuzione).
Mediazione sulla sanità.
In una disputa fra le assicurazioni sanitarie private (obbligatorie) e gli ospedali del cantone di Vaud il mister Prezzi ha fatto da mediatore. E ha approvato l’aumento del tre per cento dei biglietti ferroviari dal 9 dicembre 2007, escludendo però i supplementi per le linee a lunga percorrenza.
Mauro Suttora
Friday, January 18, 2008
Il vescovo Milingo torna a Roma
"I sacerdoti devono potersi sposare"
Roma, 16 gennaio 2007
Paura e fastidio in Vaticano: Milingo è tornato a Roma. L’arcivescovo africano 7 anni fa stupì il mondo sposandosi con l’agopunturista coreana Maria Sung in una cerimonia della setta Moon. Dopo tre mesi e un colloquio con Papa Giovanni Paolo II si pentì. Fu riaccolto nella Chiesa cattolica, ma due anni fa è di nuovo fuggito da Zagarolo verso l’America dove si è rimesso con Maria, ha fondato un’associazione di sacerdoti sposati (150 mila nel mondo secondo lui, 60 mila per il Vaticano) e ne ha addirittura nominato vescovi quattro.
Milingo è venuto in Italia per presentare il libro Confessioni di uno scomunicato (edizioni Koiné), scritto con la giornalista Raffaella Rosa. Avrebbe dovuto partecipare a Buona Domenica su Canale 5, ma l’intervista è stata annullata all’ultimo momento. Avrebbe voluto comunicarsi al santuario di Pompei, ma il prete che celebrava la messa gli ha negato la comunione.
L’irritazione del Vaticano è palpabile. Milingo ha trascorso gran parte del 2007 nei due Paesi dove è maggiore il numero di preti sposati: Stati Uniti, dove sono 25 mila, e Brasile. Quest’ultimo potrebbe rivelarsi fertile alla sua predicazione, perché lì i cattolici stanno perdendo terreno in favore degli evangelici. Ecco una sintesi del Milingo-pensiero tratta dal suo libro.
Monsignore, perché ha fondato l’associazione Married Priests Now! (Preti sposati adesso)?
«La vita dei sacerdoti sposati è dura. La condanna della Chiesa pesa come un macigno, perché vengono visti come lebbrosi. (...) Invece sono una risorsa preziosa: per questo bisogna trovare il modo per riconciliare la madre Chiesa con i suoi figli che hanno accettato la chiamata di Dio a servire, ma hanno anche scelto di formare una famiglia».
Perché la Chiesa dovrebbe abolire il celibato obbligatorio per i propri sacerdoti?
«La missione che ho intrapreso non è una questione personale. È ora che la Chiesa rifletta su cosa fare per tornare al 1100, quando venne imposto l’obbligo del celibato. Non c’è alcuna connessione divina fra sacerdozio e celibato, la storia della Chiesa lo dimostra: i preti potevano sposarsi prima dell’introduzione di questa norma. Nei primi secoli si sposavano anche i vescovi. Ci sono stati ben trentanove papi sposati e con figli. Il celibato è stato reso obbligatorio solo nel XII secolo. È diritto di ogni essere umano potersi sposare, e questo diritto dev’essere restituito ai preti. Dal celibato obbligatorio vengono molti peccati come il concubinato e i figli illegittimi. Ma si tratta di un precetto, non di un dogma. L’errore è che la Chiesa lega il celibato al sacerdozio. Ma perderà, se continua su questa strada».
Perché la Chiesa non permette ai sacerdoti sposati di continuare il loro servizio?
«La Chiesa li abbandona, invece dovrebbe essere come una madre che accetta il figlio anche se è disabile. Durante la guerra si fa di tutto per salvare i soldati feriti. La Chiesa, al contrario, non cura i propri sacerdoti feriti, ma li getta nel mondo. Dov’è finito il suo amore materno? Li tratta come il gatto fa con il topo: non lo uccide subito, ma lo paralizza, e ci gioca fino a ucciderlo».
Il Vaticano ha provato a mettersi in contatto con lei?
«Erano venuti da Roma fino a Washington per riportarmi indietro. Alcuni prelati del Vaticano si erano praticamente stabiliti sotto casa mia pur di incontrarmi e convincermi a tornare con loro in Italia».
”NON MI HANNO PLAGIATO”
C’è chi pensa che lei abbia subìto un lavaggio del cervello o che sia stato drogato.
«Sembro uno che ha subito il lavaggio cerebrale? Una persona plagiata può parlare in questo modo? Non sono stato drogato, ragiono benissimo. Anche in questo mio nuovo progetto conservo e obbedisco a tutti i dogmi della Chiesa, mi ispiro ai testi dei padri e agli Atti degli Apostoli. Non accetto solo il celibato obbligatorio, che non ha dato i frutti sperati».
Ma consacrando i vescovi ha provocato uno scisma.
«Non provocherei mai uno scisma, perché sono profondamente cattolico, dalla punta dei piedi ai capelli. Noi crediamo profondamente nella Chiesa cattolica. Il celibato non è un elemento costitutivo del sacerdozio, è una regola medievale, un’eccezione che il Papa può eliminare senza neppure convocare un Concilio. E sappiamo che questo avverrà, forse dopo la nostra morte».
Lei, quindi, non si considera uno scomunicato.
«Assolutamente no. Il Vaticano non ha motivo di scomunicare chi vive la vera tradizione ecclesiastica. Gli apostoli erano sposati».
Come ha vissuto i cinque anni lontano da Maria?
«Ho sofferto quando mi hanno costretto a lasciarla. Ma la mia esperienza del matrimonio e la forza che ho accumulato in questo periodo di sofferenza mi hanno portato a fondare Married Priests Now!»
Che cos’ha di speciale Maria? Perché ha scelto proprio lei?
«Non ho sposato Maria perché l’ho scelta in mezzo ad altre donne. Credo che anche per le persone anziane come me, Dio abbia creato un’anima gemella che può trovarsi in qualunque posto del mondo. Quindi non ho scelto Maria perché ha qualcosa di speciale, ma perché è la persona che il Signore ha previsto per me».
Oggi lei vive insieme a Maria. Com’è cambiata la sua vita?
«Maria non ha cambiato la mia vita come sacerdote e come cristiano. Tutte le mattine mi sveglio alle 4 per dire il breviario, poi faccio tre rosari, mi dedico un po’ alla meditazione e alle 7 celebro la messa. Dopo la colazione, rispondo alle numerose e-mail che ricevo da parte dei sacerdoti sposati. La mia vita è sempre la stessa».
Negli anni di separazione era rimasto in contatto con lei?
«No, non era possibile. Ero sempre scortato da qualcuno, ovunque andassi vedevano l’ombra di Maria».
In che lingua comunicate?
«In italiano, perché lei ha vissuto in Italia diversi anni. Io mi sforzo di imparare qualcosa in coreano».
Mauro Suttora
Roma, 16 gennaio 2007
Paura e fastidio in Vaticano: Milingo è tornato a Roma. L’arcivescovo africano 7 anni fa stupì il mondo sposandosi con l’agopunturista coreana Maria Sung in una cerimonia della setta Moon. Dopo tre mesi e un colloquio con Papa Giovanni Paolo II si pentì. Fu riaccolto nella Chiesa cattolica, ma due anni fa è di nuovo fuggito da Zagarolo verso l’America dove si è rimesso con Maria, ha fondato un’associazione di sacerdoti sposati (150 mila nel mondo secondo lui, 60 mila per il Vaticano) e ne ha addirittura nominato vescovi quattro.
Milingo è venuto in Italia per presentare il libro Confessioni di uno scomunicato (edizioni Koiné), scritto con la giornalista Raffaella Rosa. Avrebbe dovuto partecipare a Buona Domenica su Canale 5, ma l’intervista è stata annullata all’ultimo momento. Avrebbe voluto comunicarsi al santuario di Pompei, ma il prete che celebrava la messa gli ha negato la comunione.
L’irritazione del Vaticano è palpabile. Milingo ha trascorso gran parte del 2007 nei due Paesi dove è maggiore il numero di preti sposati: Stati Uniti, dove sono 25 mila, e Brasile. Quest’ultimo potrebbe rivelarsi fertile alla sua predicazione, perché lì i cattolici stanno perdendo terreno in favore degli evangelici. Ecco una sintesi del Milingo-pensiero tratta dal suo libro.
Monsignore, perché ha fondato l’associazione Married Priests Now! (Preti sposati adesso)?
«La vita dei sacerdoti sposati è dura. La condanna della Chiesa pesa come un macigno, perché vengono visti come lebbrosi. (...) Invece sono una risorsa preziosa: per questo bisogna trovare il modo per riconciliare la madre Chiesa con i suoi figli che hanno accettato la chiamata di Dio a servire, ma hanno anche scelto di formare una famiglia».
Perché la Chiesa dovrebbe abolire il celibato obbligatorio per i propri sacerdoti?
«La missione che ho intrapreso non è una questione personale. È ora che la Chiesa rifletta su cosa fare per tornare al 1100, quando venne imposto l’obbligo del celibato. Non c’è alcuna connessione divina fra sacerdozio e celibato, la storia della Chiesa lo dimostra: i preti potevano sposarsi prima dell’introduzione di questa norma. Nei primi secoli si sposavano anche i vescovi. Ci sono stati ben trentanove papi sposati e con figli. Il celibato è stato reso obbligatorio solo nel XII secolo. È diritto di ogni essere umano potersi sposare, e questo diritto dev’essere restituito ai preti. Dal celibato obbligatorio vengono molti peccati come il concubinato e i figli illegittimi. Ma si tratta di un precetto, non di un dogma. L’errore è che la Chiesa lega il celibato al sacerdozio. Ma perderà, se continua su questa strada».
Perché la Chiesa non permette ai sacerdoti sposati di continuare il loro servizio?
«La Chiesa li abbandona, invece dovrebbe essere come una madre che accetta il figlio anche se è disabile. Durante la guerra si fa di tutto per salvare i soldati feriti. La Chiesa, al contrario, non cura i propri sacerdoti feriti, ma li getta nel mondo. Dov’è finito il suo amore materno? Li tratta come il gatto fa con il topo: non lo uccide subito, ma lo paralizza, e ci gioca fino a ucciderlo».
Il Vaticano ha provato a mettersi in contatto con lei?
«Erano venuti da Roma fino a Washington per riportarmi indietro. Alcuni prelati del Vaticano si erano praticamente stabiliti sotto casa mia pur di incontrarmi e convincermi a tornare con loro in Italia».
”NON MI HANNO PLAGIATO”
C’è chi pensa che lei abbia subìto un lavaggio del cervello o che sia stato drogato.
«Sembro uno che ha subito il lavaggio cerebrale? Una persona plagiata può parlare in questo modo? Non sono stato drogato, ragiono benissimo. Anche in questo mio nuovo progetto conservo e obbedisco a tutti i dogmi della Chiesa, mi ispiro ai testi dei padri e agli Atti degli Apostoli. Non accetto solo il celibato obbligatorio, che non ha dato i frutti sperati».
Ma consacrando i vescovi ha provocato uno scisma.
«Non provocherei mai uno scisma, perché sono profondamente cattolico, dalla punta dei piedi ai capelli. Noi crediamo profondamente nella Chiesa cattolica. Il celibato non è un elemento costitutivo del sacerdozio, è una regola medievale, un’eccezione che il Papa può eliminare senza neppure convocare un Concilio. E sappiamo che questo avverrà, forse dopo la nostra morte».
Lei, quindi, non si considera uno scomunicato.
«Assolutamente no. Il Vaticano non ha motivo di scomunicare chi vive la vera tradizione ecclesiastica. Gli apostoli erano sposati».
Come ha vissuto i cinque anni lontano da Maria?
«Ho sofferto quando mi hanno costretto a lasciarla. Ma la mia esperienza del matrimonio e la forza che ho accumulato in questo periodo di sofferenza mi hanno portato a fondare Married Priests Now!»
Che cos’ha di speciale Maria? Perché ha scelto proprio lei?
«Non ho sposato Maria perché l’ho scelta in mezzo ad altre donne. Credo che anche per le persone anziane come me, Dio abbia creato un’anima gemella che può trovarsi in qualunque posto del mondo. Quindi non ho scelto Maria perché ha qualcosa di speciale, ma perché è la persona che il Signore ha previsto per me».
Oggi lei vive insieme a Maria. Com’è cambiata la sua vita?
«Maria non ha cambiato la mia vita come sacerdote e come cristiano. Tutte le mattine mi sveglio alle 4 per dire il breviario, poi faccio tre rosari, mi dedico un po’ alla meditazione e alle 7 celebro la messa. Dopo la colazione, rispondo alle numerose e-mail che ricevo da parte dei sacerdoti sposati. La mia vita è sempre la stessa».
Negli anni di separazione era rimasto in contatto con lei?
«No, non era possibile. Ero sempre scortato da qualcuno, ovunque andassi vedevano l’ombra di Maria».
In che lingua comunicate?
«In italiano, perché lei ha vissuto in Italia diversi anni. Io mi sforzo di imparare qualcosa in coreano».
Mauro Suttora
Thursday, January 10, 2008
Benazir Bhutto
Dopo l'assassinio dei Lady Pakistan
Islamabad, 9 gennaio 2008
Non era una santa, Benazir Bhutto. Intelligente, bella, carismatica e soprattutto dotata di una volontà di ferro. Ma entrambe le volte che aveva governato il Pakistan, dal 1988 al 1990, e poi dal ’93 al ’96, aveva dovuto abbandonare il potere accusata di corruzione.
«Sono tutte macchinazioni dei miei avversari politici, le accuse si basano su documenti falsificati», ha sempre giurato lei. Il problema è che i giudici non le hanno creduto. E non quelli pakistani, ma quelli svizzeri, che nel 2003 hanno condannato lei e il marito Asif Zardari, 51 anni (tre anni meno di Benazir) a sei mesi con la condizionale, per avere riciclato nelle banche elvetiche 11 milioni di dollari.
E il povero marito, che ora di salute non se la passa per niente bene fra diabete e infarti, e si sta curando nella loro casa di Manhattan, si è fatto ben undici anni di carcere in Pakistan con accuse tremende: dal ricatto alla corruzione, fino ad aver fatto assassinare il cognato Murtaza Bhutto nel ’96. «Mister dieci per cento», lo avevano soprannominato, riferendosi alla percentuale che pare esigesse sulle commesse pubbliche, soprattutto nel periodo in cui Benazir ebbe la sciagurata idea di nominarlo ministro (dell’Ambiente).
Ma nonostante tutte queste traversie, la Bhutto era adorata dai suoi sostenitori, e avrebbe sicuramente vinto le elezioni dell’8 gennaio. Perché per i pakistani la famiglia Bhutto è un mito che fa ancora presa.
Un padre fantastico
Zulfikar Alì Bhutto, padre di Benazir, incarna infatti l’unico periodo d’oro nella storia del Pakistan, nazione sfortunata che non possiede neppure un nome. «Pakistan», infatti, è una denominazione artificiale inventata da uno studente nazionalista a Oxford nel 1933, quando assieme all’India faceva ancora parte dell’impero britannico.
P per Punjab, A per Afghania, K per Kashmir, S per Sindh, e Tan per Belucistan, ovvero le regioni islamiche dell’India che volevano l’indipendenza, ma non assieme agli hindu di Gandhi. Il Pakistan è nato con una guerra (contro l’India nel ’47, appunto) ed è poi sempre stato in guerra, o contro l’India per il possesso del Kashmir, o contro il Bangladesh quando nel ’71 ci fu la secessione, o contro se stesso: i militari infatti hanno sospeso la democrazia per ben tredici volte in sessant’anni, con le motivazioni più varie. L’ultima, assai seria, quando dal 1999 l’attuale presidente, generale Pervez Musharraf, ha dovuto fronteggiare la minaccia fondamentalista.
Come i Gandhi in India
L’unica parentesi di governo civile e di benessere economico fu appunto quella di Alì Bhutto, che arrivò al potere all’inizio degli Anni 70 dopo la perdita del Bangladesh, e lo tenne fino al 1976, quando fu cacciato dal generale Zia Ul-Haq. Tre anni dopo Zia lo fece impiccare. Qualche ora prima dell’esecuzione, nel suo ultimo incontro col padre, Benazir gli promise che, come nella dinastia Gandhi in India, lei avrebbe raccolto la fiaccola della sua eredità politica.
Fino ad allora Benazir era solo una studentessa mandata dalla propria ricchissima famiglia a studiare all’estero: prima negli Stati Uniti, con laurea ad Harvard, e poi in Inghilterra, a Oxford. Dopo ben cinque anni di arresti domiciliari, il dittatore Zia le permette di emigrare a Londra. Ma quando l’assassino di suo padre muore, lei torna e viene eletta premier. È il 1988. Nel frattempo l’energica madre Nusrat le impone di sposare il capotribù Zardari, perché gli islamici non avrebbero mai votato una donna non sposata. Lei per un po’ resiste, tanto da venire soprannominata «vergine di ferro», poi cede. La coppia avrà tre figli.
Tutto si gioca lì
Il terzo ritorno in patria stava per regalarle la terza trionfale elezione. Ma il suo assassinio ha bloccato le speranze di chi contava su di lei per sconfiggere gli estremisti islamici.
«Tutto si gioca in Pakistan», dice a Oggi Mario Arpino, presidente Vitrociset (azienda di sistemi elettronici e avionici) e già capo di stato maggiore della Difesa, «perché l’obiettivo principale di Al Qaeda è oggi quello di impadronirsi della bomba atomica, e il Pakistan è l’unico stato islamico ad averla».
Che succederà adesso? «Noi occidentali non dobbiamo cedere alla tentazione di far coincidere la democrazia con le elezioni», avverte Arpino. «Non diamo quindi troppo addosso a Musharraf, che tutto sommato è amico dell’Occidente».
Mauro Suttora
Islamabad, 9 gennaio 2008
Non era una santa, Benazir Bhutto. Intelligente, bella, carismatica e soprattutto dotata di una volontà di ferro. Ma entrambe le volte che aveva governato il Pakistan, dal 1988 al 1990, e poi dal ’93 al ’96, aveva dovuto abbandonare il potere accusata di corruzione.
«Sono tutte macchinazioni dei miei avversari politici, le accuse si basano su documenti falsificati», ha sempre giurato lei. Il problema è che i giudici non le hanno creduto. E non quelli pakistani, ma quelli svizzeri, che nel 2003 hanno condannato lei e il marito Asif Zardari, 51 anni (tre anni meno di Benazir) a sei mesi con la condizionale, per avere riciclato nelle banche elvetiche 11 milioni di dollari.
E il povero marito, che ora di salute non se la passa per niente bene fra diabete e infarti, e si sta curando nella loro casa di Manhattan, si è fatto ben undici anni di carcere in Pakistan con accuse tremende: dal ricatto alla corruzione, fino ad aver fatto assassinare il cognato Murtaza Bhutto nel ’96. «Mister dieci per cento», lo avevano soprannominato, riferendosi alla percentuale che pare esigesse sulle commesse pubbliche, soprattutto nel periodo in cui Benazir ebbe la sciagurata idea di nominarlo ministro (dell’Ambiente).
Ma nonostante tutte queste traversie, la Bhutto era adorata dai suoi sostenitori, e avrebbe sicuramente vinto le elezioni dell’8 gennaio. Perché per i pakistani la famiglia Bhutto è un mito che fa ancora presa.
Un padre fantastico
Zulfikar Alì Bhutto, padre di Benazir, incarna infatti l’unico periodo d’oro nella storia del Pakistan, nazione sfortunata che non possiede neppure un nome. «Pakistan», infatti, è una denominazione artificiale inventata da uno studente nazionalista a Oxford nel 1933, quando assieme all’India faceva ancora parte dell’impero britannico.
P per Punjab, A per Afghania, K per Kashmir, S per Sindh, e Tan per Belucistan, ovvero le regioni islamiche dell’India che volevano l’indipendenza, ma non assieme agli hindu di Gandhi. Il Pakistan è nato con una guerra (contro l’India nel ’47, appunto) ed è poi sempre stato in guerra, o contro l’India per il possesso del Kashmir, o contro il Bangladesh quando nel ’71 ci fu la secessione, o contro se stesso: i militari infatti hanno sospeso la democrazia per ben tredici volte in sessant’anni, con le motivazioni più varie. L’ultima, assai seria, quando dal 1999 l’attuale presidente, generale Pervez Musharraf, ha dovuto fronteggiare la minaccia fondamentalista.
Come i Gandhi in India
L’unica parentesi di governo civile e di benessere economico fu appunto quella di Alì Bhutto, che arrivò al potere all’inizio degli Anni 70 dopo la perdita del Bangladesh, e lo tenne fino al 1976, quando fu cacciato dal generale Zia Ul-Haq. Tre anni dopo Zia lo fece impiccare. Qualche ora prima dell’esecuzione, nel suo ultimo incontro col padre, Benazir gli promise che, come nella dinastia Gandhi in India, lei avrebbe raccolto la fiaccola della sua eredità politica.
Fino ad allora Benazir era solo una studentessa mandata dalla propria ricchissima famiglia a studiare all’estero: prima negli Stati Uniti, con laurea ad Harvard, e poi in Inghilterra, a Oxford. Dopo ben cinque anni di arresti domiciliari, il dittatore Zia le permette di emigrare a Londra. Ma quando l’assassino di suo padre muore, lei torna e viene eletta premier. È il 1988. Nel frattempo l’energica madre Nusrat le impone di sposare il capotribù Zardari, perché gli islamici non avrebbero mai votato una donna non sposata. Lei per un po’ resiste, tanto da venire soprannominata «vergine di ferro», poi cede. La coppia avrà tre figli.
Tutto si gioca lì
Il terzo ritorno in patria stava per regalarle la terza trionfale elezione. Ma il suo assassinio ha bloccato le speranze di chi contava su di lei per sconfiggere gli estremisti islamici.
«Tutto si gioca in Pakistan», dice a Oggi Mario Arpino, presidente Vitrociset (azienda di sistemi elettronici e avionici) e già capo di stato maggiore della Difesa, «perché l’obiettivo principale di Al Qaeda è oggi quello di impadronirsi della bomba atomica, e il Pakistan è l’unico stato islamico ad averla».
Che succederà adesso? «Noi occidentali non dobbiamo cedere alla tentazione di far coincidere la democrazia con le elezioni», avverte Arpino. «Non diamo quindi troppo addosso a Musharraf, che tutto sommato è amico dell’Occidente».
Mauro Suttora
Thursday, December 20, 2007
La casta non si mette a dieta
Avevano promesso di tagliare gli sprechi. L'hanno fatto?
Dopo tanti annunci, i politici hanno concluso poco. I risparmi rimangono una promessa, i tagli ai superstipendi subiscono troppe eccezioni. Anzi, molte spese crescono
di Mauro Suttora
Oggi, 26 dicembre 2007
Avevano promesso che avrebbero tagliato i costi della «Casta». Invece, facendo un bilancio di fine anno, poco o nulla è cambiato. Anzi, in alcuni casi gli sprechi dei politici sono addirittura aumentati.
«Cosa vuole che le dica? Qui in Parlamento le lobbies hanno sfondato», allarga le braccia sconsolato Massimo Villone, il senatore che due anni fa ha scritto assieme al collega Cesare Salvi (entrambi ex Ds, ora Sinistra democratica) il libro 'Il costo della democrazia', dando il via alla rivolta contro gli eccessi della nomenklatura. «L’unico nostro emendamento accolto in pieno è quello che riduce a dodici i ministri e a sessanta i membri del governo, contro gli attuali 102». Ottima cosa, ma la legge Bassanini da anni imponeva un dimagrimento.
Contro le altre due proposte di Villone e Salvi per la legge finanziaria appena approvata (riduzione spese per Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale, e tetto ai superstipendi pubblici) si è alzato un fuoco di sbarramento. «Abbiamo ottenuto solo un impegno», spiega Villone, «da parte di Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale a non aumentare le spese oltre l’inflazione programmata».
Il Quirinale però quest’anno ha speso 241 milioni di euro contro i 224 preventivati. Già quella cifra, sbertucciata nel libro 'La casta' di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, aveva suscitato indignazione: è il quadruplo di Buckingham Palace. Ma i duemila dipendenti hanno avuto aumenti perché i loro stipendi sono collegati a quelli del Senato. E anche per i prossimi tre anni sono previsti incrementi di oltre il due per cento.
Stesso discorso per la Camera dei deputati: quest’anno ci è costata un miliardo e 200 milioni di euro, il 2,4% in più del 2006. I rimborsi ai deputati, rivela il radicale Sergio D’Elia, sono addirittura raddoppiati rispetto all’anno scorso: 300 mila euro contro 185 mila. Le spese di viaggio degli onorevoli sono aumentate del 25%. Ma anche gli ex hanno diritto a sconti per tutta la vita, e quest’anno sono ammontati a un milione e 250 mila euro.
Unica sforbiciata: le pensioni dei parlamentari. Ora ci vorranno almeno due legislature per ottenerle. Ma anche qui c’è il trucco: solo quelle future. Chi è andato già in pensione può stare tranquillo, anche i deputati rimasti in carica solo un giorno che pigliano duemila euro al mese.
L’ultimo emendamento Salvi-Villone stabiliva un tetto di 274 mila euro per tutti gli stipendi pubblici. «È il compenso annuo del primo presidente di Corte di Cassazione», spiega Villone, «e viste le retribuzioni da fame di insegnanti e poliziotti ci pareva il minimo per ristabilire un po’ di equità». Più di diecimila euro netti al mese non sembra effettivamente poco, neppure per i dirigenti più alti.
Eppure, anche qui la Casta si è scatenata. Prima hanno imposto che il tetto non si applichi ai contratti di tipo privatistico già in essere. Poi sono stati esentati gli «artisti» Rai, con la scusa che altrimenti fuggirebbero tutti a Mediaset. Poi hanno ottenuto la grazia la Banca d’Italia e le «authorities» (antitust, comunicazioni, privacy, energia, ecc), proliferate negli ultimi anni al di là di ogni necessità, che assicurano ai fortunati assunti stipendi tripli rispetto a quelli dei poveri ministeriali.
Ancora: per proteggere proprio tutti, il governo ha ottenuto 25 «eccezioni» da applicare agli stipendi scandalosamente alti (alcuni esempi nella tabella nella pagina accanto). Così si potranno mantenere vistose incongruenze, come la retribuzione doppia del capo della Polizia (650 mila euro annui) rispetto al comandante dei Carabinieri (380 mila euro), nonostante le uguali responsabilità.
Infine, chi cumula vari incarichi (abitudine diffusissima nella Casta parastatale romana) vedrà la sua attuale retribuzione ridursi soltanto del 25 per cento annuo, fino a rientrare nel «tetto».
Ma il malcostume degli stipendi d’oro non è una prerogativa di Roma: l’avviso di garanzia e la richiesta di rimborso della Corte dei Conti arrivati al sindaco di Milano Letizia Moratti per le retribuzioni da 250 mila euro e oltre distribuiti ai propri dirigenti e consulenti dimostra che in tutta Italia ci si arricchisce a spese dei contribuenti.
Comunità montane e province si sono salvate, eppure molti le considerano enti inutili. Verranno solo tagliati un po’ di consiglieri, ma dal 2010. È sparito il limite altimetrico di 500 metri per essere considerati comuni di montagna: così rientrano Domodossola, Susa, Lanzo, Feltre, Vallombrosa.
Quanto alle Regioni, «il loro diritto allo spreco è costituzionalmente garantito», ironizza Villone: governo e Parlamento non possono toccarle, è ciascuna di loro a dover diminuire spese e posti. Campa cavallo. E anche per il taglio dei 950 parlamentari (gli Usa, con il quintuplo dei nostri abitanti, ne hanno 535) occorre una legge costituzionale, con tempi lunghissimi.
«Ormai, fra stipendiati e consulenti, in Italia campa di politica mezzo milione di persone», denuncia Villone. I consiglieri comunali strepitano contro l’intenzione di ridurre i loro stipendi mensili da 2.000 a 1.500 euro: «Perché non tagliate prima quelli dei consiglieri regionali, che arrivano a 14 mila euro?».
Dimenticano che fino a quindici anni fa quella di consigliere comunale non era una professione, ma un onore (e un onere) civico, che si espletava per una o due sere alla settimana in cambio di un semplice gettone di presenza da 50 mila lire. E le nostre città non erano governate peggio.
Insomma, dopo tanti annunci sui tagli agli sprechi, di concreto è stato fatto poco. Del disegno di legge Santagata si sono perse le tracce. Il decreto Lanzillotta limita a tre i consiglieri d’amministrazione nelle società a partecipazione pubblica. Ma anche qui una vasta esenzione: le società con più di due milioni di capitale possono averne cinque.
Sarà forse per questo che ora Beppe Grillo raccoglie un 57 per cento di simpatie, contro il 49% per Fini, il 48 per Veltroni, il 39 per Berlusconi e appena il 29 per Prodi. E che il libro La casta continua a vendere: ormai ha raggiunto un milione e 200 mila copie. Nessun saggio in Italia, neanche quelli di Oriana Fallaci o dei papi, ha mai ottenuto tanto successo in così poco tempo. Ora si è aggiunto anche 'Sprecopoli' di Mario Cervi e Nicola Porro. Ma i politici di professione sembrano non essersi ancora accorti che il vento è cambiato.
Mauro Suttora
Dopo tanti annunci, i politici hanno concluso poco. I risparmi rimangono una promessa, i tagli ai superstipendi subiscono troppe eccezioni. Anzi, molte spese crescono
di Mauro Suttora
Oggi, 26 dicembre 2007
Avevano promesso che avrebbero tagliato i costi della «Casta». Invece, facendo un bilancio di fine anno, poco o nulla è cambiato. Anzi, in alcuni casi gli sprechi dei politici sono addirittura aumentati.
«Cosa vuole che le dica? Qui in Parlamento le lobbies hanno sfondato», allarga le braccia sconsolato Massimo Villone, il senatore che due anni fa ha scritto assieme al collega Cesare Salvi (entrambi ex Ds, ora Sinistra democratica) il libro 'Il costo della democrazia', dando il via alla rivolta contro gli eccessi della nomenklatura. «L’unico nostro emendamento accolto in pieno è quello che riduce a dodici i ministri e a sessanta i membri del governo, contro gli attuali 102». Ottima cosa, ma la legge Bassanini da anni imponeva un dimagrimento.
Contro le altre due proposte di Villone e Salvi per la legge finanziaria appena approvata (riduzione spese per Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale, e tetto ai superstipendi pubblici) si è alzato un fuoco di sbarramento. «Abbiamo ottenuto solo un impegno», spiega Villone, «da parte di Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale a non aumentare le spese oltre l’inflazione programmata».
Il Quirinale però quest’anno ha speso 241 milioni di euro contro i 224 preventivati. Già quella cifra, sbertucciata nel libro 'La casta' di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, aveva suscitato indignazione: è il quadruplo di Buckingham Palace. Ma i duemila dipendenti hanno avuto aumenti perché i loro stipendi sono collegati a quelli del Senato. E anche per i prossimi tre anni sono previsti incrementi di oltre il due per cento.
Stesso discorso per la Camera dei deputati: quest’anno ci è costata un miliardo e 200 milioni di euro, il 2,4% in più del 2006. I rimborsi ai deputati, rivela il radicale Sergio D’Elia, sono addirittura raddoppiati rispetto all’anno scorso: 300 mila euro contro 185 mila. Le spese di viaggio degli onorevoli sono aumentate del 25%. Ma anche gli ex hanno diritto a sconti per tutta la vita, e quest’anno sono ammontati a un milione e 250 mila euro.
Unica sforbiciata: le pensioni dei parlamentari. Ora ci vorranno almeno due legislature per ottenerle. Ma anche qui c’è il trucco: solo quelle future. Chi è andato già in pensione può stare tranquillo, anche i deputati rimasti in carica solo un giorno che pigliano duemila euro al mese.
L’ultimo emendamento Salvi-Villone stabiliva un tetto di 274 mila euro per tutti gli stipendi pubblici. «È il compenso annuo del primo presidente di Corte di Cassazione», spiega Villone, «e viste le retribuzioni da fame di insegnanti e poliziotti ci pareva il minimo per ristabilire un po’ di equità». Più di diecimila euro netti al mese non sembra effettivamente poco, neppure per i dirigenti più alti.
Eppure, anche qui la Casta si è scatenata. Prima hanno imposto che il tetto non si applichi ai contratti di tipo privatistico già in essere. Poi sono stati esentati gli «artisti» Rai, con la scusa che altrimenti fuggirebbero tutti a Mediaset. Poi hanno ottenuto la grazia la Banca d’Italia e le «authorities» (antitust, comunicazioni, privacy, energia, ecc), proliferate negli ultimi anni al di là di ogni necessità, che assicurano ai fortunati assunti stipendi tripli rispetto a quelli dei poveri ministeriali.
Ancora: per proteggere proprio tutti, il governo ha ottenuto 25 «eccezioni» da applicare agli stipendi scandalosamente alti (alcuni esempi nella tabella nella pagina accanto). Così si potranno mantenere vistose incongruenze, come la retribuzione doppia del capo della Polizia (650 mila euro annui) rispetto al comandante dei Carabinieri (380 mila euro), nonostante le uguali responsabilità.
Infine, chi cumula vari incarichi (abitudine diffusissima nella Casta parastatale romana) vedrà la sua attuale retribuzione ridursi soltanto del 25 per cento annuo, fino a rientrare nel «tetto».
Ma il malcostume degli stipendi d’oro non è una prerogativa di Roma: l’avviso di garanzia e la richiesta di rimborso della Corte dei Conti arrivati al sindaco di Milano Letizia Moratti per le retribuzioni da 250 mila euro e oltre distribuiti ai propri dirigenti e consulenti dimostra che in tutta Italia ci si arricchisce a spese dei contribuenti.
Comunità montane e province si sono salvate, eppure molti le considerano enti inutili. Verranno solo tagliati un po’ di consiglieri, ma dal 2010. È sparito il limite altimetrico di 500 metri per essere considerati comuni di montagna: così rientrano Domodossola, Susa, Lanzo, Feltre, Vallombrosa.
Quanto alle Regioni, «il loro diritto allo spreco è costituzionalmente garantito», ironizza Villone: governo e Parlamento non possono toccarle, è ciascuna di loro a dover diminuire spese e posti. Campa cavallo. E anche per il taglio dei 950 parlamentari (gli Usa, con il quintuplo dei nostri abitanti, ne hanno 535) occorre una legge costituzionale, con tempi lunghissimi.
«Ormai, fra stipendiati e consulenti, in Italia campa di politica mezzo milione di persone», denuncia Villone. I consiglieri comunali strepitano contro l’intenzione di ridurre i loro stipendi mensili da 2.000 a 1.500 euro: «Perché non tagliate prima quelli dei consiglieri regionali, che arrivano a 14 mila euro?».
Dimenticano che fino a quindici anni fa quella di consigliere comunale non era una professione, ma un onore (e un onere) civico, che si espletava per una o due sere alla settimana in cambio di un semplice gettone di presenza da 50 mila lire. E le nostre città non erano governate peggio.
Insomma, dopo tanti annunci sui tagli agli sprechi, di concreto è stato fatto poco. Del disegno di legge Santagata si sono perse le tracce. Il decreto Lanzillotta limita a tre i consiglieri d’amministrazione nelle società a partecipazione pubblica. Ma anche qui una vasta esenzione: le società con più di due milioni di capitale possono averne cinque.
Sarà forse per questo che ora Beppe Grillo raccoglie un 57 per cento di simpatie, contro il 49% per Fini, il 48 per Veltroni, il 39 per Berlusconi e appena il 29 per Prodi. E che il libro La casta continua a vendere: ormai ha raggiunto un milione e 200 mila copie. Nessun saggio in Italia, neanche quelli di Oriana Fallaci o dei papi, ha mai ottenuto tanto successo in così poco tempo. Ora si è aggiunto anche 'Sprecopoli' di Mario Cervi e Nicola Porro. Ma i politici di professione sembrano non essersi ancora accorti che il vento è cambiato.
Mauro Suttora
Wednesday, December 19, 2007
intervista a Giovanna Mezzogiorno
"VORREI ESSERE PIU' VECCHIA"
In 'L'amore ai tempi del colera' il suo personaggio arriva fino a 70 anni. E le è piaciuto
di Mauro Suttora per il settimanale Oggi
Roma, 19 dicembre 2007
La migliore attrice italiana è disoccupata. E questo dice tutto sulla salute del nostro cinema. «In Italia dovrebbero rapire la gente per ficcarla nelle sale a vedere film», scherza (ma non troppo) Giovanna Mezzogiorno, 33 anni. Che non ha problemi a rivelarci di non avere lavoro né progetti per i prossimi mesi: «Nessun contratto firmato, nessuna proposta interessante».
E lei è fortunata, perché può permettersi di dire no ai copioni che non le piacciono. Così, proprio un mese dopo il suo debutto negli Stati Uniti con L’amore ai tempi del colera e a una settimana dall’arrivo sugli schermi italiani (venerdì 21 dicembre) di questo film tratto dal famoso romanzo del premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, la splendida Giovanna dai perforanti occhi blu diventa un simbolo della crisi italiana.
Siamo veramente «il Paese malato dell’Europa», come ci ha appena definito da New York Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, «governato da vecchi e quindi privo di energia»?
«Mah, io è da anni che non seguo più la politica sui giornali», risponde la Mezzogiorno, «e ne soffro, perché l’educazione civica mi è stata inculcata da piccola, per me è un dovere etico interessarsi della cosa pubblica. Ma mentre prima era un piacere, ora faccio una gran fatica».
L’amore ai tempi del colera è stato girato dal regista Mike Newell, quello di Quattro matrimoni e un funerale e di Harry Potter, che ha voluto fortemente Giovanna nei panni della protagonista Fermina dopo il provino a Los Angeles. Ha dovuto battere il nazionalismo degli studios di Hollywood, i quali premevano invece per un’attrice americana.
Il coprotagonista Florentino (interpretato dallo spagnolo Javier Bardem, nominato agli Oscar per Il mare dentro) riesce a sposarla soltanto quando sono vecchi, cinquanta anni e 600 amanti dopo il loro primo incontro. E mentre Florentino da giovane è interpretato da un altro attore, Giovanna adeguatamente truccata copre tutta una vita, da venti ai settant’anni.
Il film negli Stati Uniti è stato vietato ai minori per le scene di sesso, l’ultima delle quali si può definire di «gerontosesso» visto che documenta la prima notte di nozze di Fermina e Florentino ormai settuagenari. I visi sono quelli degli attori, i corpi nudi appartengono invece a controfigure dalle pelli avvizzite, «attaccati» poi con trucchi elettronici alle teste di Mezzogiorno e Bardem.
Il film, in odore di premio Oscar, ha incassato finora cinque milioni di dollari in America nonostante sia stato distribuito in «soli» 800 cinema. Il New York Times ha definito Giovanna Mezzogiorno «attractive and sultry» (bella e torrida), paragonandola a Elizabeth Taylor.
Ma le fortune internazionali di Giovanna non si fermano qui. A novembre ha finito di girare anche l’ultimo film di Wim Wenders (che per ora si chiama The Palermo Shooting), ambientato fra Sicilia e Germania, avendo accanto come attori i miti della musica rock Patti Smith e Lou Reed. «E fra i film non ancora usciti ho lavorato in L’amore non basta, diretto da un giovane regista italiano, Stefano Chiantini», annuncia. E poi nulla. Il cantiere è vuoto.
Beh, può approfittare di questa pausa per sposarsi e fare un figlio.
«Ma che dice? Queste cose mica si fanno da una settimana all’altra, no?»
Però era stata proprio lei a dichiarare: «Ho 33 anni, mi sento pronta per un figlio. Anche se dopo che ho faticato tanto per ottenere certi risultati, mi spaventa l’idea di essere limitata nel mio lavoro».
Fidanzata e convivente da quattro anni con il tecnico cinematografico Daniele Anzellotti, la Mezzogiorno col cuore ha svolazzato poco: è sempre stata coinvolta in relazioni stabili e lunghe, fra cui quella con Stefano Accorsi. Ora avrà tempo anche per dedicarsi ai suoi hobby preferiti, che sono i libri e il cinema.
«L’ultimo film che ho visto, due giorni fa, lo raccomando a tutti: Nella valle di Elah. Con i libri, invece, sono sempre in affanno: ne compro così tanti che poi sono sempre indietro nella lettura. Ora sto leggendo Carver, John Fante e Agota Kristof...»
Agota? Vuol dire Agata, forse?
«Cooome? Non conosce Agota Kristof? Le consiglio di leggere la sua trilogia della città di K.»
Non sarà un libro triste e pesante, quei mattoncini che piacciono tanto a voi intellettuali di sinistra?
«Beh, tanto allegro non è...»
Vabbè, passiamo ad altro. Mi ha colpito una sua recente affermazione: “Non mi sento una grande attrice”. Eppure, da quando ha debuttato dieci anni fa, non ha sbagliato un film: dal Viaggio della sposa di Sergio Rubini all’Ultimo bacio di Gabriele Muccino, dalla Finestra di fronte di Fernan Ozpetek a La bestia nel cuore di Cristina Comencini, nominato all’Oscar. E tanti altri, molti memorabili. Fino all’ultimo, delizioso Lezioni di volo di Francesca Archibugi, pochi mesi fa.
Almeno «brava» attrice, se non «grande», lo accetta?
«La verità è che non mi sento né arrivata, né nel pieno della mia maturità artistica. Sto ancora imparando, e ho la sensazione di poter crescere ancora».
Anche con ruoli non più da ventenne, forse. In 'Lezioni di volo', per esempio, in cui ha interpretato una ginecologa volontaria di una Ong in India, era curioso il contrasto fra la sua maturità psicologica e intellettuale, di donna piena, e il suo aspetto di ragazzina. Sembrava quasi la sorella del protagonista diciottenne. E infatti se ne innamora.
«Sì, ho deciso che d’ora in poi non accetterò più ruoli di donne più giovani della mia età».
Ah, ecco perché è rimasta disoccupata. Ma se dimostra dieci anni di meno, che pretende?
«E che devo fare, darmi cazzotti in faccia per sembrare più vecchia? In fondo ne La finestra di fronte, quattro anni fa, ero la madre di due bambini...»
È vero che detesta fare shopping e uscire la sera?
«Sì, tranne qualche blitz quando devo comprare un po’ di vestiti. E frequento gli amici in casa, la mia o la loro».
Anche Cristiana Capotondi e altre giovani attrici romane mi hanno detto la stessa cosa. Perché vi ritirate nel privato, non vi piace la mondanità?
«Mah, adesso va di moda giurare che non si fa vita mondana, lo dicono tutte. Poi però le foto sono lì a dimostrare il contrario».
La ammiro perché riesce a cenare da sola nei ristoranti, quando è in giro per il mondo durante le riprese dei suoi film. Io piuttosto che sedermi solo vado da McDonald’s. Lei invece ha un buon rapporto con la solitudine?
«Sì, non m’imbarazza mangiare senza compagnia, so che non è molto comune. Comunque mentre si aspetta si può leggere, si può telefonare...»
Lei non si è mai spogliata per una rivista.
«Lo trovo macabro».
Perché ha il seno piccolo?
«Senta, una volta un tizio è riuscito a dirmi in faccia: perché non ti rifai le tette? “Ma rifattele tu”, gli ho risposto».
Le è piaciuta Hollywood, l’America?
«No. Non ci vivrei mai. Già alla dogana ti trattano come un criminale, ti mettono in soggezione. E questo primo messaggio di violenza poi resta. Altro che terra della libertà: non si può neanche fumare...»
Possiamo titolare «Scoop: la Mezzogiorno disoccupata!»?
«La psicologia contorta dei giornalisti che inventano i titoli mi affascina. Riuscireste a mettermi in bocca qualsiasi cosa».
Mauro Suttora
In 'L'amore ai tempi del colera' il suo personaggio arriva fino a 70 anni. E le è piaciuto
di Mauro Suttora per il settimanale Oggi
Roma, 19 dicembre 2007
La migliore attrice italiana è disoccupata. E questo dice tutto sulla salute del nostro cinema. «In Italia dovrebbero rapire la gente per ficcarla nelle sale a vedere film», scherza (ma non troppo) Giovanna Mezzogiorno, 33 anni. Che non ha problemi a rivelarci di non avere lavoro né progetti per i prossimi mesi: «Nessun contratto firmato, nessuna proposta interessante».
E lei è fortunata, perché può permettersi di dire no ai copioni che non le piacciono. Così, proprio un mese dopo il suo debutto negli Stati Uniti con L’amore ai tempi del colera e a una settimana dall’arrivo sugli schermi italiani (venerdì 21 dicembre) di questo film tratto dal famoso romanzo del premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, la splendida Giovanna dai perforanti occhi blu diventa un simbolo della crisi italiana.
Siamo veramente «il Paese malato dell’Europa», come ci ha appena definito da New York Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, «governato da vecchi e quindi privo di energia»?
«Mah, io è da anni che non seguo più la politica sui giornali», risponde la Mezzogiorno, «e ne soffro, perché l’educazione civica mi è stata inculcata da piccola, per me è un dovere etico interessarsi della cosa pubblica. Ma mentre prima era un piacere, ora faccio una gran fatica».
L’amore ai tempi del colera è stato girato dal regista Mike Newell, quello di Quattro matrimoni e un funerale e di Harry Potter, che ha voluto fortemente Giovanna nei panni della protagonista Fermina dopo il provino a Los Angeles. Ha dovuto battere il nazionalismo degli studios di Hollywood, i quali premevano invece per un’attrice americana.
Il coprotagonista Florentino (interpretato dallo spagnolo Javier Bardem, nominato agli Oscar per Il mare dentro) riesce a sposarla soltanto quando sono vecchi, cinquanta anni e 600 amanti dopo il loro primo incontro. E mentre Florentino da giovane è interpretato da un altro attore, Giovanna adeguatamente truccata copre tutta una vita, da venti ai settant’anni.
Il film negli Stati Uniti è stato vietato ai minori per le scene di sesso, l’ultima delle quali si può definire di «gerontosesso» visto che documenta la prima notte di nozze di Fermina e Florentino ormai settuagenari. I visi sono quelli degli attori, i corpi nudi appartengono invece a controfigure dalle pelli avvizzite, «attaccati» poi con trucchi elettronici alle teste di Mezzogiorno e Bardem.
Il film, in odore di premio Oscar, ha incassato finora cinque milioni di dollari in America nonostante sia stato distribuito in «soli» 800 cinema. Il New York Times ha definito Giovanna Mezzogiorno «attractive and sultry» (bella e torrida), paragonandola a Elizabeth Taylor.
Ma le fortune internazionali di Giovanna non si fermano qui. A novembre ha finito di girare anche l’ultimo film di Wim Wenders (che per ora si chiama The Palermo Shooting), ambientato fra Sicilia e Germania, avendo accanto come attori i miti della musica rock Patti Smith e Lou Reed. «E fra i film non ancora usciti ho lavorato in L’amore non basta, diretto da un giovane regista italiano, Stefano Chiantini», annuncia. E poi nulla. Il cantiere è vuoto.
Beh, può approfittare di questa pausa per sposarsi e fare un figlio.
«Ma che dice? Queste cose mica si fanno da una settimana all’altra, no?»
Però era stata proprio lei a dichiarare: «Ho 33 anni, mi sento pronta per un figlio. Anche se dopo che ho faticato tanto per ottenere certi risultati, mi spaventa l’idea di essere limitata nel mio lavoro».
Fidanzata e convivente da quattro anni con il tecnico cinematografico Daniele Anzellotti, la Mezzogiorno col cuore ha svolazzato poco: è sempre stata coinvolta in relazioni stabili e lunghe, fra cui quella con Stefano Accorsi. Ora avrà tempo anche per dedicarsi ai suoi hobby preferiti, che sono i libri e il cinema.
«L’ultimo film che ho visto, due giorni fa, lo raccomando a tutti: Nella valle di Elah. Con i libri, invece, sono sempre in affanno: ne compro così tanti che poi sono sempre indietro nella lettura. Ora sto leggendo Carver, John Fante e Agota Kristof...»
Agota? Vuol dire Agata, forse?
«Cooome? Non conosce Agota Kristof? Le consiglio di leggere la sua trilogia della città di K.»
Non sarà un libro triste e pesante, quei mattoncini che piacciono tanto a voi intellettuali di sinistra?
«Beh, tanto allegro non è...»
Vabbè, passiamo ad altro. Mi ha colpito una sua recente affermazione: “Non mi sento una grande attrice”. Eppure, da quando ha debuttato dieci anni fa, non ha sbagliato un film: dal Viaggio della sposa di Sergio Rubini all’Ultimo bacio di Gabriele Muccino, dalla Finestra di fronte di Fernan Ozpetek a La bestia nel cuore di Cristina Comencini, nominato all’Oscar. E tanti altri, molti memorabili. Fino all’ultimo, delizioso Lezioni di volo di Francesca Archibugi, pochi mesi fa.
Almeno «brava» attrice, se non «grande», lo accetta?
«La verità è che non mi sento né arrivata, né nel pieno della mia maturità artistica. Sto ancora imparando, e ho la sensazione di poter crescere ancora».
Anche con ruoli non più da ventenne, forse. In 'Lezioni di volo', per esempio, in cui ha interpretato una ginecologa volontaria di una Ong in India, era curioso il contrasto fra la sua maturità psicologica e intellettuale, di donna piena, e il suo aspetto di ragazzina. Sembrava quasi la sorella del protagonista diciottenne. E infatti se ne innamora.
«Sì, ho deciso che d’ora in poi non accetterò più ruoli di donne più giovani della mia età».
Ah, ecco perché è rimasta disoccupata. Ma se dimostra dieci anni di meno, che pretende?
«E che devo fare, darmi cazzotti in faccia per sembrare più vecchia? In fondo ne La finestra di fronte, quattro anni fa, ero la madre di due bambini...»
È vero che detesta fare shopping e uscire la sera?
«Sì, tranne qualche blitz quando devo comprare un po’ di vestiti. E frequento gli amici in casa, la mia o la loro».
Anche Cristiana Capotondi e altre giovani attrici romane mi hanno detto la stessa cosa. Perché vi ritirate nel privato, non vi piace la mondanità?
«Mah, adesso va di moda giurare che non si fa vita mondana, lo dicono tutte. Poi però le foto sono lì a dimostrare il contrario».
La ammiro perché riesce a cenare da sola nei ristoranti, quando è in giro per il mondo durante le riprese dei suoi film. Io piuttosto che sedermi solo vado da McDonald’s. Lei invece ha un buon rapporto con la solitudine?
«Sì, non m’imbarazza mangiare senza compagnia, so che non è molto comune. Comunque mentre si aspetta si può leggere, si può telefonare...»
Lei non si è mai spogliata per una rivista.
«Lo trovo macabro».
Perché ha il seno piccolo?
«Senta, una volta un tizio è riuscito a dirmi in faccia: perché non ti rifai le tette? “Ma rifattele tu”, gli ho risposto».
Le è piaciuta Hollywood, l’America?
«No. Non ci vivrei mai. Già alla dogana ti trattano come un criminale, ti mettono in soggezione. E questo primo messaggio di violenza poi resta. Altro che terra della libertà: non si può neanche fumare...»
Possiamo titolare «Scoop: la Mezzogiorno disoccupata!»?
«La psicologia contorta dei giornalisti che inventano i titoli mi affascina. Riuscireste a mettermi in bocca qualsiasi cosa».
Mauro Suttora
Wednesday, November 28, 2007
intervista a De Sica, Hunziker e De Luigi
VACANZE IN CROCIERA
Il film delle feste
Roma, 12 dicembre
Mauro Suttora per Oggi
Campione d’incassi ovunque. Il suo ultimo film Natale a New York, ha battuto tutti i blockbuster Usa nel 2007 in Italia, rastrellando 27 milioni di euro (e solo nei cinema, esclusi dvd e diritti tv). Ha sbancato i botteghini anche a teatro con il musical autobiografico Parlami di me, che dal 29 dicembre torna per sette settimane al Nuovo di Milano, quindi in tournée nel Nord Italia con puntate a Roma e Napoli.
In più, da due anni arriva in tutte le case degli italiani come vigile degli spot Tim, che gli regalano ulteriore popolarità. E venerdì 14 dicembre esce il suo nuovo film natalizio: Natale in crociera, con Michelle Hunziker, Nancy Brilli, Fabio De Luigi e Aida Yespica.
Insomma, piove sul bagnato per Christian De Sica, 56 anni. «Sì, sto attraversando un buon momento», commenta, seduto sul divano di casa. Non una villa sull’Appia, non un attico ai Parioli: un semplice appartamento al primo piano nel quartiere San Saba, un gradino sotto l’Aventino. E la normalità di De Sica, assieme alla sua spontaneità e irresistibile simpatia, ne fanno un beniamino del pubblico. «Non so se sono un grande attore», si schermisce, «ma di sicuro mi sento amato. Siamo arrivati al punto che per strada dei ragazzi ventenni, l’età di mio figlio, mi fermano per baciarmi, dicendomi “Ciao zio”... È un livello di affetto che avevo visto solo per mio padre Vittorio, o per Totò».
Sì, dimenticavamo: De Sica negli ultimi anni è apparso anche in Tv con le due serie Lo zio d’America. «Lì non faccio la solita parte del romanaccio maschilista, maleducato e misogino dei film di Natale. Sono anzi l’esatto contrario: un personaggio gentile su cui tutti fanno affidamento. E le spettatrici donne mi hanno talmente amato che me le sono portate appresso a vedermi anche al cinema».
Quest’anno De Sica festeggia il record mondiale: un quarto di secolo di film natalizi, uno dopo l’altro. «Davvero questo è il venticinquesimo? Mi faccia pensare: è vero, il primo Vacanze di Natale di Carlo Vanzina è uscito quando mio figlio Brando, che ora ha 24 anni, aveva sei mesi. Sì, era il 1983».
Finora, diciamolo pure, i cinepanettoni erano schifati dai critici: gran successo commerciale, ma quanto ad arte erano considerati serie B. «Invece adesso pure lì mi sto prendendo qualche soddisfazione», sorride De Sica, «il critico Paolo Mereghetti mi ha dato il Superciak d’oro 2007. E uno studioso di teatro ha lodato perfino gli spot Tim, definendoli “commedie all’italiana in 15 secondi”».
Insomma, è un’«età dell’oro» per il Christianone nazionale. Proprio così s’intitola d’altronde il suo prossimo film, che sarà «d’autore», tratto da un romanzo di Edoardo Nesi e prodotto da Domenico Procacci. Interpreterà un ruolo drammatico, quello di un industriale fallito e malato.
Superato con agilità anche il «divorzio» da Massimo Boldi, suo coprotagonista in ben 24 film: quest’anno il film natalizio di Boldi, Matrimonio alle Bahamas, è uscito un mese prima, si è già preso le sue soddisfazioni d’incasso e non sarà in concorrenza diretta con Natale in crociera.
La protagonista donna questa volta è Michelle Hunziker. Mentre De Sica fa la parte di un professionista sposato con Nancy Brilli che cerca di fare una vacanza con l’amante Aida Yespica, la Hunziker è una ragazza estroversa appassionata di animali. «È la prima volta che una donna ha un ruolo da vera e propria protagonista in un film natalizio», spiega De Sica, «e grazie agli animali c’è un’atmosfera fiabesca, con gatti, cani, pecorelle, che piacerà molto ai bambini».
Michelle incontra Fabio De Luigi, che interpreta uno scapolo incallito e misantropo, la cui filosofia di vita è riassunta nel libro che ha scritto: Single è bello (leggendolo, l’ex fidanzato di Michelle si è convinto a lasciarla). Dopo una serie di incontri-scontri, nei quali si procurano involontariamente danni a vicenda, i due si augurano di non incontrarsi più. Ma il destino ha altri progetti su di loro: a insaputa l’uno dell’altra, Michela e Luigi sono testimoni della sposa e dello sposo a un matrimonio che si celebra su una splendida nave da crociera in rotta verso i Caraibi.
È ovviamente la stessa nave sulla quale Christian De Sica ha imbarcato amante, e qui comincia il divertimento. «Ma le nostre sono storie parallele, in realtà, Michelle ed io ci incrociamo soltanto in una scena d’aereo», anticipa De Sica.
Per Michelle Hunziker, 30 anni, questa è la consacrazione definitiva come personaggio popolare: «Dopo Sanremo, questo 2007 mi ha offerto l’opportunità di essere protagonista di un altro evento tradizionale per le famiglie italiane, il film di Natale, e sono felicissima di avere raggiunto questo traguardo», ci dice. «Io vado matta per le commedie divertenti, e il mio ruolo non ha niente da invidiare a quelli di una Cameron Diaz o Jennifer Aniston».
Particolare curioso: realtà e fantasia si sono mescolate durante le riprese sulla nave Costa Serena in ottobre. Il giovane produttore Luigi De Laurentiis, figlio di Aurelio, si è infatti innamorato di Michelle nonostante la presenza a bordo della propria fidanzata americana Brooke. La quale è scesa inviperita a Venezia quando ha capito che non c’era nulla da fare. Ora Luigi (altra coincidenza: stesso nome dell’innamorato di Michelle nel film) e la Hunziker stanno felicemente assieme, anche se lei è ritrosa a commentare il suo inedito ruolo di «moglie del produttore».
Quel che è certo, è che nel film ancora una volta una bionda fa impazzire un uomo che pareva refrattario a ogni relazione «fissa». Il che viene proprio in questi giorni autorevolissimamente confermato da uno studio scientifico dell’università parigina di Nanterre: non sono le bionde a essere stupide, ma gli uomini che se ne invaghiscono a instupidirsi.
Michelle ride di fronte a questa ipotesi: «Certo, è verissimo, hanno dimostrato che perfino i topi sopportano meglio il dolore di fronte a un poster di Paris Hilton... Scherzi a parte, capisco che la luminosità del capello e l’appariscenza del biondo sono spesso armi di seduzione irresistibili. Ma le confesso una cosa: se io fossi un uomo, sarei più attratta dalle more. I capelli neri sono così sensuali, profondi, misteriosi... La mia attrice preferita è Keira Knightley, anche se è troppo magra».
E Fabio De Luigi, l’attor comico quarantenne che cade vittima del fascino eterno della bionda, crede in questa teoria del rimbambimento automatico? «Natale in crociera ne è la prova provata. All’inizio io Michelle non la sopporto proprio. Ma alla fine divento anch’io l’ennesima vittima dei capelli d’oro».
De Luigi è al suo secondo film natalizio, dopo il successo dell’anno scorso: «Sostituivo idealmente Boldi, quindi ero un po’ intimorito. Invece è andata benissimo, ed è incredibile la popolarità che arriva con questi film. È un fenomeno che perfino all’estero cercano di capire».
Eppure De Luigi non è un novellino: memorabili i suoi personaggi televisivi di Mai dire gol come Medioman e il cantante Olmo. Il disco con le canzoni di quest’ultimo ha venduto addirittura 250 mila copie. «E pensare che non sono neppure un cantante...», commenta De Luigi. Ma allegri, è Natale per tutti.
Mauro Suttora
Il film delle feste
Roma, 12 dicembre
Mauro Suttora per Oggi
Campione d’incassi ovunque. Il suo ultimo film Natale a New York, ha battuto tutti i blockbuster Usa nel 2007 in Italia, rastrellando 27 milioni di euro (e solo nei cinema, esclusi dvd e diritti tv). Ha sbancato i botteghini anche a teatro con il musical autobiografico Parlami di me, che dal 29 dicembre torna per sette settimane al Nuovo di Milano, quindi in tournée nel Nord Italia con puntate a Roma e Napoli.
In più, da due anni arriva in tutte le case degli italiani come vigile degli spot Tim, che gli regalano ulteriore popolarità. E venerdì 14 dicembre esce il suo nuovo film natalizio: Natale in crociera, con Michelle Hunziker, Nancy Brilli, Fabio De Luigi e Aida Yespica.
Insomma, piove sul bagnato per Christian De Sica, 56 anni. «Sì, sto attraversando un buon momento», commenta, seduto sul divano di casa. Non una villa sull’Appia, non un attico ai Parioli: un semplice appartamento al primo piano nel quartiere San Saba, un gradino sotto l’Aventino. E la normalità di De Sica, assieme alla sua spontaneità e irresistibile simpatia, ne fanno un beniamino del pubblico. «Non so se sono un grande attore», si schermisce, «ma di sicuro mi sento amato. Siamo arrivati al punto che per strada dei ragazzi ventenni, l’età di mio figlio, mi fermano per baciarmi, dicendomi “Ciao zio”... È un livello di affetto che avevo visto solo per mio padre Vittorio, o per Totò».
Sì, dimenticavamo: De Sica negli ultimi anni è apparso anche in Tv con le due serie Lo zio d’America. «Lì non faccio la solita parte del romanaccio maschilista, maleducato e misogino dei film di Natale. Sono anzi l’esatto contrario: un personaggio gentile su cui tutti fanno affidamento. E le spettatrici donne mi hanno talmente amato che me le sono portate appresso a vedermi anche al cinema».
Quest’anno De Sica festeggia il record mondiale: un quarto di secolo di film natalizi, uno dopo l’altro. «Davvero questo è il venticinquesimo? Mi faccia pensare: è vero, il primo Vacanze di Natale di Carlo Vanzina è uscito quando mio figlio Brando, che ora ha 24 anni, aveva sei mesi. Sì, era il 1983».
Finora, diciamolo pure, i cinepanettoni erano schifati dai critici: gran successo commerciale, ma quanto ad arte erano considerati serie B. «Invece adesso pure lì mi sto prendendo qualche soddisfazione», sorride De Sica, «il critico Paolo Mereghetti mi ha dato il Superciak d’oro 2007. E uno studioso di teatro ha lodato perfino gli spot Tim, definendoli “commedie all’italiana in 15 secondi”».
Insomma, è un’«età dell’oro» per il Christianone nazionale. Proprio così s’intitola d’altronde il suo prossimo film, che sarà «d’autore», tratto da un romanzo di Edoardo Nesi e prodotto da Domenico Procacci. Interpreterà un ruolo drammatico, quello di un industriale fallito e malato.
Superato con agilità anche il «divorzio» da Massimo Boldi, suo coprotagonista in ben 24 film: quest’anno il film natalizio di Boldi, Matrimonio alle Bahamas, è uscito un mese prima, si è già preso le sue soddisfazioni d’incasso e non sarà in concorrenza diretta con Natale in crociera.
La protagonista donna questa volta è Michelle Hunziker. Mentre De Sica fa la parte di un professionista sposato con Nancy Brilli che cerca di fare una vacanza con l’amante Aida Yespica, la Hunziker è una ragazza estroversa appassionata di animali. «È la prima volta che una donna ha un ruolo da vera e propria protagonista in un film natalizio», spiega De Sica, «e grazie agli animali c’è un’atmosfera fiabesca, con gatti, cani, pecorelle, che piacerà molto ai bambini».
Michelle incontra Fabio De Luigi, che interpreta uno scapolo incallito e misantropo, la cui filosofia di vita è riassunta nel libro che ha scritto: Single è bello (leggendolo, l’ex fidanzato di Michelle si è convinto a lasciarla). Dopo una serie di incontri-scontri, nei quali si procurano involontariamente danni a vicenda, i due si augurano di non incontrarsi più. Ma il destino ha altri progetti su di loro: a insaputa l’uno dell’altra, Michela e Luigi sono testimoni della sposa e dello sposo a un matrimonio che si celebra su una splendida nave da crociera in rotta verso i Caraibi.
È ovviamente la stessa nave sulla quale Christian De Sica ha imbarcato amante, e qui comincia il divertimento. «Ma le nostre sono storie parallele, in realtà, Michelle ed io ci incrociamo soltanto in una scena d’aereo», anticipa De Sica.
Per Michelle Hunziker, 30 anni, questa è la consacrazione definitiva come personaggio popolare: «Dopo Sanremo, questo 2007 mi ha offerto l’opportunità di essere protagonista di un altro evento tradizionale per le famiglie italiane, il film di Natale, e sono felicissima di avere raggiunto questo traguardo», ci dice. «Io vado matta per le commedie divertenti, e il mio ruolo non ha niente da invidiare a quelli di una Cameron Diaz o Jennifer Aniston».
Particolare curioso: realtà e fantasia si sono mescolate durante le riprese sulla nave Costa Serena in ottobre. Il giovane produttore Luigi De Laurentiis, figlio di Aurelio, si è infatti innamorato di Michelle nonostante la presenza a bordo della propria fidanzata americana Brooke. La quale è scesa inviperita a Venezia quando ha capito che non c’era nulla da fare. Ora Luigi (altra coincidenza: stesso nome dell’innamorato di Michelle nel film) e la Hunziker stanno felicemente assieme, anche se lei è ritrosa a commentare il suo inedito ruolo di «moglie del produttore».
Quel che è certo, è che nel film ancora una volta una bionda fa impazzire un uomo che pareva refrattario a ogni relazione «fissa». Il che viene proprio in questi giorni autorevolissimamente confermato da uno studio scientifico dell’università parigina di Nanterre: non sono le bionde a essere stupide, ma gli uomini che se ne invaghiscono a instupidirsi.
Michelle ride di fronte a questa ipotesi: «Certo, è verissimo, hanno dimostrato che perfino i topi sopportano meglio il dolore di fronte a un poster di Paris Hilton... Scherzi a parte, capisco che la luminosità del capello e l’appariscenza del biondo sono spesso armi di seduzione irresistibili. Ma le confesso una cosa: se io fossi un uomo, sarei più attratta dalle more. I capelli neri sono così sensuali, profondi, misteriosi... La mia attrice preferita è Keira Knightley, anche se è troppo magra».
E Fabio De Luigi, l’attor comico quarantenne che cade vittima del fascino eterno della bionda, crede in questa teoria del rimbambimento automatico? «Natale in crociera ne è la prova provata. All’inizio io Michelle non la sopporto proprio. Ma alla fine divento anch’io l’ennesima vittima dei capelli d’oro».
De Luigi è al suo secondo film natalizio, dopo il successo dell’anno scorso: «Sostituivo idealmente Boldi, quindi ero un po’ intimorito. Invece è andata benissimo, ed è incredibile la popolarità che arriva con questi film. È un fenomeno che perfino all’estero cercano di capire».
Eppure De Luigi non è un novellino: memorabili i suoi personaggi televisivi di Mai dire gol come Medioman e il cantante Olmo. Il disco con le canzoni di quest’ultimo ha venduto addirittura 250 mila copie. «E pensare che non sono neppure un cantante...», commenta De Luigi. Ma allegri, è Natale per tutti.
Mauro Suttora
Stipendi: persi 1.900 euro in cinque anni
Aumenti e fiscal drag: tredicesima amara
Roma, 5 dicembre 2007
Sarà un Natale freddo. Quest’anno dovremo stringere la cinghia, e spendere meno per regali e cenoni di Capodanno. Lo prevedono tutti, dalle associazioni dei consumatori a quelle dei commercianti, avversari nelle dispute sui prezzi ma concordi nei giudizi foschi.
«A causa dei rincari del settore alimentare, le famiglie spenderanno per il classico cenone di Natale 20-30 euro più dell’anno scorso, per un totale complessivo di 165–175 euro a famiglia», avverte Carlo Rienzi, presidente del Codacons (Coordinamento associazioni consumatori). «Riceveremo 36 miliardi in tredicesime», fa i conti la Confesercenti, «e dopo avere pagato otto miliardi per debiti e quattro per mutui ne destineremo tredici agli acquisti per casa e famiglia, e solo 4,7 ai regali. L’anno scorso per i regali avevamo speso quasi cinque miliardi, quest’anno 248 milioni in meno. La contrazione è quindi del cinque per cento».
I conti in sospeso da saldare sono aumentati di ben 658 milioni, i mutui di 237. A farne le spese, quindi, sono i consumi voluttuari: meno 8 per cento per l’abbigliamento, meno sei per i viaggi, meno tre per auto e moto, meno due per mobili, elettrodomestici e giocattoli. Unica buona notizia: nonostante le ristrettezze gli italiani non rinunciano a risparmiare, e accantonano previdenti 6,7 miliardi di tredicesima, con una diminuzione di appena 18 milioni rispetto al 2006. «Insomma, non siamo diventati cicale come gli americani», commentano i sondaggisti di Publica Res, «i quali stanno pagando ora con la crisi dei mutui un tenore di vita condotto al di sopra dei propri mezzi».
Il problema è che il tenore di vita è diminuito negli ultimi cinque anni per molti di noi. Lo dimostra un altro studio, condotto dalla Ires-Cgil, che quantifica con precisione la perdita di potere d’acquisto dei nostri stipendi dal 2002: 1.900 euro. Cioè un euro al giorno. Attenzione, però: questa cifra si riferisce allo stipendio medio di un lavoratore dipendente, che in Italia è di 23 mila euro lordi all’anno. Nel dettaglio, invece, «il reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2007 registra una perdita di circa 2.600 euro nelle famiglie di operai e di più di tremila in quelle degli impiegati, a fronte di un guadagno di 12 mila euro per liberi professionisti e imprenditori», avverte Agostino Megale, presidente dell’Ires (Istituto ricerche economiche e sociali).
Ma prendiamo per buona la cifra media del salasso, 1.900 euro. Com’è potuto succedere? In realtà in questi cinque anni i nostri stipendi non sono rimasti fermi: sono aumentati del 15 per cento, a un ritmo superiore al due per cento annuo. «Il problema è che l’inflazione programmata, sulla quale si calcolano gli aumenti contrattuali, è risultata più bassa di quella effettiva», spiega Megale. E poi ci sono stati i ritardi nei rinnovi contrattuali, una scarsa redistribuzione della produttività (si produce di più e in meno tempo, ma il profitto resta agli imprenditori), e soprattutto la mancata restituzione del «fiscal drag», cioè l’indebito aumento della pressione fiscale a causa dell’inflazione.
L’anno peggiore è stato il 2003, quando lo scostamento fra l’aumento delle retribuzioni e l’inflazione ha superato l’uno per cento: 1,8% il primo, 2,9% la seconda. Sembra una cifra minima, e invece ha provocato una perdita di ben 1.450 euro in soli dodici mesi. Nel 2002 se n’erano persi altri 700, mentre nel 2004 è andata meglio: meno 124 euro. In questi ultimi anni, grazie alla ripresa economica, è andata meglio. Ma le perdite precedenti non sono state mai recuperate.
Anzi, quando il reddito aumenta scatta la trappola del «fiscal drag». Cos’è? Dall’inglese si traduce «drenaggio fiscale» ed è una perversa trappola che scatta con gli aumenti di reddito legati al tasso di inflazione programmata. In pratica, gli aumenti di un paio di punti percentuali che vengono eventualmente concessi ai lavoratori per mantenere il loro potere d’acquisto finiscono prima o poi per far rientrare il loro reddito in scaglioni fiscali con aliquote maggiori che si mangiano tutti gli aumenti e anche qualcosa di più. A causa di questo meccanismo le imposte hanno ingoiato 700 di quei 1.900 euro che abbiamo perso negli ultimi cinque anni.
Sul problema degli stipendi che perdono terreno, erosi dall’inflazione e dalle tasse, sono d’accordo tutti, destra e sinistra. «Purtroppo sono dati che presentano una continuità», dice il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, «da tempo diciamo che i salari perdono potere d'acquisto. Abbiamo crescita bassa, produttività bassa e salari bassi. Il Paese si dovrebbe porre il problema di una nuova politica dei redditi».
Perfino il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, severo custode dei conti pubblici, ammette che gli stipendi dei dipendenti italiani devono crescere. Basta confrontarli con l’Europa: la retribuzione media in Italia è di 23 mila euro lordi annui, in fondo alla classifica con la Spagna. Quasi la metà di Gran Bretagna (42 mila euro) e Germania (41 mila), un terzo meno della Francia (30 mila).
«Dal 1945 al 1992 i salari venivano adeguati automaticamente all’inflazione», commenta Giovanni Mazzetti, docente universitario di Economia politica, «ma la scala mobile che li proteggeva, dopo le manomissioni degli anni ‘80, è stata abolita. Avrebbe dovuto essere sostituita dalla cosiddetta “concertazione” con inflazione programmata e premi di risultato. Invece gli ultimi quindici anni hanno visto una riduzione generale del potere d’acquisto per chi lavora, e lo spostamento verso rendite e profitti di oltre il dieci per cento del reddito da loro prodotto».
Insomma, fra la batosta del passaggio all’euro del 2002 che ha in pratica raddoppiato i prezzi, gli stipendi che non coprono l’inflazione, la concorrenza di Cina e altri Paesi con salari bassissimi, e gli sprechi pubblici che devono essere coperti da tasse troppo alte (il «cuneo fiscale», cioè la differenza fra retribuzione lorda e netta, in Italia è del 45% contro il 39 in Spagna, il 34 in Gran Bretagna e il 29 negli Usa), ci resta poco da festeggiare. Ma, bene o male, qualche euro per un panettone, un cotechino e una bottiglia di spumante lo troveremo.
Mauro Suttora
Roma, 5 dicembre 2007
Sarà un Natale freddo. Quest’anno dovremo stringere la cinghia, e spendere meno per regali e cenoni di Capodanno. Lo prevedono tutti, dalle associazioni dei consumatori a quelle dei commercianti, avversari nelle dispute sui prezzi ma concordi nei giudizi foschi.
«A causa dei rincari del settore alimentare, le famiglie spenderanno per il classico cenone di Natale 20-30 euro più dell’anno scorso, per un totale complessivo di 165–175 euro a famiglia», avverte Carlo Rienzi, presidente del Codacons (Coordinamento associazioni consumatori). «Riceveremo 36 miliardi in tredicesime», fa i conti la Confesercenti, «e dopo avere pagato otto miliardi per debiti e quattro per mutui ne destineremo tredici agli acquisti per casa e famiglia, e solo 4,7 ai regali. L’anno scorso per i regali avevamo speso quasi cinque miliardi, quest’anno 248 milioni in meno. La contrazione è quindi del cinque per cento».
I conti in sospeso da saldare sono aumentati di ben 658 milioni, i mutui di 237. A farne le spese, quindi, sono i consumi voluttuari: meno 8 per cento per l’abbigliamento, meno sei per i viaggi, meno tre per auto e moto, meno due per mobili, elettrodomestici e giocattoli. Unica buona notizia: nonostante le ristrettezze gli italiani non rinunciano a risparmiare, e accantonano previdenti 6,7 miliardi di tredicesima, con una diminuzione di appena 18 milioni rispetto al 2006. «Insomma, non siamo diventati cicale come gli americani», commentano i sondaggisti di Publica Res, «i quali stanno pagando ora con la crisi dei mutui un tenore di vita condotto al di sopra dei propri mezzi».
Il problema è che il tenore di vita è diminuito negli ultimi cinque anni per molti di noi. Lo dimostra un altro studio, condotto dalla Ires-Cgil, che quantifica con precisione la perdita di potere d’acquisto dei nostri stipendi dal 2002: 1.900 euro. Cioè un euro al giorno. Attenzione, però: questa cifra si riferisce allo stipendio medio di un lavoratore dipendente, che in Italia è di 23 mila euro lordi all’anno. Nel dettaglio, invece, «il reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2007 registra una perdita di circa 2.600 euro nelle famiglie di operai e di più di tremila in quelle degli impiegati, a fronte di un guadagno di 12 mila euro per liberi professionisti e imprenditori», avverte Agostino Megale, presidente dell’Ires (Istituto ricerche economiche e sociali).
Ma prendiamo per buona la cifra media del salasso, 1.900 euro. Com’è potuto succedere? In realtà in questi cinque anni i nostri stipendi non sono rimasti fermi: sono aumentati del 15 per cento, a un ritmo superiore al due per cento annuo. «Il problema è che l’inflazione programmata, sulla quale si calcolano gli aumenti contrattuali, è risultata più bassa di quella effettiva», spiega Megale. E poi ci sono stati i ritardi nei rinnovi contrattuali, una scarsa redistribuzione della produttività (si produce di più e in meno tempo, ma il profitto resta agli imprenditori), e soprattutto la mancata restituzione del «fiscal drag», cioè l’indebito aumento della pressione fiscale a causa dell’inflazione.
L’anno peggiore è stato il 2003, quando lo scostamento fra l’aumento delle retribuzioni e l’inflazione ha superato l’uno per cento: 1,8% il primo, 2,9% la seconda. Sembra una cifra minima, e invece ha provocato una perdita di ben 1.450 euro in soli dodici mesi. Nel 2002 se n’erano persi altri 700, mentre nel 2004 è andata meglio: meno 124 euro. In questi ultimi anni, grazie alla ripresa economica, è andata meglio. Ma le perdite precedenti non sono state mai recuperate.
Anzi, quando il reddito aumenta scatta la trappola del «fiscal drag». Cos’è? Dall’inglese si traduce «drenaggio fiscale» ed è una perversa trappola che scatta con gli aumenti di reddito legati al tasso di inflazione programmata. In pratica, gli aumenti di un paio di punti percentuali che vengono eventualmente concessi ai lavoratori per mantenere il loro potere d’acquisto finiscono prima o poi per far rientrare il loro reddito in scaglioni fiscali con aliquote maggiori che si mangiano tutti gli aumenti e anche qualcosa di più. A causa di questo meccanismo le imposte hanno ingoiato 700 di quei 1.900 euro che abbiamo perso negli ultimi cinque anni.
Sul problema degli stipendi che perdono terreno, erosi dall’inflazione e dalle tasse, sono d’accordo tutti, destra e sinistra. «Purtroppo sono dati che presentano una continuità», dice il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, «da tempo diciamo che i salari perdono potere d'acquisto. Abbiamo crescita bassa, produttività bassa e salari bassi. Il Paese si dovrebbe porre il problema di una nuova politica dei redditi».
Perfino il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, severo custode dei conti pubblici, ammette che gli stipendi dei dipendenti italiani devono crescere. Basta confrontarli con l’Europa: la retribuzione media in Italia è di 23 mila euro lordi annui, in fondo alla classifica con la Spagna. Quasi la metà di Gran Bretagna (42 mila euro) e Germania (41 mila), un terzo meno della Francia (30 mila).
«Dal 1945 al 1992 i salari venivano adeguati automaticamente all’inflazione», commenta Giovanni Mazzetti, docente universitario di Economia politica, «ma la scala mobile che li proteggeva, dopo le manomissioni degli anni ‘80, è stata abolita. Avrebbe dovuto essere sostituita dalla cosiddetta “concertazione” con inflazione programmata e premi di risultato. Invece gli ultimi quindici anni hanno visto una riduzione generale del potere d’acquisto per chi lavora, e lo spostamento verso rendite e profitti di oltre il dieci per cento del reddito da loro prodotto».
Insomma, fra la batosta del passaggio all’euro del 2002 che ha in pratica raddoppiato i prezzi, gli stipendi che non coprono l’inflazione, la concorrenza di Cina e altri Paesi con salari bassissimi, e gli sprechi pubblici che devono essere coperti da tasse troppo alte (il «cuneo fiscale», cioè la differenza fra retribuzione lorda e netta, in Italia è del 45% contro il 39 in Spagna, il 34 in Gran Bretagna e il 29 negli Usa), ci resta poco da festeggiare. Ma, bene o male, qualche euro per un panettone, un cotechino e una bottiglia di spumante lo troveremo.
Mauro Suttora
Hillary Clinton lesbica?
VOCI DI UN FLIRT CON LA SEGRETARIA
Washington, 27 novembre 2007
Oggi
La prima a insinuarlo era stata Gennifer Flowers, l’ex amante di Bill Clinton che per poco, con lo scandalo delle sue rivelazioni, non gli impedì l’elezione a presidente degli Stati Uniti nel 1992: «Hillary è lesbica», scrisse nella sua autobiografia del ’95, «e Bill una volta mi ha detto scherzando: “Ha avuto più donne lei di me...”».
Poi, quest’estate, lo ha scritto Michael Musto, re del gossip di New York, sul settimanale Village Voice: «Hillary ha una storia con la sua segretaria personale, la bellissima Huma Abedin, dea indopakistana. Passa così tanto tempo con lei che l’Observer l’ha soprannominata “guardia del corpo di Hill”».
Musto è gay, conosce tutto di quel mondo, e i sussurri si sono moltiplicati. La Abedin è single, non le si conoscono amicizie intime maschili, e per di più è stata fotografata con la Clinton e la conduttrice tv Ellen DeGeneres (la lesbica più famosa d’America) durante una loro serata a tre a New York.
Quale pettegolezzo potrebbe essere più appetitoso? Siamo a un anno esatto dalle elezioni presidenziali. Hillary è in testa a tutti i sondaggi. A gennaio cominciano le primarie per il voto di novembre. Il presidente George W. Bush non è più rieleggibile dopo due mandati, e fra i candidati repubblicani soltanto l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani riesce a non farsi distanziare troppo dalla Clinton.
Fra i democratici Hillary spopola. Il suo rivale Barack Obama è di pella nera, e anche se nessuno osa dirlo, gli Stati Uniti non sembrano ancora maturi per eleggere il primo presidente di colore. I repubblicani hanno già i fucili puntati: «Avremo un presidente quasi islamico che si chiama quasi Osama?», scherzano rischiando querele per diffamazione, perché il padre di Osama, ex pastore di capre immigrato dal Kenya, era agnostico e comunque divorziò quando lui aveva solo due anni.
Ma gli americani sono pronti per il loro primo presidente donna? E proprio «quella» donna, uscita massacrata dagli scandali sexy del marito quand’era first lady? «Non pensavo che Hillary potesse superare Bill in fatto di avventure sessuali», scrive acido il commentatore Robert Morrow. Per di più, i sondaggi danno sì la Clinton in testa, però oltre che la candidata più amata risulta anche la più odiata. Insomma, non lascia nessuno indifferente.
Anche Mary Cheney, figlia del vicepresidente Dick, è omosessuale. Non solo: lo scorso maggio è diventata mamma con la propria compagna, grazie all’inseminazione artificiale. Ma gli Stati Uniti, per quanto tolleranti, difficilmente manderebbero alla Casa Bianca una lesbica. Lo era Eleanor Roosevelt, moglie di Franklin. Ma non si è mai candidata. Per i repubblicani, quindi, queste voci su Hillary sono manna dal cielo. La Clinton è corsa ai ripari. Improvvisamente, Huma Abedin è scomparsa. Non la si vede più accanto a lei. Licenziata? Diplomaticamente «malata»? L’argomento è tabù.
Hillary non ama i giornalisti. Fredda e altezzosa, non risponde alle domande sgradite. Però come senatrice (eletta a New York nel 2000, rieletta trionfalmente l’anno scorso) è brava.
Ma chi è Huma Abedin? Nata a Kalamazoo (Michigan) 32 anni fa da padre indiano e madre pakistana, musulmana, a due anni ha seguito i genitori che si erano trasferiti a Gedda, in Arabia Saudita. È tornata negli Stati Uniti solo a 18 anni, per frequentare la George Washington University. «È sempre perfetta, elegante, con le sue borsette Yves Saint-Laurent, non suda mai»: così la descrive ironicamente il New York Observer.
Ha iniziato a lavorare con i Clinton alla Casa Bianca undici anni fa come stagista, proprio come Monica Lewinski che mise nei guai Bill. Così la lodava in agosto Hillary in un articolo su Vogue: «Huma ha l’energia di una ventenne, la sicurezza di una trentenne, l’esperienza di una quarantenne e la grazia di una cinquantenne: non ha orari, la sua combinazione di gentilezza e intelligenza sono senza pari e sono fortunata ad averla nella mia squadra»
Huma era la prima a rispondere al telefono al mattino dalla sua casa di Washington, l’ultima a salutarla la sera. Su un rapporto così intimo nessuno probabilmente saprà mai la verità. D’altra parte, anche di Condoleezza Rice, segretaria di Stato repubblicana, si dice che sia lesbica. Che questa diceria sia una «vendetta» per qualsiasi donna «colpevole» di arrivare ai vertici?
Mauro Suttora
Washington, 27 novembre 2007
Oggi
La prima a insinuarlo era stata Gennifer Flowers, l’ex amante di Bill Clinton che per poco, con lo scandalo delle sue rivelazioni, non gli impedì l’elezione a presidente degli Stati Uniti nel 1992: «Hillary è lesbica», scrisse nella sua autobiografia del ’95, «e Bill una volta mi ha detto scherzando: “Ha avuto più donne lei di me...”».
Poi, quest’estate, lo ha scritto Michael Musto, re del gossip di New York, sul settimanale Village Voice: «Hillary ha una storia con la sua segretaria personale, la bellissima Huma Abedin, dea indopakistana. Passa così tanto tempo con lei che l’Observer l’ha soprannominata “guardia del corpo di Hill”».
Musto è gay, conosce tutto di quel mondo, e i sussurri si sono moltiplicati. La Abedin è single, non le si conoscono amicizie intime maschili, e per di più è stata fotografata con la Clinton e la conduttrice tv Ellen DeGeneres (la lesbica più famosa d’America) durante una loro serata a tre a New York.
Quale pettegolezzo potrebbe essere più appetitoso? Siamo a un anno esatto dalle elezioni presidenziali. Hillary è in testa a tutti i sondaggi. A gennaio cominciano le primarie per il voto di novembre. Il presidente George W. Bush non è più rieleggibile dopo due mandati, e fra i candidati repubblicani soltanto l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani riesce a non farsi distanziare troppo dalla Clinton.
Fra i democratici Hillary spopola. Il suo rivale Barack Obama è di pella nera, e anche se nessuno osa dirlo, gli Stati Uniti non sembrano ancora maturi per eleggere il primo presidente di colore. I repubblicani hanno già i fucili puntati: «Avremo un presidente quasi islamico che si chiama quasi Osama?», scherzano rischiando querele per diffamazione, perché il padre di Osama, ex pastore di capre immigrato dal Kenya, era agnostico e comunque divorziò quando lui aveva solo due anni.
Ma gli americani sono pronti per il loro primo presidente donna? E proprio «quella» donna, uscita massacrata dagli scandali sexy del marito quand’era first lady? «Non pensavo che Hillary potesse superare Bill in fatto di avventure sessuali», scrive acido il commentatore Robert Morrow. Per di più, i sondaggi danno sì la Clinton in testa, però oltre che la candidata più amata risulta anche la più odiata. Insomma, non lascia nessuno indifferente.
Anche Mary Cheney, figlia del vicepresidente Dick, è omosessuale. Non solo: lo scorso maggio è diventata mamma con la propria compagna, grazie all’inseminazione artificiale. Ma gli Stati Uniti, per quanto tolleranti, difficilmente manderebbero alla Casa Bianca una lesbica. Lo era Eleanor Roosevelt, moglie di Franklin. Ma non si è mai candidata. Per i repubblicani, quindi, queste voci su Hillary sono manna dal cielo. La Clinton è corsa ai ripari. Improvvisamente, Huma Abedin è scomparsa. Non la si vede più accanto a lei. Licenziata? Diplomaticamente «malata»? L’argomento è tabù.
Hillary non ama i giornalisti. Fredda e altezzosa, non risponde alle domande sgradite. Però come senatrice (eletta a New York nel 2000, rieletta trionfalmente l’anno scorso) è brava.
Ma chi è Huma Abedin? Nata a Kalamazoo (Michigan) 32 anni fa da padre indiano e madre pakistana, musulmana, a due anni ha seguito i genitori che si erano trasferiti a Gedda, in Arabia Saudita. È tornata negli Stati Uniti solo a 18 anni, per frequentare la George Washington University. «È sempre perfetta, elegante, con le sue borsette Yves Saint-Laurent, non suda mai»: così la descrive ironicamente il New York Observer.
Ha iniziato a lavorare con i Clinton alla Casa Bianca undici anni fa come stagista, proprio come Monica Lewinski che mise nei guai Bill. Così la lodava in agosto Hillary in un articolo su Vogue: «Huma ha l’energia di una ventenne, la sicurezza di una trentenne, l’esperienza di una quarantenne e la grazia di una cinquantenne: non ha orari, la sua combinazione di gentilezza e intelligenza sono senza pari e sono fortunata ad averla nella mia squadra»
Huma era la prima a rispondere al telefono al mattino dalla sua casa di Washington, l’ultima a salutarla la sera. Su un rapporto così intimo nessuno probabilmente saprà mai la verità. D’altra parte, anche di Condoleezza Rice, segretaria di Stato repubblicana, si dice che sia lesbica. Che questa diceria sia una «vendetta» per qualsiasi donna «colpevole» di arrivare ai vertici?
Mauro Suttora
Viaggio a Cody, Wyoming
BUFFALO BILL (RI)CONQUISTA L'ITALIA
Cody (Stati Uniti), 22 novembre
Nel vecchio West c’era posto per tutti, a nessuno interessava controllare chi fossi o cosa avessi fatto in passato. Per i cowboys contava solo il futuro, la voglia di percorrere un pezzo di strada assieme. Me ne accorgo appena arrivato a Cody, nello stato del Wyoming, quando il proprietario del motel non vuole documenti e non dà moduli da riempire: gli basta la carta di credito (33 euro per una stanza grande, nuova e pulita: imparate albergatori italiani, che vi lamentate sempre per il calo dei turisti).
Cody, diecimila abitanti, è la piccola capitale del West americano. Lo dice il nome stesso: che è un cognome, quello di Buffalo Bill, al secolo William Cody (1844-1917), l’uomo che la fondò. Il leggendario cacciatore di bisonti, ma anche colonnello dell’esercito, portavoce degli indiani, guardiano di tori, pony express, amico di principi e re (Alberto di Monaco, Alessio di Russia, Vittoria d’Inghilterra, il nostro Vittorio Emanuele III), consulente di presidenti Usa, albergatore, pioniere dell’ecologia. E perfino inventore del circo, quel grandioso spettacolo Wild West che portò due volte in Europa con tournées che duravano anni, popolarizzandone l’epopea (per capirne l’enorme impatto ascoltate la canzone Buffalo Bill di Francesco De Gregori).
Sono a Cody per due motivi. Il primo è che ospita il museo di Buffalo Bill, in realtà cinque musei che spiegano tutto del West: la vita dell’eroe ma anche gli indiani, la pittura, le armi, la natura. Siamo infatti all’entrata del parco di Yellowstone, il primo al mondo per anzianità (1872) ed estensione (9000 kmq.) Da qui vengono l’orso Yoghi, Bubu, e anche l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti, il bellicoso Dick Cheney, incarnazione dell’animo del cowboy e già deputato del Wyoming.
Il secondo motivo è che sabato 24 novembre si apre nel Museo di Santa Giulia di Brescia la mostra America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo. Dura sei mesi (fino al 4 maggio 2008), ed è la più grande esposizione d’arte statunitense del XIX secolo organizzata in Italia (catalogo Linea d’Ombra, info tel. 0422-42.99.99). Ben 95 delle opere esposte vengono proprio dal museo di Cody. Siamo quindi andati nel Wyoming per assistere all’imballaggio dei 20 quadri, 21 foto d’epoca e 54 altri «pezzi» in partenza per Brescia.
È un lavoro enorme, che i visitatori delle mostre non immaginano. Lo scantinato del museo è pieno di casse di legno dove vengono accuratamente adagiati vestiti indiani, tomahawk (asce), fucili, pistole, corone di piume e selle appartenute a Buffalo Bill. «Per proteggere le opere ogni cassa di legno è doppia, una contenuta nell’altra come i sarcofagi egizi», ci spiega Connie Vunk, la manager delle collezioni che accompagna personalmente il container spedito in aereo via Chicago e Milano, e ne controlla l’installazione a Brescia: «Anche lì la temperatura dev’essere di 20 gradi con 35 per cento di umidità, come in tutti i musei del mondo».
Marco Goldin, il curatore della mostra, nei mesi scorsi ha convinto i maggiori musei degli Stati Uniti, dal Metropolitan di New York alla National Gallery di Washington, dal Fine Arts di Boston a quello di Hartford (Connecticut) a prestare opere eccezionali. A Cody ha dovuto incassare un unico rifiuto: quello di portare in Italia la carrozza gialla su cui Buffalo Bill si esibiva durante gli spettacoli europei del suo circo.
A Cody si respira ancora l’aria di cent’anni fa, con il tipico viale centrale dei paesi del West e i saloon dove entrano avventurieri di ogni tipo. Lo stadio serve non per le partite di football o baseball, ma per i rodei. L’albergo principale è ancora quello che Buffalo Bill in persona aprì nel 1902, dandogli il nome della figlia Irma. Nella sala del bar troneggia il bancone di legno di ciliegio regalato dalla regina Vittoria.
Vado al Silver Dollar Saloon per cenare con un cheeseburger. Mi si siede vicino al banco un cacciatore reduce da una battuta al cervo (controllatissima dai guardiacaccia) nel parco di Yellowstone. Quando gli spiego lo scopo della mia visita scherza: «Ma con tutte le opere d’arte che avete in Italia, dovevate spingervi fin qui per farvene prestare altre?»
Facciamo rispondere il curatore Goldin: «Nel titolo della mostra abbiamo messo il punto esclamativo perché si colga il senso della scoperta e della meraviglia. La meraviglia che colse i primi viaggiatori davanti alla lucente brillantezza delle cascate del Niagara o all’incanto verde della Yosemite Valley. Per la prima volta in Italia un’esposizione racconta questa grande avventura. Cento anni di pittura che sono un’evoluzione dal sogno romantico e dell’Arcadia di Doughty e Cole fino ai famosi ritratti di Sargent. La scoperta dei territori dell’Ovest, il racconto di vita su indiani e cowboy, fino all’impressionismo e alla grande ritrattistica di fine secolo. Abbiamo ricostruito tutta la storia degli States nell’Ottocento con 250 dipinti, 60 fotografie originali, 10 sculture e 80 oggetti: vestiti, borse, mocassini, gioielli, preziose selle istoriate e i copricapo rituali, dei nativi americani e di Buffalo Bill. Oltre 400 opere».
Il West la fa da padrone? Risponde Goldin: «Un’intera sezione della mostra è riservata all’immagine dell’Ovest, sia con i paesaggi intrisi di senso del sublime di Albert Bierstadt e Thomas Moran, sia con le scene più propriamente di vita western realizzate dai tre maggiori pittori di quest’epopea: Catlin, Remington e Russell. Alcune delle inquadrature più note dei film western di John Ford sono prese proprio da Remington. Ma la ricostruzione della cultura dei nativi americani e della conquista dei territori dell’Ovest non è solo pittorica».
Mauro Suttora
Cody (Stati Uniti), 22 novembre
Nel vecchio West c’era posto per tutti, a nessuno interessava controllare chi fossi o cosa avessi fatto in passato. Per i cowboys contava solo il futuro, la voglia di percorrere un pezzo di strada assieme. Me ne accorgo appena arrivato a Cody, nello stato del Wyoming, quando il proprietario del motel non vuole documenti e non dà moduli da riempire: gli basta la carta di credito (33 euro per una stanza grande, nuova e pulita: imparate albergatori italiani, che vi lamentate sempre per il calo dei turisti).
Cody, diecimila abitanti, è la piccola capitale del West americano. Lo dice il nome stesso: che è un cognome, quello di Buffalo Bill, al secolo William Cody (1844-1917), l’uomo che la fondò. Il leggendario cacciatore di bisonti, ma anche colonnello dell’esercito, portavoce degli indiani, guardiano di tori, pony express, amico di principi e re (Alberto di Monaco, Alessio di Russia, Vittoria d’Inghilterra, il nostro Vittorio Emanuele III), consulente di presidenti Usa, albergatore, pioniere dell’ecologia. E perfino inventore del circo, quel grandioso spettacolo Wild West che portò due volte in Europa con tournées che duravano anni, popolarizzandone l’epopea (per capirne l’enorme impatto ascoltate la canzone Buffalo Bill di Francesco De Gregori).
Sono a Cody per due motivi. Il primo è che ospita il museo di Buffalo Bill, in realtà cinque musei che spiegano tutto del West: la vita dell’eroe ma anche gli indiani, la pittura, le armi, la natura. Siamo infatti all’entrata del parco di Yellowstone, il primo al mondo per anzianità (1872) ed estensione (9000 kmq.) Da qui vengono l’orso Yoghi, Bubu, e anche l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti, il bellicoso Dick Cheney, incarnazione dell’animo del cowboy e già deputato del Wyoming.
Il secondo motivo è che sabato 24 novembre si apre nel Museo di Santa Giulia di Brescia la mostra America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo. Dura sei mesi (fino al 4 maggio 2008), ed è la più grande esposizione d’arte statunitense del XIX secolo organizzata in Italia (catalogo Linea d’Ombra, info tel. 0422-42.99.99). Ben 95 delle opere esposte vengono proprio dal museo di Cody. Siamo quindi andati nel Wyoming per assistere all’imballaggio dei 20 quadri, 21 foto d’epoca e 54 altri «pezzi» in partenza per Brescia.
È un lavoro enorme, che i visitatori delle mostre non immaginano. Lo scantinato del museo è pieno di casse di legno dove vengono accuratamente adagiati vestiti indiani, tomahawk (asce), fucili, pistole, corone di piume e selle appartenute a Buffalo Bill. «Per proteggere le opere ogni cassa di legno è doppia, una contenuta nell’altra come i sarcofagi egizi», ci spiega Connie Vunk, la manager delle collezioni che accompagna personalmente il container spedito in aereo via Chicago e Milano, e ne controlla l’installazione a Brescia: «Anche lì la temperatura dev’essere di 20 gradi con 35 per cento di umidità, come in tutti i musei del mondo».
Marco Goldin, il curatore della mostra, nei mesi scorsi ha convinto i maggiori musei degli Stati Uniti, dal Metropolitan di New York alla National Gallery di Washington, dal Fine Arts di Boston a quello di Hartford (Connecticut) a prestare opere eccezionali. A Cody ha dovuto incassare un unico rifiuto: quello di portare in Italia la carrozza gialla su cui Buffalo Bill si esibiva durante gli spettacoli europei del suo circo.
A Cody si respira ancora l’aria di cent’anni fa, con il tipico viale centrale dei paesi del West e i saloon dove entrano avventurieri di ogni tipo. Lo stadio serve non per le partite di football o baseball, ma per i rodei. L’albergo principale è ancora quello che Buffalo Bill in persona aprì nel 1902, dandogli il nome della figlia Irma. Nella sala del bar troneggia il bancone di legno di ciliegio regalato dalla regina Vittoria.
Vado al Silver Dollar Saloon per cenare con un cheeseburger. Mi si siede vicino al banco un cacciatore reduce da una battuta al cervo (controllatissima dai guardiacaccia) nel parco di Yellowstone. Quando gli spiego lo scopo della mia visita scherza: «Ma con tutte le opere d’arte che avete in Italia, dovevate spingervi fin qui per farvene prestare altre?»
Facciamo rispondere il curatore Goldin: «Nel titolo della mostra abbiamo messo il punto esclamativo perché si colga il senso della scoperta e della meraviglia. La meraviglia che colse i primi viaggiatori davanti alla lucente brillantezza delle cascate del Niagara o all’incanto verde della Yosemite Valley. Per la prima volta in Italia un’esposizione racconta questa grande avventura. Cento anni di pittura che sono un’evoluzione dal sogno romantico e dell’Arcadia di Doughty e Cole fino ai famosi ritratti di Sargent. La scoperta dei territori dell’Ovest, il racconto di vita su indiani e cowboy, fino all’impressionismo e alla grande ritrattistica di fine secolo. Abbiamo ricostruito tutta la storia degli States nell’Ottocento con 250 dipinti, 60 fotografie originali, 10 sculture e 80 oggetti: vestiti, borse, mocassini, gioielli, preziose selle istoriate e i copricapo rituali, dei nativi americani e di Buffalo Bill. Oltre 400 opere».
Il West la fa da padrone? Risponde Goldin: «Un’intera sezione della mostra è riservata all’immagine dell’Ovest, sia con i paesaggi intrisi di senso del sublime di Albert Bierstadt e Thomas Moran, sia con le scene più propriamente di vita western realizzate dai tre maggiori pittori di quest’epopea: Catlin, Remington e Russell. Alcune delle inquadrature più note dei film western di John Ford sono prese proprio da Remington. Ma la ricostruzione della cultura dei nativi americani e della conquista dei territori dell’Ovest non è solo pittorica».
Mauro Suttora
Tuesday, November 27, 2007
lib magazine intervista suttora
Mauro Suttora risponde
Mauro Suttora è un privilegiato. Già. Leggi il suo libro, "No Sex in the city" (Cairo edizioni, 2006) e lo invidi ogni pagina. Sempre di più. Per studiare l'antropologia del popolo americano, sceglie autonomamente di partire dalle donne e di studiarne ogni loro antro. Giornalista della Rizzoli Corriere della Sera (scrive su Oggi, che lui definisce "fantastico settimanale pop"), vive tra Roma e Manhattan. E' columnist di Newsweek e del New York Observer. In Italia, di tanto in tanto, i suoi articoli vengono pubblicati sul Foglio. Noi di LibMagazine, siccome siamo fortunati, lo abbiamo avvicinato. Piacevolissimo!
LibMagazine: l'America è la più grande democrazia del mondo. Alla base della democrazia il pluralismo: politico, culturale. La cosa che più mi ha colpito del suo libro "No Sex in the city" è invece il modo semplicistico con cui gli Americani, le Americane si accostino alle problematiche. Ragionamenti semplici, poca analisi, il tutto all'interno di un perimetro di valori e di regole di vita elementari e che non lasciano spazio per flessibilità. Il tempo è denaro, come si direbbe, e quello che conta è il fare. E' tutto proprio cosi?
Mauro Suttora: Sì, ed è per questo che amo gli americani. Perché, come diceva Giolitti - che ho scoperto qui a Roma pensano sia un gelataio - quando hanno finito di dire quel che devono dire, hanno finito anche di parlare. Insomma, sono l'esatto contrario di Pannella. Ieri sera ho assistito alla presentazione romana di "Piena disoccupazione", l'ultimo libro di Massimo Gaggi, corrispondente da New York del Corsera. Enrico Letta, che anche se fa il giovanilista è nato che era già molto vecchio, invece di dire "Non sono d'accordo su questa parte del libro", è riuscito a pronunciare queste parole: "Mi pongo in rapporto dialettico con questa parte del libro". Sono rabbrividito: mi è sembrato di ripiombare in una sezione del Pci degli anni '70, dove i giovani Veltroni strologavano in sociologhese. Un americano non riuscirebbe mai a dire "mi pongo in rapporto dialettico" neanche sotto tortura. Comunque, lei ha ragione: non confondiamo semplicità con semplicismo.
LibMagazine: Alla domanda precedente mentivo. La cosa che mi ha colpito di più del suo libro è stata l'onda verde in Taxi. Arrapante!
Mauro Suttora: Beh, allora deve spiegare di che si tratta. A Manhattan, grazie ai semafori intelligenti e al fatto che tutte le avenues tranne la Park sono a senso unico, se in auto si imbrocca un verde e si mantiene una velocità di crociera media, si riescono a superare senza fermarsi tutti gli incroci, per chilometri. I tassisti sono abilissimi in questo. E io ho avuto una fidanzata americana che quand'era un po' brilla, tornando a casa in taxi la notte da un ristorante o un club, si eccitava, alzava la gonna e mi montava addosso. La prima volta mi imbarazzai perché temevo che il tassista ci spiasse dallo specchietto, nonostante i vetri divisori dei taxi di New York. Poi invece scoprii che tutti erano indifferenti, anche quelli delle auto vicine che davano una sbirciatina quando ci fermavamo per un rosso. Però capitava raramente, perché c'era appunto l'onda verde che manteneva il taxi in continuo movimento, senza rallentamenti agli incroci.
LibMagazine: torno serio. Si dice spesso che l'Italia è il paese dei furbi. La struttura della cosa pubblica è tale che per dimenarsi occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se anche nell'America che si è fatta da sé; l'America in cui si partì tutti uguali correndo lungo praterie per conquistarsi il proprio pezzo di terra occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se è un paese in cui il "non furbo" può sopravvivere.
Mauro Suttora: Un conto è essere furbi, un altro "sapersi muovere". Lì devi essere sempre "aggressive". Per noi questo è un aggettivo deteriore, per loro invece una qualità indispensabile e ammirata. Non solo nel business, anche nei rapporti umani. Per evitare il peggiorativo, tradurrei con "determinato". Diciamo che mentre in Italia si fa carriera al 70% per parentela e raccomandazioni e al 30 per merito, lì le percentuali sono invertite.
Io ho cominciato come columnist a Newsweek semplicemente andando per caso a pranzo con un caporedattore che, interessato da quello che gli dicevo sull'Onu, mi ha chiesto: perché non lo scrivi? E quattro giorni dopo il mio articolo era in pagina. Mentre in Italia per diventare opinionista di Panorama o Espresso devi avere almeno 50 anni, scrivere da 20, stare nel partito giusto e frequentare qualche combriccola...
A New York invece vai a un aperitivo, a una festa, a una riunione, ovunque, e tutti fanno "social networking". Cioè ti abbordano, ti domandano chi sei e che fai, ti valutano in pochissimi minuti di conversazione cordiale, e se fai colpo o se pensano che gli servi, che si possono fare affari o sesso assieme, ti danno il loro biglietto da visita e pretendono il tuo. Sono curiosissimi, sempre pronti al nuovo. Cioè l'esatto contrario delle feste o incontri in Italia, dove tutti se ne restano barricati nel gruppo dei propri amici e se vedono uno nuovo lo guatano in tralice... Mi viene in mente una bellissima canzone degli Eagles del '76, nel disco 'Hotel California': “New Kid in Town”. Ecco, il nuovo ragazzo che arriva in città ha più possibilità negli Usa che in Italia.
LibMagazine: un mercato così libero, come è quello Americano, è trasportabile in Europa?
Mauro Suttora: Penso di sì, col tempo. In Inghilterra e Irlanda è già così. Ma non è vero che negli Usa il mercato sia così selvaggio. Si perde il lavoro anche senza giusta causa con un preavviso di due settimane, ma lo si trova alla stessa velocità. E c'è il sussidio di disoccupazione per sei mesi. Lì è tutto un turbinio di cambiamenti. Se non ti piace una cosa - un lavoro, una moglie - invece di lamentarti cambi. Ma anche in Italia i giovani hanno contratti a termine, il posto fisso è diventato raro. Solo che qui la parola "precario" è negativa, mentre negli Usa tutto è sempre precario. Anche il capo della banca più potente rischia di essere licenziato dall'oggi al domani. Se penso a certe cariatidi italiane...
LibMagazine: ma per tutti questi appartenenti ai ceti benestanti, che Lei ha avuto modo di frequentare durante la sua permanenza a New York, quanto conta la religione? La sua osservanza?
Mauro Suttora: E' un fatto privatissimo. Molti fanno donazioni, anche perché sono deducibili dalle tasse, e non esiste alcun finanziamento pubblico alle chiese. Quando spiego l'8 per mille o il referendum sulla fecondazione assistita, mi guardano come se venissi da un Paese sottosviluppato. Ma anche gli Usa hanno le loro aree di sottosviluppo, con i pastori evangelici e televisivi nel Texas e nel sud. Sono micidiali, buffissimi.
LibMagazine: Ho letto con gusto il suo "catalogo dei culi di Manhattan". Innanzitutto mi dica:"Ma che rapporto ha lei con il suo culo?"
Mauro Suttora: Copione, è la stessa domanda che ho fatto intervistando Jennifer Lopez. Vent'anni fa il mio attraeva pederasti di ogni nazionalità, ma rimasi vergine (a proposito: mi piace la parola "pederasta", è scorretta quanto "invertito", nessuno la usa più da decenni). Comunque il vero genio in questo campo è Massimo Fini, con il suo sublime "Di(zion)ario erotico", edizioni Marsilio 2001. Io ho solo affibbiato le dieci diverse tipologie di culo da lui individuate a ciascun quartiere di Manhattan.
LibMagazine: la prego, sia indulgente, insisto sul lato B. Per Libmagazine, se la sente di catalogare queste coppie: Bush jr. e Al Gore - Obama e Mrs.Clinton - Berlusconi e Veltroni?
Mauro Suttora: Immagino uguali i sederi di Hillary e Walter: sono quelli flaccidi e colloquiali. Bush e Berlusconi probabilmente hanno quello militare: piccolo, duro e antipatico. Quello di Al Gore non m'interessa, basta la faccia: che cazzo ha fatto per l'ecologia negli otto anni in cui è stato al governo? Quanto a Obama, deve possedere chiappe diffidenti e avare, come quelle dei toscani...
LibMagazine: ma è proprio vero che con i democratici al governo non si sarebbe fatta una politica estera così "espansiva" ? LibMagazine teme di no!
Mauro Suttora: LibMagazine ha ragione nel ritenere i democratici Usa militaristi quasi quanto i repubblicani, e la riprova arriverà fra un anno con la presidente Clinton. Infatti suo marito negli anni '90 non abbassò le spese militari: si limitò a non alzarle, nonostante la scomparsa della minaccia sovietica. Però cagate come le invasioni di Afghanistan e Iraq poteva farle solo Bush.
La frase più memorabile la ricordo pronunciata da un neocon al Council on Foreign Relations, un club di Manhattan dove politici, miliardari e accademici si illudono di governare il mondo. Questo tale Max Boot (nomen omen: Massimo Stivale) nel 2003 sostenne che gli Usa avrebbero portato la democrazia a Kabul e Bagdad così come fecero con Roma, Berlino e Tokio. Come se noi prima del loro arrivo fossimo stati abitati da tribù di allevatori di capre... Comunque, visto che arriccia il naso, le comunico che essere antimilitaristi è di destra, perché i liberali sono per lo stato leggero, mentre non c'è niente di più pesante delle forze armate.
LibMagazine: vino preferito? Glielo chiedo perché vorrei capire quanto è vera l'America dipinta da Sideways, quel film in cui un gruppo di amici viaggia in California lungo itinerari enogastronomici, improbabili e non sempre super-pregiati (enologicamente).
Mauro Suttora: Veramente quelli di Sideways sono due sfigati che la metà basta. Gli statunitensi non capiscono nulla di vini. Qualsiasi nostro beone della Carnia è più ferrato di loro. Nel mio libro racconto che i newyorkesi accettano di pagare somme spropositate nei bar, anche 15 dollari, per qualsiasi bicchiere di vini imprecisati. Ti chiedono soltanto: "Red or white?", senza specificare altro. Ma è molto trendy atteggiarsi a esperti enologi. Anch'io, che di vini mi importa nulla, lo faccio a volte per darmi un tono. E il bello è che mi prendono sul serio. Sono un neocon dei vini.
LibMagazine: l'America consuma ciò che viene prodotto in Cina e India. Imperversa la serializzazione e la parcellizzazione del lavoro. La verticalità nella specializzazione alla orizzontalità. Valore educativo e formativo fondamentale e del quale si è occupato recentemente, in una lectio Magistralis, George Steiner. Ma che tipo di scuola forma gli Americani? Dove nasce questo patriottismo, questo forte attaccamento alla famiglia, alla comunità?
Mauro Suttora: Madonna come parla difficile. Io sono solo un umile cronista, come dice Bordin di Radio radicale. E poi lei usa parole inquietanti come patriottismo e famiglia. Fronterré, non è che sotto l'aspetto liberale in lei batte un cuore un po' fascistone, come Capezzone? Ho fatto l'anno 1976/77 in un liceo di Madison (Connecticut) con una borsa di studio Afs/Intercultura, ho preso il diploma e avevo A, cioè il voto massimo, in tutte le materie. E questo dice tutto sul livello dei loro licei. I primi quattro anni delle loro università, gli "undergraduate", equivalgono a un nostro buon liceo. Poi cominciano a fare sul serio. E in campo scientifico sono imbattibili: in un solo isolato della Columbia University a New York insegnano e sperimentano più premi Nobel che in tutta Europa.
Quanto allo spirito civico, è vero: ne hanno molto più di noi. Ma è semplicemente un retaggio della civiltà nordeuropea, degli emigrati anglosassoni e poi tedeschi e scandinavi. Per loro "community" significa veramente comunità. E questo a livello locale è magico. Sul patriottismo, invece, io sto con Dürrennmatt, che disse: "Quando lo stato si prepara ad ammazzare, si fa chiamare patria". Ho visitato il cimitero militare di Arlington, mi sono commosso davanti alle tombe dei Kennedy, ma vedendo tutte quelle croci di giovanissimi soldati le ho subito associate alle facce grasse e rubizze di certi grandi azionisti di industrie belliche come Boeing o General Electric o Northrop - tanto per non far nomi - diventati miliardari mandandoli a farsi ammazzare. Ma mi scusi, scivoliamo sempre in politica. Comunque grazie per l'accenno a Steiner, mi è piaciuto il suo Correttore di Bozze. Mi riprometto di leggere anche Lectio Magistralis, così mi solleverò dai livelli di Bordin.
LibMagazine: Dove andiamo? Dinamismo Atlantico. Già. Pensa che le donne italiane ci metteranno tanto a diventare così nomadi con le domande?
Mauro Suttora: Ah, sì, la frase preferita della mia ex fidanzata americana Marsha quando improvvisamente diventava seria e voleva fare il punto della situazione fra noi (traduzione: sposarsi) era: "Mauro, dove stiamo andando?". Io di solito le rispondevo: "Ma perché bisogna andare da qualche parte? Non si può restare qui, fermarsi? Non va bene così?". E lei si imbestialiva. Giustamente. Perché il motto dell'America è: "On the road". Sempre in movimento, Kerouak. E' per questo che gli Stati Uniti ci affascinano. Tutti alla costante ricerca di nuove avventure. Senza scoraggiarsi mai. Provando e riprovando. Come cantava Janis Joplin: "Try, just a little bit harder". Provaci, con un po' piu' d'impegno. In Italia invece siamo depressi perché ci rassegnamo troppo presto. In questo potrebbe avere ragione perfino Bush: a forza di rimanere in Iraq, magari alla fine vince veramente lui.
Anche la mia Marsha era testardissima, ci dava dentro finché non otteneva quel che voleva. In ogni campo: lavoro, amore. Dolcemente aggressiva, determinata. E se alla fine andava a sbattere, almeno non si trascinava dietro i rimpianti di noi europei decadenti. "A bad day is when you think about things that might have been", un giorno brutto è quando pensi a come le cose avrebbero potuto essere, sostiene nella sua 'Slip sliding Away' il mio filosofo preferito, Paul Simon (senza Garfunkel). Il peggio è Magris, con le sue troiate sulla Mitteleuropa. Ragazzi, so di che parlo, sono figlio di profughi dalla splendida isola di Lussino, ho fatto l'università a Trieste, adoro esteticamente il Caffè degli Specchi, ma di fronte a certe seghe passatiste non posso che ribattere all'americana: "Move on", andiamo avanti, procediamo. Quasi rivaluto i marinettiani.
LibMagazine: Cosa salva noi Europei? Cosa ci difende dalla subliminale e markettara capacità di persuasione d'oltreoceano?
Mauro Suttora: Nulla. Ci siamo fatti persuadere da Stalin, Hitler, Mussolini, e poi per passare dai giganti ai nani da Fanfani, Craxi, e oggi Berlusconi, Veltroni, Prodi. Prodi, ma ci rendiamo conto? Uno che appena apre bocca sembra un mongoloide. Pardon, diversamente dotato. "Verbally challenged", sfidato verbalmente, lo definivano gli inglesi quand'era presidente Ue a Bruxelles.
LibMagazine: Negli anni 90 si parlava del primato della economia sulla politica. Oggi diremmo che all'interno della economia vige il primato del marchio sul prodotto. La promozione, la comunicazione alla manifattura. Lo spopolamento delle fabbriche, la loro chiusura ha rotto quel meccanismo secondo il quale il produttore diventava anche consumatore dei beni che aveva contribuito a produrre. Nike, Shell sono simboli di una economia che veicola valori, idee, ma non produce nulla. Sono scoppiati scandali per lo sfruttamento dei lavoratori, ma il dato più preoccupante a mio avviso è l'interruzione di un certo ricambio generazionale di competenze, di saper fare. Cosa ne pensa?
Mauro Suttora: Fronterré, le ribadisco che lei parla troppo complicato. Intuisco animalescamente qualcosa di quello che mi dice e penso di concordare su quasi tutto, perché sono un figlio della controcultura anni '60 e quindi anch'io mi sono abbeverato a Marcuse e Pasolini. Posso solo risponderle che vesto Oviesse a dei marchi mi frega un cazzo, però anche questo è pericoloso perché a forza di sentirmi dire "fregauncazzo" la povera Marsha pensava che fosse un sinonimo di "fa niente", "non importa". Così quando un barista in Italia le ha chiesto se voleva acqua liscia o frizzante, lei ha risposto "fregauncazzo".
Sì, sono totalmente anticonsumista. Però rispetto al "ricambio generazionale di competenze" che si sarebbe interrotto, dipende quali. Mio padre è competente in marketing, ma se fosse stato operaio alla Breda per me sarebbe stato lo stesso, sono indifferente ai suoi "saperi" in quel campo. Invece mio nonno insegnava greco e latino, e io mi sento un suo seppure indegno discendente. Ecco, se nelle loro high school imparassero il greco e il latino forse gli americani sarebbero perfetti.
LibMagazine: lei giustamente fa notare che l'America fa molto la guerra perché fa poco l'amore. LibMagazine la ringrazia per aver cercato di invertire la rotta. Nel suo piccolo si intende!
Mauro Suttora: veramente ho ipotizzato l'esatto contrario: che in Usa oggi si faccia poco l'amore perché si fa molto la guerra. Nel senso dell'ideologia che permea il tutto, ovviamente. Non so, vediamo se riesco a contraddirmi popperianamente: negli anni '60 si faceva la guerra (in Vietnam) ma si faceva molto anche l'amore. La differenza è che allora i giovani erano 'obbligati' tutti a fare la guerra, mentre ora a morire ci vanno solo i volontari: o i fanatici, o i poveracci con nulla di meglio da fare.
LibMagazine: ha Lei una domanda per LibMagazine?
Mauro Suttora: Perché sono sempre più belle le cose fatte gratis, come questa intervista, invece di quelle a pagamento? Forse bisognerebbe abolire i soldi, come dice ogni tanto Beppe Grillo ricordando quel genio del professor Giacinto Auriti.
Michele Fronterre'
Mauro Suttora è un privilegiato. Già. Leggi il suo libro, "No Sex in the city" (Cairo edizioni, 2006) e lo invidi ogni pagina. Sempre di più. Per studiare l'antropologia del popolo americano, sceglie autonomamente di partire dalle donne e di studiarne ogni loro antro. Giornalista della Rizzoli Corriere della Sera (scrive su Oggi, che lui definisce "fantastico settimanale pop"), vive tra Roma e Manhattan. E' columnist di Newsweek e del New York Observer. In Italia, di tanto in tanto, i suoi articoli vengono pubblicati sul Foglio. Noi di LibMagazine, siccome siamo fortunati, lo abbiamo avvicinato. Piacevolissimo!
LibMagazine: l'America è la più grande democrazia del mondo. Alla base della democrazia il pluralismo: politico, culturale. La cosa che più mi ha colpito del suo libro "No Sex in the city" è invece il modo semplicistico con cui gli Americani, le Americane si accostino alle problematiche. Ragionamenti semplici, poca analisi, il tutto all'interno di un perimetro di valori e di regole di vita elementari e che non lasciano spazio per flessibilità. Il tempo è denaro, come si direbbe, e quello che conta è il fare. E' tutto proprio cosi?
Mauro Suttora: Sì, ed è per questo che amo gli americani. Perché, come diceva Giolitti - che ho scoperto qui a Roma pensano sia un gelataio - quando hanno finito di dire quel che devono dire, hanno finito anche di parlare. Insomma, sono l'esatto contrario di Pannella. Ieri sera ho assistito alla presentazione romana di "Piena disoccupazione", l'ultimo libro di Massimo Gaggi, corrispondente da New York del Corsera. Enrico Letta, che anche se fa il giovanilista è nato che era già molto vecchio, invece di dire "Non sono d'accordo su questa parte del libro", è riuscito a pronunciare queste parole: "Mi pongo in rapporto dialettico con questa parte del libro". Sono rabbrividito: mi è sembrato di ripiombare in una sezione del Pci degli anni '70, dove i giovani Veltroni strologavano in sociologhese. Un americano non riuscirebbe mai a dire "mi pongo in rapporto dialettico" neanche sotto tortura. Comunque, lei ha ragione: non confondiamo semplicità con semplicismo.
LibMagazine: Alla domanda precedente mentivo. La cosa che mi ha colpito di più del suo libro è stata l'onda verde in Taxi. Arrapante!
Mauro Suttora: Beh, allora deve spiegare di che si tratta. A Manhattan, grazie ai semafori intelligenti e al fatto che tutte le avenues tranne la Park sono a senso unico, se in auto si imbrocca un verde e si mantiene una velocità di crociera media, si riescono a superare senza fermarsi tutti gli incroci, per chilometri. I tassisti sono abilissimi in questo. E io ho avuto una fidanzata americana che quand'era un po' brilla, tornando a casa in taxi la notte da un ristorante o un club, si eccitava, alzava la gonna e mi montava addosso. La prima volta mi imbarazzai perché temevo che il tassista ci spiasse dallo specchietto, nonostante i vetri divisori dei taxi di New York. Poi invece scoprii che tutti erano indifferenti, anche quelli delle auto vicine che davano una sbirciatina quando ci fermavamo per un rosso. Però capitava raramente, perché c'era appunto l'onda verde che manteneva il taxi in continuo movimento, senza rallentamenti agli incroci.
LibMagazine: torno serio. Si dice spesso che l'Italia è il paese dei furbi. La struttura della cosa pubblica è tale che per dimenarsi occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se anche nell'America che si è fatta da sé; l'America in cui si partì tutti uguali correndo lungo praterie per conquistarsi il proprio pezzo di terra occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se è un paese in cui il "non furbo" può sopravvivere.
Mauro Suttora: Un conto è essere furbi, un altro "sapersi muovere". Lì devi essere sempre "aggressive". Per noi questo è un aggettivo deteriore, per loro invece una qualità indispensabile e ammirata. Non solo nel business, anche nei rapporti umani. Per evitare il peggiorativo, tradurrei con "determinato". Diciamo che mentre in Italia si fa carriera al 70% per parentela e raccomandazioni e al 30 per merito, lì le percentuali sono invertite.
Io ho cominciato come columnist a Newsweek semplicemente andando per caso a pranzo con un caporedattore che, interessato da quello che gli dicevo sull'Onu, mi ha chiesto: perché non lo scrivi? E quattro giorni dopo il mio articolo era in pagina. Mentre in Italia per diventare opinionista di Panorama o Espresso devi avere almeno 50 anni, scrivere da 20, stare nel partito giusto e frequentare qualche combriccola...
A New York invece vai a un aperitivo, a una festa, a una riunione, ovunque, e tutti fanno "social networking". Cioè ti abbordano, ti domandano chi sei e che fai, ti valutano in pochissimi minuti di conversazione cordiale, e se fai colpo o se pensano che gli servi, che si possono fare affari o sesso assieme, ti danno il loro biglietto da visita e pretendono il tuo. Sono curiosissimi, sempre pronti al nuovo. Cioè l'esatto contrario delle feste o incontri in Italia, dove tutti se ne restano barricati nel gruppo dei propri amici e se vedono uno nuovo lo guatano in tralice... Mi viene in mente una bellissima canzone degli Eagles del '76, nel disco 'Hotel California': “New Kid in Town”. Ecco, il nuovo ragazzo che arriva in città ha più possibilità negli Usa che in Italia.
LibMagazine: un mercato così libero, come è quello Americano, è trasportabile in Europa?
Mauro Suttora: Penso di sì, col tempo. In Inghilterra e Irlanda è già così. Ma non è vero che negli Usa il mercato sia così selvaggio. Si perde il lavoro anche senza giusta causa con un preavviso di due settimane, ma lo si trova alla stessa velocità. E c'è il sussidio di disoccupazione per sei mesi. Lì è tutto un turbinio di cambiamenti. Se non ti piace una cosa - un lavoro, una moglie - invece di lamentarti cambi. Ma anche in Italia i giovani hanno contratti a termine, il posto fisso è diventato raro. Solo che qui la parola "precario" è negativa, mentre negli Usa tutto è sempre precario. Anche il capo della banca più potente rischia di essere licenziato dall'oggi al domani. Se penso a certe cariatidi italiane...
LibMagazine: ma per tutti questi appartenenti ai ceti benestanti, che Lei ha avuto modo di frequentare durante la sua permanenza a New York, quanto conta la religione? La sua osservanza?
Mauro Suttora: E' un fatto privatissimo. Molti fanno donazioni, anche perché sono deducibili dalle tasse, e non esiste alcun finanziamento pubblico alle chiese. Quando spiego l'8 per mille o il referendum sulla fecondazione assistita, mi guardano come se venissi da un Paese sottosviluppato. Ma anche gli Usa hanno le loro aree di sottosviluppo, con i pastori evangelici e televisivi nel Texas e nel sud. Sono micidiali, buffissimi.
LibMagazine: Ho letto con gusto il suo "catalogo dei culi di Manhattan". Innanzitutto mi dica:"Ma che rapporto ha lei con il suo culo?"
Mauro Suttora: Copione, è la stessa domanda che ho fatto intervistando Jennifer Lopez. Vent'anni fa il mio attraeva pederasti di ogni nazionalità, ma rimasi vergine (a proposito: mi piace la parola "pederasta", è scorretta quanto "invertito", nessuno la usa più da decenni). Comunque il vero genio in questo campo è Massimo Fini, con il suo sublime "Di(zion)ario erotico", edizioni Marsilio 2001. Io ho solo affibbiato le dieci diverse tipologie di culo da lui individuate a ciascun quartiere di Manhattan.
LibMagazine: la prego, sia indulgente, insisto sul lato B. Per Libmagazine, se la sente di catalogare queste coppie: Bush jr. e Al Gore - Obama e Mrs.Clinton - Berlusconi e Veltroni?
Mauro Suttora: Immagino uguali i sederi di Hillary e Walter: sono quelli flaccidi e colloquiali. Bush e Berlusconi probabilmente hanno quello militare: piccolo, duro e antipatico. Quello di Al Gore non m'interessa, basta la faccia: che cazzo ha fatto per l'ecologia negli otto anni in cui è stato al governo? Quanto a Obama, deve possedere chiappe diffidenti e avare, come quelle dei toscani...
LibMagazine: ma è proprio vero che con i democratici al governo non si sarebbe fatta una politica estera così "espansiva" ? LibMagazine teme di no!
Mauro Suttora: LibMagazine ha ragione nel ritenere i democratici Usa militaristi quasi quanto i repubblicani, e la riprova arriverà fra un anno con la presidente Clinton. Infatti suo marito negli anni '90 non abbassò le spese militari: si limitò a non alzarle, nonostante la scomparsa della minaccia sovietica. Però cagate come le invasioni di Afghanistan e Iraq poteva farle solo Bush.
La frase più memorabile la ricordo pronunciata da un neocon al Council on Foreign Relations, un club di Manhattan dove politici, miliardari e accademici si illudono di governare il mondo. Questo tale Max Boot (nomen omen: Massimo Stivale) nel 2003 sostenne che gli Usa avrebbero portato la democrazia a Kabul e Bagdad così come fecero con Roma, Berlino e Tokio. Come se noi prima del loro arrivo fossimo stati abitati da tribù di allevatori di capre... Comunque, visto che arriccia il naso, le comunico che essere antimilitaristi è di destra, perché i liberali sono per lo stato leggero, mentre non c'è niente di più pesante delle forze armate.
LibMagazine: vino preferito? Glielo chiedo perché vorrei capire quanto è vera l'America dipinta da Sideways, quel film in cui un gruppo di amici viaggia in California lungo itinerari enogastronomici, improbabili e non sempre super-pregiati (enologicamente).
Mauro Suttora: Veramente quelli di Sideways sono due sfigati che la metà basta. Gli statunitensi non capiscono nulla di vini. Qualsiasi nostro beone della Carnia è più ferrato di loro. Nel mio libro racconto che i newyorkesi accettano di pagare somme spropositate nei bar, anche 15 dollari, per qualsiasi bicchiere di vini imprecisati. Ti chiedono soltanto: "Red or white?", senza specificare altro. Ma è molto trendy atteggiarsi a esperti enologi. Anch'io, che di vini mi importa nulla, lo faccio a volte per darmi un tono. E il bello è che mi prendono sul serio. Sono un neocon dei vini.
LibMagazine: l'America consuma ciò che viene prodotto in Cina e India. Imperversa la serializzazione e la parcellizzazione del lavoro. La verticalità nella specializzazione alla orizzontalità. Valore educativo e formativo fondamentale e del quale si è occupato recentemente, in una lectio Magistralis, George Steiner. Ma che tipo di scuola forma gli Americani? Dove nasce questo patriottismo, questo forte attaccamento alla famiglia, alla comunità?
Mauro Suttora: Madonna come parla difficile. Io sono solo un umile cronista, come dice Bordin di Radio radicale. E poi lei usa parole inquietanti come patriottismo e famiglia. Fronterré, non è che sotto l'aspetto liberale in lei batte un cuore un po' fascistone, come Capezzone? Ho fatto l'anno 1976/77 in un liceo di Madison (Connecticut) con una borsa di studio Afs/Intercultura, ho preso il diploma e avevo A, cioè il voto massimo, in tutte le materie. E questo dice tutto sul livello dei loro licei. I primi quattro anni delle loro università, gli "undergraduate", equivalgono a un nostro buon liceo. Poi cominciano a fare sul serio. E in campo scientifico sono imbattibili: in un solo isolato della Columbia University a New York insegnano e sperimentano più premi Nobel che in tutta Europa.
Quanto allo spirito civico, è vero: ne hanno molto più di noi. Ma è semplicemente un retaggio della civiltà nordeuropea, degli emigrati anglosassoni e poi tedeschi e scandinavi. Per loro "community" significa veramente comunità. E questo a livello locale è magico. Sul patriottismo, invece, io sto con Dürrennmatt, che disse: "Quando lo stato si prepara ad ammazzare, si fa chiamare patria". Ho visitato il cimitero militare di Arlington, mi sono commosso davanti alle tombe dei Kennedy, ma vedendo tutte quelle croci di giovanissimi soldati le ho subito associate alle facce grasse e rubizze di certi grandi azionisti di industrie belliche come Boeing o General Electric o Northrop - tanto per non far nomi - diventati miliardari mandandoli a farsi ammazzare. Ma mi scusi, scivoliamo sempre in politica. Comunque grazie per l'accenno a Steiner, mi è piaciuto il suo Correttore di Bozze. Mi riprometto di leggere anche Lectio Magistralis, così mi solleverò dai livelli di Bordin.
LibMagazine: Dove andiamo? Dinamismo Atlantico. Già. Pensa che le donne italiane ci metteranno tanto a diventare così nomadi con le domande?
Mauro Suttora: Ah, sì, la frase preferita della mia ex fidanzata americana Marsha quando improvvisamente diventava seria e voleva fare il punto della situazione fra noi (traduzione: sposarsi) era: "Mauro, dove stiamo andando?". Io di solito le rispondevo: "Ma perché bisogna andare da qualche parte? Non si può restare qui, fermarsi? Non va bene così?". E lei si imbestialiva. Giustamente. Perché il motto dell'America è: "On the road". Sempre in movimento, Kerouak. E' per questo che gli Stati Uniti ci affascinano. Tutti alla costante ricerca di nuove avventure. Senza scoraggiarsi mai. Provando e riprovando. Come cantava Janis Joplin: "Try, just a little bit harder". Provaci, con un po' piu' d'impegno. In Italia invece siamo depressi perché ci rassegnamo troppo presto. In questo potrebbe avere ragione perfino Bush: a forza di rimanere in Iraq, magari alla fine vince veramente lui.
Anche la mia Marsha era testardissima, ci dava dentro finché non otteneva quel che voleva. In ogni campo: lavoro, amore. Dolcemente aggressiva, determinata. E se alla fine andava a sbattere, almeno non si trascinava dietro i rimpianti di noi europei decadenti. "A bad day is when you think about things that might have been", un giorno brutto è quando pensi a come le cose avrebbero potuto essere, sostiene nella sua 'Slip sliding Away' il mio filosofo preferito, Paul Simon (senza Garfunkel). Il peggio è Magris, con le sue troiate sulla Mitteleuropa. Ragazzi, so di che parlo, sono figlio di profughi dalla splendida isola di Lussino, ho fatto l'università a Trieste, adoro esteticamente il Caffè degli Specchi, ma di fronte a certe seghe passatiste non posso che ribattere all'americana: "Move on", andiamo avanti, procediamo. Quasi rivaluto i marinettiani.
LibMagazine: Cosa salva noi Europei? Cosa ci difende dalla subliminale e markettara capacità di persuasione d'oltreoceano?
Mauro Suttora: Nulla. Ci siamo fatti persuadere da Stalin, Hitler, Mussolini, e poi per passare dai giganti ai nani da Fanfani, Craxi, e oggi Berlusconi, Veltroni, Prodi. Prodi, ma ci rendiamo conto? Uno che appena apre bocca sembra un mongoloide. Pardon, diversamente dotato. "Verbally challenged", sfidato verbalmente, lo definivano gli inglesi quand'era presidente Ue a Bruxelles.
LibMagazine: Negli anni 90 si parlava del primato della economia sulla politica. Oggi diremmo che all'interno della economia vige il primato del marchio sul prodotto. La promozione, la comunicazione alla manifattura. Lo spopolamento delle fabbriche, la loro chiusura ha rotto quel meccanismo secondo il quale il produttore diventava anche consumatore dei beni che aveva contribuito a produrre. Nike, Shell sono simboli di una economia che veicola valori, idee, ma non produce nulla. Sono scoppiati scandali per lo sfruttamento dei lavoratori, ma il dato più preoccupante a mio avviso è l'interruzione di un certo ricambio generazionale di competenze, di saper fare. Cosa ne pensa?
Mauro Suttora: Fronterré, le ribadisco che lei parla troppo complicato. Intuisco animalescamente qualcosa di quello che mi dice e penso di concordare su quasi tutto, perché sono un figlio della controcultura anni '60 e quindi anch'io mi sono abbeverato a Marcuse e Pasolini. Posso solo risponderle che vesto Oviesse a dei marchi mi frega un cazzo, però anche questo è pericoloso perché a forza di sentirmi dire "fregauncazzo" la povera Marsha pensava che fosse un sinonimo di "fa niente", "non importa". Così quando un barista in Italia le ha chiesto se voleva acqua liscia o frizzante, lei ha risposto "fregauncazzo".
Sì, sono totalmente anticonsumista. Però rispetto al "ricambio generazionale di competenze" che si sarebbe interrotto, dipende quali. Mio padre è competente in marketing, ma se fosse stato operaio alla Breda per me sarebbe stato lo stesso, sono indifferente ai suoi "saperi" in quel campo. Invece mio nonno insegnava greco e latino, e io mi sento un suo seppure indegno discendente. Ecco, se nelle loro high school imparassero il greco e il latino forse gli americani sarebbero perfetti.
LibMagazine: lei giustamente fa notare che l'America fa molto la guerra perché fa poco l'amore. LibMagazine la ringrazia per aver cercato di invertire la rotta. Nel suo piccolo si intende!
Mauro Suttora: veramente ho ipotizzato l'esatto contrario: che in Usa oggi si faccia poco l'amore perché si fa molto la guerra. Nel senso dell'ideologia che permea il tutto, ovviamente. Non so, vediamo se riesco a contraddirmi popperianamente: negli anni '60 si faceva la guerra (in Vietnam) ma si faceva molto anche l'amore. La differenza è che allora i giovani erano 'obbligati' tutti a fare la guerra, mentre ora a morire ci vanno solo i volontari: o i fanatici, o i poveracci con nulla di meglio da fare.
LibMagazine: ha Lei una domanda per LibMagazine?
Mauro Suttora: Perché sono sempre più belle le cose fatte gratis, come questa intervista, invece di quelle a pagamento? Forse bisognerebbe abolire i soldi, come dice ogni tanto Beppe Grillo ricordando quel genio del professor Giacinto Auriti.
Michele Fronterre'
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