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Friday, January 04, 2002

Emma, fastidiosa farfalla dell'utopia

Fa nascere il Tribunale internazionale Onu dell'Aia contro la volontà degli Stati Uniti

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 gennaio 2002

Roma. Sta per nascere il Tribunale penale internazionale dell’Onu. Nella sede di «Non c’è pace senza giustizia», l’associazione radicale che da quasi dieci anni si batte per crearlo, Antonella Dentamaro è ottimista: «Ancora poche settimane. Occorrono le ratifiche di 60 Stati, e siamo già a 47. I parlamenti di Portogallo, Slovenia ed Estonia hanno appena votato, devono solo depositare la ratifica. Così il 17 luglio 2002, quarto anniversario del trattato di Roma che ha istituito la Corte, potremo finalmente festeggiare la Giornata della giustizia internazionale».

Porta parecchie firme italiane, il primo tentativo nella storia di far giudicare i crimini di guerra e i genocidi da un tribunale indipendente, non nato «ad hoc» come quelli sulla ex Jugoslavia e il Ruanda, né creato dai vincitori come Norimberga. 

Giovanni Conso ha presieduto la conferenza di Roma che nel 1998 ha scritto lo statuto, Antonio Cassese è stato il primo presidente del Tribunale per l'ex Jugoslavia dal 1993 al '97, Fausto Pocar ne è attualmente giudice. 

Ma soprattutto Emma Bonino gira per il mondo a propagandare l’idea: due mesi fa era in Cambogia, in Thailandia e poi nelle Filippine, un mese fa a Praga con 15 Paesi dell’Est europeo, ora è in Egitto, e il 25 gennaio ad Amsterdam ci sarà un’altra conferenza con Robert Badinter, l’indimenticato «garde des sceaux» di François Mitterrand. 
 
Il principale nemico del Tribunale internazionale permanente si chiama Jesse Helms: un vecchio senatore repubblicano americano che considera la Bonino una fastidiosa farfalla dell’utopia. Il 7 dicembre 2001 è riuscito a far approvare dal Senato Usa a larghissima maggioranza (78-21) una legge che non solo nega qualsiasi aiuto militare a tutti i Paesi che osano ratificare la Corte, ma arriva addirittura a permettere al presidente Usa di «usare ogni mezzo» (cioè la forza) per liberare soldati americani che vengano arrestati dal Tribunale. Per questo la sua legge è stata sarcasticamente battezzata «Hague invasion Act», legge per l’invasione dell’Aia, la città che sarà sede anche della nuova Corte.

Gli Stati Uniti non vogliono che i propri militari possano essere accusati di crimini di guerra durante gli interventi all’estero. Per questo Clinton ha firmato il trattato di Roma solo un anno fa, e la ratifica sembra impossibile. 

Tuttavia il 20 dicembre è avvenuto un colpo di scena: Camera e Senato Usa riuniti hanno bocciato la legge di Helms, rifiutando di inserirla nel bilancio 2002. Poi si vedrà. 

Alla fine, insomma, ha prevalso la posizione aperturista del senatore democratico del Connecticut Christopher Dodd, grande avversario di Helms. E le più di mille Organizzazioni non governative che fanno lobbying a Washington per il Tribunale, da Amnesty a Human Rights Watch, dall’Open Society Institute di George Soros al Partito radicale transnazionale, hanno festeggiato: «È una vittoria importante, perché gli Usa non possono minare la validità di questa istituzione multilaterale proprio mentre chiedono aiuto a tutto il mondo nella lotta contro il terrorismo», dichiara William Pace del Cicc (Coalition for the International criminal court).

Negli Stati Uniti quindi il dibattito è più che mai aperto. Da una parte c’è la consapevolezza orgogliosa di essere l’unica superpotenza mondiale, con annessi oneri e onori. Ma l'isolazionismo americano, che si tramuta in unilateralismo a contatto con le complicate faccende del mondo, si stinge infine in pragmatica ricerca del consenso. 

Per dirla concretamente: certe patate calde gli Usa non hanno voglia di pelarsele da soli. Ecco quindi la Fondazione Ford finanziare la lobby pro-Tribunale internazionale, già innaffiata da contributi (pubblici) di tutti i governi scandinavi, di Germania, Canada e Italia, e perfino dai britannici, i migliori alleati dell’America imperiale. I quali non temono di irritare Washington negando l’estradizione ai terroristi islamici, se rischiano la pena di morte.

Quanto ai fautori della Corte, essi si rendono conto che la collaborazione degli Usa, unici gendarmi mondiali, è indispensabile. Si lavora quindi sui cavilli giuridici, limando per esempio il concetto di «intenzionalità»: i tanto discussi «danni collaterali» non saranno punibili se le vittime civili non vengono colpite intenzionalmente. Come in Bosnia, Serbia e Afghanistan, appunto. Solo bombardamenti indiscriminati tipo Dresda e Hiroshima verranno sanzionati.
Mauro Suttora

Tuesday, December 18, 2001

L'unico paese contro l'articolo 18

CALANGIANESI CONTRO L’ART.18: LO SVILUPPO NON TEME LA FLESSIBILITA’

di Mauro Suttora
Il Foglio, 18 dicembre 2001

Calangianus (Sassari). «Assumere qualcuno in Italia è peggio che sposarsi: abbiamo paura che quando ci mettiamo un dipendente in casa, poi dobbiamo tenercelo per tutta la vita...» 
Parola di Edoardo Tusacciu, 43 anni, che con la sua Plastwood ha fatturato tre miliardi nel Duemila, 18 quest’anno e ne prevede 60 per il 2002. Lui sta facendo fortuna con Geomag, il gioco made in Sardegna che spopola in ogni continente. 

Ma Calangianus (4.700 abitanti) brilla per un altro motivo: é la capitale mondiale del sughero e dei tappi, con un distretto industriale forte di 130 imprese e un fatturato complessivo che supera i 400 miliardi. Export in tutta Europa, anche gli champagne francesi più prestigiosi (da Mumm in giù) preferiscono i tappi di questi sugherifici. 

Disoccupazione: zero. «Anzi, ho difficoltà a trovare il personale laureato che mi serve», rivela Tusacciu.
Nessuna meraviglia, quindi, che Calangianus sia l’unico paese italiano a volere la libertà di licenziamento: nel referendum radicale del maggio 2001 i favorevoli all’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che impone il reintegro coatto del dipendente licenziato senza giusta causa) furono la maggioranza. La consultazione venne poi annullata assieme a tutte le altre, perché i votanti non arrivarono al 50 per cento. 

Se il quorum fosse stato raggiunto, questo sarebbe stato l’unico referendum bocciato. Dappertutto in Italia, tranne che in Gallura. Anche altri comuni della futura provincia Olbia-Tempio votarono contro l’articolo 18: Santa Teresa, Trinità d’Agultu e Buddusò (centro di un secondo distretto dei miracoli, quello delle cave di granito).

Ma il risultato di Calangianus pesa di più, perché alle ultime politiche qui hanno vinto Ulivo e Rifondazione, perché l’unico senatore Ds (Nino Murineddu) è di Calangianus, e perché hanno votato sì alla libertà di licenziare anche molti dei 1.500 lavoratori dipendenti: «Certo, non bastano i sì di artigiani e datori di lavoro per arrivare alla maggioranza», ammette Stefano Cugini, dirigente dei Ds locali, «da noi gli operai si sentono vicini alle esigenze degli imprenditori, in un clima di paternalismo. Anzi, alcuni datori di lavoro sono addirittura più consapevoli sulle garanzie dei loro stessi dipendenti».

Nei sugherifici più grandi (Molinas, Italsugheri, Tusacciu) i sindacati non attecchiscono: «Per me gli operai fanno parte della famiglia», dice Tusacciu, «ovviamente rispetto i minimi contrattuali, ma poi premio il merito. Ai migliori dò 15mila nette all’ora, cioè quasi due milioni e mezzo al mese. I miei dipendenti sanno che se vanno via di qui ci mettono solo una settimana per trovarsi un altro posto, e comunque tutti sperano di mettersi in proprio prima o poi. La mentalità è questa, dall’una e dall’altra parte, non certo quella di chi tira a campare».

Egidio Pirodda, 28 anni, di Tempio Pausania, è andato a Milano per laurearsi in Bocconi. Ora è tornato, alla Plastwood segue tutto (finanza, produzione, acquisti, personale) e guadagna tre milioni al mese. 

«Ma i primi cinque mesi ho lavorato gratis, con uno stage di prova. E per i nuovi assunti preferiamo pagare di più con un contratto temporaneo, rinunciando agli sgravi fiscali, piuttosto che farci imbrigliare: se non va, dopo tre mesi liberi noi e liberi loro. Poi assumiamo regolarmente, ma siamo flessibili su orari e permessi. Per esempio, se un ragazzo vuole fare un corso di computer ma è di turno il pomeriggio, non ho problemi a farlo uscire due ore prima. Sembrano fesserie, e invece sono particolari importanti: se i dipendenti vengono trattati bene si motivano, lavorano meglio».

E votano per la flessibilità in uscita, anche perché quella in entrata è garantita. Isola felice, la Gallura, dentro all’isola Sardegna piagata dalla disoccupazione come il resto del sud: al suo poker storico di risorse (sughero, marmo, pecorino e turismo) si sta aggiungendo un’agricoltura a discreto valore aggiunto. 

Cosicché sulle tavole vip in Costa Smeralda, nelle sere d’estate, ormai non sono più soltanti i turaccioli di Calangianus a venire stappati dalle bottiglie di champagne: si fanno strada vini locali di qualità come il vermentino Capichera o il Tuvaoes. 

E i calangianesi fratelli Molinas, re del sughero, scendono a Porto Rotondo per comprarsi lo storico Hotel Sporting, ex Ciga, il massimo del lusso, strappandolo agli americani della Starwood-Sheraton. Tramontano il principe Aga Khan e il conte Donà delle Rose, si fa strada Calangianus.
Mauro Suttora

Saturday, November 10, 2001

Quanti abitanti sulla Terra?

RAPPORTO ONU E GLOBALIZZAZIONE

di Mauro Suttora
Il Foglio, 10 novembre 2001

Duecentomila persone in più ogni giorno. Settanta milioni all’anno. E tutte nel Terzo mondo, dove soffriranno la fame. È questo il ritmo al quale sta aumentando la popolazione sulla Terra, secondo i dati dell’ultimo rapporto Onu.

E i noglobal che ne pensano? «Non si può affrontare il problema della sovrappopolazione», ci dice Vittorio Agnoletto, «se non si parla anche di redistribuzione delle ricchezze. Noi occidentali, che utilizziamo l’80 per cento delle risorse mondiali pur essendo appena il 14 per cento degli abitanti, non abbiamo il diritto di imporre politiche di contenimento demografico al Terzo mondo».
 
«No, bisogna bloccare immediatamente l’aumento della popolazione», ribatte il presidente del Wwf Fulco Pratesi, «altrimenti qualsiasi sviluppo economico non riuscirà a stargli dietro. E indipendentemente da auspicabili ma del tutto ipotetiche politiche di giustizia sociale».

Ogni dieci anni le Conferenze Onu sulla popolazione (Bucarest 1974, Città del Messico 1984, Il Cairo 1994) vengono regolarmente infiammate da polemiche di questo tipo: da una parte marxisti, cattolici e musulmani, che negano il problema e affermano che sulla Terra c’è posto per tutti; dall’altra i neomalthusiani che prospettano scenari orrendi di soffocamento ed estinzione jurassica.

A queste due posizioni negli ultimi trent’anni se n’è aggiunta una terza, quella ecologista: «Non bisogna solo sfamare tutti», spiega Gianfranco Bologna, portavoce Wwf e segretario della fondazione Peccei, «ma anche rispettare i limiti dello sviluppo. Che non derivano soltanto dalla scarsità di materie prime, evidenziata dal Club di Roma già nel ‘72, ma anche dalla capacità del nostro pianeta di assorbire i rifiuti e le emissioni atmosferiche».

Insomma, se il miliardo e 300 milioni di cinesi volessero possedere tutti l’auto, il frigorifero e il condizionatore, altro che trattato di Kyoto: l’effetto serra si impennerebbe e l’inquinamento diventerebbe insostenibile. Ma a questo dilemma «noglobal» e «proglobal» forniscono risposte opposte. 

«I cinesi hanno il sacrosanto diritto di godere del nostro stesso livello di vita», sostiene Agnoletto, «e proprio per questo noi occidentali dobbiamo rivedere il nostro modello di sviluppo: non dobbiamo essere di meno, ma dividere meglio la torta». 

«Basta con queste autocolpevolizzazioni cattocomuniste», replica il leader radicale Marco Pannella, alfiere della globalizzazione, «il diritto di tutti al benessere e alla democrazia occidentale ci impone di concepire un rientro dolce e graduale della popolazione mondiale entro il limite di due-tre miliardi di abitanti».
 
Ai ritmi attuali, invece, entro il 2050 aumenteremo del 50 per cento, passando da sei a nove miliardi. E l’unico controllo demografico efficace viene attuato proprio da Pechino, con i metodi della dittatura comunista: oggi i cinesi aumentano dello 0,7 per cento annuo, contro l’1,5 degli indiani. Così, presto l’India supererà la Cina, e toccherà per prima il miliardo e mezzo di abitanti. 

Il record mondiale della crescita spetta alla Liberia devastata dalla guerra civile (5,5 per cento), seguita da Somalia ed Eritrea (4,2). Ma è soprattutto l’esplosione demografica dei Paesi arabi del Mediterraneo a preoccupare l’Italia: entro il 2050 raddoppieranno, da 150 a 300 milio ni di abitanti, e si può immaginare quanti vorranno emigrare. Anche perché gli italiani, nel frattempo, saranno diminuti di un terzo: da 60 a 40 milioni.

L’Afghanistan esibisce in questo rapporto Onu la percentuale di crescita annua più alta di tutta l’Asia: 3,7. Per i fondamentalisti islamici «il numero è potenza». Nell’altra zona calda del pianeta la demografia provocherà addirittura un ribaltamento:  i palestinesi si quadruplicheranno da tre a dodici milioni, sorpassando così Israele che passerà da sei a dieci milioni.

Di fronte a questi drammi annunciati, la soluzione di Fulco Pratesi è semplice: «Distribuire preservativi. Come sta facendo il Wwf in Thailandia». 

E Agnoletto? «Figurarsi se proprio io posso essere contrario ai preservativi: da 15 anni mi batto per superare i divieti religiosi, sia cattolici che islamici, alla prevenzione dell’Aids in Africa. Ma, ripeto, esiste anche una responsabilità occidentale per le diseguaglianze economiche: col tre per cento del costo dello Scudo spaziale, per esempio, si potrebbe dare l’acqua potabile a tutto il mondo». 

«Noi possiamo anche diminuire gli sprechi del consumismo sfrenato», replica Pratesi, «ma una nostra austerità non potrà mai dare cibo agli affamati se questi aumentano ai ritmi attuali».
Mauro Suttora 

Monday, October 29, 2001

Dopo le Twin Towers: radicali filo-Usa

DOPO L'11 SETTEMBRE: W GLI STATI UNITI, SEMPRE

di Mauro Suttora
Il Foglio, 29 ottobre 2001

«Se veniamo, portiamo le gigantografie di Roosevelt e di Milton Friedman». Marco Pannella promette (minaccia?) una presenza «non banale» dei radicali alla manifestazione pro-Usa del 10 novembre a Roma. «Oppure srotoliamo dal Pincio o da un aereo uno striscione immenso, lungo 40 metri, con le bandiere di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e la nostra, quella con il viso di Gandhi».

Franklin Delano Roosevelt e il capo degli economisti di Chicago non hanno nulla in comune, tranne la nazionalità americana e l’antiproibizionismo: il presidente del New Deal legalizzò gli alcolici, il Nobel liberista vuole liberalizzare anche lo spinello.

Ma la lingua di Pannella batte dove il dente duole. Perché i radicali sono i precursori dell’Usa Pride: da 15 anni propugnano istituzioni americane (presidenzialismo a turno unico), giustizia americana (pubblica accusa distinta dai giudici), economia americana (mercato libero e privatizzazioni).

Dalla guerra del Golfo dicono sì, loro nonviolenti e antimilitaristi, a tutti i bombardamenti Nato su Irak, Bosnia e Kosovo. Dopo l’11 settembre sono stati i primi a manifestare per gli Stati Uniti, raccogliendo per strada firme su 25 proposte di legge all’ombra di bandiere a stelle e strisce, Union Jack e stelle di Davide. Il giorno della Perugia-Assisi sono andati polemicamente a omaggiare i soldati britannici in un cimitero di guerra umbro.

Ma sabato scorso, dopo i messaggi di Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi al convegno a San Patrignano, Pannella è stato anche il primo ad accusare di «neofascismo» la politica del Polo sulle droghe. E domenica Emma Bonino ha rincarato su Repubblica, giornale che normalmente la ignora (silenzio sulla sua guerra personale ai talebani, iniziata cinque anni fa), ma che la intervista appena dice «qualcosa di sinistra», cioè di libertario. Fatale, quindi, che a questo punto la bruciante attualità politica faccia premio sulla collaudata sintonia fra filoamericani.

Peccato, perché le prime reazioni radicali all’annuncio della marcia per le vittime di Manhattan era stata entusiasta: «Finalmente potremo riannodare il dialogo con i simpatizzanti del Polo, che tanto hanno contribuito all’otto per cento della lista Bonino nel ‘99», esultavano i dirigenti Antonello Marzano e Vasco Carraro.

Adesso invece prevale la cautela: «Non sappiamo nulla, neanche se ci invitano, se ci coinvolgono», prende le distanze Pannella, «quindi sarà il nostro Comitato, riunito dal primo al 4 novembre, a decidere sulla partecipazione ufficiale dei radicali. I quali comunque sono liberissimi di andarci. Leggo però che la cosa si sta trasformando in una manifestazione musicale, mentre noi sollecitiamo un massimo di connotazione politica per assicurarne il successo. Perché la nostra non è solidarietà generica: noi manifestiamo a favore delle istituzioni americane, proprio come forma organizzata della democrazia. Altro che “solidarietà al popolo americano”, come dice Bertinotti: lui è amico dei popoli ma nemico di tutti i loro governanti, basta che siano democraticamente eletti. A co minciare dai G8. Viceversa, è amico di tutti coloro che li opprimono, i popoli. L’unico bersaglio degli antiglobal è la democrazia - capitalista, naturalmente, anche perché altro tipo di democrazie non si conosce».

La tentazione del «pochi ma buoni» per Pannella è forte: «Il 10 novembre potremmo pure andarcene a Nettuno, dove c’è uno dei più grandi cimiteri militari americani d’Europa». Ma i radicali non erano antimilitaristi? «Auspichiamo anche oggi una conversione graduale delle spese belliche in strutture di aggressione nonviolenta contro le dittature del mondo».

E i bombardamenti in Afghanistan? «Ora siamo in ballo e dobbiamo ballare: questi governanti e generali americani non sanno fare granché, ma le armi che hanno a disposizione sono queste. E noi nonviolenti non sappiamo offrire armi alternative. Avvertiamo, però: all’interno della nuova sacra alleanza fra America, Russia e Cina possono esserci i mostri di domani. Il leader cinese resta un assassino, e Bush che va da lui a Shanghai rischia di ripetere Monaco e Yalta».

I radicali hanno passato tutti gli anni ‘80 ad ammonire su Saddam Hussein, il decennio successivo a puntare il dito contro Slobodan Milosevic, e il giorno dopo che i talebani presero Kabul nel ‘96 già facevano le Cassandre.

Profeti inascoltati?
«È un nostro vizio antico e gigantesco», ironizza Pannella, «quello di occuparci di gente che non ci può votare. E c’è anche la garanzia che in Italia nessuno parli di coloro dei quali ci occupiamo».

Cioè?
«Quattro giorni fa cinque nostri esponenti sono andati nel Laos comunista e hanno fatto la stessa cosa che nello stesso luogo, nello stesso posto e nella stessa data avevano osato fare cinque studenti laotiani il 26 ottobre 1999: hanno esposto uno striscione con la scritta “Democrazia per il Laos”. Di quegli sventurati non si sa più nulla: se sono vivi, morti, in carcere, dove. Desaparecidos. Ma anche dei radicali gli italiani non hanno saputo quasi nulla. Eppure fra loro ci sono Olivier Dupuis, segretario del partito ed eurodeputato eletto in Italia, Bruno Mellano, consigliere regionale in Piemonte, il capo dei radicali russi Nikolai Kramov, oltre a Massimo Lensi e a Silvja Manzi. Se si fossero fatti rapire nello Yemen, tutti ne avrebbero parlato. Invece, silenzio totale da parte dei nostri boss tv: Vespa, Santoro, Biagi, Costanzo, anche Lerner».
Mauro Suttora

Tuesday, August 07, 2001

Due settimane dopo il G8 di Genova

NOGLOBAL: PARLANO I DURI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 7 agosto 2001

Milano. «Assassini! Le vostre pallottole non fermeranno le nostre ragioni! Pagherete caro, pagherete tutto!» Questi gli slogan nel Centro sociale Vittoria (un capannone all’angolo delle vie Friuli e Muratori), dove l’altra sera i noglobal milanesi hanno fatto il punto della situazione. 

Quelli del Vittoria appartengono all’ala «dura»: considerano venduto perfino Luca Casarini con le sue Tute bianche. E non sono pochi: i centri sociali che rifiutano «la subordinazione al riformismo istituzionale» vanno dal milanese di via dei Transiti ai torinesi Askatasuna e Murazzi, dal collettivo autonoMolotov di Pistoia agli «antagonisti» di via dei Volsci a Roma, dall’ex Carcere di Palermo al Kollettivo autonomo La rivolta di Frosinone.

Un centinaio di «realtà» che, assieme ai Cobas, pur aderendo al Genoa Social Forum hanno tenuto a differenziarsi, fondando il «Network per i diritti globali». A Genova hanno manifestato separatamente dagli altri, e nella loro zona sono scoppiati i primi incidenti. 

Proprio sugli incidenti, il bilancio che fanno quelli del Vittoria è agghiacciante: «Carlo Giuliani non è morto per colpa di un carabiniere inesperto, ma perché il governo Berlusconi e i media hanno cercato e determinato le condizioni per arrivare al morto... Hanno alimentato le fiamme già accese della tensione e dell’aggressione... Compagni, la campagna di provocazione orchestrata per due mesi nei confronti del movimento è stata criminale».
 
Le analisi sembrano «wishful thinkings», profezie allo stesso tempo roboanti e vittimiste che si autoavverano. Tutte le lotte si saldano l’una all’altra, e più il quadro è fosco meglio è: «Eravamo in 300mila per dire no alla violenza della globalizzazione, del capitalismo, dell’imperialismo e dello Stato». 

I quali sono per loro natura «assassini», ben prima di Genova: «I potenti non avevano messo in conto, dopo il crollo del Muro, un’opposizione alle loro politiche assassine. Per questo è scattata la repressione più violenta, una deliberata aggressione fisica nei nostri confronti. Non è stata un’operazione improvvisata, ma preparata a tavolino, e non ha nulla da invidiare a quelle studiate sui libri della Germania nazista. Il morto non è stato causato per incidente, anzi, solo per fortuna e per caso non ce ne sono stati molti di più sulle strade e nelle caserme di Genova».

Nessuna autocritica da parte degli antiglobal? Come no, e pure «forte e dura, compagni: per i diffusi atteggiamenti di continuo appiattimento a destra come risposta agli attacchi delle istituzioni. E’ mancato un confronto sui contenuti, perché è stata privilegiata una continua e assillante riflessione solo sulle forme che la piazza avrebbe assunto, e su quello che in piazza non avrebbe dovuto accadere».

La violenza si trasforma nelle loro parole in innocua «autodifesa», e nel mirino finisce Vittorio Agno letto: «Si sono verificate inaccettabili dissociazioni e prese di distanza su scelte di autodifesa del corteo, in una catena di scaricabarile e di chiusura a sinistra: una politica che ha fatto solo il gioco di chi voleva disarmare e distruggere politicamente il movimento».

E i black block? «A dar retta ai media e alle esternazioni di qualche pacifista pacificato, pare che tutta la colpa degli scontri sia loro. Ma è una tesi risibile: lo dimostrano ampiamente i fatti, e il fallimento di ogni tipo di concertazione sulla gestione della piazza, da qualcuno caldamente auspicata...»

Nessuna critica alle Tute nere, quindi. Quelli del Network se la prendono invece con la sinistra istituzionale: «Assistiamo ai suoi goffi tentativi di cavalcare un movimento che ha chiaramente espresso radicalità e rottura non solo contro questo governo da paese sudamericano, ma contro un liberismo selvaggio e brutale che fino a ieri veniva avallato dal centro-sinistra, introducendo flessibilità e precarizzazione nel lavoro, costruendo campi-lager per i migranti, fino alla criminale guerra dell’imperialismo occidentale nel Kosovo».
 
Nessuna buona notizia per le prossime settimane: «Genova è stata una prova di forza, un avvertimento. Ma la partita centrale si giocherà a partire da settembre, quando si riapriranno le lotte per i contratti nelle fabbriche, per il diritto all’istruzione nelle scuole, contro l’attacco alle pensioni e le leggi repressive sull’immigrapressive sull’immigraantativo di chi si erge a custode del variegato movimento antiglobalizione... Rinasce il conflitto di classe, rifiutiamo il tentativo di chi si erge a custode del variegato movimento antiglobalizzazione». 

Altro che Fao, quindi: primo appuntamento di massa già il 21 e 22 settembre, per ricordare i due mesi dalla morte di Giuliani, che ovviamente «vive e lotta insieme a noi».

Nella sala del centro sociale Vittoria, strapieno di ragazzi e ragazzine giovanissimi, non borchiati e con pochi piercing, apparentemente figli più della borghesia che del proletariato, scrosciano gli applausi.

Vengono proiettati i video su Genova di Blob e Raitre: emozione quando si vede colare il sangue di Giuliani, risate quando Giovanna Botteri del Tg3 grida «Baciami il culo» a un dimostrante che la ostacolava. Walter Veltroni, così desideroso di accogliere gli antiglobal nella sua Roma a novembre, si prepari all’«accoglienza».
Mauro Suttora

Tuesday, July 17, 2001

Vertice G8 Genova: radicali filoglobal

di Mauro Suttora

Il Foglio, 17 luglio 2001

Figurarsi se si lasciavano scappare un’occasione così ghiotta. I radicali, sempre felici di cantare fuori dal coro, si lanciano a testa bassa nel dibattito sul vertice G8 di Genova.
 
La loro posizione è netta, radicale appunto: «Globalizzazione? Sì, grazie». È lo slogan del convegno che organizzano oggi a Roma, nella sala dell’Europarlamento, alla vigilia dell'apertura del vertice. 
Un motto che capovolge quello di un quarto di secolo fa: il famoso «Nucleare? No, grazie» di cui a lungo i radicali furono alfieri solitari in Italia, assai prima dei verdi e del referendum vittorioso contro l’atomo civile nel 1987.

Questa volta Marco Pannella ha buon gioco nell’inserirsi dentro una polemica in cui nessuno, tranne i radicali e Rifondazione comunista sul versante opposto, è disposto ad assumere posizioni estreme. Da una parte denuncia «l’esibizionismo rituale e inutile del vertice G8», mentre dall’altra riduce sarcasticamente il popolo di Seattle a «rumorosa eco, assicurata generosamente proprio da una multinazionale: quella mediatica». 

La prova? «In tv gli antiglobalizzatori hanno avuto cittadinanza pressoché esclusiva. Le voci liberali e liberiste sono state cancellate o relegate ai margini della comunicazione». Colpa dei media? Non solo: «Anche i politici, sia di destra che di sinistra, hanno giocato di rimessa, sulla difensiva».

Ci pensano i radicali, dunque, a colmare il vuoto e ad assumersi il ruolo dei pasdaran della globalizzazione. La quale, lungi dall’essere un male, «può produrre nel mondo maggiore sviluppo e libertà». Unica cautela dubitativa, quel «può».
 
Qualche radicale, per rendere ancora più incisivo il messaggio filoglobal, si era spinto fino a proporre un presidio a favore di McDonald’s, davanti a qualcuno degli sventurati punti vendita genovesi della polpetta Usa. Idea accantonata, troppo kamikaze, ma la sostanza resta. 

Così alcune delle migliori menti del liberismo italico (dall’ormai viceministro Mario Baldassarri all’eurodeputato FI Renato Brunetta, dal professor Lorenzo Infantino della Luiss ad Angelo Maria Petroni dell’università di Bologna) sono state convocate da Pannella e Bonino al contro-controvertice, in cui spiegheranno come la liberalizzazione degli scambi sia un fenomeno di inclusione e non di esclusione, un’occasione di riscatto per i più poveri e di aumento degli spazi di libertà per miliardi di persone.

Ai radicali ovviamente sta a cuore soprattutto la globalizzazione della democrazia e dei diritti della persona. Proprio ieri hanno festeggiato il terzo anniversario della nascita del Tribunale penale dell’Onu, da loro fortissimamente voluto (come quelli su ex Jugoslavia e Ruanda), e che entrerà in funzione quando altri 25 Stati ratificheranno il trattato.

Ma, fatalmente, è sui temi economici che si finisce per scivolare quando si parla di globalizzazione. Così l’iniziativa odierna dei radicali rappresenta una loro rentrée sulla trincea liberista e libertaria. 
Dopo le disastrose incertezze della campagna elettorale (in cui Emma Bonino si era ridotta in extremis a sollecitare solidarietà a sinistra, da Franca Rame e dintorni, disorientando così l’elettorato che l’aveva premiata con l’otto per cento nel '99), i pannelliani tornano alle battaglie per la modernizzazione economica che hanno caratterizzato le loro lotte degli anni Novanta. 

Con la sua proverbiale icasticità concreta, ora la Bonino denuncia che «ogni bovino europeo riceve un dollaro al giorno di sussidi, cioè più del reddito con cui tentano di sopravvivere centinaia di milioni di persone».

Insomma, i radicali non vogliono farsi schiacciare a destra, e attualizzano la loro campagna degli anni Ottanta contro la fame nel mondo puntando il dito contro gli sprechi dell’assistenzialismo. Da bravi libertari, non pretendono neanche che la politica «governi» la globalizzazione, ma si limitano ad auspicare che la «accompagni». 

«Gli intellettuali liberali hanno il dovere di dire le cose come stanno, contro il millenarismo dei rimasugli delle culture egemoni, il cattolicesimo e il marxismo», spiega il professor Gaetano Quagliariello, editorialista del Messaggero e relatore al convegno assieme a esponenti della sinistra come il senatore ds Franco Debenedetti, e liberisti classici come Carlo Pelanda e Alessandro De Nicola, presidente dell’Adam Smith Society. 

Iniziativa fuori tempo massimo? «Macchè, il timing è perfetto», assicura l’eurodeputato radicale Benedetto Della Vedova, «noi qui e loro lì a Genova. Quanto alle presunte vittime della globalizzazione, gli africani per esempio, l’apertura delle relazioni commerciali è l’ultimo dei loro problemi».

Saturday, June 02, 2001

Di Pietro perde l'unico senatore

IL COGNATO GLI RUBA IL SENATORE DELLA VAL SERIANA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 2 giugno 2001

Tutta colpa del cognato. Antonio Di Pietro ha perso dopo sole due settimane l’unico senatore che era riuscito a far eleggere, per caso, il 13 maggio. Valerio Carrara, 51 anni, chimico di Oltre il Colle (Bergamo), sembrava aver conquistato quasi per sbaglio il suo seggio.

Invece dietro di lui c’è Gabriele Cimadoro, cognato bergamasco di Tonino, ex democristiano, ex ccd, eletto deputato con Silvio Berlusconi nel ‘96, passato all’Ulivo con Mastella nel ‘98, accolto nell’Asinello da Di Pietro nel ‘99, infine in rotta con l’ex pm dal 2000, quando quest’ultimo si stacca dai democratici di Francesco Rutelli e Romano Prodi.

Da tempo Cimadoro meditava vendetta. La trova quattro mesi fa, quando i dipietristi cominciano a raccogliere le firme per presentarsi al voto autonomamente dal centro-sinistra. Alla rapida ricerca di candidati per ogni collegio, i seguaci di Tonino non vanno troppo per il sottile e accettano anche di selezionare dei perfetti sconosciuti.

Come questo Carrara, deboluccio in quanto a referenze politiche: può esibire soltanto un assessorato nel proprio piccolo Comune dal ‘94 al ‘97 e una militanza nella Federcaccia. Si iscrive all’Osservatorio per la legalità dipietrista, partecipa a una certa Commissione per la sburocratizzazione e oplà, eccolo in pista.

Perfetto cavallo di Troia, Carrara viene accettato come candidato dagli ignari colonnelli dell’ex senatore del Mugello. Cimadoro fa convergere su di lui tutti i voti dei suoi amici cacciatori ed ex democristiani della Val Seriana, e il gioco è fatto: il chimico risulta il candidato dipietrista più votato al Senato in Lombardia, con una percentuale del 4,7.

Ridotto in gramaglie per il mancato raggiungimento del 4 per cento al proporzionale della Camera, Di Pietro si aggrappa a quest’unico eletto. Il quale, fra l’altro, vale anche 1.200 milioni di rimborso elettorale (l’ex finanziamento pubblico ai partiti): pochi, in confronto ai 16 miliardi che sarebbero arrivati col superamento della soglia-ghigliottina alla Camera, ma comunque preziosi per riempire le esauste casse del movimento.

Niente da fare: istigato da Cimadoro, Ferrara nei primi giorni post-voto prende le distanze da Tonino. E ora arriva la rottura tanto precoce quanto definitiva: “Mi iscrivo al gruppo misto come indipendente. In questi giorni Di Pietro non mi ha mai cercato direttamente. Ha mandato avanti qualche suo luogotenente, gente di cui ho molto poca considerazione”.

E all’accusa di tradimento, dopo essersi fatto eleggere grazie ai consensi di Italia dei Valori, replica: “Gran parte dei voti che ho raccolto sono miei, non di Di Pietro: gente che mi ha detto e votava per me al Senato, ma per altri movimenti alla Camera”.

Ora il senatore Carrara potrebbe perfino votare la fiducia al governo Berlusconi: “Prenderò in seria considerazione questa possibilità. Di Pietro aveva una battaglia personale contro Berlusconi, non contro il centro-destra. E io fra Lega, An e Forza Italia, mi sento più vicino a Forza Italia”.

Poveri dipietristi: pensavano di avere dato il voto più antiberlusconiano possibile, e ora invece si ritrovano con il loro unico parlamentare eletto che rischia di finire nella Casa delle libertà. Comunque, nonostante lo scoramento per il 3,9 per cento e un milione e mezzo di voti buttati via, i fans di Tonino proseguono il loro cammino: si riuniranno in congresso il 16 giugno a Roma. Avranno diritto di voto tutti i candidati a Camera e Senato, più gli eletti.

Questi ultimi, per la verità, sono pochissimi: neanche alle comunali di Torino e Roma Di Pietro è riuscito a raggiungere il quorum minimo. E’ stato eletto con il 5 per cento soltanto a Milano, dov’era candidato sindaco, assieme a Letizia Gilardelli (ex Psi e Pds) e ad Adriano Ciccioni (ex radicale e verde).

Il congresso sarà anche l’occasione per fare un po’ di conti all’interno del movimento. La sconfitta è arrivata da regioni che hanno dato all’ex pm soltanto il 2,5 per cento, come il Lazio e la Toscana. Sotto il 4 per cento sono rimaste anche Liguria, Emilia, Campania e Calabria. Bene invece la Puglia (dove si è impegnato l’unico altro europarlamentare dipietrista, Pietro Mennea), con il 5 per cento, l’Abruzzo con il 6 e il Molise con il 14. Il Nord (Piemonte, Lombardia, Triveneto) ha regalato a Di Pietro il 4 per cento: voti soprattutto leghisti e radicali, che ora Tonino cercherà di far pesare all’interno del centro-sinistra, dove Elio Veltri cerca di ancorare il movimento.
Mauro Suttora

Thursday, May 03, 2001

Per chi votano i gay?

SORPRESA: PRIMO BERLUSCONI. PARLA ROBERTO SCHENA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 3 maggio 2001

I gay italiani votano a destra o a sinistra? Il dibattito è esploso sulle tre riviste mensili degli omosessuali: Babilonia, Pride e Guide Magazine. E ha rivelato spaccature impensabili, almeno stando al panorama delle candidature per le politiche del 13 maggio. Dove, infatti, la sinistra fa il pieno dell’“offerta”, con almeno cinque esponenti dell’ufficialità omosessuale italiana pronti a entrare in Parlamento: il fondatore di Arcigay Franco Grillini con i Ds, Gianpaolo Silvestri con i verdi, e ben tre candidati con Rifondazione. Nella Casa delle libertà, invece, il deserto.

Giovanni Dall’Orto, direttore della rivista Pride, ha accusato Babilonia di pencolare verso destra soltanto per avere osato ospitare un intervento di Giuliano Ferrara. E Natalia Aspesi gli ha subito fatto eco su Repubblica.

Babilonia è il giornale storico del movimento gay italiano. Infatti, dopo gli antesignani radicali del Fuori di Angelo Pezzana (del quale proprio in queste settimane si festeggia il trentennale della nascita), dagli anni Ottanta le lotte di liberazione sono state prese in mano dall’Arcigay (galassia Pci). Fino al giugno 1999 Babilonia, con le sue 15mila copie, era l’unico giornale omosessuale.

Quell’anno Roberto Schena fonda Pride. L’anno scorso lascia Pride a Dall’Orto e trasforma Guide Magazine, fino ad allora una semplice guida ai locali, nel terzo mensile gay italiano. Tutti sulle 15 mila copie, anche se Pride e Guide Magazine vengono distribuiti gratis nelle centinaia di locali gay, perché vivono tranquillamente di sola pubblicità.

L’effervescenza editoriale del mondo gay (stimato in Italia in due-tre milioni di individui) è testimoniata anche dalla nascita di vari siti Internet. Il più seguìto, www.gay.it, è stato acquistato per due miliardi da Seat-Pagine Gialle.

Schena, principale artefice di questa moltiplicazione di riviste (e di dibattito), non è affatto di sinistra. Anzi: è il capo delle redazioni cultura, spettacoli e sport della Padania, il quotidiano della Lega Nord. Ha in mano un buon terzo del giornale. E nel tempo libero confeziona Guide Magazine.

«L’attuale confronto è nato dagli articoli di Ferrara sul Foglio e su Panorama», spiega Schena, «in cui la destra viene invitata a liberarsi dalla vecchia paccottiglia omofoba. Ma sono stati soprattutto i dati di un sondaggio elettorale del sito gay.it ad avere mandato in tilt la sinistra».

Roba da non credere: Silvio Berlusconi risulta primo col 25 per cento, davanti a Francesco Rutelli col 24. Terza Emma Bonino: 14 per cento. Segue all’11 Fausto Bertinotti, mentre Valter Veltroni incassa un misero sei, superato perfino da Gianfranco Fini col sette. Umberto Bossi e Antonio Di Pietro prendono il tre per cento, e gli altri candidati raccolgono il restante sette per cento.

Sommando questi consensi, la Casa della Libertà conquisterebbe il non disprezzabile 35 per cento, mentre l’Ulivo senza Rifondazione si fermerebbe al 30.

Sul numero di aprile di Guide Magazine Schena, in perfetta par condicio, ha ospitato un articolo pro-sinistra di Sergio Lo Giudice, presidente di Argigay, e uno in cui il teologo milanese Giovanni Felice Mapelli nega che i Ds possano farsi paladini dei gay: «La loro cultura è tutt’altro che liberale, sono frenati da un eccesso di opportunismo: in Europa vengono scavalcati dai loro colleghi socialisti. In cinque anni di governo del centrosinistra sono naufragati tutti i progetti di legge che riguardavano le coppie di fatto, la discriminazione per orientamento sessuale, la procreazione assistita omologa ed eterologa, l’adozione da parte delle coppie sposate e quella dei single».

Ma Schena come si trova in un partito, la Lega, che negli ultimi due anni ha dato una forte sterzata verso i valori tradizionali cattolici, con Bossi che non perde occasione per ribadire con toni anche offensivi la sua totale contrarietà alla minima apertura nei confronti dei gay?

«Mi trovo benissimo: sono omosessuale dichiarato da sempre, ma non ho mai dovuto nascondere alcunché. Lavoro alla Padania dalla sua fondazione e nessuno mi ha discriminato, anzi. Insomma, sono l’esempio vivente che la politica della Lega non è rivolta contro i gay in quanto tali. Bossi sta facendo scelte tattiche sulle unioni civili che personalmente non condivido. Ma anche Ppi e Democratici, nell’Ulivo, hanno le sue stesse posizioni. Mi dispiace per i consensi gay che il centrodestra potrebbe facilmente avere, ma che sciupa perché non sa coltivare i rapporti. La giunta Albertini ha ottime relazioni con Dolce & Gabbana, Armani e tutto il mondo della moda: basterebbe imitare il modello Milano».
Mauro Suttora

Friday, April 27, 2001

Lo strano anticlericalismo radicale

ANGIOLO BANDINELLI SPIEGA PERCHE' PANNELLA IN REALTA' È RELIGIOSO

di Mauro Suttora
Il Foglio, 27 aprile 2001

Dalla mezzanotte di stasera Emma Bonino smetterà di bere. Lo sciopero della sete, al contrario di quello della fame, può andare avanti solo per poche decine di ore. Poi si muore per disidratazione. Cosa vuole la Bonino? Che il presidente Carlo Azeglio Ciampi riconosca pubblicamente che in Italia c’è disinformazione. 

Assieme a lei Luca Coscioni, capolista radicale in Lazio, Umbria ed  ed Emilia-Romagna, attuerà un nuovo tipo di sciopero: quello delle cure. «Ridurrò progressivamente le mie terapie», annuncia Coscioni, reso immobile e muto dalla sclerosi laterale amiotrofica.

Coscioni non è l’unico simbolo della nuova lotta radicale, quella per la «libertà della scienza». In Puglia, nel collegio di Putignano (Bari), è candidato Camillo Colapinto, anch’egli malato di sclerosi. A Vittorio Veneto (Treviso) il distrofico Marco Zardetto così motiva la sua candidatura: «La ricerca genetica in Italia è un settore in cui non mancano i cervelli ma, purtroppo, non mancano nemmeno i tribunali della Santa Inquisizione». 

Il riferimento è ai divieti cattolici sull’uso di cellule staminali di embrioni «sovrannumerari» per la cura di malattie con origine genetica (Parkinson, Alzheimer, diabete, ecc.), e sulla clonazione terapeutica.

Sempre in Veneto, corre per la lista Bonino a Padova Emiliano Vesce. Suo padre Emilio (caso 7 aprile, poi deputato radicale) è in coma irreversibile da sei mesi. Questa tragedia rimanda a un’altra grande questione di cui i pannelliani sono alfieri solitari in Italia: quella dell’eutanasia. 

E a Torino il candidato sindaco radicale è Silvio Viale, ginecologo verde che propugna la pillola del giorno dopo e l’aborto farmaceutico (grazie alla pillola Ru 486 che permette di evitare l’intervento chirurgico).

Sono tutti temi che, assieme al sì della lista Bonino alla fecondazione assistita, alle biotecnologie e alla ricerca sugli Ogm (Organismi geneticamente migliorati) fanno dei radicali l’unico partito in urto frontale con la Chiesa oggi in Italia. E infatti il loro principale slogan elettorale è: «Decidi tu o il Vaticano? Libera il sesso, la scienza, la vita».

Insomma, i pannelliani sono tornati a uno dei loro primi grandi amori: l’anticlericalismo.
«Togliamo innanzitutto ogni significato negativo a questa parola», commenta Angiolo Bandinelli, già segretario e parlamentare radicale, oggi candidato della Lista Bonino a sindaco di Roma. «Io per esempio apprezzo molto l’anticlericalismo dell’Ottocento, che per la prima volta dopo mille anni permise ai ceti subalterni di conquistare un’educazione senza passare per le parrocchie. C’erano i circoli socialisti e quelli del mutuo soccorso, ma perfino i circoli ginnastici, pieni di magliette a strisce orizzontali e baffi a manubrio, contribuirono a quella che fu una vera e propria liberazione».

Sì, ma oggi che senso ha opporsi a una Chiesa in declino? 
«Da troppo tempo si fingeva di credere che tra Stato e Chiesa tutto potesse essere ricondotto alle idilliache formule spadoliniane del “Tevere più largo”», risponde Bandinelli, «e invece grazie ai radicali si è riaperto non un “vulnus” laicista né una “piaga” rosminiana, ma un tema su cui l’attenzione non dovrebbe mai scemare. Soprattutto in un paese così peculiarmente di frontiera, in bilico tra Stato e Chiesa-Stato».

Secondo Ernesto Galli della Loggia si può essere laici senza essere anticlericali. 
«E invece l’anticlericalismo», obietta Bandinelli, «è un dovere essenziale per l’uomo di fede. Il quale non può non avvertire un dissidio, quando non una lacerazione, tra il suo credere, che è un fatto appartenente all’intimità della coscienza, e l’istituzione che mondanamente governa questa fede e ne detta le norme per i suoi affiliati. Non c’è istituzione sacra che non debba fare i conti con l’anticlericalismo dei suoi adepti, come suo unico, possente e indispensabile correttivo».
 
«La riforma protestante», continua Bandinelli, «riteneva che il dissidio fosse incolmabile e che la fede del singolo dovesse liberarsi dalle pastoie dell’istituzione. I cattolici ritennero che il nodo non dovesse invece essere sciolto. Ma anche fra i cattolici non sono mancati possenti richiami a un forte, irresolvibile anticlericalismo. A nostro avviso, questo “segnale di pericolo” dovrebbe oggi, per loro, essere ancor più fortemente sentito. C’è quindi da sperare che il dibattito di questi giorni apra nuovi sbocchi alla attiva consapevolezza degli “anticlericali” di fede...»

Lontano dagli accenti truci dell’anticlericalismo garibaldino e anarchico («Con le budella dell’ultimo papa/impiccheremo l’ultimo re»), il pur laicissimo Partito radicale si definisce fin dalla sua fondazione, nel 1955, «partito dei credenti e dei non credenti». 

«Per me è stato importante un numero di Esprit, la rivista del filosofo cattolico Emmanuel Mounier che trovai nella stazione di Modane nel '47 aspettando un treno», ricorda Marco Pannella nel libro «Pannella & Bonino spa», appena pubblicato per le edizioni Kaos. Dove si scopre che il leader radicale deve perfino il proprio vero nome - Giacinto - a un sacerdote: glielo inflissero in onore di uno zio monsignore e letterato (al quale Teramo ha dedicato una via), che ospitò su una sua rivista articoli di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. 

«Può darsi che io non abbia animosità anticlericali perché la persona migliore della mia famiglia fu questo prete, che era stato liberale e non popolare sturziano», spiega Pannella.

La sponda cattolica ricercata dai radicali era quella dei tormentati seguaci di Jacques Maritain e Georges Bernanos. Ma dopo il sì di Palmiro Togliatti al Concordato fascista e la continua ricerca da parte del Pci (ingraiani compresi) dell’«incontro fra le masse cattoliche e quelle comuniste», nell’Italia democristiana degli anni ‘50 e ‘60 c’era poco spazio per l’illuminismo radicale. 

Perfino all’interno del Pr l’indomabile Ernesto Rossi (autore degli sferzanti «Sillabo» e «Manganello e aspersorio», ristampati l’anno scorso sempre da Kaos) era considerato un «enfant terrible» dai sussiegosi «Amici del Mondo».

In questo clima paludoso Pannella recuperò l’anticlericalismo e l’antimilitarismo dei socialisti libertari di inizio secolo, e nel 1965 lanciò due campagne di legalizzazione: per il divorzio, e per l’obiezione di coscienza al servizio militare. Le considerava due chiavi per perforare il regime dc, ma a sinistra trovò scarsi consensi. 

Gli unici dirigenti Pci a dichiararsi pubblicamente divorzisti furono infatti Luciana Castellina, Vittorio Vidali, Umberto Terracini, Fausto Gullo e Massimo Caprara: tutti, per un verso o per l’altro, eretici. I sessantottini liquidarono le lotte per i diritti civili come «piccoloborghesi». E anche dal mondo cattolico i consensi arrivarono col contagocce: i cristiani di base, del dissenso e del no (dom Giovanni Franzoni) vennero subito egemonizzati dal Pci.

Nel '70 e nel '72, dopo due digiuni di Pannella, «passarono» le leggi su divorzio e obiezione. Il Vaticano raccolse immediatamente le firme per il referendum contro lo scioglimento del matrimonio, e i radicali risposero fondando la Liac (Lega italiana abolizione Concordato). Le adesioni erano prestigiose: Leonardo Sciascia, Eugenio Montale, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Alessandro Galante Garrone, Eugenio Scalfari, Lino Jannuzzi, Livio Labor (presidente Acli).

Esattamente come oggi, anche nel ‘74 la sinistra e i laici «perbene» (Pri, Pli, Psdi) aborrivano il conflitto con i cattolici, proponendo fino all’ultimo al segretario dc Amintore Fanfani un compromesso per evitare il referendum sul divorzio. 

La vittoria divorzista del 13 maggio ‘74 va quindi interamente ascritta ai radicali. I quali subito raddoppiarono, e raccolsero le firme per il referendum sull’aborto con l’Espresso di Scalfari. L’abrogazione del Concordato fascista fu invece impedita nel '78 dalla Corte costituzionale, che considerò l’intesa Mussolini-Vaticano un trattato internazionale, e quindi non sottoponibile a referendum.

«A questo punto Pannella ha un problema», spiega Bandinelli, «perché con la legge sull’aborto si è inimicato l’intero mondo cattolico. E vuole ristabilire un dialogo sui temi della difesa della vita. Contribuisce a questo obiettivo innanzitutto la campagna contro la fame nel mondo». 

Quando viene eletto papa Wojtyla, il leader radicale lo saluta affettuosamente: «Dio ce lo ha dato, guai a chi ce lo tocca». Simpatia ricambiata: Bandinelli va in Vaticano con il consiglio comunale di Roma (di cui fa parte) e viene presentato come esponente del «partito radicale di Pannella». Giovanni Paolo II gli sorride: «Ah, il nostro amico Pannella!»

Evidentemente le marce radicali contro la fame nel mondo (1979-1985) fecero breccia nel cuore del Papa, che nell’82 si spinse fino a salutare i manifestanti pannelliani giunti in piazza san Pietro. Che differenza rispetto alla Pasqua del ‘67, quando i radicali avevano srotolato davanti alla basilica uno striscione con la scritta «Divorzio, aborto, pillola», e si facevano infiammare dalle conferenze del fondatore dell’Aied Luigi De Marchi su «Sessuofobia e clericalismo».

L’ultimo conflitto Pannella-Vaticano si consuma nell’81, quando l’Italia vota i due referendum contrapposti sull’aborto: quello liberalizzatore dei radicali, e quello abrogativo del Movimento per la vita. 

Perdono entrambi, e rimane la legge sull’aborto di stato. Ma anche in quell’occasione Pannella tiene a precisare: «Gli unici veri credenti siamo noi e quelli del Movimento, perché ambedue crediamo nei valori e non nel potere. Onore al papa che va al macello col suoi referendum, meglio lui della sinistra fascista e golpista».

Dopodiché, vent’anni di armistizio, se non di pace. Sì, vari screzi sulla droga, ma niente di più. Tanto che Gianni Baget Bozzo nel ‘96 può sentenziare: «Il profeta Pannella, come il prete radicale Romolo Murri a inizio secolo, è in realtà una figura interna alla cristianità italiana, perché mira a una riforma del cattolicesimo». 

Ancora un anno fa sui depliant elettorali di Emma Bonino campeggiava la foto dell’udienza che lei e Pannella ottennero dal Papa nel 1986. Compunti e commossi, i due leader radicali gli illustravano i risultati della loro campagna contro la fame nel mondo.

Oggi Pannella si scaglia contro le gerarchie ecclesiastiche «che sacralizzano embrioni invisibili perfino al microscopio più potente della Terra, così come in passato sacralizzavano i cadaveri vietando le autopsie». 

«Ma anche Marco è un prete», provoca l’editorialista Massimo Fini, «basta contare tutte le volte che usa parole come “vita”, “verità”, “testimonianza”, “scandalo”, “dar corpo a...”»
Mauro Suttora
   

Thursday, April 12, 2001

parla Della Vedova

INTERVISTA A DELLA VEDOVA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 12 aprile 2001

«Ogni giorno che passa, questa campagna elettorale dimostra che i radicali sono rimasti l’unica zeppa liberale fra i due poli. Se ne sono accorti, e lo hanno scritto, commentatori prestigiosi come Angelo Panebianco e Piero Ostellino. Ora però se ne de ve accorgere anche la gran massa degli elettori. È per questo che sembriamo ossessionati dal problema informazione. Ma purtroppo è dimostrato che per noi tutto si gioca per poche decine di minuti televisivi in più o in meno».

Benedetto Della Vedova è il più pacato fra i sette eurodeputati della lista Bonino eletti appena due anni fa con l’otto per cento (ma con punte del 18 in molte zone del Nord). Per stile personale, è lontano dai toni apocalittici di Marco Pannella. 

Però la sostanza non cambia: «Silvio Berlusconi è stato chiaro: da Vespa ha dichiarato che sulle questioni bioetiche la sua posizione è quella della Chiesa. Quanto all’economia, davanti agli industriali a Parma ha pronunciato un ottimo discorso. Ma non ha detto una parola sulle pensioni, né sulla libertà del lavoro. Anzi, ha tenuto a precisare che il suo non è più il modello Thatcher, ma quello dell’economia sociale di mercato. Cioè, esattamente la politica economica attuata per mezzo secolo dalla Dc. E il mio amico Giulio Tremonti non fa che ribadirlo: col sindacato la Casa della libertà è pronta all’accordo. Ma così si colpiscono le generazioni più giovani, sacrificate due volte: sia dalla mancata riforma delle pensioni, sia dalla mobilità sul lavoro, che riguarderà soltanto i nuovi assunti».

Vaticano e sindacato: ecco i due avversari che i radicali si sono scelti per questa campagna elettorale. Un colpo a destra e uno a sinistra, insomma, con il risultato di apparire allo stesso tempo attraenti e indigesti per entrambi gli elettorati, a seconda che si enfatizzino le libertà civili o quelle economiche. 

Con effetti a sorpresa, come l’appoggio dei premi Nobel (ormai arrivati a quota 40) per il capolista in carrozzella Luca Coscioni, che sarà con Emma Bonino al Raggio Verde santoriano anticipato a giovedì sera. Tema: la libertà della scienza. Interlocutori: Rosy Bindi e Rocco Buttiglione, ovvero il cattolicesimo di sinistra e di destra. 

Quest’ultimo, intervistato da Donatella Poretti per Radio radicale, si diverte a provocare i libertari riducendoli a «libertini», e sancendo che per loro fra i liberali del Polo non c’è posto, perché non accettano i valori di «Dio, patria e famiglia».

«Con avversari così andiamo a nozze», mormorano soddisfatti i radicali, che nel collegio di Milano centro dov’è candidata la Bonino incassano anche la candidatura suicida, da parte dell’Ulivo, dell’ex Dc e Fi Onofrio Amoruso Battista, oggi mastelliano, che se la vedrà con Marcello Dell’Utri: «Così si aprono grossi spazi per Emma», prevedono i pannelliani.

Ma, come sempre, è dall’estero che giungono gli aiuti più grossi. Il massimo dissidente cinese, Wei Jingsheng, sarà a Roma sabato per appoggiarli, e così il ministro della sanità ceceno Omar Kambiev, che i radicali hanno appena fatto parlare all’Onu a Ginevra, ma che la Russia ha obbligato a tacere dopo soli due minuti. Ne è nato un caso diplomatico di proporzioni internazionali, registrato da Le Monde in seconda pagina e come sempre ignor ato dai media italiani. 

Sia il cinese che il ceceno aderiscono all’«Osservatorio internazionale sulla legalità in Italia» al quale i boniniani vogliono affidano la sorveglianza sulle nostre elezioni. Vi troveranno un compagno inaspettato: Fausto Bertinotti, il quale con i governi russo e cinese va invece d’accordo, ma che appoggia i radicali nella loro lotta contro il predominio dei due poli in tv.

C’è da giurare che i fuochi d’artificio di Pannella per queste elezioni siano solo all’inizio. Per i radicali sarà un voto decisivo, dopo il trionfo delle europee 1999 e il doloroso ridimensionamento alle regionali 2000. 

«Ma questa volta, contrariamente al ‘94 e al ‘96, siamo riusciti a presentare candidati in tutta Italia», dice Della Vedova, «così non capiterà più di mancare il 4 per cento solo perché non avevamo liste in Veneto». 

Nel frattempo, continua la polemica politica quotidiana. La questione del giorno, per i pannelliani, è la censura a Internet, contenuta nella nuova legge dell’editoria appena approvata dalla maggioranza di centrosinistra: «Vogliono costringere tutti i siti che danno informazioni a registrarsi in tribunale e assumere giornalisti: è un’assurdità burocratica, senza eguali al mondo se non in Cina, che verrà spazzata via dalla libertarietà intrinseca della Rete», assicura Della Vedova.
Mauro Suttora

Friday, April 06, 2001

I noglobal battono McDonald's

I NOGLOBAL BATTONO MCDONALD’S

di Mauro Suttora
Il Foglio, 6 aprile 2001

Gli antiglobalizzatori di Seattle sconfiggono McDonald’s. È successo a Milano, dove la multinazionale americana temeva che un proprio nuovo ristorante in fase di apertura fosse preso di mira dagli autonomi. E allora, invece di battezzarlo con la celeb re insegna rosso-gialla dell’hamburger planetario, hanno preferito ripiegare su un più tranquillo e anonimo «Pizzamia». Così da pochi giorni in corso San Gottardo, proprio di fronte all’Auditorium della musica, ecco scintillare il logo verde della nuova catena di pizza pronta.

Fino a tre anni fa in quel locale del quartiere Ticinese era ospitato un Burghy, la prima catena paninara tutta made in Italy (gruppo Cremonini) che dagli anni Ottanta aveva preceduto (e anche impedito, o almeno ritardato) lo sbarco di McDonald’s nella penisola. Ma dopo l’acquisto dei ristoranti Burghy da parte dei re della polpetta statunitense, avvenuto nel 1997, piano piano tutte le insegne sono state rinnovate. 

Per la verità non c’è stato un gran cambiamento, perché il logo Burghy aveva gli stessi colori di McDonald’s, e anche gli interni erano stati copiati dall’America. Comunque, nel giro di un paio d’anni tutti i Burghy sono scomparsi, per far posto ai nuovi padroni.

In alcuni casi, quando i ristoranti Burghy e McDonald’s si trovavano vicinissimi, gli americani hanno preferito chiuderne uno: è quel che è successo, per esempio, in piazza Cordusio a Milano, dove la concorrenza fra hamburger italiani e americani è ormai un ricordo. 

In altri casi, invece, McDonald’s ha mantenuto aperti sia i propri locali, sia quelli acquisiti da Burghy: è il caso, sempre a Milano, dei ben quattro punti vendita presenti in corso Buenos Aires, tre dei quali distanti pochi metri l’uno dall’altro (piazza Loreto, piazza Argentina, angolo via Pergolesi).

Uno dei motivi di questo affollamento sta nel timore, da parte di McDonald’s, di lasciare spazi liberi ai concorrenti della catena (anch’essa multinazionale) Burger King, sbarcata in Italia soltanto alla fine degli anni Novanta. 

In piazza Duomo, per esempio, grazie a un accordo con Autogrill, Burger King è riuscita a fare lo sgambetto a McDonald’s: ha conquistato le due postazioni migliori (angoli con via Torino e con la Galleria), lasciando un solo ristorante ai rivali.

Nel novembre ‘99, però, è nato il movimento di Seattle. E uno dei bersagli preferiti dei teppisti dei centri sociali sono le vetrine di McDonald’s. La zona milanese dei Navigli è abbastanza calda per la presenza di vari centri, fra cui il Conchetta nella via omonima, a poche decine di metri dall’ex Burghy di corso San Gottardo. Più di un raid ha danneggiato il McDonald’s più vicino, quello di piazza XXIV Maggio, e gli antiglobalizzatori avevano già preso di mira, con qualche vetro rotto intimidatorio, anche il nascituro. 

Per questo, dopo un’attesa durata molti mesi, i prudenti dirigenti della McDonald’s Italia hanno preferito non correre rischi, e hanno riaperto il ristorante utilizzando per la prima volta a Milano (esiste già un altro punto vendita a Cinisello Balsamo) il marchio Pizzamia. Anche perché nel frattempo è scoppiata la crisi di Mucca pazza, e la carne tritata non tira più come una volta.

Un curiosità: il piccolo centro sociale Conchetta, che ha sconfitto la multinazionale McDonald’s, convive pacificamente da anni con il ristorante di lusso Sadler (all’angolo con via Troilo), dal quale lo separa soltanto un muro. Di qua gli «antagonisti» arrabbiati, di là i ricchi clienti del Sadler, dove un solo antipasto costa 50mila lire. 

Mai un incidente, mai un vetro spaccato, neanche un graffio alle scintillanti Mercedes parcheggiate vicino al centro sociale. Due mondi opposti che si fronteggiano in totale e tollerante indifferenza. Ma guai a McDonald’s, con i suoi hamburger a duemila lire divorati da giovani, extracomunitari e gente a corto di soldi. I proletari politicizzati detestano i ristoranti per proletari. Chissà se sopporteranno la pizza.
Mauro Suttora  

Wednesday, April 04, 2001

Satyagraha radicale

LA CENSURA DEL 'CASO ITALIA' FINISCE A GINEVRA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 aprile 2001

«Come in piazza Rossa sotto Stalin e in piazza Tien an men, anche davanti al Quirinale è proibito manifestare». Marco Pannella attacca ancora il presidente Carlo Azeglio Ciampi dopo che il capolista radicale Luca Coscioni (malato di sclerosi laterale in carrozzella) è stato sfrattato dalla piazza romana. Motivazione della questura: mancava il permesso di occupazione del suolo pubblico.

«Ormai l’Italia è come il Tibet, Cuba, la Cecenia, la Cina. Può sembrare incredibile, ma nel nostro Paese, che il mondo conosce come una democrazia matura e sviluppata, si vanno deteriorando i principi stessi della libertà e della democrazia». Con queste parole lunedì l’eurodeputato Olivier Dupuis, segretario del partito radicale, ha sollevato il “caso Italia” davanti alla Commissione diritti umani dell’Onu a Ginevra. 

Esagerazioni? «Roma nell’ultimo anno è stata condannata 367 volte dalla Corte europea dei diritti umani», spiega Dupuis, «cioè una condanna al giorno. L'Italia è uno Stato in cui la Corte Costituzionale ha una giurisprudenza così arbitraria da attentare ai diritti che dovrebbe tutelare. Non lo diciamo noi, ma vari ex presidenti della Corte stessa. L'Autorità giudiziaria copre la violazione delle regole fondamentali del processo elettorale, 'autorizzando' la presentazione di liste e candidature con firme false e irregolari. Luca Coscioni ha lanciato un appello internazionale contro i veti clericali alla ricerca medica, raccolto da 33 premi Nobel e centinaia d'illustri scienziati. Ma questo evento non è stato nemmeno 'registrato' dall’informazione scritta e televisiva pubblica e privata».

Nei rari casi in cui Emma Bonino appare in tv («Telecamere», domenica sera), un ritardo la fa slittare a notte fonda: il programma è finito alle due meno venti. Così i radicali, esulcerati, adottano i metodi estremi della nonviolenza. Il 5 aprile 1930 Mohandas Gandhi fu arrestato vicino a Bombay perché, con la Marcia del sale, violò il monopolio inglese sull’estrazione. Riuscirà oggi Pannella a infrangere il duopolio Rai-Mediaset sull’informazione? 

La Bonino annuncia un «satyagraha» (sciopero della fame, con minaccia di passare a quello della sete): «Non chiediamo spazi per il nostro movimento, ma dibattito sui temi politici d’attualità: libertà della scienza, libertà economiche, libertà sessuali». 

Anche Radio radicale ha sospeso le trasmissioni per tre giorni. Ora i pannelliani dalla fantasia inesauribile immaginano una marcia a piedi, «dagli studi Rai di Saxa Rubra a Roma fino a quelli Mediaset a Milano: un po’ Gandhi e un po’ Marcos», propone Dario Russo sul forum del sito www.radicali.it.

Intanto, sui muri d’Italia sono affissi gli unici due poster della lista Bonino. Uno liberista: «Decidi tu o il sindacato? Libera il lavoro, l’impresa, la vita». L’altro anticlericale: «Decidi tu o il Vaticano? Libera il sesso, la scienza, la vita». 

Scienziati da tutto il mondo inondano Coscioni (33 anni, docente universitario umbro) di solidarietà. «Appoggio completamente la sua causa», gli scrive sir Godfrey Hounsfield, Nobel per la medicina del ‘79, «perché gli argomenti contro l’uso degli embrioni si basano sulla superstizione. Naturalmente lei ha un antico sostenitore: Galileo».

E Kenneth Arrow, Nobel ‘72 dell’Economia: «Anche negli Usa l’uso delle cellule staminali per la ricerca contro la sclerosi laterale amiotrofica viene attaccato dalla nuova amministrazione Bush. Sono totalmente con lei». Così altri 16 Nobel per la Chimica, otto della Medicina, sette della Fisica. 

Noam Chomsky del Mit di Boston: «Le barriere contro la ricerca sugli embrioni umani devono essere distrutte». In Italia le liste radicali sono zeppe di candidati scienziati e ricercatori. Prestigiosa l’adesione del professor Edoardo Boncinelli (il più noto genetista italiano dopo Renato Dulbecco, collaboratore del Corriere della Sera), che pure lavora nel cattolico centro San Raffaele di Milano. 

Avverte Giulio Cossu, presidente dell’Associazione italiana biologia cellulare: «Sta tornando l’inquisizione. È raccapricciante pensare agli embrioni distrutti senza motivo, ma negati alla scienza». Da Roma, aderiscono l’ex rettore Giorgio Tecce e il matematico Alessandro Figà Talamanca.

Ma, alla fine, tutta questa mobilitazione farà superare alla lista Bonino la soglia del 4 per cento? Gli ultimi sondaggi sorridono ai radicali: La Stampa li dà al tre, Datamedia al quattro. Loro, comunque, sono riusciti a presentare liste in tutte le regioni: compreso il Veneto, dove avevano subìto una grossa emorragia di iscritti, critici per certi metodi centralisti dei gandhiani romani.
Mauro Suttora

Sunday, March 25, 2001

I candidati di Di Pietro

Elezioni politiche per l'Italia dei Valori

di Mauro Suttora
Il Foglio, marzo 2001

Il cognato. La segretaria. Adesso anche i cugini. Antonio Di Pietro candida alle elezioni Nicola Veltri, parente del suo braccio destro (Corn)Elio, ed Eugenio Ronchi, cugino dell’ex ministro verde dell’Ambiente Edo. 

Dimenticato il cognato bergamasco Gabriele Cimadoro, deputato ribaltonista passato disinvoltamente da Silvio Berlusconi all’Ulivo seguendo Clemente Mastella, sistemata la fedele segretaria Silvana Mura come tesoriera del partito nonché capolista in Toscana ed Emilia-Romagna, il diffidente Tonino prosegue sulla sua strada familista e si affida a parenti eccellenti.

Il Veltri-bis è stato piazzato nell’ottimo collegio senatoriale lombardo di Cinisello Balsamo: rischia di essere eletto. Ronchi è fra i capilista sia a Milano che a Bergamo-Brescia-Como, e un mese fa è stato nominato commissario regionale lombardo di una gogoliana «Commissione nazionale per l’abbattimento della burocrazia». 

Ma accanto alla solidarietà del sangue c’è anche l’amicizia, e così i tre segretari organizzativi di Italia dei Valori sono tutti fedelissimi di Tonino: al Nord il bergamasco Ivan Rota (probabile deputato in Lombardia Due o Liguria), al Centro l’abruzzese Mario Di Domenico (capolista anche in Emilia e a Roma), e nel Sud il molisano Gaetano Di Niro.

I sondaggi danno la lista Di Pietro appena oltre il 4 per centro: gli altri deputati dovrebbero quindi essere il Veltri vero (capolista a Torino e Napoli), Elio Lannutti dell’Adusbef (Roma) e Giorgio Calò, sondaggista di Directa (Milano e Puglia). 

Nella circoscrizione Campania Due guida la lista Giovanni Aliquò, capo di un sindacato di destra dei poliziotti, nel Lazio (Roma esclusa) il giornalista Rai Bruno Mobrici, in Veneto l’illustre sconosciuto Massimo Donadi. 

A dare una mano in Basilicata e Puglia c’è Pietro Mennea, che però è già eurodeputato (l’unico rimasto fedele a Di Pietro fra i sei Democratici dell’Asinello eletti nel '99).

Tonino si candida in Emilia-Romagna, Puglia e Sicilia Due (Catania), ma a Milano conquisterà comunque visibilità come candidato sindaco. Qui la situazione è in movimento. Il disfacimento della sinistra dà a Tonino qualche speranza di arrivare al secondo turno delle comunali, superando i candidati dell’Ulivo (Sandro Antoniazzi) e dei Verdi (Milly Moratti). 

Anche perché questi ultimi si sono dispersi in altri due tronconi: i rossoverdi del consigliere comunale Basilio Rizzo che restano nell’Ulivo, mentre gli animalisti dell’ex deputato Stefano Apuzzo e di Carlo Ripa di Meana guardano a Di Pietro. Il quale presenterà a sua volta, come probabili capilista, l’ex verde Adriano Ciccioni e l’ex Società Civile Armando Sandretti.
 
Se il sindaco Gabriele Albertini non riuscisse a raggiungere il 50 per cento al primo turno e fosse quindi costretto al ballottaggio, sarebbe proprio Di Pietro - molto più di Antoniazzi, troppo targato a sinistra - l’unico candidato in grado di impensierirlo, pescando fra i voti di destra. 

È questo il machiavellico ragionamento che si sta facendo strada in alcuni settori dell’Ulivo milanese, e che rendono rosee le prospettive dei fan di Tonino a Milano. 

Fra l’altro, si stanno riavvicinando all’ex pm anche i suoi ex colleghi del Pool di Mani Pulite Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, che parteciperanno il prossimo sabato a un convegno dipietrista a Milano con l’ex pretore e sindaco di Genova Adriano Sansa e il direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais. 

Quest’ultimo ha litigato con Di Pietro, ma il suo dissidio si limita alla presentazione solitaria nel maggioritario della Camera, che a suo avviso danneggerà la sinistra in molti collegi di frontiera. Viceversa, parecchi nell’Ulivo sono convinti che Tonino pescherà più a destra, e che quindi non valga la pena proporgli accordi di desistenza dell’ultima ora.

L’Italia dei Valori, in ogni caso, sta riuscendo nella non facile impresa di presentare candidati in tutti i collegi uninominali di Camera e Senato. La raccolta di firme autenticate (quasi mezzo milione) è a buon punto, contrariamente a quella dei radicali (che hanno finora coperto solo un terzo dei collegi) e a Sergio D’Antoni, che le sottoscrizioni non ha neppure cominciato a raccoglierle.

Di Pietro si assicurerà così spazi tv uguali a quelli di Polo e Ulivo, che spettano a qualsiasi coalizione presenti candidati in più della metà dei 475 collegi. 

Per ottenere un’adeguata copertura televisiva e per protestare contro le liste-civetta il senatore del Mugello si è fatto ricevere il 2 marzo dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, e pochi giorni dopo ha incassato una delibera della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai che invita la tv di Stato a una maggiore attenzione nei confronti di radicali e dipietristi.

Nelle ultime settimane l’ex pm, che è anche un ex commissario di polizia, è stato quasi adottato da Bruno Vespa, che l’ha invitato più volte nel suo «Porta a Porta» in qualità di esperto per il caso Vacca Agusta. 

Viceversa, è stata sospesa la rubrica che Di Pietro teneva su Oggi, il settimanale familiare Rizzoli che gli garantiva un contatto diretto con quattro milioni di lettori appartenenti esattamente al suo target popolare. 

Ma Tonino in campagna elettorale continuerà a insistere sui suoi cavalli di battaglia: legalità, pulizia, sicurezza, e difesa dei consumatori contro i soprusi di banche (su mutui e interessi), telefoni e assicurazioni.
Mauro Suttora

Saturday, March 24, 2001

«Busoni, culatoni», disse Prosperini

GAYPRIDE A MILANO: SINDACO ALBERTINI IMBARAZZATO

di Mauro Suttora
Il Foglio, marzo 2001

«I busoni stiano al loro posto, al massimo diamogli dei paracarri per divertirsi. Meno male che il sindaco Albertini ha avuto un’impennata di orgoglio maschio: nessun patrocinio del Comune per il gay Pride a Milano, e se proprio vogliono sfilare in corteo mandiamoli in una miniera abbandonata, o in una contrada deserta... Le sfilate dei culatoni sono una roba schifosa, quelli tirano fuori l’uccello e se lo piantano nel didietro di fronte a tutti... Certe cose le facciano nelle loro alcove, con la vaselina e al buio, senza pretendere di venire a mimare amplessi nel centro della città, dove passano donne e bambini!»

Basta pronunciare la parola «gay» e il vicepresidente del consiglio regionale lombardo, Piergianni Prosperini (An, ex Lega), esplode in una serie incontenibile di insulti. Scusi, ma lei non fa parte della Casa delle libertà? «Certo, ma non Casa dell’indecenza. Quelli di Forza Italia fanno tanto i liberali, i libertari, i libertoidi, e poi finiscono con queste pulsioni busonesche. La verità è che noi siamo un partito virile, loro no...» 

Guardi che neanche Ignazio La Russa, dirigente milanese del suo partito, è d’accordo con lei. «Peggio per lui, io sono un lombardo-veneto mentre La Russa è un siciliano, un borbonico. A me non va che si permetta di offendere la religione per strada. Che provino a farle nei Paesi musulmani, le loro sfilate. A Roma si sono travestiti da Madonna, che si travestano da Maometto. Gli omosessuali devono vivere la loro diversità in dignitoso silenzio, senza sbattercela di fronte. Sono scandalosi loro, non io. Io sono in sintonia col cardinale Biffi. Un po’ meno col cardinale Martini...»

Così parla Prosperini all’indomani di un ambiguo comunicato del sindaco Gabriele Albertini, che inizia con un «Appoggio le richieste degli omosessuali», ma non condivide «la loro scelta di organizzare un corteo». Perché? «È una manifestazione che, oltre a poter creare disagio agli altri cittadini, ha una carica di ostentazione e di sfida che ritengo inutile se non addirittura controproducente».

«Così adesso Albertini pretende anche di farci la lezione, spiegandoci cos’è meglio per noi», commenta Roberto Schena, direttore della rivista gay Guide Magazine. Che con le altre riviste (Babilonia e Pride) e l’Arcigay ha scelto Milano per la sfilata annuale di giugno. Risultato: un replay delle polemiche dell’anno scorso. 

«Noi c'eravamo opposti ferocemente al Gay Pride del 2000», spiega La Russa (An), «per due motivi: la cristianità della città di Roma, e la coincidenza col Giubileo. Poiché ora questi due ostacoli vengono meno, si faccia pure il gay Pride a Milano, anche se mi stupisco della necessità che qualcuno avverte di mostrare orgoglio per il proprio essere gay. Io ho tanti amici omosessuali che non lo nascondono, ma non hanno bisogno di esibirlo, né tantomeno di andarne orgogliosi».

Così, eccoci arrivati all’appuntamento annuale con le nostre intolleranze. Gli omosex hanno trovato questo bel termometro, il gay Pride, e lo utilizzano per misurare il grado delle libertà che siamo disposti a conceder loro. 

«Le marce dell’orgoglio gay sono una risposta a secoli di vergogna», spiega Sergio Lo Giudice, dal 1998 presidente dei 90 mila iscritti all’Arcigay «Quando abbiamo sfilato a Napoli, Venezia o Bologna, i sindaci Bassolino, Cacciari e Vitali sono sempre scesi in piazza assieme a noi, e hanno parlato dal palco. A New York perfino il ‘duro’ della destra Rudolph Giuliani ha marciato in prima fila nei nostri cortei».

Non farà così Albertini, al quale i gay avevano chiesto di «partecipare non passivamente ma attivamente, con la sua fascia tricolore», al corteo del 23 giugno. Invito respinto, e imbarazzo anche da parte del vicesindaco di Milano Riccardo De Corato (An), che declina ogni commento. 

«Un sindaco non ha certo l’obbligo di aderire a qualunque manifestazione»: così La Russa difende Albertini. «Tutti fanno finta di dimenticare che il sindaco di Milano ha anche centomila omosessuali fra i suoi cittadini».

Così adesso lo spartiacque dell’intolleranza si sposta sul percorso del corteo: gay Pride in piazza Duomo? «Perché no», concede La Russa, «magari non proprio sul sagrato. Ma se la piazza è vietata a tutti tranne che in campagna elettorale, non bisogna discriminare per i gay neanche in senso a loro favorevole». 

L’anno scorso, a Roma, la giunta Rutelli di sinistra se la cavò confinando gli omosessuali fuori dal centro storico. «I cattolici di entrambi gli schieramenti riescono a esercitare un’egemonia culturale di tipo quasi gramsciano sulla questione», constata mesto Sergio Scalpelli, ex assessore di Albertini, «anche se tutti sanno che ormai sono largamente minoritari nel Paese».

«Ma la vera partita», rivela Marco Volante, vicepresidente di Gaylib, organizzazione degli omosessuali liberali, «si gioca all’interno di Forza Italia, di gran lunga il primo partito a Milano e in Lombardia. In Comune si fronteggiano i laici guidati da Fabrizio De Pasquale e l’ala oscurantista di Massimo De Carolis e dell’ex maoista Aldo Brandirali». 

Quanto ad An, fra i suoi iscritti c’è il bolzanino Enrico Oliari, presidente di Gaylib. Fra i Ds, invece, fatica a trovare un collegio sicuro Franco Grillini, fondatore di Arcigay. Mentre Rifondazione candida Titti De Simone di Arcilesbica e garantisce la rielezione a Nichi Vendola. 

Tutto questo nel trentennale dell’esordio pubblico omosex in Italia: era l’aprile ‘71, infatti, quando il radicale torinese Angelo Pezzana protestò per un articolo de «La Stampa», e fondò il Fuori.
Mauro Suttora

Friday, March 23, 2001

Rutelli rifiuta i radicali

CAMPAGNA ELETTORALE DEI RADICALI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 23 marzo 2001

Centinaia di volontari radicali sono scesi sui marciapiedi di tutta Italia con i loro banchetti: stanno raccogliendo le firme per partecipare elle elezioni. E’ uno sforzo notevole per un partito totalmente d’opinione, privo di funzionari e clienti locali, nonché di consiglieri comunali che autentichino le sottoscrizioni.

A Fiumicino, nel collegio dove si candida Marco Pannella (presente nel proporzionale della Camera anche in tutta la provincia di Roma, in Emilia e in Toscana), i "tavolinari” della lista Bonino hanno sorpreso alcuni dipietristi che facevano firmare senza autenticatore.

Questo delle firme false è uno scandalo sollevato l’anno scorso dai radicali, e che sta dando i primi frutti: elezioni annullate in Molise, inchieste aperte a Napoli, il vicepresidente della Provincia di Milano Dario Vermi (An) rinviato a giudizio per falso in atto pubblico e violazione delle leggi elettorali. Per Pannella, è la conferma dello “stato di illegalità” in cui versa il Paese, da lui denunciato un mese fa nell’appello a Carlo Azeglio Ciampi (“Presidente, ti uccido”).

Le accuse pannelliane riguardano soprattutto l’informazione tv: “Gli accadimenti di questi giorni alla Rai confermano che è questo il problema centrale della politica italiana”, spiega il dirigente radicale Angiolo Bandinelli, il quale sta preparando per il Comune di Roma una lista “civica, laica e antiproibizionista” simile a quelle promosse a Torino (con il verde Silvio Viale candidato sindaco) e ad Ancona.

L’Autorità garante delle comunicazioni ha dato ragione ai radicali, invitando la Rai a dare più spazio alla lista Bonino, vittima di uno “squilibrio editoriale”. “Ma l’azzeramento nei nostri confronti è continuato pure nei primi 70 giorni del 2001“, avverte Daniele Capezzone, “anche se il presidente Rai Roberto Zaccaria tenta di nascondere i dati sui radicali accorpandoci a Di Pietro, D’Antoni e Bertinotti, la cui presenza viene invece fatta esplodere”.

Pannella è convinto che sull’onda di qualche bel dibattito tv i radicali supererebbero agevolmente la barriera del 4 per cento. Altrimenti, l’unica eletta rischia di essere Emma Bonino, candidata al Senato in Lombardia (dove basta il 3 per cento ottenuto dalla sua Lista alle regionali).

Intanto, i radicali raccolgono adesioni prestigiose alla candidatura di Luca Coscioni (capolista in Umbria, Lazio ed Emilia davanti a Pannella), malato di sclerosi e simbolo della lotta per “la libertà della scienza”: per lui hanno firmato dodici premi Nobel e cento personalità del mondo accademico e scientifico internazionale (fra cui Ilya Prigogine, Noam Chomsky, l’ex rettore dell’università di Roma Giorgio Tecce e il matematico Alessandro Figà-Talamanca).

Un altro appello è rivolto al candidato premier dell'Ulivo Francesco Rutelli da Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Michele Salvati e Gianfranco Spadaccia, affinché “apra” ai radicali. Domenica scorsa il vertice dell’Ulivo sembrava avere accolto questo tentativo di dialogo in extremis (concretizzabile in qualche desistenza), ma poi Rutelli ha per l’ennesima volta snobbato i suoi ex compagni.

“I radicali sono alternativi a entrambi i poli, ma l’andata a casa del centrosinistra dovrebbe comunque essere una priorità per loro”, avverte l’intellettuale d’area Iuri Maria Prado, editorialista di Libero. Continua, infatti, la polemica liberista e antisindacale dell’eurodeputato boniniano Benedetto Della Vedova: l’ultima sua denuncia riguarda sei miliardi di fondi per la formazione Ue usati invece per un congresso di 120 dirigenti Cisl in una hotel a 4 stelle a Nizza.

Intanto la Bonino gira come una trottola: prima è andata in Africa per sollecitare adesioni al Tribunale Onu sui crimini di guerra; poi ha organizzato a Roma un convegno contro le infibulazioni delle donne africane; ha presentato a Milano un libro di Sergio Romano; è corsa a Napoli al Global Forum e a Torino per presentare le liste; ha partecipato ad Amman a un summit dell’International Crisis Group; ha condannato gli attacchi albanesi in Macedonia (“con la stessa fermezza con cui ho difeso gli albanesi kosovari dai serbi”); si è complimentata con Mary Robinson, che lascerà l’Alto commissariato Onu sui diritti umani in settembre (la Bonino è candidata a quel posto).

Emma ha incassato infine i complimenti dell’(autorevole) editorialista de “La Stampa” Barbara Spinelli: “Bonino e Rutelli sono personaggi di grande statura, usciti dalla scuola di alta politica, antisettarismo, rigore, laicità, senso di responsabilità individuale e interesse vero per il mondo circostante e per i diritti umani violati, che è la scuola di Pannella”.

Eppure le manca ancora il 'tocco magico' che aveva mostrato alle elezioni europee del 1999. I piu' malevoli commentatori, che affollano le file degli ex radicali, dicono che il successo della Bonino avvenne malgrado Pannella. E ora il vecchio leader è tornato in campo finendo per soffocarla. Ma gli 'amori gelosi di Marco' sono una leggenda che si ripete, si ripete, si ripete...
Mauro Suttora

Tuesday, February 13, 2001

La censura si abbatte sui radicali

PANNELLA: "CIAMPI, ORA TI UCCIDO"

di Mauro Suttora

Il Foglio, 13 febbraio 2001

I dati sono impressionanti. Perfino un antipatizzante radicale di antica data, il consigliere d’amministrazione Rai Alberto Contri, lo ammette: «Li confronteremo con quelli dell’Osservatorio di Pavia, e se verranno confermati prenderemo provvedimenti». 

Negli ultimi cinque mesi, dal primo settembre al 20 gennaio, i radicali sono scomparsi dalla tv. Se si eccettua il due per cento di «Porta a Porta» (40 minuti su un totale di 26 ore di interviste politiche), in tutti gli altri programmi Rai e Mediaset (da Santoro a Costanzo, da Biagi a Primo piano) la percentuale è zero. E l’ospitata di Emma Bonino per Mucca pazza a «Raggio verde», a fine gennaio non cambia di molto le cose.

Il problema è che i radicali vengono censurati da trent’anni. E da trent’anni, invece di subire o protestare urbanamente, Marco Pannella reagisce con veemenza, utilizzando aggettivi pantagruelici e toni tremendissimi. L’ultima volta l’altro ieri: «Ciampi, ora ti uccido», ha sintetizzato in prima pagina Vittorio Feltri sul suo «Libero». 

Ragionamento paradossale ma logico, quello pannelliano: se davvero in Italia c’è un regime che impedisce ai cittadini di «conoscere per deliberare», distorcendo l’informazione che è il pane della democrazia, allora scatta il diritto (e forse perfino il dovere) alla ribellione. «Da gandhiano so bene che uno sparo non salverà il mondo», ammette il leader radicale, precisando però che la sua scelta nonviolenta è a questo punto solo di opportunità, non di principio.

Ragionamenti fragorosi, forse inutili, in questo Paese narcotizzato dai soldi e solo lievemente infastidito dalla rinuncia alla bistecca con l’osso. Ma sufficienti a far scattare la trappola dentro la quale, da un terzo di secolo, Pannella  viene abitualmente inghiottito ogni volta che si permette di denunciare la censura. 

Anche ieri l’imbecille il quale, occupandosi del dito invece che del problema, ha trasformato la vittima in esibizionista da dileggiare, è stata la «Repubblica» del suo nemico eterno Eugenio Scalfari (ex radicale con il veleno degli ex), tramite un corsivo in cui è stato compilato l’elenco dei «penultimatum» e delle invettive pannelliane, dai primi scioperi della fame (1968 per la Cecoslovacchia, 1969 per il divorzio, 1972 per l’obiezione di coscienza) a oggi.

Anche l’ultimo dei 17 digiuni del leader radicale (autunno ‘97) fu causato dal medesimo problema di oggi: lo zero quasi assoluto riservato dai media alle iniziative radicali. E anche allora «si aprì il dibattito»: ma sugli eccessi del «mouse that roars» (il «topolino che ruggisce», come l’Economist ha soprannominato l’indomito Marco), e non su quelli del silenzio tv. 

In questi quattro anni, poi, sono successe due cose: il settantenne Pannella si è beccato due ischemie, quattro by-pass e un’infezione iatrogena che hanno quasi «risolto» il problema; la sua fedelissima Emma Bonino ha preso l’8 per cento alle europee (con punte del 20 per cento in Lombardia e Veneto), dimostrando che i radicali possono essere popolari, e quindi pericolosi.

Così, l’Ulivo ha subito vietato gli spot grazie ai quali la lista Bonino era diventata il terzo partito al Nord. E la saracinesca dell’indifferenza si è richiusa sui pannelliani. L’ultimo episodio sabato scorso: nelle stesse ore in cui Pannella vergava la sua invettiva-appello a Ciampi, la Bonino teneva una conferenza stampa su una certa pillola che permette di abortire senza il trauma dell’intervento chirurgico, assieme a una professoressa francese invitata apposta in Italia in quanto massima esperta mondiale del problema. Che è sicuramente controverso, sia perché l’Italia è uno dei soli tre Paesi europei in cui i cattolici impediscono l’uso della suddetta pillola, sia perché in questi giorni il dibattito sulla «libertà della scienza» è rovente.

Ebbene: neanche una riga, neanche dieci secondi di tg. Stesso esito per un interessantissimo convegno radicale all’università di Roma giovedì scorso, zeppo di dati sui «costi del proibizionismo». Niente. E che il capolista radicale alle prossime elezioni si chiami Luca Coscioni, un malato di sclerosi curabile con le cellule staminali ma condannato a morte (lui sì, sul serio) dal no verde-vaticano alla clonazione terapeutica, finora lo ha scritto solo il Foglio.

Pazienza. Tanto, l’Italia democratica un’opposizione ce l’ha già: Fausto Bertinotti. Lui sì che può parlare in tv, come dimostrano i dati radicali: «Perché piace alla regina: sa stare a tavola, parla di tutto, fa manicure e pedicure...», sibila Pannella. Anche geloso, oltreché cialtrone?
Mauro Suttora

Wednesday, February 07, 2001

I coloni israeliani a Gaza

I COLONI ISRAELIANI A GAZA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 febbraio 2001

Gaza. Se non stesse lì, ma appena cinque chilometri più a Est, o quindici a Nord, sarebbe un posto bellissimo: una location ideale per un qualsiasi club Mediterranée o Valtur. Invece, è l’inferno dentro all’inferno. Nezarim, infatti, è uno dei 140 insediamenti ebraici in territorio palestinese, e sopravvive soltanto perché è sorvegliato giorno e notte da blindati e carri armati dell’esercito d’Israele.

Morire per Nezarim? È quello che si chiedono gli israeliani dopo il voto. Nezarim è una «goccia» di tre chilometri quadri in riva al Mediterraneo, ficcata proprio in mezzo alla striscia di Gaza. Fino al 1984 era una base militare. Poi, dopo la restituzione del Sinai all’Egitto, ci arrivarono i coloni religiosi sfrattati dai kibbutz che avevano impiantato nella penisola desertica. Oggi sono in 170: lavorano come insegnanti, fanno gli agricoltori, hanno una cava di ghiaia. Coltivano mango, vite, patate dolci e pomodori. Ma vivono assediati dal nemico. 

Ai professori e agli altri pendolari che lavorano in Israele tocca infatti passare ogni giorno per sei chilometri di strada in territorio palestinese, che da quattro mesi sono diventati un incubo. Devono attraversare l’unica superstrada che collega la striscia di Gaza da Nord a Sud, e lì stazionano le autoblindo israeliane. Ma ad ogni metro potrebbe partire l’attacco improvviso, con le pietre e i proiettili.

Per rendere sicure le strade che conducono gli insediamenti, a Gaza come in Cisgiordania, i soldati non hanno esitato a far tabula rasa: hanno abbattuto tutti gli alberi e le case circostanti, dalle quali potrebbero partire gli agguati. Risultato: gli israeliani, un tempo famosi per piantare alberi (la forestazione era diventata quasi una religione civile), ora li sradicano. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, sono ben 400 gli ettari di campi coltivati con alberi da frutta rasati a zero accanto alle strade, da quando è scoppiata la seconda intifada.

L’ultimo piano di pace Clinton, abortito in gennaio, prevedeva il ritiro da tutti gli insediamenti ebraici a Gaza. In Cisgiordania, invece, gli israeliani speravano di poterne salvare parecchi. Ma adesso, con la vittoria di Ariel Sharon, i 200 mila coloni si sentono al sicuro. La destra, infatti, è disposta a tutto per difendere gli insediamenti. Anche quelli situati nelle posizioni meno difendibili, come Nezarim. 

Ma, paradossalmente, ora è proprio l’esercito ad avanzare le perplessità più solide contro l’abbarbicarsi a oltranza nelle enclaves in territorio palestinese. La domanda, assai concreta, è: «Quanto ci costa, in termini di soldi e di vite umane, assecondare l’orgoglio messianico e spesso fanatico dei coloni?»

In realtà, la situazione degli insediamenti in Palestina è assai diversificata fra loro. A Gaza, per esempio, ce ne sono di tre tipi. All’estremo nord i tre villaggi di Dugit, Alei Sinai e Nissanit sono in continuità territoriale con Israele. I coloni, quasi mille, hanno a disposizione una dozzina di chilometri quadri con tanto di stabilimento balneare (la spiaggia di Shikma, tranquilla e affollata di ombrelloni fino all’estate scorsa), un porticciolo per le barche da pesca, un allevamento di ostriche. 

Si raggiunge facilmente la città israeliana di Ashkelon, i pendolari vanno e vengono liberamente. Non sarà difficile praticare uno scambio territoriale: questi dodici chilometri quadri a Israele in cambio di una superficie analoga ai palestinesi, magari per farci scorrere quella famosa strada-corridoio fra Gaza e la Cisgiordania che gli uomini di Yasser Arafat reclamano dal ‘93.

Ci sono poi i quasi trenta chilometri quadri di Gush Katif, all’estremo Sud della striscia di Gaza, proprio al confine con l’Egitto. Qui vivono seimila coloni suddivisi in una dozzina di paesi, due stazioni balneari, un villaggio turistico, una pista d’aeroporto, decine di ettari di serre che esportano primizie in Israele, a Cipro e (clandestinamente) perfino nelle capitali arabe. 

L’insalata di Gush Katif è famosa in tutta Israele perché è garantita l’assenza di vermi, grazie a sapienti incroci genetici. I fiori vengono spediti in tutta Europa, soprattutto in Olanda. Un allevamento modello in mezzo alle dune del deserto ricava tonnellate di latte da un centinaio di mucche, anche queste trasportate ogni mattina a Tel Aviv in autobotte (e di nascosto anche al Cairo). Nel capoluogo, Neve Dekalim, ci sono asili, scuole elementari e medie, licei, due sinagoghe (una sefardita, l’altra aschenazita), officine industriali.
 
I coloni di Gush Katif, che dal 1970 a oggi hanno trasformato il deserto in una specie di Beverly Hills con palme, prati all’inglese e villette in stile Lego, hanno subìto duri colpi dall’intifada-bis, con tanto di attentati agli autobus, bombe, agguati e vendette. Da ottobre i pendolari palestinesi sono stati licenziati, e per sostituire la manodopera arrivano in turni da una settimana studenti da altri insediamenti in zone più tranquille. 

È il caso delle sedicenni Netta Dahari, che viene da Hadera (vicino a Netanya), Avital Moscovich e Leah Meller, provenienti da Ramat Golan: «Ci ospitano nei cottage del villaggio turistico che d’inverno è chiuso, ma per andare a lavorare nelle serre dobbiamo usare gli autoblindo dell’esercito».

A poche decine di metri, dall’altra parte di un muro di cemento, ci sono infatti i campi profughi palestinesi di Khan Yunis e Rafah. Da lì arrivano periodicamente sassi e pallottole, e sarebbe perfino strano che ciò non accadesse. È troppo stridente, infatti, la differenza fra il tenore di vita californiano di questi insediamenti e la povertà da terzo mondo dei palestinesi che li circondano. Ma almeno l’insediamento di Gush Katif possiede una stazza territoriale tale che per i soldati è relativamente semplice difenderlo.

Diverso e disperato è invece il futuro per il terzo tipo di colonie ebraiche che punteggiano il martoriato territorio palestinese di Gaza: le «gocce» come Nezarim, appunto, e altri isolatissimi microinsediamenti come Kefar Darom (200 membri) e Morag (100). Questi sembrano veramente «un insulto al buon senso e alla giustizia», come ha scritto il corrispondente del Corriere della Sera da Gerusalemme, Guido Olimpio, due settimane fa. 

Per arrivare a Kefar Darom, per esempio, i soldati israeliani hanno dovuto subire l’umiliazione di dividere in due con un muro di cemento vari chilometri dell’unica autostrada di Gaza: una carreggiata agli israeliani, l’altra ai palestinesi. È un apartheid insensato e onerosissimo: perfino Arafat, ogni volta che deve prendere l’aereo, è costretto a passare attraverso queste forche caudine per raggiungere il suo aeroporto. Per di più, gli israeliani bloccano la circolazione civile durante giorni interi come rappresaglia dopo ogni attacco palestinese. 

Quindi la striscia di Gaza, lunga neanche 50 chilometri, risulta divisa ulteriormente in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro: lavoratori impediti dal tornare a casa la sera e costretti a dormire da amici, ambulanze bloccate, perfino i convogli dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu non possono circolare. Sarebbe come se venisse bloccato tutto il traffico fra Milano e Monza, o fra Roma e Fiumicino.

I coloni, tuttavia, sono riusciti in questi ultimi mesi a togliersi di dosso la nomea di provocatori, perlomeno agli occhi di fette consistenti dell’opinione pubblica israeliana. Il punto di svolta è stata l’imponente manifestazione dell’8 gennaio a Gerusalemme, organizzata dall’ex dissidente russo Nathan Sharanski (anni di gulag comunista sulle spalle). 

Con i loro canti e balli e la loro solidarietà tranquilla e gioiosa, i coloni accorsi in massa hanno incantato perfino alcune fasce della sinistra, che vedono in loro gli eredi dello spirito socialista e pionieristico dei kibbutz. Così oggi, nella nuova Israele di Sharon, i coloni hanno smesso di essere un problema da risolvere, e qualcuno li considera una bandiera da sventolare.

Gli insediamenti nel deserto di Samaria e Giudea hanno almeno una giustificazione storica, perché coprono a pois il territorio di quello che tremila anni fa era il regno di Davide. Ma le mini-enclaves ebraiche dentro a Gaza saranno difficili da difendere perfino per Sharon, che quando era ministro della Difesa e poi dei Lavori pubblici ne favorì la costruzione. In ogni caso, dalle poche centinaia di metri di Nezarim, oltre che da quelle del monte del Tempio a Gerusalemme, dipende la pace in Medio Oriente.
Mauro Suttora