Thursday, August 13, 2020

Israele-Emirati, pace storica


DA 26 ANNI SI ASPETTAVA UNA GIORNATA COSÌ. CON L'ACCORDO VINCONO TRUMP, NETANYAHU E GLI ARABI SUNNITI. 
A PERDERE SONO GLI AYATOLLAH IRANIANI E I LORO PROTETTI DI HAMAS.
TEMPI DURI PER GLI SCIITI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 13 agosto 2020

Oggi è una bellissima giornata per la pace in Medio Oriente. La aspettavamo da 26 anni, da quel 1994 quando re Hussein di Giordania fu il secondo capo arabo a riconoscere l'esistenza di Israele. Il primo era stato il presidente egiziano Anwar Sadat nel 1979, dopo gli accordi di Camp David con il premier israeliano Menachem Begin: guadagnò il premio Nobel per la pace, ma due anni dopo fu ammazzato dagli estremisti islamici.

Per capire quanto rischino i leader arabi che fanno la pace con Israele, basta un particolare: ai funerali di Sadat non partecipò nessuno di loro, tranne il sudanese Nimeiri.

Ora sono gli emiri Zayed di Abu Dhabi e Maktoum di Dubai a tendere una mano a Israele. Stabiliscono relazioni diplomatiche e annunciano accordi in campo scientifico, turistico ed economico, in cambio del congelamento "per ora" dell'annunciata annessione israeliana di larghe parti della Cisgiordania.

Il progetto 'Vision for peace', illustrato otto mesi fa dal presidente Usa Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu senza il coinvolgimento dei palestinesi, prevedeva infatti una Palestina privata della valle del Giordano, con tutti gli insediamenti dei coloni ebraici confermati e la capitale palestinese situata non a Gerusalemme Est, ma in una periferia della città.

Piano rifiutato non solo da Hamas, ma anche dal presidente palestinese Mahmud Abbas e dall'intero mondo musulmano. Ora gli Emirati Arabi Uniti possono sventolare il ritiro provvisorio del piano come una vittoria.

I principali sventolatori però sono Trump e il suo genero ebreo Jared Kushner, marito di Ivanka, che hanno annunciato al mondo lo storico accordo Israele-Emirati di cui sono mallevadori.

Non che il ruolo di garante porti una gran fortuna ai presidenti statunitensi: Jimmy Carter non fu rieletto nel 1980 nonostante Camp David, e Bill Clinton non è certo passato alla storia per gli abortiti accordi di Oslo 1993 fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.

Viene invece confermata una costante della storia israeliana: sono i premier "duri" quelli che ottengono accordi con gli ex nemici. Così Begin del Likud con l'Egitto, il falco laburista Rabin più della colomba Shimon Peres con Palestina e Giordania, Ariel Sharon che nel 2005 seppe rinunciare alle costose colonie di Gaza, e oggi Netanyahu con gli Emirati.

Gli unici perdenti di questa storica giornata del 13 agosto 2020 sono gli ayatollah iraniani e i loro protetti di Hamas, che infatti gridano al "tradimento". Sono stati nove giorni tremendi per gli sciiti: prima l'esplosione di Beirut del 4 agosto, che ha provocato la bruciatura in effigie in piazza di Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, da parte dei giovani libanesi; oggi l'accordo di Israele con gli Emirati, seconda potenza economica sunnita dopo l'Arabia Saudita.
Trump riesce così a emarginare l'Iran sciita, appoggiandosi agli arabi sunniti storici alleati degli americani.

Quanto alla Turchia, che nel 1949 fu il primo stato musulmano a riconoscere Israele, è dal 2011 che il neosultano Recep Erdogan ha innestato la marcia indietro con Tel Aviv. Prima ha rotto i rapporti diplomatici quando Israele ammazzò dieci cittadini turchi della cosiddetta Flotta della pace; e due anni fa, dopo un parziale riavvicinamento, ha di nuovo richiamato il proprio ambasciatore per protesta contro lo spostamento di quello Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale israeliana accettata da pochi.
Mauro Suttora

Wednesday, August 12, 2020

Il vaccino di Putin

IL PRESIDENTE RUSSO ANNUNCIA UN VACCINO CONTRO IL COVID E LANCIA LA PROPAGANDA SPUTNIK

di Mauro Suttora

Huffington Post11 agosto 2020

Lo ha tradito lo Sputnik. Quel battezzare il suo presunto vaccino anti covid col nome del satellite che umiliò gli Usa nel 1957 svela la tremenda voglia di rivincita da cui è posseduto Vladimir Putin. Deve arrivare primo, come nella corsa allo spazio che 63 anni fa vide l’Unione Sovietica trionfare con il lancio nello spazio di quella palla di alluminio larga mezzo metro.

Gli americani impazzirono di rabbia, perché i sovietici dimostravano di poter lanciare una loro bomba atomica ovunque nel mondo, surclassando i bombardieri  e missili statunitensi. Ma ci misero solo quattro mesi per spedire anche loro in orbita un satellite. Poi, con Yuri Gagarin primo uomo nello spazio nel 1961, nuovo successo russo. Tuttavia alla fine furono gli Usa a vincere la corsa alla Luna.

Però almeno lo Sputnik era vero. Tutti i radioamatori del mondo poterono verificarne subito l’esistenza, perché emetteva onde radio. Il vaccino annunciato oggi da Putin, invece, rimane un mistero per gli scienziati. Nessuna informazione trapela dai laboratori russi, se non che è finita la fase due e inizia la fase tre, quella delle vaccinazioni su migliaia di cavie umane. Di solito dura un anno, per scoprire effetti indesiderati. Contro il covid tutto accelera, quindi almeno quattro mesi. Macché. Il turbozar, eccitato dal primato mondiale, smentisce i suoi stessi scienziati che raccomandano prudenza, e annuncia: “Abbiamo già registrato il vaccino”.

Non fosse Putin, l’Oms lo denuncerebbe come pirata internazionale. Ma l’organizzazione della sanità di Ginevra è gentile con i regimi autoritari (Russia) e totalitari (Cina) che la finanziano, e poi chissà. Magari il vaccino di Mosca funziona, e tanto meglio per tutti. In fondo, gli eventuali danni collaterali se li procureranno gli sventurati volontari russi che lo testeranno.

“Una delle prime”, annuncia orgoglioso papà Vladimir, “è stata mia figlia. Il primo giorno ha avuto 38 di febbre, poi tutto bene”. Non ha specificato quale delle due figlie. Maria, che viveva tranquilla nei Paesi Bassi col marito olandese, è già stata vittima delle imprese del padre. Nel 2014, dopo che un missile russo abbatté in Ucraina un aereo partito da Amsterdam uccidendone i 300 passeggeri, dovette scappare dalla sua villa assediata dai dimostranti. In ogni caso, auguriamo alla figlia vaccinata di non fare la fine della povera cagnolina Laika, immolata per motivi patriottici nel secondo Sputnik, un mese dopo il primo.

Putin ha un gran bisogno di galvanizzare i propri sudditi, in queste settimane. Il petrolio ai minimi sta distruggendo l’economia russa. Il rublo è svalutato: lo si cambiava a 23 per un euro quando diventò presidente nel 2000, ora ce ne vogliono 85. Il pil di Mosca, inferiore a quello italiano, con la pandemia è crollato del 10%.

Brutte notizie anche sul fronte virus: la Russia è il quarto Paese con più casi al mondo dopo Usa, Brasile e India. I 900mila contagiati aumentano di 5mila ogni giorno, i 15mila morti di cento. Agli oligarchi russi tocca trascorrere il primo mese di agosto confinati a casa, pochi Paesi accettano i loro aerei privati. Le truffe sul doping impediranno la partecipazione della Russia alle olimpiadi 2021 di Tokyo e ai mondiali di calcio 2022. Nella classifica della democrazia di Freedom House Mosca totalizza un imbarazzante 20 su cento (l’Italia 89).

Cionostante, un mese e mezzo fa Putin ha vinto il referendum che gli permette di restare presidente fino al 2036, quando avrà 84 anni. Ci arriverà con il viso di un bambino, grazie alle plastiche facciali. Metà dei russi lo ama, gli altri lo odiano. Ma poiché questi ultimi alle elezioni si astengono per protesta, o i loro candidati vengono espulsi con trucchi vari, vince sempre lui.

Per qualcuno Vladimir è un nuovo Stalin. Per altri, un grande statista. Lo accusano di aver fatto ammazzare la giornalista Anna Politkovskaia e l’ex vicepremier Boris Nemtsov, di avere avvelenato col polonio radioattivo a Londra nel 2006 l’ex collega del Kgb Alexander Litvinenko. Gli addossano misfatti tremendi, come l’aereo in Ucraina o le 550 vittime delle stragi nel teatro di Mosca nel 2002 e della scuola cecena di Beslan due anni dopo. «Tutte invenzioni della Cia», ribatte la maggioranza dei russi.

L’Occidente, comunque, gli è grato per avere sconfitto gli islamisti dell’Isis in Siria. E se questo suo vaccino propagandistico dovesse avere successo, lo ringrazieremo di nuovo.
Mauro Suttora

Sunday, August 09, 2020

Siamo tutti libanizzati

In Libano, dove la folla scende in piazza chiedendo la forca per i responsabili dell'esplosione, non ci sono politici, ma capi fazione. Una deriva che stiamo iniziando a conoscere bene anche in Italia


di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 agosto 2020 

 
In Libano non c’è democrazia. Il che è normale, in Medio Oriente. Però c’è più libertà che in tutti i Paesi vicini, tranne Israele. Solo che è una libertà a coriandoli: ciascuno è libero, basta che sia protetto da una cosca, una setta, una milizia.

I deputati sono divisi per religione: metà ai musulmani e metà ai cristiani. Le percentuali sono fisse, così come le più alte cariche statali: premier sunnita, presidente cristiano, presidente del Parlamento sciita. In realtà è un regalo ai cristiani, che non superano il 35%. Sunniti e sciiti hanno il 30% ciascuno, ai drusi il restante 5%.

Si chiama “libanizzazione”. Così la definisce il dizionario Garzanti: “Condizione di estrema disgregazione della vita politica, nella quale, essendo del tutto assente il potere dello stato, il controllo del paese è affidato allo scontro di fazioni armate”. Etimologia: “Situazione determinatasi in Libano negli anni ’70-’80 del ’900”.

In questo senso ha ragione il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano, che ha confuso il Libano con la Libia (chissà se conosce la Liberia). A Beirut come a Bengasi, e a Tripoli come a Tripoli (ce n’è una in Libia e una in Libano, a parziale discolpa dell’apprendista geografo Manlio), comandano le milizie.

In Libano non esistono politici. Gli ultimi degni di tal nome sono stati fatti saltare in aria, com’è normale a quelle latitudini: nel 1982 Bashir Gemayel, presidente cristiano; nel 1987 Rashid Karame e nel 2005 Rafiq Hariri, entrambi premier sunniti. Pierre Gemayel, nipote di Bashir, è stato mitragliato a morte nel 2006.

Gli altri sono soltanto capi fazione, la cui autorità non va oltre l’ambito del proprio gruppo religioso. Anche perché ormai il Libano è un gerontocomio: il presidente Michel Aoun ha 85 anni, quello del Parlamento Nabih Berri 82. Il premier 60enne Hassan Diab è un virgulto al confronto, ma è in carica soltanto dal gennaio di quest’anno. Ha sostituito Saad Hariri, figlio del miliardario Rafiq (4 miliardi di patrimonio personale), travolto dalle proteste di strada poi bloccate dal virus.

Ora le dimostrazioni di piazza riprendono, con disperata genericità sardino-pentastellata: “Via i politici corrotti e incompetenti!” “Forca per i responsabili dell’esplosione al porto!”

Può darsi che si spengano nel nulla, oppure che provochino un bagno di sangue. O che questa volta abbiano successo, innescando perfino reazioni a catena come nove anni fa le primavere arabe partite dalla Tunisia ed esportate in Libia (giù Gheddafi), Egitto (giù Mubarak) e Siria, dove invece Assad ha resistito al prezzo di quasi mezzo milione di morti e sei milioni di profughi.

Ma attenzione, perché qui comincia un perverso giro dell’oca che rischia di replicare una tragedia storica. Un milione e mezzo di profughi siriani, infatti, sono sfollati in Libano, ripetendo il disastro dell’esodo palestinese. Mezzo secolo fa centinaia di migliaia di palestinesi scapparono a Beirut dalla Giordania dopo la strage del Settembre nero 1970. 
Allora il Libano era lo stato più ricco, sofisticato e cosmopolita del Medio Oriente, e Beirut la sua Monte Carlo. Dubai e Abu Dhabi erano ancora villaggi di poveri pescatori. Ma l’arrivo dell’Olp di Arafat sconvolse il fragile equilibrio del Libano, e provocò la guerra civile più lunga della storia: 15 anni, 150mila morti, diaspora di sei milioni di libanesi (chi se l’è potuto permettere, quindi i benestanti sunniti e cristiani maroniti riparati a Londra e Parigi, in esilio di lusso).

Nel 1990 ha preso il potere il generale cristiano Aoun. Non l’ha più mollato, prima appoggiandosi ai siriani e poi sfruttando la rivalità sunnita/sciita. Intanto i diseredati sciiti delle periferie di Beirut e del Libano meridionale hanno trovato conveniente e naturale appoggiarsi alle milizie di Hezbollah finanziate dall’Iran. Che procura non solo armi, ma anche sussidi per i disoccupati.

Per dare l’idea del problema Libano: su sei milioni di abitanti, due milioni sono profughi. Ricevono gli aiuti Onu, ma sarebbe come se l’Italia ne avesse 20 milioni. Ammassati in una superficie più piccola dell’Abruzzo. 
Eppure il Libano non è l’inferno. È un paradiso. Il cielo è più azzurro che a Napoli, i tramonti più rosa che a Roma. Basta salire da Beirut sui monti retrostanti, e le foreste dei cedri profumano più dei pini di Cortina. Basta andare a cenare nella baia di Jounieh, e le serate mediterranee sono più dolci che in Costa Smeralda o Azzurra. La valle della Beqaa, che porta in un attimo a Damasco, è più verde della campagna toscana.

Fino al 1975 le estreme diversità del Libano formavano un mosaico prezioso. Dopo, bombe e mitra hanno rovinato tutto. Eppure i libanesi continuano a rinascere. Negli anni ’90, dopo la guerra civile, i traffici sono ripresi, i soldi sono tornati, lo splendido lungomare di Beirut è stato ricostruito e la vita è ricominciata. Idem dopo la ritirata degli occupanti siriani, nel 2005. Ultimamente, prima della bancarotta statale che ha fatto crollare la lira (ha perso il 70% da ottobre), il Libano era tornato nonostante tutto a essere un centro finanziario e una meta turistica.

Ma attenti, Beirut non è lontana dall’Italia. Ci stiamo “libanizzando” pure noi. Ciascuno rinchiuso nella propria cerchia di amici, reali o Facebook. Banniamo quelli che ci contraddicono, fingiamo che non esistano. Esattamente come i ricchi cristiani maroniti rinchiusi nelle loro ville di Beirut nord-est ignorano il terzo mondo dei ghetti sciiti e dei campi profughi di Beirut sud-ovest. A Sabra e Chatila nel 1982 i fascisti falangisti cristiani massacrarono i palestinesi nell’indifferenza degli israeliani di Sharon. Oggi in quei vicoli si sono aggiunti gli sfollati poveri siriani.

Il distanziamento sociale del virus ha solo confermato la distanza fra i coriandoli di Beirut: nel golf club vicino all’aeroporto sembra di essere a Beverly Hills, ma dall’altra parte della superstrada Hafez Assad, a 200 metri, c’è la bidonville di Bourj-el-Barajneh, con la bomba sociale di sciiti e profughi. Ogni tanto in Libano le bombe esplodono, apposta o per sbaglio, e fanno 160 morti.
Mauro Suttora

Saturday, August 01, 2020

Che bel regalo per Salvini

CAOS GOVERNO/ Un doppio rimpasto per “arginare” migranti, Regionali e autunno caldo

1 agosto 2020

intervista a Mauro Suttora


La crisi economica e le regionali saranno uno tsunami per il governo, e Conte potrebbe essere tentato, per salvarsi, di giocare d’anticipo. Ma potrebbe non bastare

È un brusco risveglio quello che il dati del Pil impongono al governo: -12,4% rispetto al primo trimestre e -17,3% rispetto allo stesso periodo del 2019.
 “È solo un antipasto della tragedia economica che arriva in autunno” dice al Sussidiario Mauro Suttora, giornalista, già corrispondente Usa per numerose testate italiane ed estere. La crisi economica e le regionali saranno uno tsunami per il governo, e Conte potrebbe essere tentato, per salvarsi, di giocare d’anticipo proponendo a Mattarella un rimpasto. Servirà? Non è detto. A quel punto per scongiurare il voto ci sarebbe solo un’ultima chance: “fare un altro governo con la stessa maggioranza, ma cambiando il premier. Però potrebbe non bastare”. Nel frattempo, con l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, la maggioranza crede di avere ottenuto una vittoria, invece è una sconfitta, secondo Suttora.

Salvini è spacciato?

No, anzi. Gli hanno fatto una pubblicità insperata.

Dovrà comparire in Procura a Palermo. Inizierà la trafila giudiziaria.

Sì, certo. Ma sono convinto che sia doppiamente fortunato. Non solo perché la maggioranza ha riaperto il suo campo di battaglia preferito, ma perché gli sbarchi sono di nuovo un’emergenza. 

Dunque è destinato a guadagnare consensi?

Io credo di sì. C’è una polarizzazione all’americana dell’elettorato. Ai leader di destra e sinistra non interessa convincere quelli che stanno al centro, i moderati, devono soprattutto mobilitare le proprie truppe in modo da convincere gli astenuti del proprio campo ad andare a votare. Chi riesce a convincere anche solo il 5 per cento dei propri elettori potenziali, vince le elezioni.

Non eravamo un sistema a tre poli? Non guardano tutti al centro?

Ormai prevalgono gli estremisti, a destra come a sinistra. Il terzo polo dei grillini è lacerato: Di Battista e l’ex M5s Paragone sono sovranisti e populisti, quindi di destra, mentre Grillo e Fico si aggrappano al Pd.

Quindi secondo te nel caso di Salvini il fattore consenso si imporrà su quello processuale.

Facciamo l’ipotesi peggiore: che sia condannato in primo grado, secondo grado e Cassazione, e gli succeda di essere cacciato dal Senato come fu per Berlusconi. 

In questo caso?

Sarebbe la sua apoteosi. Ci ricorda qualcosa la vicenda di Berlusconi dopo le rivelazioni del giudice di Cassazione?

Sdoganato a tutto campo. È più forte di prima.

Appunto.

L’ex ministro Giovanni Tria ha detto che la decisione era collegiale.

Ma certo, nessuno nel governo obiettò. E comunque sono decisioni politiche in cui i magistrati non devono assolutamente entrare.

È il Parlamento che ha votato l’autorizzazione a procedere.

Infatti. Proprio per questo io l’avrei negata. I senatori avrebbero dovuto difendere l’autonomia della politica rispetto alla magistratura. Ripeto, a Salvini è stata apparecchiata una torta. E poi: viene mandato a processo nel giorno in cui vengono trovati positivi 129 migranti in un centro di accoglienza nel trevigiano? Siamo a posto.

I giornali hanno ritratto un Salvini deluso, quasi si aspettasse di avere da Renzi un aiuto che non è arrivato. 

Può darsi. Anche perché non si capisce che cosa è cambiato dalla Commissione all’Aula in questi mesi. Non c’è alcun fatto nuovo: o Renzi aveva ragione prima (in Commissione Iv votò no al processo, ndr) o ha ragione adesso, non può aver ragione entrambe le volte. 

Come commenti invece la linea di M5s? 

È puro trasformismo. Durante il governo giallo-verde tiravano dalla parte del buonismo, giocando a quelli che moderavano Salvini. Adesso fanno i cattivisti con i buonisti del Pd. Durante il Conte 1 c’era il famigerato “inferno libico”: adesso non c’è più? Sicuramente c’è chi viene dalla Tunisia con zainetto e barboncino.

Sul Mes cosa faranno?

A settembre-ottobre, quando non ci saranno più i soldi per pagare stipendi e pensioni, il Mes verrà votato in due ore e nessuno nei 5 Stelle dirà nulla. Sarà, temo, una situazione come quella delle ultime settimane di Berlusconi nel 2011, prima dell’arrivo di Monti.

I Cinquestelle sono contrari. Come ne usciranno?

Rinviando il dibattito sul Mes a dopo le regionali. Cambieranno idea. Lo stesso Speranza, nemico dei cosiddetti poteri forti e della troika, non vede l’ora di disporre di quei soldi, che obiettivamente ci servono.

Ci servono, ma dovremo restituirli.

Quello è un altro capitolo. Per dirne una: con l’arrivo dell’influenza in autunno dovremo decuplicare i tamponi, ci vorranno operazioni di screening su vasta scala. Come fare per sapere se i 38 gradi di febbre degli italiani sono Covid o normale influenza? Chi farà questi tamponi? Ancora: il Policlinico di Milano attende l’ammodernamento da vent’anni.

Dunque il governo non è pronto?

Non pare. Passa il tempo a discutere di quali banchi comprare per le scuole.

Nella lunga partita a scacchi per le presidenze delle commissioni, Forza Italia ha aiutato il governo. Sembra che al suo interno sia guerra per bande.

Di certo dipende da quello che dice Berlusconi. L’appoggio esterno arriverà al momento del Mes. Lo abbiamo già visto in settimana, con il sì al prolungamento dello stato di emergenza. Le assenze di una trentina di forzisti sono state strategiche.

Il governo è all’altezza dello stato di emergenza o potrebbe venire soverchiato dagli avvenimenti?

Non è all’altezza nemmeno dell’ordinaria amministrazione, basti il fatto che l’Azzolina è ancora al governo. Quella dell’emergenza sarà una parentesi utile per “sburocratizzare” – cioè buttare soldi in banchi scolastici e altro senza gare d’appalto – o per intervenire ancora sulle attività economiche, vedi la chiusura delle fiere.

A proposito di Azzolina. Le voci di un possibile rimpasto non sono morte del tutto. Lo escludi?

Al contrario. Potrebbe essere un modo furbo di Conte per prevenire una crisi vera e quindi un suo esautoramento. Alle regionali del 20 settembre M5s e Pd potrebbero prendere una tale batosta che la situazione sarà insostenibile. Meglio anticipare le mosse.

Intanto il Pil ha fatto segnare la peggior contrazione di sempre: -12,4% nel secondo trimestre.

È solo un antipasto della tragedia economica che arriva in autunno. La gestione dell’economia è stata disastrosa. Se un datore di lavoro con due dipendenti incassa il 30 per cento in meno, non può licenziare fino al 31 dicembre. È sbagliato: bisogna proteggere il lavoratore, non il posto di lavoro.

Come?

Permettendo i licenziamenti, ma  varando contemporaneamente sussidi di disoccupazione seri. In certi Stati degli Usa chi guadagnava 3mila dollari ha un sussidio di disoccupazione di 2.500, non di 1.200. I questo modo si alimentano i consumi e si mantiene attivo il mercato del lavoro. Non si possono legare i dipendenti a posti di lavoro che non ci sono più, come stanno facendo Gualtieri e Conte. 

Dopotutto, per restare in sella il governo Conte 2 e la maggioranza che lo sostiene devono solo raggiungere l’agognato inizio del semestre bianco, 1° agosto 2021. 

Non so se ci arrivano. Sicuramente, per scongiurare il voto la prima mossa è quella di fare un altro governo con la stessa maggioranza, ma cambiando il premier. Però potrebbe non bastare.
Federico Ferraù

Thursday, July 30, 2020

It's all too much, è tutto troppo

Il fastidio per questi politici è di destra o di sinistra?

Mauro Suttora

 Huffington Post, 30 luglio 2020
Ascoltate la voluttà con cui i politici annunciano di voler “cambiare l’Italia”, addirittura di “migliorarla”. Se gli si domanda come, secernono slogan esotici anche per loro incomprensibili come “digitalizzazione”, “green”, “più inclusione”, “meno disparità”, qualcosa per i migranti naturalmente.
E non è questione di destra o sinistra. Gli altri purtroppo desiderano anche loro “cambiare” e “migliorare”: smaniano di pittoresche “paci col fisco”, “no all’Europa dei banchieri”, “flat-tax”.

Non licenzieremmo subito il nostro amministratore di condominio se presentasse all’assemblea annuale, invece di un bilancio in pareggio e possibilmente qualche risparmio sull’anno precedente, un costoso programma di “miglioramento” e “cambiamento” delle parti comuni? (Che non siano spese straordinarie non rinviabili perché la facciata perde i pezzi o l’ascensore si blocca?)
Gli amministratori di condominio sono sempre così tetri, seri, affidabili, prevedibili e noiosi, come i politici svizzeri. Più lo sono, più li votiamo. 
Ci fideremmo di uno di loro con la pochette, o che perdesse tempo a magnificarsi su Facebook? Perché nessuno conosce - neanche gli svizzeri - i nomi dei politici svizzeri?

Negli anni ’90 Pietro Citati scrisse su Repubblica un clamoroso elogio di Forlani e dei democristiani: “Con le loro facce sono tranquillo: non dichiareranno mai guerra. Fanno il meno possibile. E anche quando rubano, rubano poco”. (Citati ha appena compiuto 90 anni: auguri).

Cerco nel passato esempi positivi di politici che abbiano annunciato “cambiamenti” e “miglioramenti”. A beneficio di tutti, intendo: quelli che invece dicevano di stare per i ricchi o per i poveri, ce lo aspettavamo che non avrebbero fatto nulla per i poveri (i primi) o qualcosa contro i ricchi (i secondi: dalla ghigliottina al gulag).

Adesso invece vanno molto i politici liliali e onnicomprensivi, così convinti della propria bontà da promettere “miglioramenti” per tutti, non per una classe o l’altra. A 365 gradi, direbbero i grillini. Si credono Superman, si sentono potenti perché ora hanno in mano 209 miliardi da spendere, anche se nessuno ha ben capito da dove vengono.

Se a ciascuno di noi piovessero dal cielo 209 euro, ma fossimo in rosso per 2.400 euro (come l’Italia, in proporzione), li useremmo per rimborsare parzialmente il debito e alleggerire gli interessi. Difficilmente li spenderemmo, a meno di essere conclamati mascalzoni desiderosi di fregare i creditori, o impuniti cicaloni.

Invece i politici non vedono l’ora di scialacquare. Tutti, non solo questi. Anche gli altri, quando comandavano loro, ce li ricordiamo a “cambiare” e “migliorare”. Perché sono tutti convinti di fare il “bene del Paese”. Di difendere l’interesse di tutti i “cittadini”. Oppure del Popolo con la pi maiuscola (gli uni), magari “contro le élite cosmopolite radical chic” (gli altri).

Mentre Rutte l’olandese ci ha dimostrato che in politica, come nella vita, si combatte e si tratta perché c’è sempre chi vince e chi perde. Chi dà e chi riceve. Chi strappa e chi concede. Si chiama somma zero. Soltanto i cialtroni del marketing possono spacciare fandonie tipo “situazione win win” (vincono tutti) o banalità deprimenti alla Coelho come “trasformare i problemi in opportunità, le crisi in sviluppo”.

Noi piccolo borghesi ci accontenteremmo invece di politici che non “fanno la storia” prendendo decisioni “storiche”. Che non si esaltano perché hanno mercanteggiato quattro giorni e quattro notti a Bruxelles: accade da sempre in ogni parlamento di ogni democrazia, verso la fine convulsa delle sessioni annuali di bilancio.

Vorremmo stati e Unioni europee che invece di “dare di più” ci prendano di meno, che ci aiutino diminuendo i nostri pagamenti al posto di aumentare i loro stanziamenti.
In sintesi: politici che ci diano meno fastidio. Il fastidio è di destra o di sinistra?

Perché adesso, come si lamentavano i Beatles, “It’s all too much”, è tutto troppo. Mi fai versare 600 euro di Iva e il mese dopo me li ridai perché sono una partita Iva. Che spreco di tempo e scartoffie.
Ora subentra l’Europa. Buona, cattiva? Generosa, taccagna?
 
“Sometimes I think this old world
is just one big prison yard:
some of us are prisoners,
the rest of us are guards”.
“A volte penso che questo vecchio mondo
sia solo il cortile di una grande prigione:
alcuni di noi sono prigionieri,
il resto guardie”.
Così Bob Dylan cantava nel 1972.

L’Europa è solo un cortile più grande, rispetto ai nostri staterelli affollati di politici vogliosi di farci da guardia e da balia?
Mauro Suttora

Tuesday, July 28, 2020

Papillon, l'orso geniale

Potremmo considerare M49 un “orso problematico”, per i danni enormi causati in Trentino. Certamente un'intelligenza rara, capace di un'altra clamorosa evasione. Il collare elettronico lo salverà forse dalla tragica fine che fece Daniza sei anni fa

Huffington Post, 27 luglio 2020

di Mauro Suttora


“È una fuga da Alcatraz, praticamente impossibile. Ma uno su mille può riuscirci”. Lo disse un anno fa Daniela D’Amico, coordinatrice del Parco d’Abruzzo, commentando la clamorosa evasione dell’orso bruno M49 dal Centro Casteller di Trento. 

Ora che è scappato di nuovo, doppio clamore: Papillon (come lo chiama ammirato il ministro dell’Ambiente Sergio Costa) si è conquistato il titolo di orso più intelligente del mondo. Ha divelto la rete e si è diretto verso le montagne. Grazie a Dio ha il collare elettronico, quindi la sua fuga non finirà in tragedia come sei anni fa: Daniza, l’orsa mamma di due cuccioli ammazzata con la fucilata che avrebbe dovuto soltanto addormentarla.

Allora ci fu una rivolta popolare: tutti gli animalisti d’Italia accusarono più o meno di assassinio il presidente del Trentino. Ora ce n’è un altro, Maurizio Fugatti (nomen omen), leghista. Anche lui tende a stare più dalla parte di agricoltori e allevatori: gli orsi fanno danni, ormai sono troppi, e se diventano pericolosi si può ucciderli.

La Corte costituzionale gli dà ragione. Ma il Tar no: pochi giorni fa ha accolto il ricorso di Lav, Wwf, Lac e Lipu contro l’ordinanza di abbattimento dell’orsa JJ4 firmata da Fugatti, dopo l’incontro ravvicinato (e filmato) con un padre e figlio sul monte Peller. I giudici invocano il ‘principio di proporzionalità’: bisogna mettere in campo altre soluzioni ‘energiche’ come la cattura e l’addormentamento prima di arrivare all’opzione letale. 

Anche il ministro Costa sta dalla parte dell’orso. Ha definito “spropositata” l’ordinanza di Fugatti contro JJ4, e su M49 è drastico: “Ogni animale dev’essere libero di vivere in base alla sua natura. Papillon ha il radiocollare, quindi è rintracciabile e monitorabile facilmente: non ha mai fatto male a nessuno, solo danni materiali facilmente rimborsabili. Chiediamo che non venga più rinchiuso, e assolutamente non abbattuto”.

Ma quanti sono gli orsi, e quanti danni fanno? Negli anni ’90 ne erano rimasti soltanto tre sulle Alpi italiane. In Abruzzo invece l’orso marsicano è protetto da tempo e conta un’ottantina di esemplari. In tutto il mondo sono 200mila: 120mila in Russia, 32mila in Usa, 25mila in Europa. I Carpazi ne ospitano 5mila, e ben 700 stanno nella piccola Slovenia, confinante con l’Italia e coperta per i due terzi da foreste.

Con il programma Pacobace (Piano d’azione per la conservazione dell’orso bruno sulle Alpi centrali) nel 1999 abbiamo reintrodotto dieci orsi sloveni in Trentino (in Friuli non ce n’è bisogno, sconfinano dalla Slovenia). I plantigradi si sono trovati così bene nel parco dell’Adamello e dintorni che si sono moltiplicati fino agli 80-90 attuali. 
Ed è qui il problema: “Sono troppi, noi possiamo ospitarne una sessantina, il ministro li sposti in altre regioni”, si lamenta Fugatti, allergico a ogni tipo di migranti. “I numeri sono superiori rispetto a quelli che possiamo gestire. Non vogliamo attendere il prossimo trentino aggredito da un orso”.

Vero è che i simpatici bestioni causano parecchi danni in Trentino. L’anno scorso sono stati registrati 228 episodi, fra piccoli animali divorati, arnie di api distrutte, reti divelte e altri attacchi. La provincia di Trento ha rimborsato 152mila euro di danni, più 37mila per quelli causati dai lupi. C’è stato un incremento del 31% sul 2018.

Particolarmente turbolento il nostro M49: dopo la prima fuga ha commesso ben 44 azioni dannose per 45mila euro, quasi un terzo del totale. Seguono assai distanziati altri due orsi, KJ1 e MJ5: 10 e 11 episodi, neanche paragonabili alle incursioni di M49-Papillon.
Nel 2019 la Provincia ha avuto 170 richieste per misure di prevenzione dei danni da grandi carnivori (recinti elettrici e cani da guardia), per proteggere animali e api. Costo:199mila euro.

A voler essere gentili, quindi, M49 va definito “orso problematico”: causa danni economici ad attività produttive, anche se favoriti dalla mancata adozione di strumenti di prevenzione adeguati. Secondo gli animalisti, però, la sua pericolosità per le persone è ancora da dimostrare: è solo “potenziale”, perché non si può escludere che possa diventarlo in futuro. Ma al momento non è tale, quindi non va eliminato.

Dice Fabrizio Bulgarini del Wwf: “Quella dell’orso è una presenza problematica solo in Trentino. Il fatto è che con la loro scomparsa si è persa l’abitudine a comportamenti che facilitavano la convivenza. In Slovenia c’è solo un caso all’anno di aggressione. Servono informazione ed educazione, solo così si possono prevenire incidenti. Non battute di caccia».

Il Wwf ha donato elettrificatori ad allevatori ed apicoltori al confine con la Lombardia, per proteggere apiari ed allevamenti. Sono molti gli sconfinamenti, infatti, e la Valtellina, che è più antropizzata del Trentino, non gradisce gli orsi. Ma nel 2019 pochi esemplari si sono allontanati dal Trentino: M29 e M46 in Svizzera (M29 anche in Piemonte) e M4 in Friuli. Sei orsi hanno gravitato, oltre che in Trentino, anche in province limitrofe: Bolzano, Sondrio e Brescia.

Un dato curioso riguarda M35, maschio di cinque anni di cui si erano perse le tracce nel 2016, quando venne rilevato l’ultimo campione genetico: è stato da poco rintracciato ancora vivo. Nei mesi scorsi c’è stata anche la riabilitazione con rilascio in natura del cucciolo M56, probabilmente scampato a un tentativo di infanticidio da parte di un adulto che voleva accoppiarsi immediatamente con la madre.

Nel 2019 sono state rinvenute le carcasse di due esemplari morti: nel torrente Avisio è stato recuperato un maschio al quale erano stati amputati testa e zampe, mentre a Folgaria è stata rinvenuta una femmina gravida della quale non è stato possibile accertare la causa di morte.
Mauro Suttora

Saturday, July 25, 2020

Cina-Usa, è fredda ma è guerra

Il discorso di Pompeo è storico, non si sentivano parole così dai tempi di Reagan. E le spese militari di Pechino sono quasi raddoppiate in dieci anni


Mauro Suttora

Huffington Post, 24 luglio 2020

Martedì 21 luglio a Roma sono ricomparsi i Falun Gong. Hanno manifestato davanti a Montecitorio contro la Cina, che accusano dal 1999 di far sparire i loro adepti per espiantarne gli organi. Denunce incredibili, quelle della setta spiritual-ginnica cinese. Ma confermate il 1 marzo da una sentenza del China Tribunal di Londra, organismo indipendente presieduto da Geoffrey Nice, già accusatore di Slobodan Milosevic alla Corte internazionale dell’Aia. Non hanno raccolto grande solidarietà dai nostri deputati, i Falun Gong: soltanto quella del forzista Lucio Malan e del leghista Vito Comencini, oltre che dei radicali Giulio Terzi, ex ministro degli Esteri, ed Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino.

Falun Gong è il tipico esempio della fine che fanno anche in occidente i perseguitati di Pechino, che siano uiguri, buddisti tibetani o studenti di Hong Kong: quasi nessuno crede loro, non fanno notizia, qualcuno li considera impostori. Eppure il giudizio del China Tribunal è stato onesto. Ha rigettato, ad esempio, l’accusa di espianto di organi anche sugli uiguri, per mancanza di prove.
 
Le stesse prove ritenute insufficienti anchee per i Falun Gong da Amnesty International. La quale però li difende dalle migliaia di carcerazioni arbitrarie con tortura. L’ultima, quella della professoressa di chimica Chen Yan, colpevole solo di aver distribuito materiale propagandistico in una strada di Pechino.

Il governo cinese ammette soltanto che siano stati espiantati organi dai corpi di condannati a morte giustiziati, ma che l’orrenda pratica sia terminata nel 2015. E dal 2013 ufficialmente sarebbero stati chiusi anche i famigerati laogai, campi di concentramento per la “rieducazione attraverso il lavoro”. 

Peccato che questi sinistri eredi di lager nazisti e gulag stalinisti siano stati riaperti ultimamente per disciplinare i musulmani uiguri dello Xinjiang. Ma ogni volta che una tv libera nel mondo trasmette le prove video e fotografiche della pulizia etnica, con tanto di sterilizzazione forzata per le donne, ecco che il locale ambasciatore cinese (poche sere fa quello a Londra, invitato al contraddittorio dalla Bbc) nega tutto.

È esattamente questa asimmetria informativa fra democrazie e dittature il punto sollevato dal segretario di stato Usa Mike Pompeo giovedì 23 in un discorso che rischia di diventare storico, nella biblioteca californiana di Yorba Linda dedicata a Nixon. Il presidente che quasi mezzo secolo fa aprì alla Cina, nella speranza che la distensione economica avrebbe prodotto anche diritti civili e politici per i cinesi.
“Ma Nixon stesso avvertì che il mondo non poteva essere sicuro finché la Cina non fosse cambiata”, ha detto Pompeo, “e che il nostro obiettivo era provocare questo cambiamento”.

Missione fallita, ammette oggi il capo della diplomazia Usa: “Abbiamo accolto i cittadini cinesi, ma solo per vedere il loro partito comunista sfruttare la nostra società libera e aperta. Hanno mandato propagandisti nelle nostre conferenze stampa, centri di ricerca, licei, università. Il prezzo dell’entrata in Cina per le società occidentali è il silenzio sui loro abusi contro i diritti umani. Perfino Hollywood si autocensura: nessun minimo riferimento sfavorevole alla Cina nei suoi film. Nixon temeva di avere creato un Frankenstein aprendo il mondo al partito comunista cinese. Beh, ci siamo: oggi la Cina è sempre più autoritaria a casa propria, e sempre più aggressiva all’estero”.

Parole di un’amministrazione che fra tredici settimane probabilmente perderà le elezioni presidenziali?
Sicuramente è nell’interesse di Trump drammatizzare e additare un nemico esterno per salvare il salvabile. Ma l’analisi dei democratici di Biden non può divergere troppo, sulla Cina.

Guardiamo i dati concreti. Le spese militari di Pechino sono quasi raddoppiate in dieci anni. Certo, sono a 240 miliardi di euro contro i 650 degli Usa. Ma l’America ha una proiezione internazionale inimmaginabile per la Cina. La quale perfino in un anno di crisi come questo annuncia il 6% in più per gli armamenti, con proclami bellicosi contro Taiwan.

“La Cina si è comprata il direttore dell’Oms”, ha accusato Pompeo incontrando a porte chiuse i deputati conservatori britannici. Sarà anche fredda, ma è sicuramente guerra. Sarà anche solo “posturing”, atteggiamento minaccioso a uso degli elettori di novembre. Ma è dai tempi di Reagan, 40 anni fa contro l’Urss, che non si sentivano parole simili. Le Borse se ne sono accorte.
Mauro Suttora

Tuesday, July 21, 2020

19 anni dopo la mattanza della Diaz

G8 di Genova e mattanza alla Diaz, 19 anni dopo. Giustizia è fatta?
La Cassazione si è espressa, il processo è finito. Ma per ammissione degli stessi pm e delle sentenze, gli autori materiali dei pestaggi non sono stati individuati

Mauro Suttora

21 luglio 2020, Huffington Post


articolo sull'HuffPost

“Roma locuta, causa finita”, scrisse sant’Agostino. La Cassazione si è espressa, il processo è finito. Il 21 luglio 2001, diciannove anni fa, 82 attivisti no global furono picchiati selvaggiamente nella scuola Diaz di Genova, dopo le manifestazioni contro il vertice G8.
Ma per ammissione degli stessi pm e delle sentenze, gli autori materiali dei pestaggi non sono stati individuati. Sono stati processati e condannati 28 fra dirigenti e agenti. Tuttavia sulla colpevolezza di sette capisquadra presenti nell’edificio, condannati per non avere impedito le violenze, restano molti dubbi.

Il giornalista Roberto Schena ha appena pubblicato un libro-inchiesta sul reparto cui appartenevano, il VII Nucleo sperimentale antisommossa del Primo reparto mobile di Roma: “G8. Processo al processo” (Springedizioni).
“Credo sia la prima volta che un intero reparto di polizia sia stato condannato per violenze gratuite”, dice Schena.
Il nucleo, composto da 67 agenti, è stato accusato in blocco di essere stato il maggiore responsabile del pestaggio: 61 attivisti finirono in ospedale, tre in prognosi riservata, il giornalista inglese Mark Covell in coma.

“La mia indagine è approdata a conclusioni opposte alle sentenze: il VII Nucleo non ha commesso errori, i sette sottufficiali condannati non sono responsabili delle violenze”, afferma Schena.
Il nucleo era nato pochi mesi prima, durante il governo Amato, proprio per fronteggiare i black bloc e proteggere l’ordine pubblico sia nelle strade che negli stadi dalle frange più violente di manifestanti politici e tifosi. È stato smantellato, anche se era il più preparato nella gestione dei momenti di tensione. 
“A parte la sfortunata parentesi di Genova”, sostiene Schena, “i suoi uomini hanno fatto scuola per la gestione di situazioni difficili”.

Le sette condanne penali sono piovute come tegole sulle teste dei capisquadra. In realtà il VII Nucleo, nonostante in quei giorni avesse subìto turni massacranti, come ampiamente riconosciuto dalle sentenze, rimase sostanzialmente immune dagli eccessi del G8.
“Il motivo è semplice: era troppo professionale e autosorvegliato per commettere errori”, spiega Schena.

Il reparto che avrebbe dovuto costituire il fiore all’occhiello nella carriera di molti poliziotti si è così trasformato in un incubo per i capisquadra che ne facevano parte e per le loro famiglie. I condannati devono risarcire allo Stato i costi sostenuti nei processi, e ripagare le parti civili con milioni di euro. Somme spaventose per dipendenti statali, che hanno impegnato stipendi, liquidazioni, abitazioni, risparmi.
Le condanne sono state comminate automaticamente solo a chi ha siglato i verbali d’arresto dei 93 ospiti della scuola, quasi tutti manganellati. L’accusa è di avere partecipato o di non avere impedito la “macelleria messicana”, come un funzionario del VII Nucleo definì la mattanza alla Diaz. Il problema è che non è stato verificato il comportamento di tutti gli altri agenti, quelli estranei al VII Nucleo ma entrati anch’essi nella scuola.

A partecipare infatti furono quasi 400 agenti, pochissimi dei quali auditi, per scelta dei pm e del tribunale.  
I sette capisquadra sono stati inseriti fra i 28 imputati di alto grado solo perché hanno firmato le relazioni di servizio. “Hai relazionato? Dunque c’eri. Quindi,  indipendentemente da quanto hai scritto, hai partecipato ai pestaggi senza impedirli”. 
Chi invece, fra tutti gli altri reparti presenti al blitz, non presentò relazioni, non ha corso neanche il rischio di finire sul banco degli imputati. Per le sentenze i 67 agenti del VII Nucleo sarebbero i principali responsabili delle percosse. In realtà, anche secondo il riscontro dei testimoni durante il processo, fu il reparto che si comportò meglio, l’unico che aiutò le decine di fermati presi a manganellate.

“Gli altri 333 agenti estranei al nucleo romano che hanno partecipato al blitz nella scuola, molti dei quali entrati nell’edificio prima del VII Nucleo, come si sono comportati?”, chiede Schena. “Hanno assistito impassibili con le braccia conserte, dormivano?”
Dei 122 manganelli sequestrati, per esempio, 62 sono “tonfa”, bastoni speciali provvisti di manico. Gli altri 60 sono gli sfollagente solitamente impugnati per motivi di ordine pubblico. Dei 62 tonfa sequestrati al VII Nucleo e analizzati, solo due presentavano tracce ematiche. È sufficiente per stabilire che l’intero nucleo è responsabile dei pestaggi?

A 19 anni di distanza resta ancora da capire il vero motivo dell’assalto condotto con 400 agenti raccolti ‘alla garibaldina’, quando sarebbero bastati i 67 del VII nucleo, reparto di uomini scelti, professionalmente preparati, che non si erano mai lasciati andare a violenze contro inermi cittadini, né a menzogne per coprire malefatte. Vestiti e bardati come samurai giapponesi, dotati dell’efficacissimo tonfa, il più delle volte bastava che i violenti li vedessero apparire sugli spalti di uno stadio per essere dissuasi.
“Insomma, a mio avviso una serie di errori commessi dai magistrati e dai vertici dell’ordine pubblico hanno stritolato un reparto scelto e causato vent’anni di ansia e amarezze a sette capisquadra. Il mio libro cerca di far luce su questo”, conclude Schena.
Mauro Suttora

Wednesday, July 15, 2020

Se il tribalismo colpisce anche il NY Times

La responsabile degli op-ed si dimette


Mauro Suttora

15 luglio 2020, Huffington Post


articolo sull'HuffPost

Povero John Kennedy. “Un Paese che ha paura di far scegliere ai propri cittadini il vero e il falso in un mercato libero è un Paese che ha paura dei propri cittadini”, disse nel 1962 per il ventennale di Voice of America, la radio del governo Usa usata contro i nazifascisti e poi contro i comunisti.

Pensavamo tutti che gli Stati Uniti fossero il non plus ultra della libertà, e in particolare della libertà d’informazione. Invece le dimissioni quasi contemporanee di Bari Weiss dal New York Times e di Andrew Sullivan dal New York Magazine ci ricordano che gli statunitensi possono essere anche intolleranti: dalla Lettera scarlatta al proibizionismo, dal Ku Klux Klan al maccartismo.

La 36enne Bari Weiss non era una semplice giornalista del Times, né un’opinionista. Era una editor delle pagine op-ed del principale quotidiano Usa. Il quale ha l’ottima abitudine non solo di separare perfino fisicamente, in pagine e redazioni diverse, le notizie dalle opinioni (pratica per noi esotica), ma anche di distinguere i commenti fra quelli che esprimono la linea ufficiale del giornale (editoriali) e quelli aperti a qualsiasi tendenza (op-ed, appunto: open editorials).

Eugenio Scalfari ricorse alla testatina “Diverso parere” quando quasi 40 anni fa ospitò il liberale Alberto Ronchey su Repubblica, orientata a sinistra. E ogni tanto anche oggi qualche direttore affianca un proprio articolo a un altro che lo contraddice. Ma non è frequente, nell’Italia delle parrocchie contrapposte. Ammettiamolo: non siamo popperiani.

Ammiravamo per questo il giornalismo anglosassone. E invece anche per loro è arrivato il momento del “tribalismo”, come lo definisce la Weiss nella sua brillante lettera di dimissioni, che andrebbe tradotta e proposta a tutti gli opinionisti fai-da-te nei social.

Weiss, ex Wall Street Journal, era stata imbarcata dal sussiegoso Times quattro anni fa per proporre un “diverso parere” ai propri lettori, disorientati dalla vittoria di Trump. Da allora ha scritto e fatto pubblicare opinioni di destra su un giornale di sinistra. Esercizio intellettualmente stimolante (“vediamo cos’hanno da dire questi zoticoni di trumpiani”), ma neurologicamente devastante per lei. Soprattutto dopo le due recenti ondate di ‘correttezza politica’ che hanno sommerso gli Usa. O perlomeno Manhattan, dove si concentrano i lettori del Times e Trump non arriva al 20%.

Il primo tornado è stato nel 2017 il ‘Me too’: la riscossa antimaschilista dopo lo scandalo Weinstein. Anche solo sospettare che qualche attrice potesse avere usato invece che subìto il divano del produttore era impensabile. La lettera S di sessismo stava lì pronta per essere marchiata a fuoco sul grasso pancione del maiale, come Noomi Rapace in ‘Uomini che odiano le donne’.

Da due mesi invece infuria il ‘Black Lives Matter’, la riscossa antirazzista dopo l’omicidio Floyd. E una delle vittime è stato il diretto superiore della Weiss, il capo degli editoriali del NY Times spinto alle dimissioni per aver osato pubblicare l’op-ed di un senatore repubblicano favorevole all’intervento dell’esercito per fronteggiare sommosse violente.

La Weiss è stata a sua volta sommersa di tweet con ogni tipo di insulto e accusa, dall’ormai inflazionato ‘razzista’ al simpatico ‘nazista’, visto che è ebrea.

Stessa storia per Andrew Sullivan, altro storico commentatore controcorrente: vent’anni fa provocò borborigmi nei benpensanti di sinistra Usa perché proprio lui, progressista (e gay, anche se c’entra poco), appoggiò le guerre di Bush junior (come Biden, d’altronde, anche se ora non gli piace ricordarlo).

Sullivan e Weiss probabilmente ora fonderanno un sito dei senzapatria. Impresa voltairiana rischiosissima, perché sia nel giornalismo che in politica, e sia negli Usa che in Italia, vince invece il tribalismo. O di qua o di là, ciascuno nella propria tribù. Felici di sentirsi ripetere le rispettive “narrazioni” (sinonimo di fandonie propagandiste) di destra e sinistra. I politici devono farsi votare ogni quattro anni, i giornali devono farsi comprare o cliccare ogni giorno. Ma il principio è lo stesso: attirare e fidelizzare i già convinti. Così il mercato si estremizza e scompaiono, al centro, neutrali e moderati. Politicamente e commercialmente sciapi, asettici, poco interessanti.

In tv o Fox o Cnn. Nella stampa o Washington Post (di Jeff Bezos, Amazon) e New York Times (di editore puro) a sinistra; oppure New York Post e Wall Street Journal (di Murdoch) a destra.
Tertium non datur. Per certi progressisti ora il tumore alla cervice non è più prerogativa femminile, perché così si discriminano i maschi trans, ex donne. 
E secondo certi conservatori Biden è in combutta con Bill Gates per vaccinare (avvelenare) il mondo intero con la scusa del covid.

A pensarci bene, però, la sinistra Usa ha già vinto. Perché la da loro detestata Bari Weiss non si definisce di destra. Dice che è “di centro”. Quindi perfino per lei “destra” è una parola vergognosa. Non ha neppure il coraggio e l’onestà di confessare la propria tribù. Pretende di essere al di sopra delle parti. Perché in fondo anche lei è una giornalista privilegiata, addirittura pagata per distillare opinioni. Perciò irrimediabilmente radical chic, è la sentenza finale del Napalm 51 americano (di entrambe le tifoserie: contrapposte, ma simmetricamente eguali).
Mauro Suttora

Tuesday, July 07, 2020

"Grazianeddu è in Corsica"

"Grazianeddu è in Corsica”

Nei bar della Gallura non si parla d’altro. Nove su dieci stanno per Graziano Mesina, fuggito giovedì dopo la condanna a 30 anni confermata dalla Cassazione

di Mauro Suttora

5 luglio 2020
Huffington Post

“Grazianeddu è in Corsica”. Nei bar della Gallura non si parla d’altro. Nove su dieci stanno per Graziano Mesina, fuggito giovedì dopo la condanna a 30 anni confermata dalla Cassazione.

“Proprio giovedì è successo un fatto stranissimo nel parco marino francese delle isole Cavallo e Lavezzi, fra la Corsica e la Sardegna. Ben tre pescatori di frodo sardi sono entrati contemporaneamente nelle zone vietate, attirando su di sé l’attenzione di tutte le imbarcazioni della Gendarmerie. Uno si è fatto inseguire fino al porto di Santa Teresa, dove le guardie hanno chiesto ai carabinieri di arrestare il pescatore approdato. Ma ormai era troppo tardi, e quello se n’è andato facendosi beffe di tutti”.

In quello stesso pomeriggio la primula rossa di Orgosolo spariva, non presentandosi alla firma giornaliera delle 19 alla stazione dei carabinieri del suo paese, dove per un anno era stato puntualissimo.
La Cassazione ha sentenziato alle 20, due ore dopo i carabinieri non lo hanno più trovato a casa della sorella. La sua avvocata dice di averlo visto l’ultima volta alle 16.
 L’ipotesi è che Mesina in due ore sia arrivato in auto sulla costa nord della Sardegna, fra Santa Teresa, Porto Pozzo e Palau, e abbia preso un gommone per la Corsica.

Quei tre pescatori avrebbero funzionato da esca vivente per distrarre le guardie di frontiera francesi. Mesina non ha documenti, ma i boschi corsi sono fitti e inaccessibili quanto quelli del Supramonte.
“Ha 78 anni, ne ha passati 45 in carcere, lasciatelo stare”, dicono molti suoi corregionali.

Anche Toni Negri fuggì in Corsica dalla Toscana nel 1983, sulla barca a vela di Emma Bonino.

Mauro Suttora

Friday, July 03, 2020

intervista a Ennio Doris

"Altro che Covid, il problema d'Italia è il fisco". Parla il fondatore di Banca Mediolanum: “Abbiamo le tasse più alte d’Europa. Per molti le imposte sono un mezzo per ridistribuire la ricchezza, ma è un concetto superato, novecentesco. La leva fiscale è fondamentale per favorire gli investimenti"

Mauro Suttora
3 luglio 2020, Huffington Post

“Questo virus ci ha cambiato la vita, non lascerà niente come prima. È una rivoluzione. Dobbiamo immaginare un’organizzazione nuova per le nostre aziende, ma anche per tutta la società. Bisogna cambiare mentalità”. 
Il 3 luglio Ennio Doris compie 80 anni. Quasi 40 anni fa ha fondato quella che oggi è Banca Mediolanum, 4 miliardi di fatturato, mezzo miliardo di utili. Lo incontriamo nella sua casa di Porto Rotondo (Olbia), dove è arrivato pochi giorni fa. I tre mesi di lockdown li ha passati in montagna: si trovava lì coi nipoti in settimana bianca all’inizio dell’epidemia.
 
“Fortunatamente noi eravamo preparati all’emergenza, perché siamo una banca senza sportelli. I nostri principali investimenti sono stati in laptop, visto che l′86% dei nostri 2.400 dipendenti ha lavorato da casa. Nella sede di Basiglio (Milano) sono rimasti in 300”.

Il trionfo dello smart working.
“Non lo chiamerei smart working, è diverso. Si può stare a casa, ma lavorare anche in sede, a seconda del lavoro e dei ruoli. Magari tre giorni a casa e due in ufficio. Quindi basta postazioni fisse e computer da tavolo, non spostabili”.

Ci saranno meno contatti personali.
“Al contrario, in questi tre mesi per noi incontri e riunioni si sono moltiplicati. Abbiamo parlato con 400mila clienti, vedendoci in faccia sugli schermi dei nostri telefonini e computer. Molti hanno scoperto programmi e app per le conversazioni che neanche sapevano di avere, sui propri cellulari. Siamo tutti collegati, meglio di prima, perché le distanze sono annullate: non occorre più che ci spostiamo. Eliminati gli sprechi di tempo in auto. La nostra struttura commerciale di 5mila persone in Italia, Germania e Spagna ora lavora tutta in remoto. Al ritorno della normalità prevediamo che almeno il 60% continui a farlo”.

È successo tutto molto in fretta.
“C’è stata un’enorme accelerazione. Aziende come la nostra hanno impiegato tre settimane a effettuare cambiamenti dell’organizzazione del lavoro per i quali normalmente ci sarebbero voluti tre anni. La spinta è venuta dai consumatori, che chiusi in casa avevano come unico mezzo la tecnologia, le videochiamate, zoom, facetime. È stato il mercato, spontaneamente, a provocare questa esplosione del digitale. Ormai noi lavoriamo al 95% così, solo il 5% è su carta. Abbiamo riorganizzato tutti gli spazi interni nei nostri uffici. Esperti e medici ci hanno consigliato non solo su come rispettare le distanze fra le scrivanie, ma soprattutto come ripensare i luoghi di passaggio. Ora con i sensi unici neanche ci sfioriamo”.

Quindi, paradossalmente, il virus ha avuto effetti positivi. 
“Per carità, questa pandemia ha provocato danni pazzeschi, morte, lutti. Anche noi abbiamo perso due dirigenti, di 50 e 60 anni. Uno stava guarendo, ma è morto per un’infezione contratta in ospedale. C’è stata una grande solidarietà dei colleghi per le famiglie, abbiamo assunto due loro figli”.

Però sulle prospettive economiche lei è ottimista.
“Per noi il lavoro è aumentato. All’inizio i clienti erano tutti spaventati, il mercato era crollato del 35%, c’era paura per i risparmi. Tv e giornali davano previsioni catastrofiche. Quando i clienti ci hanno contattato li abbiamo rassicurati, in alcuni casi abbiamo rovesciato il loro stato d’animo. Abbiamo spiegato che, così come si può tenere il virus fuori dalla porta, anche gli investimenti si possono proteggere. I nostri consulenti hanno fatto un lavoro straordinario, abbiamo organizzato tavole rotonde online con esperti. Il risultato è che, come raccolta totale, abbiamo già raggiunto i risultati dell’anno”.

Non va così bene a tutti. Crolleranno gli spazi per uffici e le attività connesse.
“Sì, ma aumenteranno i servizi a casa. Anche chi lavora dal proprio appartamento ha bisogno di assistenza logistica, e non solo per i computer. Nasceranno altri lavori, o si modificheranno. Il ristorante sotto la nostra sede si è convertito alle consegne a domicilio, al catering. Ma il vero problema è culturale”.

In che senso?
“Da sempre le crisi producono sferzate. Il problema dell’Italia è il fisco. Abbiamo le tasse più alte d’Europa sul lavoro e sulle imprese. Molti vedono ancora il fisco come un mezzo per ridistribuire la ricchezza. Ma è un concetto vecchio, superato, novecentesco: tassa e spendi, tassa la massa”.

E invece?
“Invece il fisco è lo strumento più efficace per la politica economica. È indispensabile per pagare i servizi, ma è fondamentale anche per indirizzare l’economia. Vuoi stimolarla? Abbassa le tasse sulle imprese. Vuoi aumentare i consumi? Abbassa l’Iva. Molti politici non si rendono conto di quanto è importante la leva fiscale per favorire gli investimenti a breve e medio termine”.

Il virus ha resuscitato lo statalismo. Tutti a chiedere sussidi, bonus e redditi di cittadinanza.
“Lo slogan ‘Nessuno deve restare indietro’ è giusto. Ma l’unico modo per farlo è creare lavoro. La gente vuole lavorare, non vivere di elemosina. E il lavoro lo creano le imprese”.

Invece i populisti amano lo stato che aiuta tutti. E hanno la maggioranza assoluta in Parlamento: grillini, leghisti, Fratelli d’Italia.
″È da sessant’anni che lavoro, ho visto l’Italia del boom, e la gente non è cambiata. Abbiamo sempre tanta voglia di fare. Non mi preoccuperei per le maggioranze parlamentari. In fondo, quando il Psi era filosovietico quanto il Pci e dall’altra parte c’era il Msi, le forze antisistema sfioravano il 50% anche allora. I partiti di governo hanno avuto sempre il problema di allargare la base democratica. Il Psi conservò una visione primitiva anti-imprese anche nel centrosinistra degli anni ’60. Il risultato fu che crollarono gli investimenti in Borsa”.

Non si sono mai granché ripresi, in Italia.
“Le imprese Usa si finanziano soltanto per il 30% con le banche, le italiane per il 90%. Non abbiamo mercato finanziario, siamo bancocentrici. Gli imprenditori americani quando investono fanno aumenti di capitale, agli italiani invece tocca andare a chiedere soldi in banca con le garanzie”.

Detto da un banchiere come lei...
“Le banche possono fare tante cose, oltre che prestar soldi alle imprese: collocare aumenti di capitale, gestire il risparmio. La principale banca Usa vale quanto le dieci più grandi banche europee”.

Il governo ha accusato le banche di essere lente nell’erogare i fondi previsti dai decreti.
“Per i finanziamenti da 25mila euro ci volevano cinque documenti. Se le aziende richiedenti ce li facevano avere in regola, noi ci mettevamo tre ore a evadere la pratica. Che poi però andava alla commissione governativa del Fondo di garanzia. La quale all’inizio si riuniva una volta al mese. E se c’era una virgola che non andava, la pratica tornava indietro. Poi la commissione si è riunita due volte al mese. Ora due volte a settimana, otto al mese. E le cose procedono”.

Lei è l’unico veneto favorevole al Ponte sullo Stretto.
“Il problema del Sud lo si risolve avvicinandolo al Nord. È assurdo che arrivando in Sicilia ci si metta ore per attraversare un piccolo braccio di mare. Il ponte può essere costruito con fondi privati, come il Tunnel sotto la Manica”.

Squilla il telefono. È don Davide Banzato, il prete presentatore tv vicino alla comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante. “Don Davide, posso richiamarti fra un quarto d’ora?”, gli dice Doris. E conclude l’intervista raccontandomi la vita di Chiara Amirante, che non conoscevo. Ma questa è un’altra storia.
Mauro Suttora

Thursday, July 02, 2020

Di Maio, il colpo di grazia alla politica estera italiana

Fiumi di propaganda a parte, il simpatico ministro ha un grande argomento dalla sua parte: non si uccide un uomo morto. La nostra politica estera già da tempo non esisteva più

Mauro Suttora

Huffington Post, 2 luglio 2020

articolo su HuffPost 

Vent’anni fa D’Alema ministro degli Esteri e i suoi accoliti furono definiti, per il loro penchant verso il business, “l’unica merchant bank al mondo che non parla inglese”. Ci risiamo. Tempi duri per gli angloglotti alla Farnesina. Dopo l’ineffabile Angelino Alfano, ministro nel governo Gentiloni (2017), ecco Giggino tanta buona volontà.

“Si è eccitato molto la prima volta che è andato a Londra come candidato premier M5S e poi a Harvard, negli Stati Uniti”, sibila un grillino che  conosce bene Luigi Di Maio, “volare in aereo lo rende euforico. Ha capito che la sua dimensione è quella. Altro che Pomigliano”.

Se l’era vista brutta nel maggio 2018, quando alla poltrona degli Esteri mirava Alessandro Di Battista. Ma allora i grillini non si erano ancora montati la testa, e Ale manco osò proporsi durante le trattative per il Governo gialloverde. 
Alla fine Mattarella impose Moavero, addirittura dalla gerla Monti. Uno agli antipodi del sovranismo grilloleghista, e infatti per Moavero fu una bella vacanza di un anno.

Prima missione di Di Maio al Governo: a Fiumicino per lo sputtanamento dell’Air Force Renzi, video in coppia con Toninelli. Due anni dopo l’aereo è sempre in quell’hangar.
Di Maio ricomincia a volare, perché vicepremier significa tutto e niente, ma di Sviluppo economico c’è bisogno ovunque. Al primo viaggio in Cina mostra orgoglioso il “bijetto di classe economica, perché noi non siamo come loro”. 
Poi chiama Xi “mister Ping”. Quello sussulta, perdona lo scugnizzo, e avanti con la via della Seta, Italia avanguardia d’Europa per la gioia degli Usa. 
Con Di Battista va a Parigi a solidarizzare con i gilet gialli, per la gioia di Macron. Poi è l’unico politico in Europa a non riconoscere presidente il capo dissidente venezuelano Guaidò.

Dieci mesi fa arriva il ribaltone, per Di Maio salta la poltrona di vicepremier visto il crollo alle Europee. La consolazione di lusso è la Farnesina. Ci sta pure lo scuorno per Di Battista. Le feluche ingoiano, dopo la Mogherini sono avvezzi a tutto.

Il debutto è all’annuale Assemblea generale Onu a New York. Di Maio ha un ritmo di lavoro teutonico, ogni giorno incontra omologhi e il suo staff, sapientemente guidato all’ambasciatore Sequi, sforna una valanga di comunicati. Quello più frequente, sempre uguale da dieci mesi, è sulla Libia. Dice così: “Il ministro Di Maio esprime la volontà di rafforzare il lavoro per fermare gli scontri e rilanciare il processo politico, allentare le tensioni e raggiungere un cessate il fuoco duraturo, nel pieno rispetto dell’embargo Onu e con l’identificazione di garanzie economiche e di sicurezza idonee a ricostruire la fiducia tra le parti libiche”.

Lo ripete a tutti, da dieci mesi. Nel frattempo c’è stata una guerra, l’Eni ha bloccato pompaggio ed export di petrolio, il generale Haftar è avanzato e si è ritirato che neanche Rommel, mercenari russi combattono militanti Isis, la Turchia si è ripresa la Libia cent’anni dopo averla persa con l’Italia e ci sta cacciando dai pozzi petroliferi del Mediterraneo.

Gli attivisti 5 stelle sono fermi alle invettive contro la Francia, che invece la guerra la sta perdendo assieme alla sua Total, e Di Maio è prigioniero dei loro luoghi comuni.
Secondo fallimento: Giulio Regeni. Salto triplo per il povero Giggino, massacrato sui social grillini per avere pure venduto due fregate all’Egitto che ci prende in giro. “La decisione politica non c’è ancora”, balbetta. Lo sa che l’accordo con Al Sisi prevede anche 24 aerei Eurofighter?

A febbraio è andato a Ciampino ad accogliere gli italiani rimpatriati da Wuhan. “Siamo i migliori al mondo contro il virus”, si è vantato come sempre. Dopo pochi giorni è scoppiata l’epidemia pure in Italia.
Due mesi dopo è tornato a Ciampino per accogliere Silvia Romano, la ragazza liberata dai terroristi islamici. Speravano di convincerla durante il volo a levarsi il chador. La sventurata ha tenuto duro. Risultato: 100mila voti in più per la Lega. Non è che Di Maio è anche un po’ sfortunato?
  
Prima del lockdown è tornato in Cina. Questa volta ha regalato a Xi Jinping una maglietta azzurra della nazionale. Poi i rapporti si sono un po’ guastati perché l’Italia ha chiuso i voli causa virus. Sono tornati buoni quando Di Maio ha fatto la claque alle mascherine inviate dai gerarchi cinesi. E adesso, figurarsi se emetterà uno dei suoi innumerevoli post per criticare la repressione a Hong Kong.

Appena finito il picco della pandemia ha ripreso a volare. Prima ha preteso “rispetto” dagli Stati riluttanti a riaprirci le frontiere. Come comprensibilmente ha fatto la Grecia, 190 morti contro i nostri 34mila, posponendo il via libera al 1 luglio almeno per i lombardi. Di Maio è piombato ad Atene il 9 giugno e ha emesso il solito comunicato di vittoria: “Ho ottenuto l’apertura il 1 luglio”.

Fiumi di propaganda a parte, il simpatico Di Maio ha un grande argomento dalla sua parte: non si uccide un uomo morto. Lui sta solo dando il colpo di grazia a una politica estera italiana che già da tempo non esisteva più.

Quanto all’antropologia, aveva già previsto tutto in un carme del 2013 la poetessa Paola Taverna, oggi vicepresidente del Senato,che ben conosce i suoi polli grillini:

“Che meraviglia sei diventato senatore (ministro)
E mo’ te senti er più gran signore
Lasci interviste e fai er politico sapiente
Pe me e pe’ troppi ancora sei poco più de gnente
Te guardo incredula seduto proprio accanto
E penso che non sai qual gran rimpianto
De quelli che vicino me stavano ai banchetti
E senza dubbio alcuno capivano i concetti
Proponi accordi strani e vedi prospettive
Mentre io guardo ste merde e genero invettive
So io quella sbagliata che ha perso er movimento?
O te come bandiera ora giri insieme al vento
E invece de grida’ ‘Annate tutti a casa’
Te inventi le cazzate, ma questa è n’antra cosa”.
Mauro Suttora