Wednesday, December 01, 1999

Siamo antiamericani?


Dibattito tv a "Tout le monde en parle", France 2

di Mauro Suttora

Il Foglio, 1 dicembre 1999

Sul vertice di Seattle è stato detto di tutto, ma il canale France 2 l’altra sera ha preso il toro per le corna e ha posto la vera domanda: «Non è che siamo antiamericani?» A rispondere, un piccolo parterre des rois. Jack Lang, indimenticato ministro della Cultura di François Mitterrand, cade subito nella trappola e (ri)comincia a prendersela con gli Usa, protestando perché «gli americani hanno installato una loro enorme multisala proprio nel cuore di Cinecittà, a Roma, dove sono stati girati i film più belli del dopoguerra». «Non c’è alcuno scandalo», lo rintuzza subito lo scrittore Jean Yanne, «sono stati gli stessi italiani a chiamare gli americani, e adesso tutti sembrano contenti».

Sì, il cinema statunitense ha grandi idee, audacia e innovazione, concede (bontà sua) il grand protecteur dei registi europei, però «noi dobbiamo incoraggiare positivamente la nostra creazione originale, sono inquieto per la crisi del nostro cinema».

Fa bene a inquietarsi, Lang: nonostante le centinaia di miliardi regalate a produttori e registi francesi (o probabilmente proprio a causa di questo finanziamento statale, che incoraggia l’onanismo tendenziale del metteur en scene gallico affrancandolo dal giudizio del pubblico), ormai soltanto due francesi su dieci accettano di farsi tediare dal cinema nazionale. «Questo crollo al 20 per cento mi preoccupa», ammette Lang, «però a Seattle sono tutti d’accordo: la cultura non dev’essere considerata una merce».
 
È questa la magica, attraente parola d’ordine dei protezionisti: non riduciamo tutto a merce. E quei pescecani delle majors americane non protestino troppo per i soldi che Parigi preleva sui biglietti dei loro film, girandoli ai produttori francesi. I quali, a detta del regista Pierre Jolivet, sarebbero nientemeno che benefattori continentali: «La Francia coproduce i film di Pedro Almodovar e Nanni Moretti, siamo l’ultimo polo sfuggito all’egemonia americana, tutti i cineasti d’Europa sognano un sistema come il nostro. Perfino il regista americano David Lynch, che ha problemi a casa sua, ci ha chiesto aiuto. La verità è che gli Usa riducono tutto a mercato, non gliene frega niente della cultura. Lo sostiene anche Robert Redford, che proprio per difendere il cinema di qualità ha creato il Sundance film festival».

L'altra parola chiave, quindi, è "eccezione culturale". Ovvero: libera circolazione mondiale per merci e capitali, ma non per le opere artistiche. "Dobbiamo proteggere le nostre culture nazionali dall'invadenza americana", è stato il ritornello dei francesi sia negli ultimi negoziati Gatt del 1994, sia oggi a Seattle. Tasse sui film, allora, e anche quote contro serial e canzoni americane in tv e alla radio.

"Ma non serve a niente, con le linee Maginot abbiamo sempre perso", attacca il musicista rock Jean-Louis Murat, "l'80 per cento della musica che i giovani francesi ascoltano è anglosassone. Anche perché il risultato del nostro protezionismo è che dopo 40 anni ci dobbiamo beccare ancora Johnny Halliday, mentre negli Stati Uniti la vetta della hit parade cambia ogni tre mesi, c'è più movimento e alla fine vince il migliore. Anche in altri campi siamo invasi, è vero, oggi ci sono più McDonald's a Parigi che a New York. Ma nei ristoranti francesi con meno di 500 franchi si mangia merda".

Aggiunge il liberale Laurent Dominati: "Gli spettatori americani rifiutano i film francesi, e i nostri cineasti sostengono che questo accadrebbe perché non sono doppiati in inglese. Ma in Italia, dove il doppiaggio c'è, il cinema francese langue egualmente al due per cento. E noi, nonostante l’’eccezione culturale’ di cui andiamo così fieri, siamo invasi dai film Usa". Tocca all'americano Harvey Feigenbaum, timido professore della Georgetown university, concludere lapalissianamente: "E' giusto difendere la cultura, ma se continuate a girare film che nessuno vuole vedere, non difenderete niente. E da parte nostra non c'è alcun pregiudizio: gli americani in realtà sono innamorati della Francia, che è il Paese più visitato dai turisti Usa".

La parola in collegamento da Seattle a José Bové, contadino del Larzac diventato famoso la scorsa estate per avere assaltato un McDonald's: "Non sono antiamericano, anzi: i consumatori statunitensi guidati da Ralph Nader sono nostri alleati, perché anch'essi non vogliono ingurgitare alimenti manipolati geneticamente e carne agli ormoni. Pure gli agricoltori Usa sono in crisi, se continua così il 25 per cento di loro sparirà entro pochi anni, quelli del Texas e dell'Alaska sono con noi, c'è un'altra America che non conosciamo, un'America profonda..."

La Francia profonda, invece, è perfettamente rappresentata da Philippe de Villiers, ex gollista diventato poujadista antieuropeo: "Gli Stati Uniti hanno l'idea della cultura unica, invece bisogna combattere per la diversità, e salvaguardare la nostra agricoltura di qualità con un sistema legittimo di preferenze nazionali". Poi, l'inevitabile stoccata contro Bruxelles: "La Francia, quarta potenza economica ed esportatrice mondiale, contrariamente a paesi come le Maldive o le Grenadine, a Seattle è assente. Ci dovrebbe difendere l'Unione europea, ma anch'io non voglio i cibi transgenici e la carne agli ormoni".

Più a destra di De Villiers rimane soltanto Le Pen, ciononostante Jack Lang non si imbarazza a fargli eco da sinistra: "Sì, non si può separare l'agricoltura dalla cultura! Cinque anni fa eravamo in pochi a batterci contro l'ideologia del mercantilismo, ma oggi la ribellione si è estesa a molti paesi". Niente libero mercato, quindi, anche se per Lang "questa partita non si gioca in opposizione agli Usa, ma salvaguardando la nostra identità giorno dopo giorno".

Identità francese oggi significa anche, nei cartoni animati, Asterix contro Topolino. Chi sta vincendo? Sette anni fa, dopo brusche polemiche, si apriva Eurodisney vicino a Parigi. È stato un successo clamoroso: dodici milioni di visitatori, nonostante il prezzo medio per una famiglia di quattro persone sia di 300mila lire. I francesi si consolano perché gli americani hanno acconsentito ad aggiungere anche uno spazio per l’europeo Pinocchio, e hanno dedicato a Jules Verne il percorso sulla conquista dello spazio. Ma sembrano orgogliosi soprattutto per il vino (bandito da Disneyland in California e da Disneyworld in Florida), che alla fine è stato affiancato alla Coca Cola nel parco d’attrazioni europeo. «All’epoca ero segretario alla Cultura», rivendica patetico De Villiers, «e ottenni che le strade di Eurodisney fossero almeno sottotitolate in francese». Insomma: una dêbacle.

«La verità è che siamo stati noi europei incapaci di creare un’alternativa a questo topo Usa», ammette il gollista Pierre Lellouche, presidente della Commissione esteri dell’Assemblée nationale. «Lo confesso: anch’io pensavo che Eurodisney non avrebbe funzionato, invece mi sono completamente sbagliato. Ora perfino i comunisti cinesi vogliono Disney! Ma la risposta non sono le barriere nazionaliste. Oltretutto, la liberalizzazione degli scambi è un fattore di pace: quando commerciano, i popoli non si fanno la guerra».

Anche dal regista di sinistra Romain Goupil arriva, a sorpresa, un elogio della globalizzazione: «Mi ritengo cittadino del mondo, nato in Francia per caso, e sono convinto che la mondializzazione sia un bene. Un esempio? Il tribunale penale internazionale che sta per nascere, permettendo di punire dittatori e stragi commesse in tutto il pianeta. E questa tanto vituperata Organizzazione mondiale del commercio può fare da arbitro fra 132 nazioni, evitando conflitti di ogni tipo».
Scusi, ma lei si definisce liberale?, domanda incredula la conduttrice di France 2.
«No, libertario. Non ho territorio, non voglio frontiere, vinca il migliore. Nessuno obbliga i francesi a mangiare da McDonald’s, a bere Coca Cola e ad andare a Eurodisney». «Viceversa», aggiunge Yanne, «gli americani sono felici di farsi invadere dalla cucina messicana, dalla pizza italiana, dalla nostra acqua minerale Perrier e da Danone».

E il foie gras cui gli Usa hanno proibito l’importazione? Assieme al roquefort (il formaggio di cui gli Usa hanno proibito l’importazione per vendicarsi del protezionismo europeo sulle banane), il paté di fegato d’oca negli anni scorsi è stato un argomento caldo in mano agli antiamericani francesi: imponendo un dazio del 100 per cento, gli Stati Uniti ne hanno limitato enormemente il consumo.
Ma qui sono i verdi francesi, nemici giurati dell’Omc nonché degli Usa in quanto manipolatori genetici, consumisti e spreconi di energia, a difendere una volta tanto Washington: «Quel provvedimento è stato adottato sotto pressione degli animalisti americani, choccati dalle immagini tv che mostrano come ingozziamo le nostre povere oche del Perigord».

Dalle stalle alle stelle: «I missili Ariane e gli aerei Airbus sono due esempi di come possiamo sfidare con successo gli americani», dice Lellouche, «basta abbandonare i complessi d’inferiorità e riacquistare fiducia in noi stessi».
«Ma quale fiducia può avere quella vecchia signora un po’ stanca che è diventata l’Europa?», gli domanda Yanne.
«È vero», risponde Lellouche, «mezzo milione di francesi hanno lasciato la Francia perché non ne possono più degli ostacoli, della burocrazia e delle imposte che esistono qui».
«Sì, ma molti di quelli che si rifugiano in Inghilterra per motivi fiscali lasciano la famiglia a Parigi, e ogni week-end tornano a casa con il treno Eurostar», ribatte Jolivet. «Così godono contemporaneamente delle tasse basse inglesi, e della maggiore assistenza sociale francese».

Inevitabilmente, però, il dibattito torna sull’Omc (nessuno in Francia si sogna di chiamarla Wto, acronimo inglese, così come la Nato è Otan e l’Ocse a Parigi si chiama Oecd) e su Seattle: «Chi la disprezza perché la ritiene ostaggio delle multinazionali sappia che invece i paesi in via di sviluppo fanno la fila per entrarvi: ce ne sono 50 in lista d’attesa. Per loro, il libero mercato rappresenta la salvezza», sostiene Lellouche. «Però oggi come oggi il libero mercato non esiste, c’è il monopolio e la conseguente mercificazione del mondo», ribatte il contadino Bové. Dimenticando che «laissez-faire» è una parola francese.
Mauro Suttora

Friday, September 17, 1999

Beatles: Abbey Road

I BEATLES, O DELLA CAPACITA’ SUBLIME DI SAPER SCOMPARIRE AL MOMENTO GIUSTO

di Mauro Suttora

Il Foglio, settembre 1999

Trent’anni fa, il 26 settembre 1969, usciva nei negozi di tutto il mondo “Abbey Road”, l’ultimo disco dei Beatles. Sulla copertina, una foto di loro quattro che attraversano in fila indiana le strisce pedonali. Quelle di Abbey Road, appunto, una strada del quartiere londinese chic di Saint John’s Wood dove si trovano ancor oggi gli studi della casa discografica Emi. E dove tuttora, ogni giorno, centinaia di fans si esercitano nella discutibile operazione di farsi fotografare sulle stesse strisce pedonali, come souvenir. Risultato: code di macchine, perché in Gran Bretagna le zebre vengono rispettate, e in teoria se il flusso dei pedoni su di esse fosse continuo (come lo è quando ad Abbey Road transitano mandrie di beatlemaniaci) il traffico si bloccherebbe completamente.

Molti sono convinti che l’ultimo disco dei Beatles sia “Let it be”. Ciò è vero e falso assieme. Vero, perché effettivamente “Let it be” fu pubblicato nel maggio 1970. Ma le sue canzoni erano state registrate già nel gennaio ‘69, prima di “Abbey Road”. Che si può quindi fregiare del titolo di canto del cigno del complesso più famoso del secolo.

Stesso dilemma per la vera data di scioglimento del gruppo. Gli esegeti più rigorosi la fanno risalire al 10 aprile ‘70, quando Paul McCartney annunciò pubblicamente di non voler più incidere con i Beatles. Ma, come in tutte le coppie che scoppiano, il dissidio fra lui e John Lennon era esploso assai prima. Già nel 1968 si poteva parlare di «separati in casa», visto che grazie alle nuove tecniche di incisione ognuno dei membri del quartetto andava in studio a registrare la propria parte di canzone indipendentemente dagli altri.

Non è arbitrario, quindi, fissare al settembre ‘69 la data di scioglimento dei Beatles, facendola coincidere con l’ultima traccia della loro produzione artistica. Pochi giorni fa sono stati ben 300 mila i fans accorsi a Liverpool per commemorare il trentennale con la riedizione del cartone animato “Yellow Submarine”. Ma cosa facevano i Fab Four in quell’epoca? Intanto, erano giovanissimi. George Harrison aveva 26 anni, McCartney 27, Lennon 28 e Ringo Starr 29. È incredibile pensare che musicisti paragonati a Bach e Mozart, o perlomeno a Duke Ellington e George Gershwin (per restare nel Novecento), abbiano deciso di sciogliere un sodalizio così proficuo a un’età così precoce. Se poi si calcola che fino a metà 1963 erano degli sconosciuti, si scopre che tutta la loro arte si è concentrata in appena sei anni di attività: un prodigio anche questo. Ma, soprattutto, va riconosciuta ai Beatles (e a loro soltanto) la capacità sublime di saper scomparire al momento giusto.

Il 1969, infatti, rappresenta un anno cardine nella storia del rock. Soltanto il 1967 può eguagliarlo come ricchezza musicale. In quel periodo di grandi cambiamenti, la musica e il costume evolvevano di mese in mese. Naturalmente erano i Beatles a dettare il passo. Ma, in qualche modo, nel ‘69 si era spezzato qualcosa. Era stato raggiunto un apice insuperabile, e tutti i musicisti più avveduti se ne rendevano conto. In California quell’estate con la strage di Charles Manson a Bel Air (vittima Sharon Tate, bellissima moglie di Roman Polanski) era finita l’era degli hippies peace&love.

I festival di Woodstock e dell’isola di Wight (a quest’ultimo tutti i Beatles tranne Paul parteciparono il 31 agosto ‘69, come spettatori dell’esibizione di Bob Dylan) rappresentavano anch’essi uno zenit, seguìto a poche settimane dal disastro di Altamont, dove a un concerto dei Rolling Stones fu ucciso uno spettatore. Perfino l’uso della droga fra i musicisti delineava una parabola fatale: innocua marijuana nel ‘66, lsd nel ‘67, cocaina nel ‘68, eroina nel ‘69. Come nella guerra del Vietnam, era un’escalation senza ritorno. Lo stesso Lennon diventò eroinomane assieme alla sua Yoko Ono nel ‘69, ma riuscì a disintossicarsi quasi subito e raccontò il tremendo tunnel della crisi d’astinenza nel 45 giri “Cold Turkey”, che uscì in ottobre.

I Beatles fiutarono la fine del periodo d’oro dei favolosi anni Sessanta e chiusero bottega in bellezza, evitando l’agonia di tutti gli altri complessi, compreso l’attuale gerontorock degli Stones. Non hanno mai accettato le offerte favolose per riunirsi anche solo una volta, e ciò ha reso eterno il loro mito. «Meglio bruciare che arrugginire/ma il rock&roll non morirà mai», canterà Neil Young. I Beatles non sono né bruciati né arrugginiti: grazie ad “Abbey Road”, si sono semplicemente congedati con un coloratissimo capolavoro. Nel quale, pochissimi lo sanno, c’è lo zampino della nostra Sardegna. In Costa Smeralda, infatti, era scappato Ringo Starr dopo una lite con McCartney che pretendeva di costringerlo a suonare la batteria in un certo modo. Lì, folgorato dalla bellezza dei fondali durante un’immersione, compose il suo unico capolavoro: “Octopus’s Garden” (“Il giardino delle piovre”). Ringo raccontò a George quant’era bella Porto Cervo, e così anche Harrison ci passò tre settimane nel giugno ‘69 con la moglie Patty.

Al suo ritorno cominciarono le sedute di registrazione ad Abbey Road. Andarono avanti per due mesi, ma per gli inglesi è naturale lavorare d’estate. Tanto, a Londra piove anche in agosto. La prima canzone a essere registrata fu “Something” di Harrison. Il povero George era sempre stato snobbato dal duo Lennon-McCartney: era considerato il cucciolo del gruppo, e in ogni disco gli lasciavano spazio per un suo solo brano. Questa volta però Harrison si presentò negli studi Emi con due capolavori: “Something” e “Here comes the sun”. «“Something” è la più grande canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni», sentenziò nientemeno che Frank Sinatra, e in effetti è stata superata soltanto da “Yesterday”, fra tutte le canzoni beatlesiane, come numero di versioni registrate da altri cantanti.

“Here comes the sun“ (“Ecco che torna il sole“) ha invece una genesi piccante. Harrison la compose, estasiato per il ritorno della primavera in un pomeriggio di pallido sole britannico, nel giardino della villa del suo grande amico Eric Clapton. Il quale però nel frattempo seduceva e gli rubava sua moglie Patty, alla quale l’anno dopo avrebbe dedicato il proprio capolavoro “Layla”. George, obnubilato dalla filosofia indiana, commentò rassegnato: «Meglio che Patty stia con un ubriacone come Eric, piuttosto che con qualche eroinomane». E gliela lasciò volentieri, rimanendogli amico (i due suonarono assieme nel memorabile Concerto per il Bangladesh dell’agosto ‘71, padre di tutti i Live Aid della futura carità rock).

La canzone più famosa di “Abbey Road” è “Come together” di John Lennon. Il ritornello sporcaccione («Vieni assieme/proprio adesso/su di me») è un inno all’orgasmo simultaneo, ma i fans più politici andarono in visibilio per la frase «One thing I can tell you is you got to be free» («L’unica cosa che posso dirti è che devi essere libero»). Purtroppo la musica è completamente copiata da “You can’t catch me” di Chuck Berry, i cui avvocati citarono Lennon e lo obbligarono, per risarcirlo, a incidere tre sue canzoni - pagando i relativi diritti d’autore - nell’album “Rock’n’roll” del ‘75. Ma John in quel periodo era così preso dall’eroina e da Yoko (due droghe per lui egualmente letali) che non si peritò neppure di celare il plagio, e anzi lasciò proprio all’inizio della canzone una frase del testo di Berry (“Here comes old flat-top, he come”). Lennon come Mauro Pili, il forzista sardo «ispirato» da Roberto Formigoni?

Il particolare più inquietante di “Come together”, però, risiede nel sussurro di John dopo i battiti di mani nelle prime quattro battute: «Shoot me» («Sparami»), dice, consiglio preso alla lettera dal suo assassino pazzo Mark Chapman nel 1980.

“Abbey Road“ nasconde dentro sé una miriade di gioielli semisconosciuti, canzoncine lunghe neanche un minuto cucite assieme in un «medley» confezionato sapientemente da McCartney e dal produttore George Martin. Sul modello di “A day in the life” del 1967, in cui 40 secondi composti da Paul erano incastonati in un brano di John, questa volta alla notevole “Because” di Lennon segue “You never give me your money” di McCartney (allusione acida contro il manager Allen Klein accusato di lucrare sui proventi miliardari del gruppo), e poi tre frammenti bizzarri di Lennon (“Sun king”, “Mean Mr. Mustard”, “Polythene Pam”, che esibiscono raffinati coretti con sovrapposizioni di voci in quarta, quinta e undicesima tonalità), per poi sfociare nella ”She came in through the bathrooom window” (“Entrò dalla finestra del bagno”) di McCartney, che racconta un episodio realmente accaduto di una fan penetrata a casa sua, canzone resa celeberrima dalla versione di Joe Cocker.

Rauco come Cocker Paul volle diventarlo per esibirsi in "Oh! Darling", una parodia di canzone anni Cinquanta splendidamente riuscita. Poiché da tre anni non si esibiva più in pubblico (tranne il concerto sul tetto dell’edificio Apple nel gennaio ‘69), dovette arrivare in studio il mattino presto e urlare come un ossesso, finché la sua ugola non fu riallenata allo stile Little Richard. Un’altra chicca è la brevissima canzone “Her majesty”, sottile presa in giro di qualche misteriosa principessa reale un po’ stupidina. Dice il testo: «Sua maestà è una ragazza proprio carina/ ma non ha molto da dire/ Sua maestà è proprio carina, ma cambia da un giorno all’altro...» Nessuna reazione dalle parti di Buckingham Palace, ma i sudditi britannici trovarono il brano deliziosamente «naughty», impertinente.

Anche “Abbey Road”, come tutti gli Lp dei Beatles, contiene delle vere e proprie schifezze. È il caso di “Maxwell’s silver hammer”, imputabile a Paul, e di “I want you”, rumoroso obbrobrio di John dedicato alla nociva Yoko. Lennon e McCartney continuavano a firmare assieme i loro brani per forza d’inerzia, ma ciascuno detestava queste due canzoni: John si rifiutò perfino di incidere la sua chitarra su “Maxwell’s...”

La fine di “Abbey Road”, invece, è entusiasmante. Perfettamente consci di essere giunti al capolinea della loro carriera di complesso, i Beatles titolarono la loro ultima canzone “The end”. E il loro verso conclusivo è scolpibile nel marmo o incartabile in un bacio Perugina, a seconda dei gusti: «And in the end/the love you take/ is equal to the love you make» («Alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai»). Per i cantori del decennio della libertà, della gioventù, della pace e dell’amore, l’unico sorridente epitaffio possibile. Il sogno era finito. Addio anni Sessanta. Addio, Beatles.

Mauro Suttora

Sunday, August 01, 1999

Vivere di rendita

Personaggi famosi contrari a vivere di rendita

Capital, 01/08/1999

Che cosa fareste con un conto in banca garantito ? Niente. C'e' chi non ama sedersi sugli allori. Parola di Capanna, Mussolini & gli altri

di Mauro Suttora

Ma davvero vivere di rendita e' il sogno degli italiani ? O c' e' qualcuno che preferisce la carriera per dire ai figli: "Guarda che cosa ho costruito" ? La parola ai vip.

E' ora, e' ora, i soldi a chi lavora
Mario Capanna (leader del ' 68, scrittore, gia' eurodeputato)

"Vivere di rendita non mi piacerebbe. Anzi, la troverei una cosa schifosa. Non in base all' antico concetto del lavoro che nobilita l' uomo, ma perche' penso che ogni persona abbia il diritto a un' occupazione dignitosa e a una remunerazione equa. Considero i rentier, i benestanti che non devono lavorare per guadagnarsi da vivere, come dei mezzi uomini, e la rendita come una forma di parassitismo. Per questo a mio avviso le eredita' dovrebbero essere tassate in modo pesantissimo: non e' giusto che dei beni piovano addosso a chi non ha alcun merito.

Io guadagno quanto basta per vivere bene, e penso che se dovesse capitarmi una fortuna economica improvvisa questa si rivelerebbe piu' una fonte di preoccupazione che di gioia. Lo dimostrano d' altronde le vite dei ricchi: non sono quasi mai felici. Non riesco quindi a rispondere alla domanda "Di quanto avrebbe bisogno per vivere di rendita ?", perche' sono totalmente estraneo a questo modo di ragionare.

Se voglio fare un bel viaggio o togliermi qualche altra soddisfazione, cerco di farlo con i soldi che guadagno: queste cose perderebbero immediatamente di sapore se dovessi realizzarle grazie al regalo di uno zio d' America. Anche per questo non gioco mai a stupidaggini come il Lotto o il Totocalcio: proprio non mi interessano".


La barca ? Meglio una villa n' coppa a Posillipo
Alessandra Mussolini, deputata di An

"Per vivere di rendita mi basterebbe un miliardo e mezzo, perche' non ho un tenore di vita elevato. Amo le comodita' , ma per vivere bene mi bastano un aiuto in casa e un' auto normale. Non sono una di quelle che hanno bisogno di comprarsi l' auto di lusso o la barca: allora veramente i soldi non basterebbero mai. Invece a me non piace viaggiare, odio l' aereo. E dubito anche che smetterei di lavorare, perche' non lavoro per il guadagno. Dato il mio carattere, non riuscirei proprio a starmene passiva senza far nulla.

Con questi chiari di luna, pero' , per vivere di rendita da gran signore credo ci vorrebbe una cifra spropositata. Altrimenti sarebbe soltanto un' illusione, perche' ormai i tassi sono cosi' bassi che i soldi svanirebbero subito. Se improvvisamente mi arrivassero 10 miliardi, sarebbero troppi: mi troverei in difficolta' , dovrei affidarmi a una persona per gestirli, avrei paura di perderli. Insomma, comincerebbero i problemi. Forse li investirei nel mattone. E se proprio dovessi togliermi uno sfizio, comprerei una bella casa con vista a Roma o a Napoli: ci sono certe ville, a Posillipo...".


Meglio ricco in elicottero o famoso con il Ciao?
Andrea Pinketts, scrittore

"Per un certo periodo ho gia' vissuto di rendita. A 18 anni ereditai delle azioni di mio padre, ma soprattutto a 16 ero gia' entrato in possesso del patrimonio di una vecchia zia ottantenne, Olghina, proprietaria di uno dei piu' grossi vigneti di sangiovese in Romagna. Cosi' , nonostante abbia fatto duemila mestieri, fra i quali lo scrittore, per anni ho attinto a piene mani a una fonte che sembrava inesauribile. D' altra parte anche il protagonista autobiografico dei miei libri, Lazzaro Sant' Andrea (ultima uscita, Il conto dell' ultima cena, Mondadori), e' un dilapidatore di capitali agli sgoccioli.

Comunque, nonostante a causa della mia imprevidenza quell' eredita' sia ormai svanita, il mio tenore di vita non e' molto cambiato: prima ero ricco e potevo affittare un elicottero, ora sono famoso e posso affittare un Ciao. Per una buona rendita adesso chiederei una ventina di miliardi. Meta' li investirei seguendo i consigli di qualche amico fidato, ma con il resto non farei niente di speciale: continuerei a scrivere. Magari potrei permettermi qualche buona azione, che d' altra parte gia' faccio: per esempio, meta' dei diritti di uno dei miei ultimi libri, Un saluto ai ricci (Minotauro), li devolvo a un' associazione per la tutela dei ricci, nel senso di porcospini.

Quello che invece non farei piu' , perche' ho smesso di essere uno sprovveduto, e' aprire un locale come feci con i soldi dell' eredita' di zia Olghina: stava in via Savona a Milano, si chiamava Todo Modo, sarebbe dovuto diventare il tempio del cabaret ben prima dello Zelig. Invece falli' , e cosi' lo soprannominai Topo morto".


Dolce far niente ? Ma io mi annoio!
Martina Colombari, attrice

"Non so se mi piacerebbe vivere di rendita, perche' associo la parola "rendita" al far niente, mentre io sono una persona attivissima. Dopo due settimane di vacanza, comincio gia' ad annoiarmi. Sono sempre stata cosi' , anche da piccola: non stavo mai ferma, mai calma un attimo. Comunque, se ricevessi improvvisamente una grossa eredita' la prima cosa che farei sarebbe sistemare bene tutti i miei familiari, dai nonni ai genitori. Non che attualmente abbiano problemi: mio padre due anni fa ha venduto il ristorante che aveva, perche' si era stufato. Pero' mi piacerebbe fare qualcosa per loro, non terrei tutto per me. Poi aiuterei i bimbi in difficolta' per la guerra nel Kosovo o qualche associazione che segue i piccoli malati negli ospedali.

L' unico vero sfizio che vorrei togliermi: fare un bel viaggio al caldo d' inverno. Non riesco a quantificare una cifra mensile di cui avrei bisogno per vivere di rendita: certo e' che sono una spendacciona, anche se cerco di controllarmi. Pero' da cinque anni, cioe' da quando a 18 anni ho vinto il concorso di Miss Italia e ho cominciato a lavorare, mi mantengo da sola. La verita' e' che non seguo molto le faccende di soldi: e' mio padre a farlo per me, anche se mi tiene informata e mi fa capire. Io una volta al mese vado a Riccione a trovarlo, e lui mi aggiorna. Comunque, d' istinto risparmierei la meta' di quello che guadagno".


Attenzione a non perdere la voglia di vivere
Stefano Tacconi, ex portiere della Juventus

"Sono uno che non sta mai fermo, cerco sempre nuove emozioni. Come potrei fermarmi e vivere di rendita ? In realta' , con tutto quello che ho guadagnato finora, lo potrei anche fare. Ma continuerei comunque a lavorare, a muovermi, per il piacere di costruire qualcosa. Se si accetta il concetto della rendita si perde ogni stimolo per vivere, mi sentirei come una candela che si spegne.

Quale cifra vorrei per vivere di rendita ? Dico 10 milioni al mese, ma mentre lo dico mi vergogno nei confronti di chi lavora otto ore al giorno e porta a casa un milione e quattro. Pero' continuerei a fare la stessa vita che conduco adesso, perche' mi considero fortunato".


Datemi soltanto una fattoria con due cavalli
Mandala Tayde, attrice

"Se mi offrissero una rendita, chiederei 5 milioni al mese. Non ho bisogno di tanti soldi per vivere: vestiti, per esempio, ne comprerei pochi, perche' la cosa che preferisco e' andare in giro in maglietta e jeans. Ma devo farlo per la mia professione, dopo il successo di Fuochi d' artificio con Pieraccioni. E se c' e' qualche serata o qualche trasmissione tv devo mettermi il vestito adatto.

Anche se diventassi improvvisamente ricca, continuerei comunque a lavorare, perche' mi piace. Ma diminuirei il tempo che dedico al lavoro, e ne dedicherei di piu' ad altre attivita' , come fotografare o dipingere, che mi sono sempre piaciute ma che negli ultimi tre anni ho dovuto trascurare. In media ogni anno lavoro quattro mesi per le riprese, ma a questo bisogna aggiungere il tempo per provare, per leggere i copioni, per partecipare ai provini... E poi le serate in televisione, che per me che sono timida rappresentano sempre una certa fatica.

Piuttosto che vivere di rendita, spenderei tutto subito per realizzare il mio sogno: ristrutturare una vecchia fattoria in campagna e avere almeno due cavalli (cosi' si tengono compagnia). E poi comprare altre case in giro per il mondo".

Mauro Suttora

Monday, July 19, 1999

Il cognato di Di Pietro e i Democratici

di Mauro Suttora

Il Foglio, 20 luglio 1999

Milano. «Non ci faremo pillitterizzare!»: un borbottio di protesta accoglie l’introduzione dell’onorevole Gabriele Cimadoro alla prima assemblea regionale dei Democratici della Lombardia dopo le elezioni. Il cognato di Antonio Di Pietro (che ricorda il leggendario sindaco-cognato milanese di Bettino Craxi, Paolo Pillitteri) suscita malumore innanzitutto perché, ancora una volta, il nome di Tonino è stato usato come specchietto per le allodole allo scopo di attirare gli attivisti.

Arrivati in duecento sabato 17 nella sala del quartiere periferico Barona (non c’è nessun giornalista: tutti sono da Walter Veltroni, in contemporanea anche lui a Milano per consolare i ds), la sorpresa è che, come sempre più spesso accade, il senatore del Mugello non c’è. Il che, in un gruppo carismatico come quello dell’Asinello, equivale a negare la Madonna ai fedeli giunti a Lourdes.

Ma l’imposizione del cognato come surrogato dipietresco, a parte il sapore familistico, ha anche un significato politico di gravità quasi surreale: da un mese infatti l’unica proposta politica dei Democratici a livello nazionale sembra essere quella di escludere dall’Ulivo i «traditori» Clemente Mastella e Rocco Buttiglione, in quanto eletti tre anni fa nel Polo di Silvio Berlusconi. 

E chi si ritrovano gli adepti lombardi dell’Asinello ad aprire la loro riunione? Proprio Cimadoro, anch’egli fresco transfuga dal Ccd. Però, a differenza dei suoi due ex capi oggi così detestati dal surrogato di Prodi, Arturo Parisi, il cognato è stato non solo accolto con gioia fra i Democratici (che si autoproclamano «lievito dell’Ulivo»), ma ne è addirittura diventato subito un dirigente nazionale. È stato infatti nominato «garante» (cioè commissario politico) per il Molise: una delle ultime regioni italiane come numero di abitanti, ma la più importante per i Democratici come quota di elettori (28 per cento).

Così le truppe Democratiche, già demoralizzate dal magro risultato lombardo (6% alle europee, attorno al 5% nelle provinciali), si sono irritate e hanno accolto freddamente il cognato bergamasco. L’unico che ha avuto il coraggio di criticarlo apertamente è stato l’avvocato Pierluigi Mantini, ma nei corridoi i commenti erano quasi tutti democristianamente velenosetti. 

Intanto, in barba al proprio nome, i Democratici continuano a essere l’unico partito italiano senza dirigenti (più o meno) democraticamente eletti: il primo congresso nazionale è stato rinviato a fine anno, perché i prodiani sperano che in settembre il congresso Ppi si concluda con la fuga nell’Asinello di molti popolari. Prodi avrebbe voluto far slittare tutto addirittura al Duemila, ma gli altri dirigenti che già cominciano ad averne abbastanza della gestione «provvisoria» di Parisi hanno strappato un anticipo a novembre.

Gli ex democristiani (prodiani, pattisti e, adesso, anche diniani) sembrano comunque avere già conquistato l’Asinello, in barba ai vari Di Pietro, Francesco Rutelli e Massimo Cacciari: come «garante» per la Lombardia, ad esempio, Prodi è riuscito a imporre la fedele Albertina Soliani, ex dc reggiana, direttrice didattica, già sottosegretaria all’Istruzione nel suo governo. Così, mentre la base è ancora composta quasi tutta da dipietristi (i militanti della prima ora che un anno fa diedero l’anima per raccogliere il mezzo milione di firme per il referendum), i vertici stanno diventando in maggioranza prodiani.

Se in Lombardia la Soliani (che assomiglia impressionantemente a Rosy Bindi) ha subito scelto come sua principale collaboratrice la prodiana Viviana Guerzoni, infliggendo così un altro colpo alla leadership del dipietrista Giorgio Calò, in altre regioni le cose stanno anche peggio. 

Disastri in Puglia: «Il garante Mario Monaco», protesta il dirigente foggiano Filippo Fedele, «ha spartito i subgaranti secondo la miglior logica democristiana». Un altro prodiano, il neoeurodeputato Giovanni Procacci, è andato a combinar guai a Modena, mentre nel Lazio c’è il caso di Raffaele Fellah, imbarazzante primo dei non eletti a Strasburgo dopo Rutelli grazie all’appoggio di Cl e degli andreottiani.

«Tutti questi passi falsi ci sono costati almeno quattromila aderenti in meno», commenta sconsolato Elio Veltri, dipietrista ante marciam. E «il nuovo modo di fare politica» dov’è finito? 

Friday, June 04, 1999

Pendenze penali dei fratelli Berlusconi

BERLUSCONI BROS.

di Mauro Suttora

Settimanale Erba, 4 giugno 1999

Do you remember Berlusconi? C’è un signore che secondo i sondaggi dopo le europee del 13 giugno 1999 guiderà il primo partito italiano, ma che è già stato condannato a più di cinque anni di carcere con sentenze di primo grado. Le quali, se diventeranno definitive, lo porteranno dritto in prigione. A meno che l’immunità parlamentare non salvi anche lui, dopo il suo compare Marcello Dell’Utri.

Tranne rare eccezioni (L’Espresso, il manifesto), i media ritengono démodé insistere sui guai giudiziari del capo di Forza Italia. Ci sembra ormai normale che una persona sola controlli tre catene tv (caso unico al mondo), e ci siamo abituati perfino alla sua pretesa di governare l’Italia. 

«Conflitto d’interessi»: chi pronuncia più queste parole? Tutti fanno finta di dimenticare che Berlusconi era iscritto alla P2, come Maurizio Costanzo (che per questo fu cacciato dalla Rizzoli Corriere della Sera ma oggi è direttore di Canale 5), o come Massimo Donelli, condirettore di Panorama, settimanale berlusconiano. Ma il processo Dell’Utri promette di far luce sugli inizi dell’impero del Biscione. Basati, oltre che sulla complicità di Craxi, anche su capitali di misteriosa provenienza: Sicilia, fondi di evasori rientrati dalla Svizzera?

In questo clima di assuefazione al peronismo brianzolo, ci sembra utile regalare agli smemorati l’elenco aggiornato delle sterminate pendenze penali di Silvio Berlusconi. E di suo fratello Paolo, usato come prestanome (per la proprietà di «Giornale» ed Edilnord) e come parafulmine nei processi. Il povero «Berluschino» ha già accumulato condanne definitive per un anno e un mese: ancora undici mesi, e addio condizionale.

1) TANGENTI ALLA GUARDIA DI FINANZA. Luglio ‘98: Silvio Berlusconi condannato a due anni e nove mesi in primo grado per 380 milioni di mazzette versate ai finanzieri che controllavano Fininvest, Videotime, Mediolanum, Mondadori e Telepiù dall’89 al ‘94. Assolto il fratello Paolo che si era preso ogni responsabilità. Massimo Maria Berruti, ex finanziere e poi consulente Fininvest, oggi è deputato di Forza Italia: condannato a dieci mesi, ma ha l’immunità parlamentare.

2) ALL IBERIAN. Condanna a due anni e quattro mesi in primo grado per venti miliardi di tangenti a Bettino Craxi.

3) ALL IBERIAN BIS. Processo in corso (falso in bilancio) per i fondi neri esteri della Fininvest. La cosiddetta «vittoria» sbandierata  nel marzo ‘99 consiste in realtà soltanto in un rinvio al gip per indeterminatezza dell’accusa.

4) MEDUSA. Condanna a un anno e quattro mesi in primo grado (condonati) per falso in bilancio nell’acquisto della casa cinematografica.

5) TOGHE SPORCHE. Richiesta di rinvio a giudizio con Previti, Squillante e Pacifico per la corruzione di magistrati romani svelata da Stefania Ariosto.

6) MONDADORI. Indagato per presunta corruzione di giudici allo scopo di far bocciare il «lodo» Mondadori nel ‘91, durante la guerra per il possesso della casa editrice contro il suo rivale Carlo De Benedetti.

7) SME. Indagato per presunta corruzione di giudici allo scopo di evitare, nel 1985, l’acquisto della Sme (Cirio, Bertolli, Autogrill) da parte di De Benedetti.

8) LENTINI. Fra un mese comincerà il processo per falso in bilancio sull’acquisto del calciatore del Milan.

9) TELECINCO. Indagato in Spagna per la tv privata che controlla al 25 per cento (limite massimo lì consentito).


«BERLUSCHINO»:

10) DISCARICA E SUCIDIO. Ottobre ‘98: raggiro da 70 miliardi ai danni della regione Lombardia per l’impianto di Cerro Maggiore (Milano) dal ‘91 al ‘96. Il contitolare Paolo Berlusconi sotto inchiesta per falso in bilancio, appropriazione indebita e truffa aggravata. Sequestrati venti miliardi in depositi bancari e titoli intestati a dipendenti Edilnord e congiunti, ma riconducibili a Paolo Berlusconi, che sarebbero stati accumulati con le operazioni incriminate. Alcuni prestanome sono accusati anche di ricettazione e riciclaggio. 

L’episodio più grave (vendita fittizia di un terreno acquistato a 30 miliardi e rivenduto sei mesi dopo a due) avviene nel ‘94, durante il governo Berlusconi. Una coda inquietante: nel febbraio ‘97 Luigi Ciapparelli, direttore della discarica e coimputato di Berlusconi, si uccide. Viene aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.

11) 150 MILIONI ALLA DC. Condanna definitiva (patteggiamento in appello) a un mese con la condizionale per un finanziamento illecito ai dc Prada e Frigerio da parte di Paolo Berlusconi. Oggi Frigerio è l’eminenza grigia di Forza Italia in Lombardia.

12) GOLF A TOLCINASCO. Maggio ‘98: la Cassazione rende definitiva la condanna a un anno per corruzione di Paolo Berlusconi: tangenti di 1.300 milioni per costruire alloggi nel golf club di Tolcinasco (caso sollevato dai verdi).

13) TANGENTI CARIPLO. Ottobre ‘98: Paolo Berlusconi assolto per le mazzette Cariplo, che nel ‘94 lo avevano portato in prigione.

14) FALSO IN BILANCIO. Novembre ‘98: rinvio a giudizio chiesto contro Paolo Berlusconi per falso in bilancio, appropriazione indebita e reati fiscali per i fondi neri della Pbf (Paolo Berlusconi finanziaria). 

Sunday, May 30, 1999

Bombe Usa feriscono i pescatori di Chioggia

INCREDIBILE: GLI AEREI CHE BOMBARDANO LA SERBIA SCARICANO ORDIGNI INESPLOSI NELL'ADRIATICO

dal nostro inviato a Chioggia (Venezia)
Mauro Suttora

Oggi, 30 maggio 1999

Andatelo a dire a Gino Ballarin, 42 anni, che le bombe degli aerei Nato scaricate nel mare Adriatico sono innocue. Lui, all’alba di lunedì 10 maggio, se n’è vista una scoppiare addosso. Gli ha completamente aperto la pancia: «Aveva le budella insanguinate che gli penzolavano per di fuori, uno spettacolo tremendo», raccontano i suoi colleghi marinai del peschereccio «Profeta» di Chioggia.
Ha rischiato di morire, lo hanno salvato per miracolo all’ospedale Umberto Primo di Mestre, ma i medici ci hanno messo parecchi giorni prima di dichiararlo fuori pericolo. E adesso, mezzo mese dopo, si trova ancora lì in corsia, con il ventre ricucito alla bell’e meglio.

«Eravamo partiti come sempre dal porto di Chioggia ch’era ancora notte fonda», ci racconta Gimmi Zennaro, 38 anni, comandante del «Profeta», «e abbiamo pescato con reti a strascico in parallelo con il peschereccio “Gurra”. Verso le sette abbiamo tirato su le reti. Impigliati fra i pesci c’erano dei barattoli gialli, grandi più o meno come le lattine della Coca cola. Pensavamo fossero contenitori di fumogeni, eravamo curiosi, li osservavamo girandoceli fra le mani. Ma all’improvviso uno è scoppiato, con un’esplosione violentissima».

Assieme a Ballarin sono stati colpiti anche il comandante Zennaro, che si trovava vicino a lui, e il marinaio Vanni Bellemo. Alle sette e un quarto dal peschereccio è partito l’allarme via radio per la Capitaneria di porto di Venezia: «Esplosione a bordo, abbiamo dei feriti gravi!».
In quel momento il «Profeta» si trovava a circa venti miglia (35 chilometri) al largo della città lagunare. Sono subito scattate le operazioni di soccorso: una motovedetta della Guardia costiera ha raggiunto i due pescherecci chioggiotti, e così hanno fatto anche due elicotteri, uno dei Vigili del fuoco e l’altro dell’Aeronautica.

Il povero Ballarin è stato caricato su un elicottero e trasportato all’ospedale di Mestre, dov'è stato operato immediatamente all’addome. Anche il comandante Zennaro ha trascorso vari giorni in ospedale, mentre Bellemo, colpito a una coscia, se l’è cavata più in fretta. 
Il peschereccio, che appartiene alla Cooperativa San Marco di Chioggia, non ha subìto gravi danni, ed è riuscito a rientrare in porto. 

«Ma i miei marinai», continua a raccontare il comandante del «Profeta», «hanno avvisato subito carabinieri e polizia che c’erano ancora altri ordigni impigliati nelle reti. Li avevamo notati prima dell’esplosione, si notavano facilmente perché erano gialli». Così i Vigili del fuoco hanno allertato gli artificieri dell’Esercito, che infatti hanno trovato altre tre bombe fra il pesce. Gli ordigni sono stati portati nel forte San Felice di Chioggia, e fatti esplodere lì in sicurezza.

Ma da dove venivano, quelle bombe pescate in mezzo all’Adriatico? 
Qui incomincia una storia incredibile. Per vari giorni, infatti, la versione ufficiale è stata che si trattasse di vecchi ordigni a frammentazione sganciati a grappolo durante la Seconda guerra mondiale. Avevano un bell’obiettare, i pescatori di Chioggia, che se così fosse stato gli involucri delle bombe avrebbero dovuto presentarsi ricoperti di alghe vecchie più di mezzo secolo, e non di un giallo fiammante.

La verità viene a galla giovedì 13 maggio, quando i pescherecci «Gurra» e «Annarita» pescano altre 200 bombe. Tutti pensano alle decine di aerei che da due mesi partono dalle basi Nato in Italia per bombardare la Jugoslavia. Già a metà aprile, infatti, un aereo americano aveva sganciato una manciata di bombe inutilizzate nel lago di Garda, prima di un atterraggio di emergenza. Ma dal comando Nato di Vicenza arriva una risposta sconcertante: «Non possiamo escludere che le bombe siano nostre, ma per saperlo dobbiamo aspettare i risultati di un’inchiesta interna», balbettano le gerarchie militari.

Apriti cielo. I pescatori di Chioggia entrano immediatamente in sciopero, rifiutano di riprendere il mare fino a quando il governo non darà loro una risposta certa. E quando si dice Chioggia, si dice la più grande flotta peschereccia d’Italia assieme a quella di Mazara del Vallo (Trapani): 600 imbarcazioni. 

Il mare Adriatico, infatti, nonostante l’inquinamento (ma anche grazie ad esso, perché le stesse sostanze che provocano l’eutrofizzazione nutrono anche i pesci) è uno dei più ri cchi del mondo: è grande solo un ventesimo del Mediterraneo, ma regala un quinto del pesce pescato fra Gibilterra e Suez.

Chioggia, con i suoi 60mila abitanti che parlano un dialetto stranissimo, differente dal veneziano, è la seconda città della provincia di Venezia: le 30mila casse al giorno che si vendono al mercato ittico fanno vivere gran parte della popolazione, dai pescatori all’indotto. Ma per due settimane si è fermato tutto, con danni enormi. 

«Noi perdiamo cinque milioni al giorno», spiega a Oggi Sauro Ranzato, 35 anni, presidente dei 42 facchini della Cooperativa braccianti del mercato ittico. Ma troppo grande è stata la paura di pescare morte, troppo forte la rabbia per essersi sentiti presi in giro dalla Nato e dal governo.

«Non ci soddisfa neanche la risposta data dalla Nato a Massimo D’Alema il 20 maggio», ci dichiara Enzo Fornaro, leader veneto di Federcopesca, «perché sapere che le bombe Nato sganciate nei fondali dell’Adriatico sono in tutto 143 non cambia molto le cose. Ben sette di queste, infatti, sono a grappolo, e tutte buttate nel golfo di Venezia. Ebbene, in ciascuno di questi sette contenitori ci sono ben 200 bombe. Quindi, poiché è probabile che diversi di questi contenitori si siano aperti all’impatto con il fondale, oppure perché le nostre reti li hanno trascinati e fatti sbattere, il numero totale delle bombe non è 143, ma più di 1.500».

Scusi, Fornaro, ma la pesca a strascico, che «ara» i fondali, non era stata proibita? 
«No di certo. È stata soltanto regolamentata, per esempio con il periodo di fermo pesca che inizierà fra un mese per permettere alle uova di schiudersi e ai piccoli di crescere. Ma lo strascico è l’unico modo di pescare molte specie. Le sogliole, per esempio, che si acquattano sui fondali».

Ma le bombe inesplose della Nato sono pericolose anche per i bagnanti?
«Non c’è bisogno di fare allarmismo», dichiara a Oggi Giulio Silenzi, assessore al Turismo della regione Marche, diessino, «perché i bagnanti che frequentano le spiagge non sono assolutamente minacciati da queste bombe, che si trovano a grandi profondità e a trenta-quaranta miglia al largo. Insomma, il turismo balneare non c’entra niente con questa faccenda, e noi siamo fiduciosi. A Pasqua abbiamo registrato il record storico di arrivi e presenze». 

Ma adesso? Dopo gli allarmi dei giornali tedeschi, avete registrato qualche disdetta? 
«È ancora presto per fare i conti, perché le prenotazioni per giugno, luglio e anche agosto arrivano all’ultimo momento. Se si verificheranno dei problemi, lo sapremo soltanto fra due-tre settimane. Certo è che per il turismo delle Marche i tedeschi sono molto importanti, ne arrivano mezzo milione ogni anno».
Mauro Suttora

RIQUADRO
Le bombe «pescate» a Chioggia sono gli ordigni a grappolo sganciati dalla Nato sulla Serbia. Lunghe 2,33 metri, pesano 430 chili. Ciascuna contiene oltre 200 granate di tre tipi: a penetrazione, a frammentazione e incendiarie. 

Quelle a penetrazione distruggono fino a 12 centimetri di corazza dei carri armati. Le granate a frammentazione esplodono invece a pochi metri dal suolo, gettando attorno una pioggia di schegge: possono ferire una persona anche a 150 metri di distanza. Le granate incendiarie, infine, sviluppano un calore elevatissimo, che getta fiamme su una vasta area e incendia la benzina contenuta nei serbatoi dei mezzi nemici.

Se un aereo non sgancia il suo carico sull’obiettivo fissato, per evitare di compiere un atterraggio pericoloso al ritorno (perché è stato danneggiato, per avaria, per maltempo) può «alleggerirsi» degli ordigni disinnescati, gettandoli in sei aree previste e sicure nelle acque internazionali del mare Adriatico. 

È quello che è successo 35 volte (su 21mila missioni) in questi due mesi di bombardamenti Nato. «Non innescare una bomba, però, non significa renderla totalmente innocua», spiega l’esperto militare Michele Lastella, «perché essa, contenendo esplosivo, può ancora esplodere a un qualsiasi urto meccanico. Solo gli artificieri possono disattivarla completamente». 


Per questo la Nato ha promesso di aiutare i dragamine italiani che stanno bonificando l’Adriatico dalle 143 bombe gettate finora nei suoi fondali. Quanto agli ordigni trovati fuori dalle sei aree previste, Lastella spiega: «Può darsi che in condizioni di  emergenza, com’è successo sul lago di Garda, un pilota non abbia potuto rispettare la procedura».

Thursday, May 20, 1999

Elezione del nuovo presidente Ciampi

CIAMPI IN PILLOLE

di Mauro Suttora

Oggi, 20 maggio 1999

MOGLIE
Franca Pilla, 74 anni, di Reggio Emilia, simpatica, estroversa, decisa, ironica, laureata in Lettere moderne, figlia del cassiere molisano della Banca d’Italia prima a Reggio Emilia e poi a Livorno: «È meno noiosa di suo marito», ha detto Pierferdinando Casini a Porta a porta, scusandosi poi per la gaffe. 53 anni di matrimonio (1946), ha conosciuto Carlo Azeglio all’università di Pisa durante la guerra.

È stata lei a indirizzarlo verso l’economia spingendolo a tentare il concorso per la Banca d’Italia, vinto nel ‘46. Si fa confezionare gli abiti nella sartoria romana di Eurilla Gismondi, la stessa di Natalia Ginzburg, Nilde Iotti, Rosetta Loy.
«A mia moglie lei sta molto simpatico», disse Ciampi a Umberto Bossi.
Unica litigata memorabile: «Lo fece novo» (come dicono a Livorno), quando scoprì in ritardo che il marito aveva rinunciato allo stipendio di 400 milioni annui come governatore della Banca d’Italia, accontentandosi dei 160 milioni della pensione.

Si sveglia alle sei e mezzo e legge subito i giornali, proponendo la prima rassegna stampa al marito. Ogni giorno la coppia legge cinque quotidiani: Corriere della Sera, Repubblica, Messaggero, Stampa e Sole. Detesta stare ai fornelli e delega le incombenze di cucina alla donna di servizio emiliana, la vecchia «tata» che è ormai una di famiglia. 
Parla perfettamente l’inglese, come il marito, che quando era alla Banca d’Italia accompagnava spesso nei viaggi all’estero (molto meno dopo che divenne presidente del Consiglio, nel ‘93-’94).

FIGLI
Gabriella, coniugata Giordano, ha la cattedra di Storia italiana contemporanea presso la Facoltà di conservazione dei beni culturali all’università della Tuscia a Viterbo. È la sua consigliere politica più fidata e ascoltata. 
«Però perfino lei, che di politica ne capisce e spesso ci prende, sosteneva che non sarei stato eletto», ha confidato Ciampi a Bruno Tabacci del Ccd.  Per anni ha insegnato in un’università della Campania, e il padre si è sempre rifiutato di raccomandarla per farla trasferire a Roma, dove vive. 
«Con i miei figli non ci sono remore formali: parliamo molto, con grande libertà di espressione e di linguaggio, senza alcuna paura delle parole».

Claudio, dirigente della Bnl (Banca nazionale del lavoro), dal 1997 è amministratore delegato di Credifarma, una società partecipata della Bnl specializzata nella fattorizzazione dei crediti vantati dalle farmacie nei confronti del Servizio sanitario nazionale.
Appassionato di bridge. A Santa Severa ha una casa proprio di fronte a quella dei genitori, in una villa quadrifamiliare divisa con la sorella di Francesco Cossiga, Antonietta (che ospita spesso l’ex presidente), con un professore e con l’ex comandante dei carabinieri di Santa Severa in pensione.
Tre nipotine: due da Claudio (Margherita e Virginia) e una da Gabriella: Maria.
Il nipote Paolo, 41 anni, è il più giovane dei sei figli (in ordine d’età: Francesco, 57 anni, Laura, Pietro, Letizia, Giovanna e Paolo) dell’unico fratello Giuseppe, morto nel ‘98. Gestisce a Livorno il più antico negozio di ottica della città, fondato dal bisnonno Temistocle Azeglio Ciampi.

CASA A ROMA
130metri quadri nel quartiere Trieste-Salario, via Anapo 28, un attico con vista sul parco di villa Ada, tappezzato di quadri di post-macchiaioli di Livorno. Ci stanno dagli anni Sessanta, quando l’allora quarantenne Carlo Azeglio arrivò a Roma con la famiglia dalla filiale di Macerata, per lavorare all’ufficio studi della Banca d’Italia.

CASA A SANTA SEVERA
Ci va anche nei fine settimana invernali. È una villa nella zona più bella, più verde, più quieta e più vecchia, con le residenze fatte costruire negli anni Trenta dalla cooperativa «28 ottobre» (anniversario della Marcia su Roma) formata da gerarchi e alti papaveri del regime fascista.
Quando vuol fare bella figura con gli ospiti si fa portare a casa la cena direttamente dall’albergo Due pini: i due figli del proprietario si mettono la giacca bianca e servono a tavola.
Gioca a scopone scientifico in coppia con la moglie al circolo nautico di Santa Severa. Una volta, invitati alle isole Eolie dal loro grande amico Umberto Colombo, già presidente dell’Enea, vinsero un torneo di scopone.

SOLDI
Guadagna 76 milioni lordi al mese, la pensione della banca d’Italia. Investe i risparmi soltanto in titoli di Stato. «Non ho mai posseduto un’azione, non perché lo ritenga errato, ma fin da quando ero giovane ritenevo che non fosse appropriato per un dipendente della Banca d’Italia acquistare azioni».

Nonostante il suo reddito da 917 milioni annui, a Ciampi piace minimizzare, e ama addirittura definirsi «piccolo borghese»: «Il mio stile di vita è quello dell’agiatezza piccolo borghese. È una definizione che non mi infastidisce, perché la condizione di piccolo borghese è la forza dell’Italia. Da quando ho raggiunto una situazione professionale grazie alla quale non dovevo più aspettare con trepidazione il 27 del mese, il problema danaro per me si è chiuso. Se invece di avere un pattino possedessi una barca di 50 metri, avrei naturalmente esigenze diverse. Ma lo spirito della mia famiglia è così, molto semplice».
Mauro Suttora

Monday, April 26, 1999

Sprechi militari: trucchi e disastri dei nostri generali

SPRECHI MILITARI: TRUCCHI E DISASTRI DEI NOSTRI GENERALI

di Mauro Suttora

Erba, 26 aprile 1999

L’aereo Usa Stealth «pseudoinvisibile» caduto in Serbia costava 70 miliardi. Se questa cifra vi è sembrata assurda per un solo velivolo, seppure da guerra, tenetevi forte: l’Italia sta per comprare ben 130 aerei Eurofighter 2000 (Efa) al prezzo di 160 miliardi l’uno. Spesa totale: 20.400 miliardi. «Come, tutti questi soldi all’Aeronautica e a noi nulla?», hanno allora protestato invidiosi gli ammiragli della Marina. Subito accontentàti: la commissione Difesa della Camera ha approvato un anno fa la costruzione di una portaerei da quattromila miliardi.

Sono solo due esempi degli sprechi enormi che caratterizzano le nostre Forze armate. Le quali, imbaldanzite dalla guerra in Kosovo, ne approfittano per battere cassa. Tutto questo nel silenzio dei mass media, di destra e di sinistra. Anzi, un settimanale come l’Espresso ha dedicato l’unico articolo sui bilanci militari a una lamentela per la loro supposta esiguità da parte del generale Pietro Giannattasio, deputato di Forza Italia. «La caratteristica più impressionante della commissione Difesa», conferma Mauro Paissan, che vi rappresenta i verdi, «è il clima da unità nazionale che la pervade. È l’unica commissione dove non c’è mai divisione fra maggioranza e opposizione».

L’acquiescenza dei Ds di fronte alle pretese dei generali è dimostrata da due recenti episodi. Nell’ultima legge finanziaria, il ministero della Difesa è stato l’unico a non dover ridurre del 5 per cento gli stanziamenti per gli investimenti. E in marzo a Roma i diessini hanno organizzato un convegno ipotizzando una cifra di 160mila soldati per il prossimo esercito professionale, senza più giovani di leva. Un livello non lontano dai 210mila richiesti dalle gerarchie militari e avallati dal ministro della Difesa, il cossighiano Carlo Scognamiglio. «Ma spropositato rispetto alle reali esigenze dell’Italia, per le quali in realtà bastano meno di centomila uomini».

Le gerarchie in uniforme, invece, vagheggiano una forza d’intervento da media potenza, e vorrebbero scimmiottare inglesi e francesi: 70mila soldati professionisti sempre pronti a partire, «ready to combat», con «capacità di proiezione autonoma» in tutto il mondo. Totale, moltiplicato per rispettando gli standard militari sui cambi e la logistica,: 210mila militari. 

Il sospetto, naturalmente, è che i nostri generali più che alla difesa della Patria pensino a quella della propria poltrona: perché sono loro stessi un piccolo esercito di 400 persone, contro i 350 generali degli Stati Uniti. Quanto agli ufficiali, oggi ne abbiamo 29.100, ma un decreto legge del ‘97 stabilisce che devono diminuire a 21.900 entro otto anni. «Lancio una parola d’ordine: cassa integrazione e prepensionamento per gli alti gradi delle forze armate», propone Paissan, «perché il loro sovrannumero è la vera motivazione delle cifre folli fatte da Scognamiglio».

Stefano Semenzato, unico verde nella commissione Difesa del Senato, abbassa ancora di più il numero: «Alle missioni armate Onu di interposizione all’estero l’Italia può contribuire degnamente con un corpo di 20mila uomini. E anche triplicando questa cifra,  si arriva a 60mila».

Cifre gonfiate per gli organici, e truccate per i bilanci. Dieci anni fa è caduto il muro di Berlino, l’impero sovietico si è liquefatto, vari eserciti dell’Est sono stati accolti nella Nato: venuta meno la principale minaccia alla nostra sicurezza, avremmo potuto incassare i cosiddetti «dividendi della pace», riducendo le spese militari. Invece no. Come denuncia un informatissimo documento della Campagna Venti di Pace curato da Marco Donati, mentre fra il 1990 e il ‘97 la Germania ha diminuito i propri bilanci militari del 30%, gli Usa e la Gran Bretagna del 26% e la Francia dell’8, il risparmio per l’Italia è stato appena del 5%. La Nato informa che siamo stati gli unici, assieme a Turchia e Grecia (bella compagnia) ad aver aumentato le spese militari rispetto al Pil: dall’1,8% del 1995 (per un totale di 30mila miliardi) al 2% dell’anno scorso (40mila miliardi.

Sempre secondo i dati Nato, certo non sospetti di pacifismo, ogni cittadino statunitense ha pagato nel 1997 ben 400 dollari in meno rispetto al 1990 per la difesa, un tedesco 330 in meno, un britannico quasi 200 e un francese circa cento in meno; un italiano, invece, ne spende a malapena 39 in meno. Insomma, le manovre finanziarie «lacrime e sangue» degli anni Novanta hanno risparmiato soltanto le manovre militari.

Ma c’è di più: il bilancio italiano della Difesa è falso. Le gerarchie militari, infatti, per farlo apparire più leggero, caricano molte spese su altri dicasteri. Quello dell’Industria, per esempio, nel ‘97 si è accollato ben 393 miliardi così distribuiti: 96 per l’«aggiornamento» di 15 elicotteri armati da combattimento A-129, 24 per acquistare due aerei Do-228, 78 per dotare una cinquantina di velivoli di un «efficace sistema di autoprotezione integrato»,,fino al 2008), viene anch’essa coperta dai fondi d’accantonamento del ministero dell’Industria, guidato dal generoso diessino Pierluigi Bersani. 

«Il programma Efa è un vero scandalo», sottolinea Semenzato, «sia perché costa cifre incredibili extrabilancio, sia perché quando saranno pronti quegli aerei saranno già vecchi: fra pochi anni gli Usa avranno velivoli di una generazione superiore, i Joint strike fighters, costati la metà di ciascun Eurofighter, come ha dovuto ammettere lo stesso ex ministro della Difesa Beniamino Andreatta». Non a caso la Francia si è tirata fuori dal programma Efa e sta sviluppando autonomamente il proprio Rafale (alla faccia dell’Europa unita), e la Germania fino all’ultimo ha messo in forse la sua partecipazione al consorzio con l’italiana Alenia, la British Aerospace e la spagnola Casa.

«Ci sono poi gli aerei Amx», continua Semenzato, «un programma italo-brasiliano che si trascina dal 1974, con apparecchi costati 54 miliardi l’uno, ma dei quali a tutt’oggi non è stato completato l’ammodernamento: 40 su 112 giacciono incellophanati negli hangar, e vengono usati come miniere di pezzi di ricambio per gli altri». 

Infine, l’opera buffa: quasi 1.300 miliardi richiesti dai generali per comprare 13 aerei Stovl a decollo verticale. Da piazzare sulla portaerei citata all’inizio dell’articolo, che gli ammiragli vorrebbero battezzare Luigi Einaudi: una scelta bizzarra, quella di dedicare un monumento dello spreco proprio al più rigoroso fra i presidenti della Repubblica.

Ma perché gli aerei a decollo verticale, e non quelli normali? Perché il trattato di pace firmato dopo la Seconda guerra mondiale proibisce agli Stati perdenti (Italia, Germania e Giappone) di avere portaerei. Così, con i nostri soliti giochi di parole, abbiamo messo elicotteroni da 94 miliardi su una quasi portaerei. Il capo di stato maggiore della Marina sogna «di operare non soltanto in tutto il Mediterraneo, ma anche di partecipare a operazioni su scala più ampia: in particolare in Corno d’Africa, oceano Indiano e golfo Persico».

Attendendo di combattere sull’intero orbe terracqueo, ci consoliamo buttando 1.700 miliardi per il carrarmato Ariete, carro di seconda generazione inadeguato secondo gli stessi militari alle loro esigenze (gli altri Paesi sono arrivati alla terza generazione di panzer), e che richiede quindi ulteriori interventi: nel solo 1997 sono stati spesi 11 miliardi per rinforzare la corazzatura di 25 esemplari, al costo di quasi mezzo miliardo l’uno. 

Oppure il nuovo sommergibile autarchico S-90 studiato dalla Fincantieri: il suo costo aveva raggiunto livelli così inaccettabili che è stato più conveniente comprare i sommergibili tedeschi U-212. «Con buona pace di tutti i miliardi spesi nel frattempo, oltre ai 1.750 miliardi necessari per le due nuove unità», commentano i ricercatori di «Venti di pace».

Come uscire da questo guazzabuglio di sperperi? «La soluzione è l’Europa», afferma Semenzato, «perché le nostre forze armate si devono integrare fortemente con quelle dell’Unione. Solo così si eviteranno inutili doppioni. Altro che “capacità di proiezione autonoma” della sola Italia!» 

L’altro nodo sul tappeto è quello dell’abolizione della leva. «Non sono contrario in linea di principio, non è più tempo di golpismo», concede Paissan. Ma, come abbiamo visto, i numeri proposti dai verdi (i ventimila del «nocciolo duro» di pronto intervento con bandiera Onu) sono molto lontani da quelli «governativi»: rappresentano appena il 10 per cento dell’armata di oltre 200mila soldati professionisti sognata dalle gerarchie militari.

«Il ministro Scognamiglio prevede solo 1.500 miliardi in più per l’esercito professionale», spiega Massimo Paolicelli, portavoce dell’Associazione Obiettori Nonviolenti, «ma sono stime fasulle, perché a queste bisogna aggiungere i costi del migliore equipaggiamento dei volontari, un casermaggio decente, la formazione, i lavori di corvée da appaltare all’esterno, il venir meno dei 60mila giovani in servizio civile nella pubblica amministrazione”.

Spese militari in % sul pil:

      1995       1998

Italia 1,8 2,0

Germania 1,7 1,5

Francia 3,1 2,8

Olanda 2,0 1,8

Norvegia         2,4 2,1

G.Bretagna 3,1 2,7

Spagna 1,5 1,3

Portogallo 2,7 2,4

Canada 1,6 1,2

Stati Uniti 4,0 3,3

(fonte: Nato Review n.1, 1999)


Aumento della spesa militare dell’Italia (miliardi di lire):

1995: 31.561

1996: 36.170

1997: 38.701

1998: 40.089

(fonte: Nato Review n.1, 1999) 

Wednesday, April 21, 1999

Dopo la strage del Monte Bianco

LE GALLERIE SONO GIUNGLE PER LE CARICHE DI BISONTE SELVAGGIO

di Mauro Suttora

21 aprile 1999

«L’ultimo incendio lo abbiamo avuto domenica scorsa...». Come, dopo la strage del Monte Bianco c’è stato un incendio anche nella vostra galleria e nessuno ha saputo niente? 
«Guardi, qui da noi fra princìpi di incendio e incidenti vari ne abbiamo in media tre alla settimana. Ma è quello che succede normalmente in tutte le strade e gallerie del mondo. L’importante è che i singoli incidenti non si trasformino in disastri. E questo, grazie ai nostri sistemi di sicurezza, è impossibile».

È rassicurante, il geometra Paolo Manzo dell’Anas, responsabile dei 18 chilometri di galleria sulla strada statale 36 fra Lecco e Colico, incubo e delizia di tutti i lombardi che devono raggiungere la Valtellina: Sondrio, Madesimo, Bormio o Sankt Moritz. 
Incubo, perché fino al prossimo 25 ottobre (data in cui finalmente aprirà la nuova galleria di Monte Barro) decine di migliaia di macchine sopporteranno, come fanno da dieci anni, code di ore ogni fine settimana per l’attraversamento di Lecco; delizia, perché grazie ai tunnel che coprono il 42 per cento del tracciato lungo il ramo orientale del lago di Como (quello del Manzoni), la Valtellina si è avvicinata al mondo.

Come si può vedere nella cartina che pubblichiamo, la Lecco-Colico è una galleria «a doppia canna», per usare le parole degli esperti. Ha cioè due tunnel paralleli, uno per ogni senso di marcia. E questo, come si è purtroppo constatato dopo il disastro del traforo del Monte Bianco (a galleria unica), la rende automaticamente sicura. 

Ma quanto ci si può fidare di tutte le altre gallerie italiane? D’ora in poi dovremo entrare sempre col batticuore nei 1.200 tunnel della rete stradale Anas, o nei 150 chilometri di gallerie autostradali, o nei ben 1.200 chilometri di trafori ferroviari (senza contare i 60 chilometri di metropolitane)?

«Di per sè, le gallerie sono sicure», risponde Dario Balotta, uno dei massimi esperti sindacali del trasporto in Italia. «I claustrofobici possono detestarle, ma non ricordo notizia di crolli improvvisi che abbiano provocato vittime. Dopo il Giappone, siamo il Paese che ne ha di più al mondo. Quelle ferroviarie, in particolare, non hanno mai causato problemi, a parte la bomba sull’Italicus nella galleria di San Benedetto di Val di Sambro del ’74, che però fu un atto terroristico isolato. Eppure, l’85 per cento dei tunnel ferroviari sono stati costruiti prima del 1940, e il 60 per cento addirittura prima del 1905. Ma resistono benissimo».

Diverso è il discorso per le gallerie stradali. Su queste, Balotta è molto meno rassicurante. E punta il dito sui Tir: «Tutti coloro che viaggiano in autostrada nei giorni feriali si rendono subito conto che ormai il sistema sta arrivando al collasso. I Tir sono già troppi, e non è piacevole vederseli davanti o dietro a velocità spesso folli mentre si cerca di viaggiare tranquilli. E quando si entra nelle gallerie, spesso il viaggio in automobile si trasforma in un incubo: chilometri e chilometri di enormi camion incolonnati occupano costantemente una corsia e, non di rado, compiono azzardi anche in quella di sorpasso. 
Per di più, tutto ciò peggiorerà: la Commissione europea, infatti, stima che entro l’anno 2010 il Nord Italia subirà un traffico di attraversamento dei valichi alpini di 176 milioni di tonnellate di merci all’anno, contro i 101 del 1992».

Noi automobilisti siamo quindi impotenti contro le imprudenze dei camionisti, come si è visto sotto il Monte Bianco. Certo, possiamo mantenere le distanze di sicurezza anche in galleria, magari raddoppiarle, rispettare noi stessi i divieti di sorpasso invece di scalpitare nervosi contro i gas di scarico dei bisonti della strada. Però, in prossimità di una galleria, se ci sentiamo stretti fra un Tir e l’altro, c’è poco da fare: meglio non azzardare sorpassi in extremis. E accostare nella corsia di emergenza soltanto per lasciarci superare è espressamente vietato (ma, per carità, fatelo pure, se vi accorgete che il camion di fronte a voi sta lasciando una scia di fumo!).

Stabilito quindi che la pericolosità delle gallerie non dipende dalle gallerie stesse, ma dal traffico che vi scorre dentro, si deve però dire che alcuni tunnel sono più sicuri di altri. Il traforo del Gran Sasso, per esempio, è meglio di quelli alpini perché ha due gallerie. Certo, sotto le viscere del monte ospita anche un laboratorio atomico del Cnr, e in caso d’incendio chissà quali fuochi d’artificio si sprigionerebbero. 
Tuttavia, è evidente che l’esistenza di una galleria parallela rappresenta una grossa garanzia. Per tre motivi: impedisce gli scontri frontali, rappresenta una via di fuga in caso d’incendio, e perché la corrente d’aria e i sistemi d’areazione permettono di respirare, senza morire soffocati dal fumo com’è successo alle 50 vittime del Monte Bianco.

«Attenzione, però», avvertono gli esperti, «perché avere due gallerie parallele è inutile se i bypass [cioè le aperture che collegano un tunnel all’altro, ndr] sono troppo pochi, o troppo distanziati fra loro, o non è chiaramente indicata sulle pareti la loro esistenza, ubicazione e lontananza, con frecce che indirizzino gli eventuali appiedati verso quello più vicino. Ovviamente, sono inservibili ai fini dell’emergenza anche le gallerie scavate una sopra all’altra, su piani diversi». 
Comunque, sono doppi tutti i tunnel delle autostrade, e 141 chilometri su 482 delle gallerie Anas.

I trafori alpini, invece (oltre al Bianco, che risale al 1965, ci sono il Fréjus dell’80, il Gran San Bernardo del ’64 e il San Gottardo, tutto svizzero, dell’80), sono a galleria unica. Il San Gottardo, che con i suoi 16 chilometri è il tunnel stradale più lungo del mondo (il Channel Tunnel sotto la Manica, del ’94, è ferroviario: le auto salgono sopra i vagoni, come sul nostro Sempione), ha però una galleria di servizio pressurizzata parallela che permette la fuga a piedi. Per accedervi ci sono, ogni 250 metri, portelloni che in caso d’emergenza si richiudono automaticamente. Inoltre, quattro pozzi intermedi bucano la montagna per centinaia di metri fino alla superficie, garantendo una ventilazione supplementare.

Domandiamo al responsabile della sicurezza, l’ingegner Mario Gagliardi, se, in caso d’incendio, questi pozzi non rischiano di funzionare da camini, con relativo tiraggio e quindi invasione di fumo: «Certo, servono a liberare la galleria dal fumo, ma poiché sono divisi a metà, garantiscono anche l’afflusso di aria pulita. Noi, però, a differenza del Bianco, abbiamo il condotto di ventilazione protetto da una soletta sopra la galleria. Quindi, anche in caso di temperature altissime, la ventilazione non si blocca».

Anche nel Gottardo, come nella Lecco-Colico e in tutti i tunnel più recenti, costruiti negli ultimi vent’anni, ci sono colonnine d’emergenza con telefono, telecamera ed estintore. Ed è garantita la copertura per i telefonini cellulari. Ma adesso, con la chiusura almeno per sei mesi del traforo del Bianco, sulla direttrice Milano-Chiasso-San Gottardo-Germania si aspetta un aumento del traffico nord-sud, che non si dirotterà tutto sul Fréjus.

Ancora una volta, comunque, il vero problema sono i Tir: «In Svizzera non possono passare quelli superiori a 28 tonnellate», ci spiega l’ingegner Gagliardi, «anche se le potentissime lobbies degli autotrasportatori italiani e tedeschi premono sul nostro governo per fare avere il via libera anche ai “mostri” da 40 tonnellate. Purtroppo, in vista di una futura adesione della Svizzera all'Unione europea, dal 2001 il loro transito sarà consentito. E questo provocherà un aumento intollerabile dell’inquinamento nelle strette valli del Ticino e di Uri. Certo, come gli austriaci potremo imporre alte tasse di transito, maggiori delle 280 mila lire che costava il passaggio dal Monte Bianco. Ma senza un cambiamento della politica europea dei trasporti, con il potenziamento delle ferrovie, verremo invasi».

La soluzione arriverà soltanto nel 2012, quando entrerà in funzione il nuovo tunnel ferroviario del San Gottardo, lungo ben 50 chilometri (un altro record mondiale), per il quale sono iniziati i lavori pochi mesi fa: i camion verranno obbligati ad attraversare le Alpi salendo a bordo di treni speciali. Così non si ripeterà per il Gottardo l’insostenibile aumento di Tir (dai 450 mila nell’85 agli 835 mila del ’93), che è stato la principale causa della strage sotto il Monte Bianco.
Mauro Suttora

Wednesday, April 07, 1999

Il padre di Hitler era ebreo

PER QUESTO IL FUHRER RASE AL SUOLO IL SUO PAESE IN AUSTRIA

«A Dollersheim era nato suo padre, ufficialmente figlio di N.N., probabilmente di un ebreo», ci dice Franz Eigl, uno dei 7mila abitanti costretti ad andarsene nel 1938, dopo l'annessione nazista. «Trasformò la regione in una zona militare: lo è ancor oggi». I retroscena di una delle pagine più oscure del nazismo

dal nostro inviato Mauro Suttora
foto di Gianni Gelmi

Oggi, 9 aprile 1999

L'ultimo mistero di Adolf Hitler, a 110 anni dalla nascita, è sepolto qui, sotto le rovine del villaggio fantasma di Dollersheim. Sulle cartine di oggi non esiste, o al massimo è indicato fra parentesi, perché 61 anni fa venne cancellato. Inghiottito dalla furia dei nazisti tedeschi che nel 1938 annessero l'Austria, quattro anni dopo averne assassinato il cancelliere Engelbert Dolfuss.

Una enorme area di 24mila ettari attorno a Dollersheim venne requisita, e settemila contadini austriaci furono costretti ad andarsene. Arrivarono panzer, Ss e bandiere con la svastica. La zona fu trasformata in un immenso poligono di tiro: la più grande area di esercitazioni militari del Terzo Reich. Villaggi e fattorie furono poco a poco distrutti da bombe e granate.

Qualcosa rimase in piedi, ma poi arrivarono i sovietici che occuparono questa parte di Austria 150 km a nordovest di Vienna, vicino al confine boemo. Incredibilmente, però, anche nei decenni seguenti e fino a oggi, l'area è rimasta in mano ai militari austriaci per le loro manovre. Tuttora l'ingresso è vietato, e un grande cartello in quattro lingue ci blocca la strada due chilometri prima delle rovine di Dollersheim.

In una fattoria vicina ci spiegano che l'esercito apre eccezionalmente la strada soltanto durante poche ore per qualche giorno all'anno, nei periodi di calma fra un'esercitazione e l'altra.

Si è fatto tardi, è buio, raggiungiamo la cittadina di Zwettl. Proviamo a entrare nella biblioteca che si trova nella piazza centrale, e alla bibliotecaria domandiamo se si possono consultare libri o documenti su Dollersheim. «Perché?», ci chiede sospettosa.

Lei lo sa il perché. Lo sa benissimo. Nei 50mila libri, saggi e articoli pubblicati su Hitler sta scritto che il padre del dittatore, Alois, nacque proprio in questo villaggio austriaco nel 1837. Forse la signora ci ha preso per nostalgici nazisti. Le spieghiamo che siamo giornalisti e che veniamo apposta da Milano per indagare sull'ultimo mistero di Hitler: suo padre.

La signora si tranquillizza, ma sussurra: «Noi non abbiamo nulla su questo argomento. Provate domani in Comune. Però sappiate che qui la gente non ama parlare di Hitler».

Perché? «È ancora una questione imbarazzante, visto l'entusiasmo con cui molti austriaci accolsero i nazisti dopo l'Anschluss del 1938».

Ancora più imbarazzanti, però, dovevano essere le origini di suo padre per Hitler stesso, che fece evacuare e distruggere la sua "Vatersheimat", il paese paterno, soltanto poche settimane dopo esserne entrato in possesso. E a ragione. Innanzitutto perché il vero cognome di Alois non era Hitler, ma Schicklgruber. Ve li immaginate settanta milioni di tedeschi a gridare «Heil Schicklgruber!»? Ridicolo, peggio del Grande Dittatore di Charlie Chaplin.

Eppure il padre di Hitler, ciabattino e poi doganiere, cambiò il suo nome da Schicklgruber in Hiedler e poi in Hitler soltanto nel 1877: appena dodici anni prima che venisse al mondo Adolf, nato dal suo terzo matrimonio con l'ex donna di servizio Klara Polzl.

Questa girandola di cognomi nasconde altri motivi di vergogna per Hitler. Suo padre era figlio di N.N. La nonna Maria Anna Schicklgruber, infatti, povera contadina di Dollersheim, iscrisse Alois alla parrocchia del paese, che fungeva da anagrafe, dandogli il proprio cognome.

E su questo particolare gli storici si sono scatenati. Da poco è stato pubblicato in Italia Il mistero di Hitler (Mondadori) scritto da Ron Rosenbaum, il quale rilancia una sconvolgente ipotesi: il nonno paterno del Furher era ebreo.

L'ormai quarantenne e nubile Maria Anna Schicklgruber, infatti, nel 1836 era a servizio come cuoca presso la ricca famiglia ebrea Frankenberger di Graz. Il figlio 19enne di Frankenberger mise incinta la donna e il padre, per tacitare lo scandalo, accettò di pagare a Maria Anna, tornata al paese natio, un assegno di mantenimento per il piccolo Alois fino al compimento dei 14 anni.

Questa ricostruzione è opera di Hans Frank, avvocato personale di Hitler, poi ministro della Giustizia del Terzo Reich e infine governatore della Polonia occupata, dove sterminò milioni di ebrei. Per questo Frank fu condannato a morte nel 1946 al processo di Norimberga e giustiziato.

Ma, prima di essere impiccato, scrisse un memoriale di mille pagine pubblicato nel 1953 e conservato oggi a Gerusalemme, nel museo dell'Olocausto.

Fu lo stesso Hitler, nel 1930, a ordinare a Frank di indagare sulle proprie origini, perché era vittima di un ricatto da parte del figlio del proprio fratellastro: questi lo minacciava di rivelare che il sangue che aveva nelle vene era per un quarto ebraico. Così Frank spedì dei collaboratori in Austria, e questi scoprirono la verità più scandalosa che si potesse concepire per il campione dell'antisemitismo.

Quando Frank gli riferì il risultato delle ricerche genealogiche, il Fuhrer si mise a strepitare: «Non è vero! Mio padre mi rivelò di essere il frutto della relazione di sua madre con Georg Hiedler, un mugnaio di Dollersheim che lei sposò cinque anni dopo. Sì, Maria Anna Schicklgruber lavorò dai Frankenberger, ma questi la pagarono soltanto perché  lei li ricattò, fingendo che il padre fosse il giovane Frankenberger».

In questo labirinto di sordidi ricatti, avvenuti a un secolo di distanza l'uno dall'altro, si inserisce un altro particolare certo: il piccolo Alois Schicklgruber non fu allevato da sua madre e da Hiedler, ma dal fratello di questi, Johann Nepomuk Huttler, un contadino un po' più agiato e già sposato.

La differenza dei cognomi fra i due fratelli non stupisca: le anagrafi di campagna in quell'epoca, in una delle zone più arretrate dell'impero austriaco, non erano un modello di precisione.

Ma perché, se veramente fosse stato il padre di Alois, Georg Hiedler non lo riconobbe quando sposò Maria Anna nel 1842? E perché Alois tornò a Dollersheim solo all'età di 40 anni, quando grazie a due testimoni si fece cambiare il cognome da Schicklgruber in Hiedler e poi, non ritenendolo abbastanza 'marziale', in Hitler? Mistero.

Ricapitolando, finora sono tre i nonni possibili di Adolf Hitler: l'ebreo Frankenberger, Hiedler o lo "zio" Huttler (tutti cognomi comunque sospetti per un antisemita perché derivanti, come il più diffuso Hutter, dalla comune radice ebraica "hut", "cappello").

Ma le supposizioni non finiscono qui. Perché, come in ogni storia di contadine che si rispetti, c'è anche la possibilità che il vero padre di Alois fosse il principe del vicino castello di Ottenstein.

Infine, una vera bomba: secondo l'industriale Fritz Thyssen, il capo del nazismo avrebbe avuto come nonno paterno addirittura un barone Rothschild di Vienna, di cui Anna Maria Schicklgruber fu pure domestica. Lo avrebbe scoperto il cancelliere austriaco Dollfuss, che anche per questo sarebbe stato eliminato da Hitler.

Ma quest'ultima ipotesi è considerata la più romanzesca, anche se è stata avanzata da un professore dell'università di Harvard, Walter Langer, in un rapporto reso pubblico nel 1972.

«In ogni caso Hitler si vergognava di suo padre, di sua nonna e di Dollersheim», ci spiega Franz Eigl, 75 anni, uno dei pochissimi anziani di Zwettl che accetta di parlare di quel periodo. «Non voleva che la sua "patria ancestrale" si trasformasse in luogo di pellegrinaggio. Per questo, poche settimane dopo l'Anschluss, fece evacuare Dollersheim.

«Ufficialmente la scusa fu che c'era bisogno di un campo d'addestramento vicino alla Cecoslovacchia in vista dell'invasione [che avvenne nell'aprile 1939, ndr], ma sarebbe stata una coincidenza incredibile. Hitler in realtà voleva coscientemente distruggere Dollersheim. Gli abitanti furono indennizzati con buoni del tesoro, che con la guerra diventarono carta straccia. Io c'ero, avevo 13 anni, e ricordo che i nazisti  fecero chiudere anche tutte le scuole private della zona».

Nonostante i divieti d'entrata e di foto imposti dai militari, entriamo nella zona proibita di Dollersheim. È rimasta in piedi solo la chiesa, con metà campanile. La vicina dimora del parroco, invece, è completamente sventrata. I registri anagrafici con le vergogne di Hitler erano conservati lì dentro. Fotografiamo anche ciò che rimane dell'ospedale.

Il silenzio è spettrale. Le rovine coperte d'erba sembrano quelle di Roma antica, invece testimoniano una tragedia avvenuta appena 50 anni fa. Entriamo nel cimitero dietro la chiesa, con qualche brivido. A Zwettl, infatti, Rupert Leutgeb, uno studioso della storia locale, ci ha procurato la foto della tomba di Maria Anna Schicklgruber.

Ma sulla croce della tomba della nonna di Hitler i nazisti avevano compiuto un falso storico, indicandola come Maria A. Hitler, cognome di cui lei non sentì mai parlare. Infatti la Schicklgruber (e anche il suo tardivo marito Hiedler) morì molti anni prima del giorno in cui suo figlio Alois ripudiò il cognome materno, scegliendo quello che avrebbe sparso il terrore nel mondo.

Quella croce non è più al suo posto: è stata divelta dalla tomba, privata della scritta e appoggiata a un muro dell'abside. Un estremo insulto ha cancellato per sempre la memoria di quella contadina.
Mauro Suttora


Monday, March 08, 1999

Energie alternative

VENTO, SOLE, BIOMASSA

settimanale 'Erba', organo dei Verdi, 8 marzo 1999

VENTO (Benevento)

Combatte contro i mulini a vento, ma non è affatto un Don Chisciotte: Gianfranco Marcasciano, sindaco di San Bartolomeo in Galdo (Benevento), paese di seimila abitanti al confine fra Campania, Puglia e Molise, è riuscito a bloccare una centrale eolica della potente multinazionale giappoamericana Ivpc (Italian vento power corporation). Il suo consiglio comunale l’ha bocciata, anche se in cambio San Bartolomeo avrebbe avuto una nuova palestra (valore: un miliardo e 200 milioni), la bonifica di una discarica (400 milioni) e lo sgombero della neve (cento milioni).

Che questa provincia sia l’ideale per sfruttare l’energia eolica lo dice la parola stessa: «Benevento». Ma è tutta la dorsale appenninica dall’Aquila fino a Potenza a garantire il vento forte e stabile necessario a far muovere le turbine eoliche. La Ivpc ha già installato centrali a vento in molti paesi della Val Fortore: Montefalcone (26 megawatt), San Giorgio la Molara (venti Mw), Molinara (14), San Marco dei Cavoti (11), Baselice (sette), Foiano (cinque megawatt). Anche in provincia di Foggia, nel subappennino dauno, il vento produce elettricità a Sant’Agata (25 megawatt), Monteleone (17 Mw), Anzano (sette) e Alberona (tre megawatt). Oltre alla Ivpc, c’è anche una società italiana impegnata nell’eolico: la Wind Power della Riva Calzoni, di cui la Montedison ha acquistato il 60% tre mesi fa, e che produce le turbine a Foggia.

È un settore promettente, che però deve fare i conti con l’opposizione guidata dal quotidiano Il Sannio: «Gli abitanti e gli enti locali sopportano l’inquinamento visivo e acustico», spiega Michele Raffa della Cispel Services, «ma non vedono il ritorno di questo sacrificio. Per far sì che le fonti rinnovabili siano accettate bisogna che almeno una parte degli utili prodotti venga reinvestita in loco, per valorizzare i prodotti agroalimentari e il turismo». Invece, sanniti e dauni vedono le proprie montagne deturpate per produrre elettricità che poi finisce in gran parte a Napoli e Bari.


SOLE (Stromboli)

I pannelli della centrale fotovoltaica avrebbero coperto 6.500 metri quadri di terreno sui fianchi del vulcano. «E poi c’era un capannone di cinque metri d’altezza per 15 di lunghezza, tutto in lamiera metallica. Ma siccome lo volevano verniciare di verde, l’hanno definito ”ecocompatibile”», ironizza il tedesco Ulrich Stulgies, iscritto ai verdi nella sezione Eolie, uno dei venti abitanti di Ginostra d’inverno.
Ginostra è un paesino sull’isola di Stromboli, dalla parte opposta rispetto al capoluogo. È raggiungibile solo via mare, ma il piccolo molo permette l’attracco di un’unica barca per volta. Così le navi da Lipari e Panarea si fermano in mezzo al mare, e i passeggeri devono scendere su una scialuppa per arrivare a Ginostra. Questo isolamento è assai apprezzato dai turisti, che in agosto fanno aumentare la popolazione fino a 600 abitanti. L’elettricità è prodotta da generatori o da pannelli fotovoltaici casa per casa. Per l’acqua calda e il riscaldamento ci sono pannelli solari termici.

È il classico caso in cui il chilowattora fotovoltaico risulterebbe economicamente conveniente. «Ma come al solito l’Enel ha voluto imporre il proprio impianto senza consultare nessuno», spiega Francesco Ferrante di Legambiente, «e poiché quell’area era prevista a riserva naturale, la centrale è stata bloccata dall’assessorato all’Ambiente della regione Sicilia». «Era un impianto mostruoso sovradimensionato per le nostre esigenze», aggiunge Stulgies, «perché qui non c’è molto spazio. Oltretutto, altri mille metri quadri lì accanto sarebbero stati mangiati da una seconda piattaforma di eliporto imposta in deroga alla riserva dal ministero degli Interni, al solo scopo di far atterrare due volte al mese l’elicottero del tecnico che controlla un sismografo del Cnr. In totale, quindi, un quarto della riserva del Timpano sarebbe stata distrutta».

Proprio il mese scorso il ministero tedesco dell’Industria e della Scienza ha ritirato il finanziamento di due miliardi e mezzo che cinque anni fa era stato messo a disposizione del progetto, in cambio dell’utilizzo di prodotti Siemens e Telefunken made in Germania. E adesso? «Che lo Stato ci aiuti almeno nella manutenzione dei pannelli solari installati dieci anni fa con fondi Ue: dobbiamo sostituire gli accumulatori», chiede Stulgies. «Oppure, che si installi un cavo sottomarino per portare l’elettricità da Stromboli: il deputato verde Sauro Turroni aveva ottenuto dalla Pirelli un preventivo di poco più di due miliardi».


BIOMASSA (Forlì)

Il gruppo Marcegaglia (Emma, figlia del fondatore Steno, guida i giovani di Confindustria) vuole realizzare, accanto al proprio tubificio di Forlimpopoli (Forlì), un impianto che, bruciando 250mila tonnellate all’anno di materiale di origine legnosa, produca venti megawatt di elettricità con il metodo della biomassa. La pratica è stata presentata lo scorso 20 ottobre, e il progetto è attualmente sottoposto a Via (Valutazione di impatto ambientale) da parte della regione Emilia-Romagna.

Intanto, però, il comune di Forlimpopoli ha già dichiarato la propria contrarietà, spinto da un comitato che ha raccolto ben 12mila firme contro il bruciatore. Molte, visto che la stessa Forlimpopoli non arriva a 12mila abitanti. «L’opposizione è provocata da una concentrazione di progetti considerata eccessiva nell’area industriale Villaselva, posta tra Forlì e Forlimpopoli», spiega Maria Luisa Bargossi, ds, assessore provinciale all’Ambiente. «Nella stessa zona è prevista infatti anche la realizzazione di uno scalo merci ferroviarioe di un nuovo tracciato per la via Emilia-bis. Si verrebbe quindi a creare, secondo gli oppositori, un fenomeno di congestione ambientale con consumo di terreno agricolo, e ulteriore inquinamento atmosferico e acustico».

Il fatto che l’impianto di biomassa sia inserito in una zona già industriale non lo salva dalla contestazione. «Forlimpopoli è un comune piccolo, ma con una forte attività agroindustriale», dice l’assessore Bargossi, «e lo zuccherificio e la distilleria già presenti sono energivori e idroesigenti. Le prime case distano 500 metri dalla zona industriale, il centro è a due chilometri. Gli abitanti temono il viavai dei camion per l’approvvigionamento della centrale. Però non tengono conto che, proprio in quanto zona agricola, la provincia di Forlì-Cesena produce comunque migliaia di tonnellate di residui delle potature degli alberi da frutta e delle viti, e di altri scarti legnosi dalle attività forestali. E questi vengono comunque bruciati nei campi o gestiti in forma non controllata.

Molto meglio, allora, distruggerli ottenendo contemporaneamente energia elettrica. Inoltre gli agricoltori otterranno un prezzo per il materiale conferito. È per questo che l’Unione europea classifica come “rinnovabile” il metodo della biomassa legnosa e lo considera a emissione «zero» di co2. Ormai la gente è contro gli inceneritori in generale, qualunque cosa brucino. Ma la Provincia baserà il suo parere su un bilancio ambientale più ampio, che terrà conto del parere di via emesso dalla regione, dell’opinione dei comuni interessati, e dei potenziali vantaggi per l’intera provincia».

Mauro Suttora