CHI E' LA DONNA CHE FA TREMARE I GENERALI BIRMANI
di Mauro Suttora
Rangoon (Birmania), 10 ottobre 2007
Il fratello di suo bisnonno capeggiò gli oppositori degli inglesi, che nel 1886 annessero la Birmania al loro impero. Suo padre Aung San è il padre della Birmania libera: combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947.
Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, se non altro perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.
Se la parola «eroe» si potesse pronunciare al femminile senza diventare diminutivamente «eroina», la si potrebbe chiamare così. Dimenticando che quella parola è anche il nome del prodotto più contrabbandato dai generali birmani che opprimono il Paese.
La signora Suu Kyi è viva. Questa è l’unica buona notizia arrivata dalla Birmania nell’ultima settimana. L’ha incontrata l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari. Da anni soltanto lui può vederla. La signora è infatti in prigione o agli arresti domiciliari dal 1990, quando vinse le elezioni con l’82 per cento dei voti. L’ultima volta si erano incontrati a casa della Suu Kyi nel novembre 2006. Non si sa cosa si siano detti: il segreto è una delle condizioni che i dittatori impongono per autorizzare questi colloqui.
Nessuno saprà mai neanche quanti siano i morti della rivolta nonviolenta in corso in Birmania. Poche decine, come afferma la giunta militare? O centinaia, come dicono i dissidenti? L’ultima volta che i birmani si ribellarono ai propri soldati furono tremila. Per scendere in strada avevano scelto una data che pensavano beneaugurante: l’8/8/88. Invece quell’8 agosto fu un bagno di sangue. Come ora. Eppure anche allora si presentarono a mani nude di fronte ai fucili.
La signora Suu Kyi era appena tornata dall’autoesilio di 26 anni che si era inflitta dopo che i generali avevano imposto la dittatura nel 1962. Ed era tornata a Rangoon soltanto perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader, perché in Birmania la signora ha lo stesso prestigio che potrebbe avere in Italia una figlia di Garibaldi.
Aung San Suu Kyi si può veramente definire, assieme a pochissimi altri personaggi viventi, un eroe del mondo moderno. Nelson Mandela in Sudafrica, Vaclav Havel in Cecoslovacchia... Anche il polacco Lech Walesa e il russo Michail Gorbaciov hanno vinto il premio Nobel per la Pace - come la Suu Kyi nel ’91 - per avere acceso rivoluzioni nonviolente, ma sui loro nomi già si accende qualche discussione. Sulla signora birmana, invece, regna l’unanimità: è considerata un’apostola della libertà.
Ce la farà, o dovrà arrivare ai 26 anni di carcere di Mandela? Ce la faranno i ragazzi e i monaci di Rangoon, oppure finiranno come i giovani di piazza Tien An Men, falciati dai gerarchi comunisti cinesi nel 1989? Anche oggi la Cina c’entra, e molto, con la repressione orrenda degli inermi. La dittatura birmana infatti sta in piedi soltanto grazie all’appoggio di Pechino, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si oppone a sanzioni economiche dell’Onu, e perfino la democratica India ha appena firmato un accordo commerciale con Than Shwe, il 69enne capo dei generali birmani.
Aung San Suu Kyi da 18 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca durante le rare interviste che ha potuto concedere. «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello. Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che il 9 giugno 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.
Allora si era temuto il peggio.
Come nel ’99, quando Suu Kyi perse l’amato marito inglese Michael Aris: si era ammalato di cancro alla prostata tre anni prima, ma i militari non gli avevano mai dato il permesso di visitare per l’ultima volta sua moglie. Lei avrebbe potuto raggiungerlo a Londra, ma sapeva che se avesse lasciato la Birmania non avrebbe più potuto tornare. E fra l’amore per il proprio Paese e quello per il marito morente ha scelto il primo.
Si erano conosciuti all’università di Oxford nel ’67, l’allora 22enne bellissima Suu Kyi e Michael, studente buddhista di Storia asiatica. Era l’epoca dei Beatles e il buddhismo andava di moda, ma per lui era una cosa seria. Divenne professore delle stesse materie, e andò in Bhutan come istitutore del figlio del re. La sua giovane moglie fu felice di seguirlo, così come era stata felice di seguire la madre nel ’60 quando venne nominata ambasciatrice in India.
Speravano che prima o poi le cose in Birmania sarebbero migliorate, che la libertà sarebbe tornata e quindi anche loro sarebbero tornati. Invece niente. Così Suu Kyi tornò mestamente a Oxford con Michael, si sposarono nel ’72, ebbero due figli (Alexander, oggi 34 anni, e Kim, 30). Lei per due anni andò a lavorare all’Onu a New York. Poi tornò a Londra, una vita tranquilla con l’unico stipendio da professore del marito.
Insomma, come spesso accade, gli eroi diventano tali controvoglia. Non c’era e non c’è nulla nella signora Suu Kyi che possa infiammare gli animi. Nei suoi discorsi in pubblico non ha mai alzato la voce. Ha sempre predicato l’amore, la legalità, il rispetto. Una rivoluzionaria tranquilla.
Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone "Walk On" (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco ("For the Lady"), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting.
Speriamo che la Lady prima o poi ce la faccia. Dolce e paziente, è il simbolo di tutte le donne della Terra. E i monaci e gli studenti che s’immolano per lei ci appaiono più forti e coraggiosi dei coetanei soldati che li uccidono tremando.
Mauro Suttora
Wednesday, October 10, 2007
Mostra di Gauguin a Roma
UN MILIARDARIO CALIFORNIANO ESPONE I GIOIELLI DELLA SUA COLLEZIONE
Santa Monica (Stati Uniti), 10 ottobre 2007
Il miliardario Richard Kelton guarda l’Oceano Pacifico dalla vetrata di casa sua, sul lungomare californiano di Santa Monica. «La vede quella barca attraccata laggiù? È la mia. Con lei ho attraversato questo oceano due volte, e l’Atlantico una dozzina. In tutto, negli ultimi vent’anni, ho navigato per settantamila miglia. E grazie a questa barca mi sono innamorato di Paul Gauguin».
Kelton, 77 anni, è il magnate di una delle maggiori imprese di costruzione d’America: la Bollenbacher & Kelton, fondata da suo padre nel 1937. «Avremo costruito 15 mila fra case e appartamenti, e decine di centri commerciali», racconta.
Negli anni Ottanta ha deciso di mollare un po’ gli affari, lasciandoli al figlio, per dedicarsi al suo hobby: la barca a vela. Regate, ma anche viaggi interminabili in mari perigliosi. «Abbiamo raggiunto isole remote della Polinesia, atolli dove gli aerei non possono atterrare, arcipelaghi come quelli della Società e delle isole Marchesi. Durante una di queste spedizioni, mentre passeggiavo per una strada vicina al porto di Papeete, sono entrato in un negozio di antiquariato. C’era una statua che mi piaceva, l’ho comprata per poche centinaia di dollari. Solo dopo qualche anno e parecchi studi sono giunto alla conclusione che è un lavoro di Gauguin».
A quell’acquisto fortuito ne sono seguiti molti altri. Oggi la Fondazione Kelton possiede la più grande collezione di arte aborigena australiana negli Stati Uniti. Ma, accanto a questa predilezione, Richard Kelton ne ha pure coltivata un’altra: quella per Gauguin, il genio che con Van Gogh e Cézanne traghettò la pittura dal XIX al XX secolo, dall’impressionismo alla modernità. «Ora ho una cinquantina di lavori di Gauguin. Quello che preferisco? Difficile dirlo». Kelton medita a lungo, come se gli avessimo chiesto quale dei suoi figli predilige. Poi si decide: «Le oche in stile giapponese del 1889, un olio su tela. È quello che attualmente campeggia qui, in mezzo alla mia sala».
Non più. Almeno fino al prossimo 3 febbraio. Kelton, infatti, ha deciso di concedere una trentina delle opere del pittore francese in suo possesso alla grande mostra che si apre a Roma sabato 6 ottobre, nelle sale del Vittoriano: Paul Gauguin. Artista di mito e sogno (150 tra oli, disegni, sculture e ceramiche, catalogo Skira). L’aveva fatto solo un’altra volta, due anni fa, prestando alcune opere a un museo danese: «Ma erano solo cinque», precisa. Questa volta, invece, è il meglio dell’intera collezione Kelton a varcare l’Atlantico.
È arrivato anche lui a Roma: ha voluto seguire personalmente il disimballaggio dei preziosi manufatti: quadri, ma anche statue e oggetti, come il Sarcofago della Resurrezione, una cassapanca di mezzo metro intagliata in legno dall’artista nell’inverno 1884, che trascorse a Copenaghen assieme alla moglie danese Mette.
Kelton non è un semplice collezionista. È anche un appassionato d’arte: negli anni ha studiato molto, tanto che ora può permettersi perfino di scrivere saggi su Gauguin. E di recensire quelli dei massimi esperti dell’artista, come The symbolism of Paul Gauguin: Erotica and Exotica di Henri Dorra, pubblicato quest’anno dalla University of California Press. Alcuni li loda, come quello dello svizzero Dario Gamboni che insegna a Ginevra («Il suo Ambiguity and Indeterminacy in Modern Art del 2004 è eccezionale, offre interpretazioni profonde di opere che ci sono familiari»). Altri li castiga: Nancy Mathews, che nel 2001 osò scrivere che Gauguin era violento e picchiava moglie e figli («Scrive per partito preso e senza prove»).
Per il catalogo della mostra (che presenta anche opere di prestigiosi musei come l’Ermitage e la National Gallery), Kelton ha preparato un corposo saggio su Gauguin. La sua tesi è che «ogni minimo particolare della sua opera rifletteva lo stato d’animo del momento.
«Tutto aveva un significato, tanto che in ogni suo lavoro si possono rintracciare simboli che ci fanno risalire ad aspetti della sua vita in quel periodo». E poiché la vita di Gauguin fu turbolenta e infelice, questa interpretazione cozza contro il luogo comune che vede, soprattutto nei dipinti strabordanti di colori del periodo tahitiano, un’immagine di fiabesca e lussuriosa tranquillità esotica.
«Tutt’altro», s’infervora Kelton. «Per esempio, il piccolo sarcofago realizzato per la moglie Mette appartiene a una delle fasi più disperate della sua vita. Il crollo della Borsa di Parigi del 1882 aveva scaraventato il 34enne agente di cambio Gauguin sul lastrico. Improvvisamente, dopo una vita agiata con moglie e cinque figli, perde il lavoro. Cerca di fare di necessità virtù dedicandosi a tempo pieno alla sua vera vocazione, la pittura, ma non riesce a vendere un quadro. La moglie non sopporta le ristrettezze e torna a casa dei suoi in Danimarca. Alla fine, anche lui deve seguirli, sperando di mantenersi a Copenaghen come agente di una ditta parigina, oppure insegnando francese come la moglie, o vendendo i suoi quadri.
«Niente di tutto ciò accade, e anzi l’alta società frequentata da Mette disprezza i suoi modi e vestiti da bohémien. Lei arriva a nasconderlo in soffitta, tanto che Paul si lamenta scrivendo all’amico Camille Pissarro: “Ho esaurito ogni risorsa di coraggio. Solo la pittura mi trattiene dall’impiccarmi”. Ma mentre intaglia il sarcofago il cupo inverno nordico finisce, e così lui associa simbolicamente la resurrezione con il rinnovamento primaverile. Su un fianco riproduce una ballerina di Degas, si ispira al Seneca di Delacroix per la figura all’interno, e la Maria Maddalena, peccatrice perdonata, è il simbolo delle ballerine di Parigi, a quell’epoca considerate più o meno come simpatiche prostitute. Ma in tutta l’opera di Gauguin abbondano i simboli religiosi, retaggio dei suoi cinque anni in seminario a Orléans, prima di imbarcarsi diciassettenne come marinaio».
Potrebbe andare avanti per ore a raccontare minuziosamente la vita del genio Gauguin, dalle sei mostre collettive con gli impressionisti negli anni Ottanta dell’Ottocento, all’amicizia e le liti con Van Gogh, questo miliardario appassionato delle opere che compra. Le isole Marchesi, dove l’artista morì 55enne nel 1903, lui le conosce bene. E ha ripercorso palmo a palmo tutte le vicende dell’autoesilio finale a Tahiti, navigando sulla propria barca. Un gauguiniano perfetto, insomma.
Mauro Suttora
Santa Monica (Stati Uniti), 10 ottobre 2007
Il miliardario Richard Kelton guarda l’Oceano Pacifico dalla vetrata di casa sua, sul lungomare californiano di Santa Monica. «La vede quella barca attraccata laggiù? È la mia. Con lei ho attraversato questo oceano due volte, e l’Atlantico una dozzina. In tutto, negli ultimi vent’anni, ho navigato per settantamila miglia. E grazie a questa barca mi sono innamorato di Paul Gauguin».
Kelton, 77 anni, è il magnate di una delle maggiori imprese di costruzione d’America: la Bollenbacher & Kelton, fondata da suo padre nel 1937. «Avremo costruito 15 mila fra case e appartamenti, e decine di centri commerciali», racconta.
Negli anni Ottanta ha deciso di mollare un po’ gli affari, lasciandoli al figlio, per dedicarsi al suo hobby: la barca a vela. Regate, ma anche viaggi interminabili in mari perigliosi. «Abbiamo raggiunto isole remote della Polinesia, atolli dove gli aerei non possono atterrare, arcipelaghi come quelli della Società e delle isole Marchesi. Durante una di queste spedizioni, mentre passeggiavo per una strada vicina al porto di Papeete, sono entrato in un negozio di antiquariato. C’era una statua che mi piaceva, l’ho comprata per poche centinaia di dollari. Solo dopo qualche anno e parecchi studi sono giunto alla conclusione che è un lavoro di Gauguin».
A quell’acquisto fortuito ne sono seguiti molti altri. Oggi la Fondazione Kelton possiede la più grande collezione di arte aborigena australiana negli Stati Uniti. Ma, accanto a questa predilezione, Richard Kelton ne ha pure coltivata un’altra: quella per Gauguin, il genio che con Van Gogh e Cézanne traghettò la pittura dal XIX al XX secolo, dall’impressionismo alla modernità. «Ora ho una cinquantina di lavori di Gauguin. Quello che preferisco? Difficile dirlo». Kelton medita a lungo, come se gli avessimo chiesto quale dei suoi figli predilige. Poi si decide: «Le oche in stile giapponese del 1889, un olio su tela. È quello che attualmente campeggia qui, in mezzo alla mia sala».
Non più. Almeno fino al prossimo 3 febbraio. Kelton, infatti, ha deciso di concedere una trentina delle opere del pittore francese in suo possesso alla grande mostra che si apre a Roma sabato 6 ottobre, nelle sale del Vittoriano: Paul Gauguin. Artista di mito e sogno (150 tra oli, disegni, sculture e ceramiche, catalogo Skira). L’aveva fatto solo un’altra volta, due anni fa, prestando alcune opere a un museo danese: «Ma erano solo cinque», precisa. Questa volta, invece, è il meglio dell’intera collezione Kelton a varcare l’Atlantico.
È arrivato anche lui a Roma: ha voluto seguire personalmente il disimballaggio dei preziosi manufatti: quadri, ma anche statue e oggetti, come il Sarcofago della Resurrezione, una cassapanca di mezzo metro intagliata in legno dall’artista nell’inverno 1884, che trascorse a Copenaghen assieme alla moglie danese Mette.
Kelton non è un semplice collezionista. È anche un appassionato d’arte: negli anni ha studiato molto, tanto che ora può permettersi perfino di scrivere saggi su Gauguin. E di recensire quelli dei massimi esperti dell’artista, come The symbolism of Paul Gauguin: Erotica and Exotica di Henri Dorra, pubblicato quest’anno dalla University of California Press. Alcuni li loda, come quello dello svizzero Dario Gamboni che insegna a Ginevra («Il suo Ambiguity and Indeterminacy in Modern Art del 2004 è eccezionale, offre interpretazioni profonde di opere che ci sono familiari»). Altri li castiga: Nancy Mathews, che nel 2001 osò scrivere che Gauguin era violento e picchiava moglie e figli («Scrive per partito preso e senza prove»).
Per il catalogo della mostra (che presenta anche opere di prestigiosi musei come l’Ermitage e la National Gallery), Kelton ha preparato un corposo saggio su Gauguin. La sua tesi è che «ogni minimo particolare della sua opera rifletteva lo stato d’animo del momento.
«Tutto aveva un significato, tanto che in ogni suo lavoro si possono rintracciare simboli che ci fanno risalire ad aspetti della sua vita in quel periodo». E poiché la vita di Gauguin fu turbolenta e infelice, questa interpretazione cozza contro il luogo comune che vede, soprattutto nei dipinti strabordanti di colori del periodo tahitiano, un’immagine di fiabesca e lussuriosa tranquillità esotica.
«Tutt’altro», s’infervora Kelton. «Per esempio, il piccolo sarcofago realizzato per la moglie Mette appartiene a una delle fasi più disperate della sua vita. Il crollo della Borsa di Parigi del 1882 aveva scaraventato il 34enne agente di cambio Gauguin sul lastrico. Improvvisamente, dopo una vita agiata con moglie e cinque figli, perde il lavoro. Cerca di fare di necessità virtù dedicandosi a tempo pieno alla sua vera vocazione, la pittura, ma non riesce a vendere un quadro. La moglie non sopporta le ristrettezze e torna a casa dei suoi in Danimarca. Alla fine, anche lui deve seguirli, sperando di mantenersi a Copenaghen come agente di una ditta parigina, oppure insegnando francese come la moglie, o vendendo i suoi quadri.
«Niente di tutto ciò accade, e anzi l’alta società frequentata da Mette disprezza i suoi modi e vestiti da bohémien. Lei arriva a nasconderlo in soffitta, tanto che Paul si lamenta scrivendo all’amico Camille Pissarro: “Ho esaurito ogni risorsa di coraggio. Solo la pittura mi trattiene dall’impiccarmi”. Ma mentre intaglia il sarcofago il cupo inverno nordico finisce, e così lui associa simbolicamente la resurrezione con il rinnovamento primaverile. Su un fianco riproduce una ballerina di Degas, si ispira al Seneca di Delacroix per la figura all’interno, e la Maria Maddalena, peccatrice perdonata, è il simbolo delle ballerine di Parigi, a quell’epoca considerate più o meno come simpatiche prostitute. Ma in tutta l’opera di Gauguin abbondano i simboli religiosi, retaggio dei suoi cinque anni in seminario a Orléans, prima di imbarcarsi diciassettenne come marinaio».
Potrebbe andare avanti per ore a raccontare minuziosamente la vita del genio Gauguin, dalle sei mostre collettive con gli impressionisti negli anni Ottanta dell’Ottocento, all’amicizia e le liti con Van Gogh, questo miliardario appassionato delle opere che compra. Le isole Marchesi, dove l’artista morì 55enne nel 1903, lui le conosce bene. E ha ripercorso palmo a palmo tutte le vicende dell’autoesilio finale a Tahiti, navigando sulla propria barca. Un gauguiniano perfetto, insomma.
Mauro Suttora
Monday, September 24, 2007
Gli amici di Beppe Grillo a Roma
«Grillini»: così si fanno chiamare i simpatizzanti del comico genovese. E dopo il successo del Vaffa day fanno paura ai politici di professione. Ma chi sono ? Cosa vogliono ? Scopriamo le loro facce, le loro idee e i loro piani
Oggi, 22 settembre 2007
di Mauro Suttora
Chi l’avrebbe detto che bisogna andare fino a New York, al numero 632 di Broadway nel centro di Manhattan, per trovare il cuore del fenomeno di Beppe Grillo? La rete dei 50 mila «Amici di Grillo» sparsi in 250 città e paesi italiani (più una trentina all’estero) con i 350 gruppi che hanno organizzato il «Vaffa Day» dell’8 settembre, sconvolgendo la politica italiana, parte da qui. Dal server di Meetup.com, uno dei siti Internet più potenti della Terra, tipo My Space o You Tube
Quello di Grillo è solo uno dei 33 mila gruppi (in tutto il mondo e di ogni tipo: sportivi, culturali, politici, professionali, di semplici amici) che si fanno ospitare da questa rete globale.
Se quelli di Grillo si presentassero alle elezioni diventerebbero subito il secondo o terzo partito italiano: 17 per cento dei voti, con un 33 di simpatizzanti che «non lo esclude». Questo dicono i sondaggi. Praticamente, una mezza rivoluzione esplosa nel giro di due settimane. Perfino Tangentopoli, quindici anni fa, ci aveva messo più tempo per nascere.
«Ma noi non siamo nati ieri, siete voi giornalisti che non ve ne siete accorti fino al 7 settembre», dice a Oggi Serenetta Monti, 36 anni, custode di museo e coordinatrice di uno dei quattro gruppi degli amici di Grillo a Roma. Il più grande: 1.625 iscritti. Registrarsi su Internet non costa nulla, e ora gli aderenti aumentano al ritmo di venti al giorno. «Perché non viene a vederci, al nostro prossimo Meet up?», ci propone.
Accettiamo l’invito. Perché se fino a ieri i «grilli» (così si autodefiniscono quelli romani, e non grillini, grillisti o grillanti) erano solo la massa anonima degli spettatori di Grillo, ora che hanno fatto irruzione sulla scena politica siamo curiosi di vedere che facce hanno. E quali idee, quali proposte.
Scopriamo subito che la loro parola magica non è «Vaffa...», ma «Mitàp»: italianizzazione di «meet up», appunto, cioè incontrarsi. Perché è vero che i Grilli sono il primo movimento politico virtuale, nato su Internet appena due anni fa (ma subito esploso: il settimanale americano Time all’inizio del 2006 ha inserito il blog di Grillo fra i dieci più importanti del mondo). Però, per riuscire a raccogliere 350 mila firme in un solo giorno sulle loro tre proposte di legge (parlamentari incensurati, che tornino a casa dopo due mandati e che vengano scelti davvero, con preferenze o primarie), sono scesi nelle piazze in carne ed ossa. E hanno dovuto organizzare tutto, da volontari inesperti: chiedere permessi in questura, affittare impianti di amplificazione, procurarsi i tavolini dove si firmava...
«Il 16 agosto, quando ci siamo incontrati per organizzare il V-day romano a piazza San Paolo, eravamo in quattro gatti e avevamo paura di non farcela», confessa Stefano Franco, 42 anni, sposato, due figli, impiegato di una società informatica. Lui è uno dei quattordici «assistenti» che Serenetta, organizer eletta per sei mesi («A rotazione: pratichiamo quel che predichiamo»), si è scelta lo scorso giugno. «Invece alla fine è andato tutto bene, e solo a Roma abbiamo raccolto 40 mila firme. Dall’una del pomeriggio all’una del mattino in piazza sono passate 70 mila persone».
Così, per il primo «Mitap» dopo l’exploit, fissato per la sera di venerdì 21 settembre, addio cene in trattoria in dieci o venti. Sul sito piovono iscrizioni a valanga, e quindi Dario Tamburrano, 38 anni, dentista («Zazzaro» è il suo soprannome in rete) deve affittare una sala da 250 posti vicino a casa sua, nel quartiere Nomentano. Per pagarla, due euro a testa fra i partecipanti. Per arrivarci, istruzioni dettagliate on line con mappe, indicazione di parcheggio gratuito adiacente, mezzi pubblici e servizio di car-pooling (unica auto per quelli che arrivano dallo stesso quartiere).
Inizia l’assemblea. Presiede Serenetta, che ha esperienza di riunioni pubbliche come sindacalista («Ma di base, sono contraria a Cgil, Cisl e Uil»). Pochi preamboli, liquida la questione delle liste civiche in due parole: «Troppo presto per parlarne». E si tuffa subito, invece, a illustrare le attività pratiche portate avanti dal gruppo. Tutte nella scia delle idee che Beppe Grillo propaganda da quasi vent’anni nei palasport d’Italia. I Gas, per esempio: Gruppi di acquisto solidale. Li organizza la 35enne Lidia Gandellini, alias «Zampidia», terapista dell’arte (cura i disagi psichici e sociali con musica, pittura, danza): «Il nostro obiettivo è “accorciare la filiera” fra produttore e consumatore. Quindi acquistiamo in gruppo olio, carne biologica o detersivi da aziende di fiducia, che ci garantiscono qualità e prezzi più bassi». All’ultima riunione aveva portato taniche di olio dalla Sabina.
Lidia frequenta i Grilli romani da pochi mesi, dopo aver visto uno spettacolo di Grillo a Roma in febbraio. Da quasi due anni invece è impegnato Dario, il dentista così appassionato di ecologia che si è appena reiscritto all’università (facoltà di agraria con specializzazione ambientale a Roma): «Ma ora, con l’esplosione di Grillo, non so se avrò tempo per tutto. Io appartengo a una generazione cresciuta con lui, il programma Te la do io l’America era il nostro mito. All’inizio partecipare al suo blog era una valvola di sfogo: non pensavo che potesse arrivare ad avere un riscontro reale nella vita di tutti i giorni. Non mi sono mai occupato di politica. Ho votato a sinistra, tranne una volta per la Mussolini alla regione Lazio in segno di protesta contro gli scandali. Ma anche a destra ci sono persone stimabili, come la Prestigiacomo».
Per lui, Stefano e molti altri la passione principale è l’ecologia, e in particolare la spazzatura: «La raccolta differenziata è la chiave di tutto», spiega Stefano, «perché applicandola si può fare a meno degli inceneritori che contestiamo». Ma allora perché non siete andati nel Wwf, o in Greenpeace, o nei Verdi? «Perché Grillo ci ha messo a disposizione uno strumento più aperto».
Roberta Lombardi, 34 anni, laureata in legge, lavora in una società internazionale di arredamento: «Non mi sono mai occupata di politica, per snobismo, perché associavo questa parola ai partiti. Gli unici cortei cui ho partecipato sono stati quelli per Falcone e Borsellino, tanti anni fa. Mi interessa molto la proposta di Grillo di introdurre anche in Italia, come negli Stati Uniti, le class action, cioè le cause di risarcimento per danni di gruppo».
Dilettanti allo sbaraglio o rivoluzionari nonviolenti? Per ora fra i Grilli c’è tanto entusiasmo. L’impatto con i professionisti della politica, le loro manovre e i loro trucchi, sarà duro. Vedremo.
Mauro Suttora
Oggi, 22 settembre 2007
di Mauro Suttora
Chi l’avrebbe detto che bisogna andare fino a New York, al numero 632 di Broadway nel centro di Manhattan, per trovare il cuore del fenomeno di Beppe Grillo? La rete dei 50 mila «Amici di Grillo» sparsi in 250 città e paesi italiani (più una trentina all’estero) con i 350 gruppi che hanno organizzato il «Vaffa Day» dell’8 settembre, sconvolgendo la politica italiana, parte da qui. Dal server di Meetup.com, uno dei siti Internet più potenti della Terra, tipo My Space o You Tube
Quello di Grillo è solo uno dei 33 mila gruppi (in tutto il mondo e di ogni tipo: sportivi, culturali, politici, professionali, di semplici amici) che si fanno ospitare da questa rete globale.
Se quelli di Grillo si presentassero alle elezioni diventerebbero subito il secondo o terzo partito italiano: 17 per cento dei voti, con un 33 di simpatizzanti che «non lo esclude». Questo dicono i sondaggi. Praticamente, una mezza rivoluzione esplosa nel giro di due settimane. Perfino Tangentopoli, quindici anni fa, ci aveva messo più tempo per nascere.
«Ma noi non siamo nati ieri, siete voi giornalisti che non ve ne siete accorti fino al 7 settembre», dice a Oggi Serenetta Monti, 36 anni, custode di museo e coordinatrice di uno dei quattro gruppi degli amici di Grillo a Roma. Il più grande: 1.625 iscritti. Registrarsi su Internet non costa nulla, e ora gli aderenti aumentano al ritmo di venti al giorno. «Perché non viene a vederci, al nostro prossimo Meet up?», ci propone.
Accettiamo l’invito. Perché se fino a ieri i «grilli» (così si autodefiniscono quelli romani, e non grillini, grillisti o grillanti) erano solo la massa anonima degli spettatori di Grillo, ora che hanno fatto irruzione sulla scena politica siamo curiosi di vedere che facce hanno. E quali idee, quali proposte.
Scopriamo subito che la loro parola magica non è «Vaffa...», ma «Mitàp»: italianizzazione di «meet up», appunto, cioè incontrarsi. Perché è vero che i Grilli sono il primo movimento politico virtuale, nato su Internet appena due anni fa (ma subito esploso: il settimanale americano Time all’inizio del 2006 ha inserito il blog di Grillo fra i dieci più importanti del mondo). Però, per riuscire a raccogliere 350 mila firme in un solo giorno sulle loro tre proposte di legge (parlamentari incensurati, che tornino a casa dopo due mandati e che vengano scelti davvero, con preferenze o primarie), sono scesi nelle piazze in carne ed ossa. E hanno dovuto organizzare tutto, da volontari inesperti: chiedere permessi in questura, affittare impianti di amplificazione, procurarsi i tavolini dove si firmava...
«Il 16 agosto, quando ci siamo incontrati per organizzare il V-day romano a piazza San Paolo, eravamo in quattro gatti e avevamo paura di non farcela», confessa Stefano Franco, 42 anni, sposato, due figli, impiegato di una società informatica. Lui è uno dei quattordici «assistenti» che Serenetta, organizer eletta per sei mesi («A rotazione: pratichiamo quel che predichiamo»), si è scelta lo scorso giugno. «Invece alla fine è andato tutto bene, e solo a Roma abbiamo raccolto 40 mila firme. Dall’una del pomeriggio all’una del mattino in piazza sono passate 70 mila persone».
Così, per il primo «Mitap» dopo l’exploit, fissato per la sera di venerdì 21 settembre, addio cene in trattoria in dieci o venti. Sul sito piovono iscrizioni a valanga, e quindi Dario Tamburrano, 38 anni, dentista («Zazzaro» è il suo soprannome in rete) deve affittare una sala da 250 posti vicino a casa sua, nel quartiere Nomentano. Per pagarla, due euro a testa fra i partecipanti. Per arrivarci, istruzioni dettagliate on line con mappe, indicazione di parcheggio gratuito adiacente, mezzi pubblici e servizio di car-pooling (unica auto per quelli che arrivano dallo stesso quartiere).
Inizia l’assemblea. Presiede Serenetta, che ha esperienza di riunioni pubbliche come sindacalista («Ma di base, sono contraria a Cgil, Cisl e Uil»). Pochi preamboli, liquida la questione delle liste civiche in due parole: «Troppo presto per parlarne». E si tuffa subito, invece, a illustrare le attività pratiche portate avanti dal gruppo. Tutte nella scia delle idee che Beppe Grillo propaganda da quasi vent’anni nei palasport d’Italia. I Gas, per esempio: Gruppi di acquisto solidale. Li organizza la 35enne Lidia Gandellini, alias «Zampidia», terapista dell’arte (cura i disagi psichici e sociali con musica, pittura, danza): «Il nostro obiettivo è “accorciare la filiera” fra produttore e consumatore. Quindi acquistiamo in gruppo olio, carne biologica o detersivi da aziende di fiducia, che ci garantiscono qualità e prezzi più bassi». All’ultima riunione aveva portato taniche di olio dalla Sabina.
Lidia frequenta i Grilli romani da pochi mesi, dopo aver visto uno spettacolo di Grillo a Roma in febbraio. Da quasi due anni invece è impegnato Dario, il dentista così appassionato di ecologia che si è appena reiscritto all’università (facoltà di agraria con specializzazione ambientale a Roma): «Ma ora, con l’esplosione di Grillo, non so se avrò tempo per tutto. Io appartengo a una generazione cresciuta con lui, il programma Te la do io l’America era il nostro mito. All’inizio partecipare al suo blog era una valvola di sfogo: non pensavo che potesse arrivare ad avere un riscontro reale nella vita di tutti i giorni. Non mi sono mai occupato di politica. Ho votato a sinistra, tranne una volta per la Mussolini alla regione Lazio in segno di protesta contro gli scandali. Ma anche a destra ci sono persone stimabili, come la Prestigiacomo».
Per lui, Stefano e molti altri la passione principale è l’ecologia, e in particolare la spazzatura: «La raccolta differenziata è la chiave di tutto», spiega Stefano, «perché applicandola si può fare a meno degli inceneritori che contestiamo». Ma allora perché non siete andati nel Wwf, o in Greenpeace, o nei Verdi? «Perché Grillo ci ha messo a disposizione uno strumento più aperto».
Roberta Lombardi, 34 anni, laureata in legge, lavora in una società internazionale di arredamento: «Non mi sono mai occupata di politica, per snobismo, perché associavo questa parola ai partiti. Gli unici cortei cui ho partecipato sono stati quelli per Falcone e Borsellino, tanti anni fa. Mi interessa molto la proposta di Grillo di introdurre anche in Italia, come negli Stati Uniti, le class action, cioè le cause di risarcimento per danni di gruppo».
Dilettanti allo sbaraglio o rivoluzionari nonviolenti? Per ora fra i Grilli c’è tanto entusiasmo. L’impatto con i professionisti della politica, le loro manovre e i loro trucchi, sarà duro. Vedremo.
Mauro Suttora
Dalila Di Lazzaro e Ornella Muti
GUARDATECI, NUDE A 50 ANNI: PREFERITE ANCORA LE VELINE?
Milano, 23 settembre 2007
Volete vedere Ornella Muti e Dalila Di Lazzaro nude? Passate in corso Vittorio Emanuele a Milano dal 19 settembre al 14 ottobre. Le due attrici (52 anni la prima, 54 la seconda) esibiscono le proprie mature ma sempre affascinanti grazie in una mostra, con tanto di gigantografie senza veli. Assieme ad altre otto donne (l’attrice Anna Orso, una preside, un’agente immobiliare, una direttrice del personale e altre cinquantenni, professioniste in carriera o mamme) hanno accettato di spogliarsi per il fotografo Gianmarco Chieregato.
Vogliono lanciare un messaggio non solo alle coetanee, ma anche alle donne più giovani: la bellezza del corpo femminile nasce dall’orgoglio di mostrarsi come si è. Intense, profonde, uniche. Oltre alle signore italiane, sono esibiti i ritratti della fotografa più famosa del mondo: l’americana Annie Leibovitz, che riesce a valorizzare cinquantenni normalissime: una pasticcera, una fisioterapista.
La mostra, organizzata dal Fondo Dove per l’autostima, s’intitola «Pro-age, perché la bellezza non ha età», e contesta l’idea che l’avanzare dell’età sia considerato come un «difetto» da correggere, in nome di un’illusoria eterna giovinezza propagandata dai media e dalla pubblicità, a beneficio di chirurghi plastici e venditori di botulino e silicone.
«Ovviamente la bellezza ha avuto un posto predominante nella mia vita», ci dice la Di Lazzaro, «perché sono stata un’attrice, un volto noto del cinema. Quand’ero più giovane essere e sentirmi bella era una componente essenziale di me stessa. Poi sono accadute tante cose: ho sofferto e accettato di dover lottare ogni giorno anche per compiere le azioni più semplici».
Due gravi incidenti che l’hanno costretta immobile per anni a letto, la perdita dell’unico figlio: di fronte a queste prove la bellezza è passata in secondo piano? «No», risponde decisa l’indimenticabile Serafina del film di Lattuada con Renato Pozzetto del ’76, «perché oggi, come vent’anni fa, mi piace sentirmi bella e prendermi cura di me. Amo il mio corpo esattamente come allora, e vivo i suoi cambiamenti come un mutare della mia bellezza, non come un appassire. Sono certa che finché il mio corpo rifletterà la mia forza interiore e le mie conquiste, non smetterà mai di essere bello».
Ora Dalila, abbandonato il set, fa la scrittrice: dopo l’autobiografia Il mio cielo dell’anno scorso, nel 2008 uscirà il suo nuovo libro, Piccoli miracoli intorno a me. E il miracolo che la mantiene così bella, qual è? «Mai ritoccata, mai andata in palestra, mai diete, mangio quel che voglio, sono una forchettona. Faccio solo passeggiate in città e nuotate d’estate al mare. E massaggi tre volte la settimana per i problemi a collo e schiena. Linfodrenaggi per la circolazione, la riflessologia plantare ai piedi mi rilassa molto... Ammetto di avere avuto un regalo dal cielo, e mi basta mantenermi. Ho posato nuda solo un’altra volta in vita mia, per Playmen quando avevo 26 anni. E per la vecchiaia i miei modelli sono Brigitte Bardot, Jane Birkin, Charlotte Rampling e Katharine Hepburn, che non hanno ceduto alla tentazione del bisturi».
«La bellezza nasce da come si è», spiega Ornella Muti. «perché non è solo l’estetica a essere importante: a renderci belli è l’armonia tra corpo, anima e mente. Un’armonia che si trasmette all’esterno come un’energia contagiosa, che nulla a che vedere con l’età. Un esempio di bellezza, come la intendo io, è Anna Orso, che emana un’incredibile energia. La vedi e subito ti colpisce il suo sguardo profondo, limpido, chiaro. A quel punto non ti chiedi nulla di lei, perché pensi che lei è semplicemente se stessa: bellissima e trasparente. Il suo è un vero dono, e il fatto che non nasca solo da caratteristiche estetiche, ma dalla sua energia, è la dimostrazione del fatto che la bellezza non ha età».
La giornalista Barbara Palombelli non si spoglia, però partecipa a un tavola rotonda in Galleria il 19 settembre alle 18: «Noi over 50 apparteniamo a una generazione unica. Siamo state le prime a vivere l’emancipazione femminile e a conquistare un ruolo sociale attivo e riconosciuto. Dobbiamo esserne fiere, e trasmettere la nostra fierezza alle generazioni che verranno. Per riuscirci abbiamo alleati preziosi: una pienezza di vita e di interessi, e anche una bellezza intesa nel senso più ampio del termine, che le nostre madri non avevano».
L’orgoglio delle pantere grigie (molto pantere e pochissimo grigie) si accende sentendo i risultati di un sondaggio di Renato Mannheimer commissionato da Dove: anche i maschi vogliono vedere rappresentate donne reali, e non amano le finzioni della pubblicità che impone modelli irraggiungibili. Per i mille intervistati una donna è bella innanzitutto se «ha una sua personalità, un suo stile unico», se «è simpatica», e soprattutto se è «consapevole del proprio fascino». Solo dopo arrivano qualità come l’«aspetto fisico attraente» e la gioventù.
Tutti, poi, condividono queste affermazioni:
1) la bellezza non ha una data di scadenza, una donna può essere bella a qualsiasi età.
2) a 50 anni una donna può essere più interessante che a 30.
3) oggi una donna a 50 anni può essere molto più attraente che in passato.
4) una ruga rende la donna più interessante.
Grande consenso anche per queste critiche alla pubblicità:
1) le donne belle non sono solo veline o miss, bisogna contrastare questa immagine distorta.
2) i pubblicitari non hanno capito che le donne sono cambiate, e anche dopo i 50 anni sono apprezzate dalla società.
3) la maggioranza delle donne dopo i 50 anni è orgogliosa di quello che è, non rincorre i modelli della pubblicità.
4) le donne over 50 che dimostrano la loro età non si vedono mai negli spot.
«Insomma, pubblicità e media una volta tanto non sembrano essere più avanti rispetto alla società», commenta Mannheimer, «perché restano ancorati a stereotipi ormai obsoleti, forse per paura di osare il nuovo». E Lucia Rappazzo, direttrice del mensile Psycologies, alza il tiro: «Si può essere belle senza nascondere la propria età anche a 60 anni, e a 70». Le splendide settuagenarie Anna Orso, Virna Lisi, Jane Fonda o Sophia Loren sono lì a dimostrarlo.
Mauro Suttora
Milano, 23 settembre 2007
Volete vedere Ornella Muti e Dalila Di Lazzaro nude? Passate in corso Vittorio Emanuele a Milano dal 19 settembre al 14 ottobre. Le due attrici (52 anni la prima, 54 la seconda) esibiscono le proprie mature ma sempre affascinanti grazie in una mostra, con tanto di gigantografie senza veli. Assieme ad altre otto donne (l’attrice Anna Orso, una preside, un’agente immobiliare, una direttrice del personale e altre cinquantenni, professioniste in carriera o mamme) hanno accettato di spogliarsi per il fotografo Gianmarco Chieregato.
Vogliono lanciare un messaggio non solo alle coetanee, ma anche alle donne più giovani: la bellezza del corpo femminile nasce dall’orgoglio di mostrarsi come si è. Intense, profonde, uniche. Oltre alle signore italiane, sono esibiti i ritratti della fotografa più famosa del mondo: l’americana Annie Leibovitz, che riesce a valorizzare cinquantenni normalissime: una pasticcera, una fisioterapista.
La mostra, organizzata dal Fondo Dove per l’autostima, s’intitola «Pro-age, perché la bellezza non ha età», e contesta l’idea che l’avanzare dell’età sia considerato come un «difetto» da correggere, in nome di un’illusoria eterna giovinezza propagandata dai media e dalla pubblicità, a beneficio di chirurghi plastici e venditori di botulino e silicone.
«Ovviamente la bellezza ha avuto un posto predominante nella mia vita», ci dice la Di Lazzaro, «perché sono stata un’attrice, un volto noto del cinema. Quand’ero più giovane essere e sentirmi bella era una componente essenziale di me stessa. Poi sono accadute tante cose: ho sofferto e accettato di dover lottare ogni giorno anche per compiere le azioni più semplici».
Due gravi incidenti che l’hanno costretta immobile per anni a letto, la perdita dell’unico figlio: di fronte a queste prove la bellezza è passata in secondo piano? «No», risponde decisa l’indimenticabile Serafina del film di Lattuada con Renato Pozzetto del ’76, «perché oggi, come vent’anni fa, mi piace sentirmi bella e prendermi cura di me. Amo il mio corpo esattamente come allora, e vivo i suoi cambiamenti come un mutare della mia bellezza, non come un appassire. Sono certa che finché il mio corpo rifletterà la mia forza interiore e le mie conquiste, non smetterà mai di essere bello».
Ora Dalila, abbandonato il set, fa la scrittrice: dopo l’autobiografia Il mio cielo dell’anno scorso, nel 2008 uscirà il suo nuovo libro, Piccoli miracoli intorno a me. E il miracolo che la mantiene così bella, qual è? «Mai ritoccata, mai andata in palestra, mai diete, mangio quel che voglio, sono una forchettona. Faccio solo passeggiate in città e nuotate d’estate al mare. E massaggi tre volte la settimana per i problemi a collo e schiena. Linfodrenaggi per la circolazione, la riflessologia plantare ai piedi mi rilassa molto... Ammetto di avere avuto un regalo dal cielo, e mi basta mantenermi. Ho posato nuda solo un’altra volta in vita mia, per Playmen quando avevo 26 anni. E per la vecchiaia i miei modelli sono Brigitte Bardot, Jane Birkin, Charlotte Rampling e Katharine Hepburn, che non hanno ceduto alla tentazione del bisturi».
«La bellezza nasce da come si è», spiega Ornella Muti. «perché non è solo l’estetica a essere importante: a renderci belli è l’armonia tra corpo, anima e mente. Un’armonia che si trasmette all’esterno come un’energia contagiosa, che nulla a che vedere con l’età. Un esempio di bellezza, come la intendo io, è Anna Orso, che emana un’incredibile energia. La vedi e subito ti colpisce il suo sguardo profondo, limpido, chiaro. A quel punto non ti chiedi nulla di lei, perché pensi che lei è semplicemente se stessa: bellissima e trasparente. Il suo è un vero dono, e il fatto che non nasca solo da caratteristiche estetiche, ma dalla sua energia, è la dimostrazione del fatto che la bellezza non ha età».
La giornalista Barbara Palombelli non si spoglia, però partecipa a un tavola rotonda in Galleria il 19 settembre alle 18: «Noi over 50 apparteniamo a una generazione unica. Siamo state le prime a vivere l’emancipazione femminile e a conquistare un ruolo sociale attivo e riconosciuto. Dobbiamo esserne fiere, e trasmettere la nostra fierezza alle generazioni che verranno. Per riuscirci abbiamo alleati preziosi: una pienezza di vita e di interessi, e anche una bellezza intesa nel senso più ampio del termine, che le nostre madri non avevano».
L’orgoglio delle pantere grigie (molto pantere e pochissimo grigie) si accende sentendo i risultati di un sondaggio di Renato Mannheimer commissionato da Dove: anche i maschi vogliono vedere rappresentate donne reali, e non amano le finzioni della pubblicità che impone modelli irraggiungibili. Per i mille intervistati una donna è bella innanzitutto se «ha una sua personalità, un suo stile unico», se «è simpatica», e soprattutto se è «consapevole del proprio fascino». Solo dopo arrivano qualità come l’«aspetto fisico attraente» e la gioventù.
Tutti, poi, condividono queste affermazioni:
1) la bellezza non ha una data di scadenza, una donna può essere bella a qualsiasi età.
2) a 50 anni una donna può essere più interessante che a 30.
3) oggi una donna a 50 anni può essere molto più attraente che in passato.
4) una ruga rende la donna più interessante.
Grande consenso anche per queste critiche alla pubblicità:
1) le donne belle non sono solo veline o miss, bisogna contrastare questa immagine distorta.
2) i pubblicitari non hanno capito che le donne sono cambiate, e anche dopo i 50 anni sono apprezzate dalla società.
3) la maggioranza delle donne dopo i 50 anni è orgogliosa di quello che è, non rincorre i modelli della pubblicità.
4) le donne over 50 che dimostrano la loro età non si vedono mai negli spot.
«Insomma, pubblicità e media una volta tanto non sembrano essere più avanti rispetto alla società», commenta Mannheimer, «perché restano ancorati a stereotipi ormai obsoleti, forse per paura di osare il nuovo». E Lucia Rappazzo, direttrice del mensile Psycologies, alza il tiro: «Si può essere belle senza nascondere la propria età anche a 60 anni, e a 70». Le splendide settuagenarie Anna Orso, Virna Lisi, Jane Fonda o Sophia Loren sono lì a dimostrarlo.
Mauro Suttora
intervista a Ken Follett
Lo scrittore presenta il suo 17esimo romanzo: 'Mondo senza fine'
Roma, hotel Hassler, 19 settembre 2007
di Mauro Suttora
Posso protestare? Mi permette?
«Prego».
Questo suo ultimo libro è troppo lungo.
«The longer the better: più sono lunghi, meglio è. I miei lettori adorano i libri infiniti».
Anche se hanno 1.366 pagine?
«Tanti lettori di I pilastri della terra mi hanno scritto: “Lo volevamo ancora più lungo”...».
Ken Follett ha venduto cento milioni di copie dei suoi sedici romanzi. Il bestseller personale rimane 'I pilastri della terra' del 1989: undici milioni di copie (uno e mezzo solo in Italia). L’unico ambientato nel Medioevo. Da allora i suoi lettori (che lui coltiva, leggendo le loro lettere ed e-mail e firmando amabile e instancabile migliaia di copie in giro per il mondo) lo implorano: «Dacci una seconda puntata». Fatto. È appena uscito 'Mondo senza fine' (Mondadori), che si svolge nello stesso villaggio inglese immaginario (Kingsbridge), ma nel XIV secolo, 200 anni dopo il romanzo precedente.
Storie di abati corrotti, suore lussuriose, vescovi che pretendono lo ius primae noctis, medici che rischiano il rogo per stregoneria solo perché vogliono curare la peste...
Follett, confessi. Lei ce l’ha con i cattolici?
«Assolutamente no. Il conflitto che descrivo nel libro è tutto interno alla Chiesa, fra una parte di religiosi che si fida e affida alla scienza, e un’altra che ne diffida. Ma ci sono anche figure assai positive: la protagonista Caris, per esempio, è una suora».
Beh, almeno Umberto Eco nel 'Nome della rosa' aveva diviso equamente i monaci fra buoni e cattivi. Qui invece la grande maggioranza delle figure ecclesiali è negativa.
«Dice? Mi faccia pensare... Forse il problema è che in quell’epoca la Chiesa rappresentava tutto il potere, anche quello terreno. Ed è fatale che fra le figure di potere ce ne siano molte negative».
Comunque, lei fra scienza e religione sceglie la prima.
«Certo. La Chiesa ha sempre avuto torto quando ha perseguitato gli scienziati. Il Papa ha dovuto chiedere scusa a Galileo 400 anni dopo. Per un motivo molto semplice: la Chiesa non sa nulla di scienza, quindi non può che sbagliare».
Ma i suoi genitori non erano religiosissimi?
«E molto severi: fino a 16 anni mi vietavano il cinema. E in casa non c’era la tv».
Così nasce uno scrittore?
«Mi sfogavo leggendo libri. Lì non mi proibivano nulla, e così a dodici anni ero pazzo di James Bond: sognavo la sua vita peccaminosa piena di cocktail, sigarette, auto e donne sexy. Risultato: a 15 anni mi sono ribellato alla religione».
Ed è passato ai Beatles.
«Sì, la loro canzone che preferisco è Good Day Sunshine».
Perché?
«Perché le canzoni che ci piacciono a 17 anni ci accompagnano per il resto della vita. Perché sta in Revolver, uno dei loro dischi più belli. E anche perché avevo soprannominato Sunshine il mio primo figlio, nato quando avevo solo 19 anni ed ero all’università».
La musica è importante per lei?
«Molto. Suono il basso in un complesso di rock-blues. Spesso ci esibiamo in pubblico nella zona dove abito, in campagna, vicino a Londra».
Ho letto che un’altra canzone che predilige è My Cherie Amour di Steve Wonder.
«Sì, chiamavo così mia figlia quand’era piccola. Lei camminò su quel disco e lo ruppe».
È anche molto impegnato politicamente.
«Da tre mesi la mia seconda moglie Barbara Broer, che conobbi negli anni Ottanta quando facevo l’attivista nella sezione laburista di cui lei era segretaria, è diventata ministro».
Ah! E di che?
«Pari opportunità, nel nuovo governo laburista di Gordon Brown. Vuole unificare tutte le leggi che proteggono donne, gay, handicappati e minoranze razziali, per diminuire la burocrazia e semplificare la vita ai datori di lavoro».
Lei detestava Tony Blair, e invece adora Brown. Perché non è inglese, come lei?
«Ahahah! Io sono gallese e Brown scozzese, è vero, ma non l’ammiro per ragioni etniche. Credo veramente che sia più onesto e sincero di Blair».
Che pensa della conversione di Blair al cattolicesimo?
«È un uomo alla ricerca di una fede. C’è un po’ di vuoto nel suo cuore e nella sua anima, e lui avverte il bisogno di riempirlo. Con qualsiasi cosa: avrebbe potuto farlo anche con il buddhismo».
È molto duro con Blair. Ma pure lei all’inizio era favorevole alla guerra in Iraq.
«Ora abbiamo tutti capito che è stato un errore tremendo. Sì, quattro anni fa mia moglie, allora deputata, votò a favore della guerra dopo che assieme ci pensammo per giorni e giorni. Credevo fosse una buona idea eliminare un dittatore che aveva fatto fuori centomila dei suoi sudditi. Ma abbiamo sottovalutato la complessità della situazione irachena».
Torniamo alla scrittura. Quante pagine riesce a scrivere ogni giorno?
«In media quattro. Comincio presto, alle sette del mattino: appena sveglio mi vengono un sacco di idee, sono creativo. E vado avanti fino a metà pomeriggio. Poi mi riposo».
Mauro Suttora
Roma, hotel Hassler, 19 settembre 2007
di Mauro Suttora
Posso protestare? Mi permette?
«Prego».
Questo suo ultimo libro è troppo lungo.
«The longer the better: più sono lunghi, meglio è. I miei lettori adorano i libri infiniti».
Anche se hanno 1.366 pagine?
«Tanti lettori di I pilastri della terra mi hanno scritto: “Lo volevamo ancora più lungo”...».
Ken Follett ha venduto cento milioni di copie dei suoi sedici romanzi. Il bestseller personale rimane 'I pilastri della terra' del 1989: undici milioni di copie (uno e mezzo solo in Italia). L’unico ambientato nel Medioevo. Da allora i suoi lettori (che lui coltiva, leggendo le loro lettere ed e-mail e firmando amabile e instancabile migliaia di copie in giro per il mondo) lo implorano: «Dacci una seconda puntata». Fatto. È appena uscito 'Mondo senza fine' (Mondadori), che si svolge nello stesso villaggio inglese immaginario (Kingsbridge), ma nel XIV secolo, 200 anni dopo il romanzo precedente.
Storie di abati corrotti, suore lussuriose, vescovi che pretendono lo ius primae noctis, medici che rischiano il rogo per stregoneria solo perché vogliono curare la peste...
Follett, confessi. Lei ce l’ha con i cattolici?
«Assolutamente no. Il conflitto che descrivo nel libro è tutto interno alla Chiesa, fra una parte di religiosi che si fida e affida alla scienza, e un’altra che ne diffida. Ma ci sono anche figure assai positive: la protagonista Caris, per esempio, è una suora».
Beh, almeno Umberto Eco nel 'Nome della rosa' aveva diviso equamente i monaci fra buoni e cattivi. Qui invece la grande maggioranza delle figure ecclesiali è negativa.
«Dice? Mi faccia pensare... Forse il problema è che in quell’epoca la Chiesa rappresentava tutto il potere, anche quello terreno. Ed è fatale che fra le figure di potere ce ne siano molte negative».
Comunque, lei fra scienza e religione sceglie la prima.
«Certo. La Chiesa ha sempre avuto torto quando ha perseguitato gli scienziati. Il Papa ha dovuto chiedere scusa a Galileo 400 anni dopo. Per un motivo molto semplice: la Chiesa non sa nulla di scienza, quindi non può che sbagliare».
Ma i suoi genitori non erano religiosissimi?
«E molto severi: fino a 16 anni mi vietavano il cinema. E in casa non c’era la tv».
Così nasce uno scrittore?
«Mi sfogavo leggendo libri. Lì non mi proibivano nulla, e così a dodici anni ero pazzo di James Bond: sognavo la sua vita peccaminosa piena di cocktail, sigarette, auto e donne sexy. Risultato: a 15 anni mi sono ribellato alla religione».
Ed è passato ai Beatles.
«Sì, la loro canzone che preferisco è Good Day Sunshine».
Perché?
«Perché le canzoni che ci piacciono a 17 anni ci accompagnano per il resto della vita. Perché sta in Revolver, uno dei loro dischi più belli. E anche perché avevo soprannominato Sunshine il mio primo figlio, nato quando avevo solo 19 anni ed ero all’università».
La musica è importante per lei?
«Molto. Suono il basso in un complesso di rock-blues. Spesso ci esibiamo in pubblico nella zona dove abito, in campagna, vicino a Londra».
Ho letto che un’altra canzone che predilige è My Cherie Amour di Steve Wonder.
«Sì, chiamavo così mia figlia quand’era piccola. Lei camminò su quel disco e lo ruppe».
È anche molto impegnato politicamente.
«Da tre mesi la mia seconda moglie Barbara Broer, che conobbi negli anni Ottanta quando facevo l’attivista nella sezione laburista di cui lei era segretaria, è diventata ministro».
Ah! E di che?
«Pari opportunità, nel nuovo governo laburista di Gordon Brown. Vuole unificare tutte le leggi che proteggono donne, gay, handicappati e minoranze razziali, per diminuire la burocrazia e semplificare la vita ai datori di lavoro».
Lei detestava Tony Blair, e invece adora Brown. Perché non è inglese, come lei?
«Ahahah! Io sono gallese e Brown scozzese, è vero, ma non l’ammiro per ragioni etniche. Credo veramente che sia più onesto e sincero di Blair».
Che pensa della conversione di Blair al cattolicesimo?
«È un uomo alla ricerca di una fede. C’è un po’ di vuoto nel suo cuore e nella sua anima, e lui avverte il bisogno di riempirlo. Con qualsiasi cosa: avrebbe potuto farlo anche con il buddhismo».
È molto duro con Blair. Ma pure lei all’inizio era favorevole alla guerra in Iraq.
«Ora abbiamo tutti capito che è stato un errore tremendo. Sì, quattro anni fa mia moglie, allora deputata, votò a favore della guerra dopo che assieme ci pensammo per giorni e giorni. Credevo fosse una buona idea eliminare un dittatore che aveva fatto fuori centomila dei suoi sudditi. Ma abbiamo sottovalutato la complessità della situazione irachena».
Torniamo alla scrittura. Quante pagine riesce a scrivere ogni giorno?
«In media quattro. Comincio presto, alle sette del mattino: appena sveglio mi vengono un sacco di idee, sono creativo. E vado avanti fino a metà pomeriggio. Poi mi riposo».
Mauro Suttora
Thursday, September 13, 2007
11 settembre, sei anni fa
E TUTTO CROLLO'
di Mauro Suttora
New York, 11 settembre 2007
Un anniversario in tono minore: così si ricorda, quest’anno, la data dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Sarà perché sei anni non è un numero tondo come cinque o dieci, sarà per l’impantanamento dell’esercito americano nelle guerre d’Afghanistan e Iraq, ma le cerimonie si svolgono in modo più sommesso degli anni scorsi. Meno spazio sui media, anche perché l’attenzione è rivolta al rapporto del generale David Petraeus sulla vera situazione militare a Baghdad, e sulle prospettive di una liberazione che si è trasformata in occupazione, e che con il passare del tempo è diventata per gli Usa l’incubo di un nuovo Vietnam. Eppure quei quasi tremila civili morti nel crollo delle Torri gemelle a New York, il «buco» nel Pentagono e l’aereo caduto in Pennsylvania rimangono nella memoria di tutti noi.
Non c’è stato alcun soccorso da prestare alle vittime dell’11 settembre: tutti coloro che si trovavano dentro le Torri al momento del crollo sono morti. Nessun ferito. «La cosa più brutta è stato vedere gli ospedali vuoti», ha detto l’allora sindaco di New York, Rudy Giuliani, «perché significava che erano tutti andati».
Oltre a coloro che si trovavano nei piani superiori a quelli degli impatti dei due aerei, e che non sono potuti scendere perché erano bloccati dall’incendio e dal fumo, sono stati travolti dal crollo inaspettato della prima torre tutti i poliziotti e vigili del fuoco che stavano cercando di spegnere l’incendio. Quelli della seconda torre hanno avuto pochi minuti per precipitarsi al piano terra, ma anche molti di loro non ce l’hanno fatta. Le autorità avevano proclamato che le Torri sarebbero state ricostruite, ma finora pochissimi si sono azzardati a prenotare uffici in quel luogo maledetto. Così i lavori vanno a rilento.
Poco dopo l’attacco alle due Torri di New York, i terroristi islamici scagliano un aereo civile dirottato, pieno di passeggeri innocenti, anche sul Pentagono di Washington, sede del ministero della Difesa statunitense. L’impatto su una facciata dell’edificio provoca circa 200 morti e un incendio. Ma soprattutto, in questi sei anni, ha alimentato polemiche a non finire su ciò che realmente accadde. Questo perché, per malintese esigenze di sicurezza militare, le autorità hanno sempre rifiutato di mostrare la quasi totalità delle immagini raccolte, comprese quelle provenienti dalle telecamere fisse nascoste nelle adiacenze del palazzo.
Così si è alimentato lo scetticismo di molti, i quali si sono domandati se veramente un aereo fosse piombato sul Pentagono. Sono state formulate le ipotesi più varie, compreso l’attacco di un missile Cruise, o di un altro missile terra-terra. Queste foto non porranno fine alle speculazioni, ma almeno forniranno qualche prova ufficiale in più contro i «negazionisti» più fantasiosi. Come quelli che ipotizzano addirittura un auto-attacco da parte del presidente George Bush per giustificare la guerra all’Afghanistan.
Le tesi opposte in due nuovi libri
Smontare un smontatura: questo è l’obiettivo che si è dato il giornalista Massimo Polidoro, che ha curato l’antologia "11/9. La cospirazione impossibile", edita da Piemme. Il libro cerca di smentire, punto per punto, tutti gli argomenti contenuti in un altro libro appena uscito, e curiosamente pubblicato dallo stesso editore: "Zero".
Quest’ultima è un’altra antologia, curata dall’eurodeputato Giulietto Chiesa, che definisce «montatura di Bush» l’attacco dell’11 settembre. I quindici autori, fra i quali il filosofo Gianni Vattimo, lo storico Franco Cardini e la scrittrice Lidia Ravera, non arrivano fino a incolpare il presidente degli Stati Uniti per la strage delle Torri Gemelle. Però lo accusano di avere ignorato gli avvertimenti dei servizi segreti statunitensi su un imminente attacco di Al Qaeda. Questo perché, a loro avviso, il «complesso militare-industriale» americano voleva trovare una scusa per fare una guerra, aumentare le spese militari e quindi guadagnare ancora di più grazie alle commesse belliche. I sostenitori di questa teoria del complotto mettono in luce anche tutte le incongruenze delle versioni ufficiali sul disastro. Non credono, per esempio, che le Torri siano crollate da sole, ma che siano state abbattute da cariche esplosive già contenute nell’edificio. E accusano l’Air Force di avere abbattuto il quarto aereo dirottato, che si dirigeva verso la Casa Bianca.
Tutte queste tesi vengono confutate nell’altro libro, che si avvale fra gli altri dei contributi di Umberto Eco, del matematico Piergiorgio Odifreddi e di Andrea Ferrero, ingegnere dell’Alenia. Questo libro costa 16,50 euro, l’altro 17,50. L’unico felice, in ogni caso, è l’editore Piemme, che prova a fare guadagni su entrambe le tesi.
E Bin Laden resta un fantasma
Queste immagini toccanti ci ricordano i tanti modi con cui sono state onorate le vittime dell’11 settembre 2001. Ma dopo sei anni dobbiamo anche ammettere che finora il loro assassino non è stato punito. Infatti Osama Bin Laden, mandante confesso dei 19 terroristi dirottatori, è ancora libero. Così come il suo compare, il mullah Omar capo dei talebani che lo ospitavano in Afghanistan.
Le due guerre scatenate dal presidente americano Bush, contro l’Afghanistan nel 2001 e contro l’Iraq due anni dopo, non sono valse a catturarli. E hanno provocato altre vittime: si stimano attorno ai centomila i civili iracheni e afghani morti, più 3.600 soldati americani uccisi e parecchie migliaia di mutilati. «L’Iraq rischia di essere un altro Vietnam», ha dovuto ammettere lo stesso Bush. Unica nota positiva: negli Stati Uniti non ci sono stati altri attentati.
di Mauro Suttora
New York, 11 settembre 2007
Un anniversario in tono minore: così si ricorda, quest’anno, la data dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Sarà perché sei anni non è un numero tondo come cinque o dieci, sarà per l’impantanamento dell’esercito americano nelle guerre d’Afghanistan e Iraq, ma le cerimonie si svolgono in modo più sommesso degli anni scorsi. Meno spazio sui media, anche perché l’attenzione è rivolta al rapporto del generale David Petraeus sulla vera situazione militare a Baghdad, e sulle prospettive di una liberazione che si è trasformata in occupazione, e che con il passare del tempo è diventata per gli Usa l’incubo di un nuovo Vietnam. Eppure quei quasi tremila civili morti nel crollo delle Torri gemelle a New York, il «buco» nel Pentagono e l’aereo caduto in Pennsylvania rimangono nella memoria di tutti noi.
Non c’è stato alcun soccorso da prestare alle vittime dell’11 settembre: tutti coloro che si trovavano dentro le Torri al momento del crollo sono morti. Nessun ferito. «La cosa più brutta è stato vedere gli ospedali vuoti», ha detto l’allora sindaco di New York, Rudy Giuliani, «perché significava che erano tutti andati».
Oltre a coloro che si trovavano nei piani superiori a quelli degli impatti dei due aerei, e che non sono potuti scendere perché erano bloccati dall’incendio e dal fumo, sono stati travolti dal crollo inaspettato della prima torre tutti i poliziotti e vigili del fuoco che stavano cercando di spegnere l’incendio. Quelli della seconda torre hanno avuto pochi minuti per precipitarsi al piano terra, ma anche molti di loro non ce l’hanno fatta. Le autorità avevano proclamato che le Torri sarebbero state ricostruite, ma finora pochissimi si sono azzardati a prenotare uffici in quel luogo maledetto. Così i lavori vanno a rilento.
Poco dopo l’attacco alle due Torri di New York, i terroristi islamici scagliano un aereo civile dirottato, pieno di passeggeri innocenti, anche sul Pentagono di Washington, sede del ministero della Difesa statunitense. L’impatto su una facciata dell’edificio provoca circa 200 morti e un incendio. Ma soprattutto, in questi sei anni, ha alimentato polemiche a non finire su ciò che realmente accadde. Questo perché, per malintese esigenze di sicurezza militare, le autorità hanno sempre rifiutato di mostrare la quasi totalità delle immagini raccolte, comprese quelle provenienti dalle telecamere fisse nascoste nelle adiacenze del palazzo.
Così si è alimentato lo scetticismo di molti, i quali si sono domandati se veramente un aereo fosse piombato sul Pentagono. Sono state formulate le ipotesi più varie, compreso l’attacco di un missile Cruise, o di un altro missile terra-terra. Queste foto non porranno fine alle speculazioni, ma almeno forniranno qualche prova ufficiale in più contro i «negazionisti» più fantasiosi. Come quelli che ipotizzano addirittura un auto-attacco da parte del presidente George Bush per giustificare la guerra all’Afghanistan.
Le tesi opposte in due nuovi libri
Smontare un smontatura: questo è l’obiettivo che si è dato il giornalista Massimo Polidoro, che ha curato l’antologia "11/9. La cospirazione impossibile", edita da Piemme. Il libro cerca di smentire, punto per punto, tutti gli argomenti contenuti in un altro libro appena uscito, e curiosamente pubblicato dallo stesso editore: "Zero".
Quest’ultima è un’altra antologia, curata dall’eurodeputato Giulietto Chiesa, che definisce «montatura di Bush» l’attacco dell’11 settembre. I quindici autori, fra i quali il filosofo Gianni Vattimo, lo storico Franco Cardini e la scrittrice Lidia Ravera, non arrivano fino a incolpare il presidente degli Stati Uniti per la strage delle Torri Gemelle. Però lo accusano di avere ignorato gli avvertimenti dei servizi segreti statunitensi su un imminente attacco di Al Qaeda. Questo perché, a loro avviso, il «complesso militare-industriale» americano voleva trovare una scusa per fare una guerra, aumentare le spese militari e quindi guadagnare ancora di più grazie alle commesse belliche. I sostenitori di questa teoria del complotto mettono in luce anche tutte le incongruenze delle versioni ufficiali sul disastro. Non credono, per esempio, che le Torri siano crollate da sole, ma che siano state abbattute da cariche esplosive già contenute nell’edificio. E accusano l’Air Force di avere abbattuto il quarto aereo dirottato, che si dirigeva verso la Casa Bianca.
Tutte queste tesi vengono confutate nell’altro libro, che si avvale fra gli altri dei contributi di Umberto Eco, del matematico Piergiorgio Odifreddi e di Andrea Ferrero, ingegnere dell’Alenia. Questo libro costa 16,50 euro, l’altro 17,50. L’unico felice, in ogni caso, è l’editore Piemme, che prova a fare guadagni su entrambe le tesi.
E Bin Laden resta un fantasma
Queste immagini toccanti ci ricordano i tanti modi con cui sono state onorate le vittime dell’11 settembre 2001. Ma dopo sei anni dobbiamo anche ammettere che finora il loro assassino non è stato punito. Infatti Osama Bin Laden, mandante confesso dei 19 terroristi dirottatori, è ancora libero. Così come il suo compare, il mullah Omar capo dei talebani che lo ospitavano in Afghanistan.
Le due guerre scatenate dal presidente americano Bush, contro l’Afghanistan nel 2001 e contro l’Iraq due anni dopo, non sono valse a catturarli. E hanno provocato altre vittime: si stimano attorno ai centomila i civili iracheni e afghani morti, più 3.600 soldati americani uccisi e parecchie migliaia di mutilati. «L’Iraq rischia di essere un altro Vietnam», ha dovuto ammettere lo stesso Bush. Unica nota positiva: negli Stati Uniti non ci sono stati altri attentati.
Wednesday, September 12, 2007
Alitalia lascia Malpensa
Non si uccide cosi' un aeroporto?
Roma, 12 settembre
Quel che la Lega Nord non era riuscita a fare in vent’anni, lo sta combinando ora l’Alitalia: mettere l’uno contro l’altro gli aeroporti di Malpensa e Fiumicino, Milano e Roma, Sud e Nord. Di fronte alla voragine delle proprie perdite (più di due milioni di euro al giorno), la nostra compagnia di bandiera ha infatti annunciato che taglierà parecchi voli dallo scalo lombardo, ripristinando Fiumicino come propria base. Si sono scatenate subito le proteste del governatore della Lombardia Roberto Formigoni e della sindachessa di Milano Letizia Moratti. Il presidente di Malpensa vuole addirittura far causa per danni all’Alitalia.
Cosa sta succedendo, in realtà? Per vederci chiaro, abbiamo posto dieci domande a due esperti indipendenti di trasporto aereo: il consulente Nick Brough, amministratore delegato della società Interazione, e Dario Balotta, segretario lombardo della Cisl trasporti.
1) Cominciamo dall’inizio: perché Alitalia è in crisi?
«Ingerenze politiche», risponde Brough. «L’azionista pubblico ha imposto all’Alitalia troppi obiettivi in conflitto fra loro. L’unica soluzione era operare in perdita e ricevere sovvenzioni statali. Ma ora il mercato libero europeo, per impedire la concorrenza sleale, vieta le sovvenzioni».
Spiega Balotta: «Alitalia non ha più nulla: per ripianare i buchi ha venduto gli aerei prendendoli in leasing. Ma ormai la flotta è vecchia, un centinaio di Md80 vanno cambiati. Neanche la sede romana della Magliana è più sua. L’unica vera ricchezza che le rimane sono i diritti di traffico. Ma ora rinuncia pure a quelli, per esempio sulle rotte per l’Estremo oriente. Le garanzie monopoliste non ci sono più, però i politici non hanno rinunciato a controllarla. Per esempio, ogni ministro degli Esteri ha deciso quali aerei comprare: Boeing, McDonnell, Airbus, Fokker, Atr. Così c’è una flotta arlecchino con costi moltiplicati: i piloti devono saperli guidare tutti, oppure non c’è flessibilità. Idem per la manutenzione. Ryanair, invece, ha solo Boeing 737, con pezzi di ricambio che vanno bene per tutti».
2) Perché le altre compagnie aeree invece vanno bene?
Brough: «Quelle statali e inefficienti si sono trasformate negli ultimi 10-20 anni. Oppure sono fallite, come la belga Sabena e la Swissair. Solo in Italia abbiamo rinviato scelte difficili». Aggiunge Balotta: «Tutte le compagnie privatizzate hanno rinunciato ai privilegi clientelari di partiti e sindacati. Alitalia invece ha il rapporto dipendenti/passeggeri più alto d’Europa, ed è l’unica in crisi oltre alla greca Olympic».
3) L'asta per vendere Alitalia è andata deserta. Perché nessuno la vuole?
Balotta: «Perché il bando prevedeva vincoli impossibili: se si vende una casa non si può imporre all’acquirente di tenersi i mobili vecchi per cinque anni, oppure vietargli di revisionare l’ascensore».
Brough: «Il nuovo proprietario non avrebbe dovuto tagliare né rotte in perdite né personale. Una parte del governo sperava che comprasse Air One, ricreando così il monopolio sulla ricchissima rotta Roma-Milano e quindi aumentando i prezzi e ricavando utili grazie alla sospensione della concorrenza. Ma non si facevano i conti con l’antitrust».
4) C'è qualche acquirente preferibile ad altri?
Brough: «Deve avere la spalle robuste e credere nel progetto, senza comprare per smantellare. Deve voler sviluppare un network intercontinentale in ragione del potenziale di un mercato grande quanto Italia».
Balotta: «Siamo già nell’alleanza Skyteam con Air France, Klm, Korean, le americane Continental e Delta. Perché cambiare?»
5) Tutti gli stati hanno una compagnia di bandiera. Ci perderebbe l'Italia a non averla?
Qui i nostri esperti non concordano. Secondo Balotta, infatti, «così come la British ha comprato l’Iberia con l’11 per cento e la Swiss è in mano a Lufthansa», anche l’Italia può rinunciare a un vettore statale: «Meglio che i soldi pubblici finanzino pensioni, sanità e scuola».
Brough invece sostiene che «non esiste un paese sviluppato con 60 milioni di abitanti senza una compagnia di proprietà locale o che è di base nel paese. Se non ci fosse una compagnia Italiana avremmo comunque tanti voli e prezzi buoni, ma l’economia perderebbe: non ci sarebbe più una sede direzionale, forse non ci sarebbero più grandi centri di manutenzione e di formazione. La “cultura aeronautica” nazionale sarebbe indebolita. C’è anche il rischio che in momenti di grave difficoltà nazionale, a causa di terrorismo o epidemie, le compagnie straniere abbandonino il Paese. È importante quindi risanare Alitalia».
6) È possibile risanare l'Alitalia mantenendola pubblica?
Brough: «Il risanamento è possibile, e Alitalia ha manager all’altezza: basta lasciarli liberi. Ma finché comanda il governo sarà improbabile riuscirci. Impariamo dalle privatizzazioni precedenti: l’acquirente deve avere mano libera. Con due condizioni: garantire un’adeguata ricapitalizzazione e avere una strategia di sviluppo della compagnia, ovvero non pensare solo a ridurre Alitalia a una piccola compagnia regionale che alimenta una base all’estero, con voli dall’Italia verso quella base e basta».
Più pessimista Balotta: «Sul nuovo piano presentato da Alitalia c’è scritto “2008-2010”. Questo significa che i boiardi di stato vogliono rimanere alla cloche per altri tre anni».
7) Conviene concentrare i voli Alitalia su Roma?
Balotta: «No. Alitalia ha il 56% dei suoi voli su Milano, ma ha mantenuto il 90% dei suoi dipendenti a Roma. Quello del Nord Italia è un mercato ricco e in crescita, e Malpensa è un aeroporto nuovo con spazi di crescita. Fiumicino invece ha pochi passeggeri d’affari e non è in grado di accogliere altro traffico: come si è visto quest’estate, lo smistamento bagagli è inadeguato».
Brough: «Alitalia paga le conseguenze di uno sviluppo aeroportuale irrazionale. Non si costruiscono grandi aeroporti senza prima aprire linee ferroviarie veloci e ottimi collegamenti autostradali. Questa regola basilare è stata dimenticata a Malpensa, troppo lontana da Milano. L’aeroporto di Monaco di Baviera ha ben due linee di metropolitana per la città. Così si è potuto chiudere il vecchio scalo senza creare problemi per nessuno. A Milano invece si diceva che il treno Malpensa-Milano (stazione Cadorna, poi, neanche la Centrale) sarebbe stato raddoppiato entro cinque anni. Ne sono passati quasi dieci e non si è visto nulla. Ora si vorrebbe costringere le compagnie a trasferire i voli da Linate a Malpensa, ma senza collegamenti veloci si penalizzerebbe la stragrande maggioranza dei passeggeri che volano a Milano, i quali fanno voli di una-due ore, e che quindi vedrebbero raddoppiare la durata dei loro viaggi».
8) Come farà Malpensa senza l'Alitalia?
Brough: «Anche il Canada fece lo stesso nostro errore: costruire un grande aeroporto lontano da Montreal. Ma passeggeri e vettori preferivano il vecchio scalo. Dopo molti decenni di sforzi il governo ha lasciato il nuovo aeroporto al suo destino. Per evitare lo stesso futuro è essenziale collegare bene Malpensa con la città. Gli errori hanno un costo, a Malpensa lo dovrà affrontare. Nel frattempo, continueranno i voli intercontinentali di altre compagnie, per i quali la pista di Linate è troppo corta. Ci sono molte compagnie straniere, soprattutto in Asia, che vorrebbero volare a Milano, ma il governo non le autorizza. Bisogna chiarire gli obiettivi».
Balotta: «Il vero problema di Malpensa non è Fiumicino, ma i troppi aeroporti: Linate, Orio-Bergamo, Torino, Verona, Parma. Meglio meno aeroporti, ma ben gestiti».
9) Un paese come l'Italia può permettersi due «hub» internazionali con voli intercontinentali?
Balotta: «La tedesca Lufthansa ne ha tre: Francoforte, Monaco, e ora Zurigo con la Swiss. Non c’è conflitto, basta chiarire specializzazioni e gerarchie».
Brough: «Milano, come Roma, costituisce un grande bacino di traffico, sufficiente per sostenere una rete di servizi verso le maggiori destinazioni nel mondo. A condizione però che la compagnia aerea nazionale sia molto efficiente, con aerei delle giuste dimensioni e caratteristiche. E oggi Alitalia non ne ha abbastanza per il lungo raggio».
10) La crisi Alitalia può rifllettersi sulla sicurezza dei voli?
Risposta decisa e unanime: «Assolutamente no. Gli standard vengono sempre rispettati, e il ministero vigila».
Mauro Suttora
dati:
FIUMICINO
30 milioni di passeggeri nel 2006
8 milioni da/per l’estero
4 piste
32 km da Roma
un treno ogni 30 minuti, ci mette 30 minuti
MALPENSA
22 milioni di passeggeri nel 2006
18 milioni da/per l’estero
2 piste
48 km da Milano
un treno ogni 30 minuti, ci mette 40 minuti
ALITALIA
deficit 2006: 380 milioni
deficit tendenziale 2007: 700 milioni
18 mila dipendenti a Roma
1.800 dipendenti a Milano
Roma, 12 settembre
Quel che la Lega Nord non era riuscita a fare in vent’anni, lo sta combinando ora l’Alitalia: mettere l’uno contro l’altro gli aeroporti di Malpensa e Fiumicino, Milano e Roma, Sud e Nord. Di fronte alla voragine delle proprie perdite (più di due milioni di euro al giorno), la nostra compagnia di bandiera ha infatti annunciato che taglierà parecchi voli dallo scalo lombardo, ripristinando Fiumicino come propria base. Si sono scatenate subito le proteste del governatore della Lombardia Roberto Formigoni e della sindachessa di Milano Letizia Moratti. Il presidente di Malpensa vuole addirittura far causa per danni all’Alitalia.
Cosa sta succedendo, in realtà? Per vederci chiaro, abbiamo posto dieci domande a due esperti indipendenti di trasporto aereo: il consulente Nick Brough, amministratore delegato della società Interazione, e Dario Balotta, segretario lombardo della Cisl trasporti.
1) Cominciamo dall’inizio: perché Alitalia è in crisi?
«Ingerenze politiche», risponde Brough. «L’azionista pubblico ha imposto all’Alitalia troppi obiettivi in conflitto fra loro. L’unica soluzione era operare in perdita e ricevere sovvenzioni statali. Ma ora il mercato libero europeo, per impedire la concorrenza sleale, vieta le sovvenzioni».
Spiega Balotta: «Alitalia non ha più nulla: per ripianare i buchi ha venduto gli aerei prendendoli in leasing. Ma ormai la flotta è vecchia, un centinaio di Md80 vanno cambiati. Neanche la sede romana della Magliana è più sua. L’unica vera ricchezza che le rimane sono i diritti di traffico. Ma ora rinuncia pure a quelli, per esempio sulle rotte per l’Estremo oriente. Le garanzie monopoliste non ci sono più, però i politici non hanno rinunciato a controllarla. Per esempio, ogni ministro degli Esteri ha deciso quali aerei comprare: Boeing, McDonnell, Airbus, Fokker, Atr. Così c’è una flotta arlecchino con costi moltiplicati: i piloti devono saperli guidare tutti, oppure non c’è flessibilità. Idem per la manutenzione. Ryanair, invece, ha solo Boeing 737, con pezzi di ricambio che vanno bene per tutti».
2) Perché le altre compagnie aeree invece vanno bene?
Brough: «Quelle statali e inefficienti si sono trasformate negli ultimi 10-20 anni. Oppure sono fallite, come la belga Sabena e la Swissair. Solo in Italia abbiamo rinviato scelte difficili». Aggiunge Balotta: «Tutte le compagnie privatizzate hanno rinunciato ai privilegi clientelari di partiti e sindacati. Alitalia invece ha il rapporto dipendenti/passeggeri più alto d’Europa, ed è l’unica in crisi oltre alla greca Olympic».
3) L'asta per vendere Alitalia è andata deserta. Perché nessuno la vuole?
Balotta: «Perché il bando prevedeva vincoli impossibili: se si vende una casa non si può imporre all’acquirente di tenersi i mobili vecchi per cinque anni, oppure vietargli di revisionare l’ascensore».
Brough: «Il nuovo proprietario non avrebbe dovuto tagliare né rotte in perdite né personale. Una parte del governo sperava che comprasse Air One, ricreando così il monopolio sulla ricchissima rotta Roma-Milano e quindi aumentando i prezzi e ricavando utili grazie alla sospensione della concorrenza. Ma non si facevano i conti con l’antitrust».
4) C'è qualche acquirente preferibile ad altri?
Brough: «Deve avere la spalle robuste e credere nel progetto, senza comprare per smantellare. Deve voler sviluppare un network intercontinentale in ragione del potenziale di un mercato grande quanto Italia».
Balotta: «Siamo già nell’alleanza Skyteam con Air France, Klm, Korean, le americane Continental e Delta. Perché cambiare?»
5) Tutti gli stati hanno una compagnia di bandiera. Ci perderebbe l'Italia a non averla?
Qui i nostri esperti non concordano. Secondo Balotta, infatti, «così come la British ha comprato l’Iberia con l’11 per cento e la Swiss è in mano a Lufthansa», anche l’Italia può rinunciare a un vettore statale: «Meglio che i soldi pubblici finanzino pensioni, sanità e scuola».
Brough invece sostiene che «non esiste un paese sviluppato con 60 milioni di abitanti senza una compagnia di proprietà locale o che è di base nel paese. Se non ci fosse una compagnia Italiana avremmo comunque tanti voli e prezzi buoni, ma l’economia perderebbe: non ci sarebbe più una sede direzionale, forse non ci sarebbero più grandi centri di manutenzione e di formazione. La “cultura aeronautica” nazionale sarebbe indebolita. C’è anche il rischio che in momenti di grave difficoltà nazionale, a causa di terrorismo o epidemie, le compagnie straniere abbandonino il Paese. È importante quindi risanare Alitalia».
6) È possibile risanare l'Alitalia mantenendola pubblica?
Brough: «Il risanamento è possibile, e Alitalia ha manager all’altezza: basta lasciarli liberi. Ma finché comanda il governo sarà improbabile riuscirci. Impariamo dalle privatizzazioni precedenti: l’acquirente deve avere mano libera. Con due condizioni: garantire un’adeguata ricapitalizzazione e avere una strategia di sviluppo della compagnia, ovvero non pensare solo a ridurre Alitalia a una piccola compagnia regionale che alimenta una base all’estero, con voli dall’Italia verso quella base e basta».
Più pessimista Balotta: «Sul nuovo piano presentato da Alitalia c’è scritto “2008-2010”. Questo significa che i boiardi di stato vogliono rimanere alla cloche per altri tre anni».
7) Conviene concentrare i voli Alitalia su Roma?
Balotta: «No. Alitalia ha il 56% dei suoi voli su Milano, ma ha mantenuto il 90% dei suoi dipendenti a Roma. Quello del Nord Italia è un mercato ricco e in crescita, e Malpensa è un aeroporto nuovo con spazi di crescita. Fiumicino invece ha pochi passeggeri d’affari e non è in grado di accogliere altro traffico: come si è visto quest’estate, lo smistamento bagagli è inadeguato».
Brough: «Alitalia paga le conseguenze di uno sviluppo aeroportuale irrazionale. Non si costruiscono grandi aeroporti senza prima aprire linee ferroviarie veloci e ottimi collegamenti autostradali. Questa regola basilare è stata dimenticata a Malpensa, troppo lontana da Milano. L’aeroporto di Monaco di Baviera ha ben due linee di metropolitana per la città. Così si è potuto chiudere il vecchio scalo senza creare problemi per nessuno. A Milano invece si diceva che il treno Malpensa-Milano (stazione Cadorna, poi, neanche la Centrale) sarebbe stato raddoppiato entro cinque anni. Ne sono passati quasi dieci e non si è visto nulla. Ora si vorrebbe costringere le compagnie a trasferire i voli da Linate a Malpensa, ma senza collegamenti veloci si penalizzerebbe la stragrande maggioranza dei passeggeri che volano a Milano, i quali fanno voli di una-due ore, e che quindi vedrebbero raddoppiare la durata dei loro viaggi».
8) Come farà Malpensa senza l'Alitalia?
Brough: «Anche il Canada fece lo stesso nostro errore: costruire un grande aeroporto lontano da Montreal. Ma passeggeri e vettori preferivano il vecchio scalo. Dopo molti decenni di sforzi il governo ha lasciato il nuovo aeroporto al suo destino. Per evitare lo stesso futuro è essenziale collegare bene Malpensa con la città. Gli errori hanno un costo, a Malpensa lo dovrà affrontare. Nel frattempo, continueranno i voli intercontinentali di altre compagnie, per i quali la pista di Linate è troppo corta. Ci sono molte compagnie straniere, soprattutto in Asia, che vorrebbero volare a Milano, ma il governo non le autorizza. Bisogna chiarire gli obiettivi».
Balotta: «Il vero problema di Malpensa non è Fiumicino, ma i troppi aeroporti: Linate, Orio-Bergamo, Torino, Verona, Parma. Meglio meno aeroporti, ma ben gestiti».
9) Un paese come l'Italia può permettersi due «hub» internazionali con voli intercontinentali?
Balotta: «La tedesca Lufthansa ne ha tre: Francoforte, Monaco, e ora Zurigo con la Swiss. Non c’è conflitto, basta chiarire specializzazioni e gerarchie».
Brough: «Milano, come Roma, costituisce un grande bacino di traffico, sufficiente per sostenere una rete di servizi verso le maggiori destinazioni nel mondo. A condizione però che la compagnia aerea nazionale sia molto efficiente, con aerei delle giuste dimensioni e caratteristiche. E oggi Alitalia non ne ha abbastanza per il lungo raggio».
10) La crisi Alitalia può rifllettersi sulla sicurezza dei voli?
Risposta decisa e unanime: «Assolutamente no. Gli standard vengono sempre rispettati, e il ministero vigila».
Mauro Suttora
dati:
FIUMICINO
30 milioni di passeggeri nel 2006
8 milioni da/per l’estero
4 piste
32 km da Roma
un treno ogni 30 minuti, ci mette 30 minuti
MALPENSA
22 milioni di passeggeri nel 2006
18 milioni da/per l’estero
2 piste
48 km da Milano
un treno ogni 30 minuti, ci mette 40 minuti
ALITALIA
deficit 2006: 380 milioni
deficit tendenziale 2007: 700 milioni
18 mila dipendenti a Roma
1.800 dipendenti a Milano
Saturday, September 08, 2007
intervista ad Albertazzi
Oggi, 17 agosto 2007
È nato un nuovo sodalizio artistico: Giorgio Albertazzi-Sabrina Ferilli. Lui regista, lei nel ruolo di produttrice. Assieme mettono in scena a teatro nel prossimo autunno (debutto in settembre al festival di Benevento) la commedia Sunshine, con Benedicta Boccoli e Sebastiano Somma (vedere il riquadro).
Racconta Albertazzi, 83 anni: «Sono sempre state le donne a cercarmi, nella mia vita. E anche questa volta è stata Sabrina a propormi Sunshine. Credo che da tempo pensasse a me come qualcuno con cui voleva avere a che fare, per creare qualcosa di intelligente. E penso che volesse anche interpretare il ruolo della protagonista, oltre a produrre questa commedia che io avevo già portato al festival di Spoleto verso la fine degli anni Ottanta, con Mariangela D’Abbraccio. È un bel testo dell’italoamericano William Mastrosimone, la tipica commedia brillante statunitense. Fatto sta che Sabrina non può farlo, probabilmente ha troppi impegni. Così ho incontrato Benedicta Boccoli, che cercava un’evasione dai suoi soliti ruoli. Sunshine è una quasi prostituta, lavora in un peep-show. Sono quegli spettacolini dove l’uomo, da dietro un vetro, ordina alla donna di spogliarsi e di mimare a pagamento tutte le sue fantasie erotiche, anche le più spinte, comprese masturbazioni o coiti virtuali. Ma lei, come Nastassia Kinski nel film Paris, Texas di Wim Wenders, è una ragazza tenera e appassionata. È un personaggio che mi piace molto: non è esplicito, mai patetico, ha allo stesso tempo qualcosa d’intenso e leggero».
«Benedicta va benissimo per questo ruolo, possiede un fascino freddo...»
Come parecchie delle attrici che vanno per la maggiore in questo decennio degli anni Zero, da Gwyneth Paltrow a Nicole Kidman.
«Sì. Ho doppiato la voce recitante in un film di due anni fa con la Kidman, Dogville di Lars Von Trier. Ora, durante le prove, cerco di scaldare Benedicta, vorrei metterle il fuoco sotto i piedi. La provoco, la faccio spogliare completamente e rivestire... Perché il tipo di sesso che pratica lei in questo lavoro, stando dietro al vetro, è avulso dall’amore: quasi solo ginnastica, e infatti Benedicta ha fatto acrobazie al circo in passato. Sunshine ama in modo straordinario non poter essere toccata dai suoi spettatori, si sente una diva. Un professore suo cliente le legge poesie, un ragazzino s’innamora schizzando sperma sul vetro... E a me piace sciogliere il suo personaggio, scomporlo e decomporlo, finché alla fine Sunshine lascerà il marito perché lui ha osato uccidere un’aragosta, che lei considerava un animale domestico. E si innamora di Sebastiano Somma».
Albertazzi gran seduttore, la lista delle donne che ha amato è infinita: da Bianca Toccafondi ad Anna Proclemer, da Aba Cercato a Pia de’ Tolomei, fino a Elisabetta Pozzi, Mariangela D’Abbraccio, Fiorella Ceccacci in arte Rubino, oggi deputata di Forza Italia.
Maestro, lei che ha conosciuto la bellezza e frequentato l’amore in tutte le sue varianti, come descriverebbe la sua nuova produttrice?
«Premesso che ormai sono au dessus de la melée, al di sopra della mischia, Sabrina Ferilli possiede il fascino irresistibile della simpatia romana. Oltre a essere bellissima, riesce a sedurre istantaneamente con la sua risata da tragedia greca, meravigliosa ma non di sollievo: con qualcosa, appunto, che sa di tragico. Sembra una riedizione giovanile di Anna Magnani, solo che quella era figlia della guerra, mentre lei lo è del dopoguerra».
Beh, il paragone rischia di non essere un gran complimento: la Magnani era così bella?
«Ma scherza? Aveva una pelle stupenda, bianchissima, oltre alla bellezza dell’intelligenza, della simpatia, della spontaneità. Ricordo che prima dei David di Donatello le feci vedere in proiezione privata il mio L’’anno scorso a Marienbad. E lei a metà mi disse: “Lo sai che non ho capito un cazzo? Quindi ora sei a cavallo: potrai fare tutti i film che vanno di moda adesso, quelli in cui non si capisce nulla...”»
Cosa le piace di più, della Ferilli?
«Nei suoi occhi c’è tutta la bellezza di Roma antica, la Roma classica. La novellistica del Novecento attribuisce una potenza misteriosa alla sguardo delle donne, e nel suo c’è tutto, perché è allo stesso tempo ridente e irridente. Sabrina potrebbe essere la figlia di un imperatore, che so, Ottaviano...»
E per fortuna non ha detto Adriano, le cui Memorie Albertazzi sta portando in scena in tutto il mondo da diciotto anni (prossimo appuntamento New York). Rischierebbe di essere una predilezione incestuosa.
«Ma no, è la castità la forma più voluttuosa di godimento possibile. Detto questo: le cosce nelle donne sono la prova dell’immortalità. Con quelle della Ferilli entriamo nell’architettura pura, materia in cui sono laureato: posseggono, come dire, un rivestimento estetico della funzione che risulta mirabile. Mi spiego meglio: il seno non riesce a nascondere la sua funzione principale, che è quella di allattare. Invece, grazie alle cosce, è prodigioso immaginare lo slittamento verso l’alto, verso qualcosa di irraggiungibile. Perché le cosce delle donne, così come le gambe, i ginocchi o i menti, entrano nello spazio, ma senza occuparlo...»
Mauro Suttora
È nato un nuovo sodalizio artistico: Giorgio Albertazzi-Sabrina Ferilli. Lui regista, lei nel ruolo di produttrice. Assieme mettono in scena a teatro nel prossimo autunno (debutto in settembre al festival di Benevento) la commedia Sunshine, con Benedicta Boccoli e Sebastiano Somma (vedere il riquadro).
Racconta Albertazzi, 83 anni: «Sono sempre state le donne a cercarmi, nella mia vita. E anche questa volta è stata Sabrina a propormi Sunshine. Credo che da tempo pensasse a me come qualcuno con cui voleva avere a che fare, per creare qualcosa di intelligente. E penso che volesse anche interpretare il ruolo della protagonista, oltre a produrre questa commedia che io avevo già portato al festival di Spoleto verso la fine degli anni Ottanta, con Mariangela D’Abbraccio. È un bel testo dell’italoamericano William Mastrosimone, la tipica commedia brillante statunitense. Fatto sta che Sabrina non può farlo, probabilmente ha troppi impegni. Così ho incontrato Benedicta Boccoli, che cercava un’evasione dai suoi soliti ruoli. Sunshine è una quasi prostituta, lavora in un peep-show. Sono quegli spettacolini dove l’uomo, da dietro un vetro, ordina alla donna di spogliarsi e di mimare a pagamento tutte le sue fantasie erotiche, anche le più spinte, comprese masturbazioni o coiti virtuali. Ma lei, come Nastassia Kinski nel film Paris, Texas di Wim Wenders, è una ragazza tenera e appassionata. È un personaggio che mi piace molto: non è esplicito, mai patetico, ha allo stesso tempo qualcosa d’intenso e leggero».
«Benedicta va benissimo per questo ruolo, possiede un fascino freddo...»
Come parecchie delle attrici che vanno per la maggiore in questo decennio degli anni Zero, da Gwyneth Paltrow a Nicole Kidman.
«Sì. Ho doppiato la voce recitante in un film di due anni fa con la Kidman, Dogville di Lars Von Trier. Ora, durante le prove, cerco di scaldare Benedicta, vorrei metterle il fuoco sotto i piedi. La provoco, la faccio spogliare completamente e rivestire... Perché il tipo di sesso che pratica lei in questo lavoro, stando dietro al vetro, è avulso dall’amore: quasi solo ginnastica, e infatti Benedicta ha fatto acrobazie al circo in passato. Sunshine ama in modo straordinario non poter essere toccata dai suoi spettatori, si sente una diva. Un professore suo cliente le legge poesie, un ragazzino s’innamora schizzando sperma sul vetro... E a me piace sciogliere il suo personaggio, scomporlo e decomporlo, finché alla fine Sunshine lascerà il marito perché lui ha osato uccidere un’aragosta, che lei considerava un animale domestico. E si innamora di Sebastiano Somma».
Albertazzi gran seduttore, la lista delle donne che ha amato è infinita: da Bianca Toccafondi ad Anna Proclemer, da Aba Cercato a Pia de’ Tolomei, fino a Elisabetta Pozzi, Mariangela D’Abbraccio, Fiorella Ceccacci in arte Rubino, oggi deputata di Forza Italia.
Maestro, lei che ha conosciuto la bellezza e frequentato l’amore in tutte le sue varianti, come descriverebbe la sua nuova produttrice?
«Premesso che ormai sono au dessus de la melée, al di sopra della mischia, Sabrina Ferilli possiede il fascino irresistibile della simpatia romana. Oltre a essere bellissima, riesce a sedurre istantaneamente con la sua risata da tragedia greca, meravigliosa ma non di sollievo: con qualcosa, appunto, che sa di tragico. Sembra una riedizione giovanile di Anna Magnani, solo che quella era figlia della guerra, mentre lei lo è del dopoguerra».
Beh, il paragone rischia di non essere un gran complimento: la Magnani era così bella?
«Ma scherza? Aveva una pelle stupenda, bianchissima, oltre alla bellezza dell’intelligenza, della simpatia, della spontaneità. Ricordo che prima dei David di Donatello le feci vedere in proiezione privata il mio L’’anno scorso a Marienbad. E lei a metà mi disse: “Lo sai che non ho capito un cazzo? Quindi ora sei a cavallo: potrai fare tutti i film che vanno di moda adesso, quelli in cui non si capisce nulla...”»
Cosa le piace di più, della Ferilli?
«Nei suoi occhi c’è tutta la bellezza di Roma antica, la Roma classica. La novellistica del Novecento attribuisce una potenza misteriosa alla sguardo delle donne, e nel suo c’è tutto, perché è allo stesso tempo ridente e irridente. Sabrina potrebbe essere la figlia di un imperatore, che so, Ottaviano...»
E per fortuna non ha detto Adriano, le cui Memorie Albertazzi sta portando in scena in tutto il mondo da diciotto anni (prossimo appuntamento New York). Rischierebbe di essere una predilezione incestuosa.
«Ma no, è la castità la forma più voluttuosa di godimento possibile. Detto questo: le cosce nelle donne sono la prova dell’immortalità. Con quelle della Ferilli entriamo nell’architettura pura, materia in cui sono laureato: posseggono, come dire, un rivestimento estetico della funzione che risulta mirabile. Mi spiego meglio: il seno non riesce a nascondere la sua funzione principale, che è quella di allattare. Invece, grazie alle cosce, è prodigioso immaginare lo slittamento verso l’alto, verso qualcosa di irraggiungibile. Perché le cosce delle donne, così come le gambe, i ginocchi o i menti, entrano nello spazio, ma senza occuparlo...»
Mauro Suttora
Wednesday, September 05, 2007
Benedicta Boccoli e Sebastiano Somma
protagonisti della commedia Sunshine
Oggi, 5 settembre 2007
Lo spogliarello sarà integrale e frontale? Oppure saranno solo ammiccamenti e allusioni? Difficile saperlo ora. Certo è che in Sunshine, la commedia che quest’autunno Giorgio Albertazzi porta in tournée in Italia, Benedicta Boccoli avrà problemi con la censura. Perché la bella attrice milanese sorella di Brigitta, con la quale è reduce da Reality Circus di Canale 5, interpreta una pornodiva che si esibisce a pagamento dietro a un vetro.
«Mostro il mio corpo per eccitare gli uomini, ma in realtà il mio personaggio è fragile e sensibile», dice. «E alla fine mi innamoro di uno dei miei clienti, un paramedico molto timido che lavora sulle ambulanze. L’unico al quale mi darò veramente tutta».
L’infermiere, sposato, ha il volto di Sebastiano Somma (che vedremo anche come avvocato nella fiction tv autunnale Un caso di coscienza 3). «Siamo due perdenti che si redimono con l’amore», spiega l’attore napoletano, che torna al teatro dopo il grande successo tv ottenuto nei panni del magistrato della serie Sospetti.
Nella vita reale Somma è sposato con Morgana e ha una figlia di due anni, Cartisia. La Boccoli invece convive da undici anni con l’attore e regista Maurizio Micheli. «Ho proposto io alla mia amica Sabrina Ferilli di produrre Sunshine», dice, «e abbiamo subito chiesto di curare la regia ad Albertazzi, l’ultimo mostro sacro del teatro italiano. Per prepararmi alla parte, molto diversa dai miei ruoli precedenti, ho perfino visitato un call center erotico».
Mauro Suttora
Oggi, 5 settembre 2007
Lo spogliarello sarà integrale e frontale? Oppure saranno solo ammiccamenti e allusioni? Difficile saperlo ora. Certo è che in Sunshine, la commedia che quest’autunno Giorgio Albertazzi porta in tournée in Italia, Benedicta Boccoli avrà problemi con la censura. Perché la bella attrice milanese sorella di Brigitta, con la quale è reduce da Reality Circus di Canale 5, interpreta una pornodiva che si esibisce a pagamento dietro a un vetro.
«Mostro il mio corpo per eccitare gli uomini, ma in realtà il mio personaggio è fragile e sensibile», dice. «E alla fine mi innamoro di uno dei miei clienti, un paramedico molto timido che lavora sulle ambulanze. L’unico al quale mi darò veramente tutta».
L’infermiere, sposato, ha il volto di Sebastiano Somma (che vedremo anche come avvocato nella fiction tv autunnale Un caso di coscienza 3). «Siamo due perdenti che si redimono con l’amore», spiega l’attore napoletano, che torna al teatro dopo il grande successo tv ottenuto nei panni del magistrato della serie Sospetti.
Nella vita reale Somma è sposato con Morgana e ha una figlia di due anni, Cartisia. La Boccoli invece convive da undici anni con l’attore e regista Maurizio Micheli. «Ho proposto io alla mia amica Sabrina Ferilli di produrre Sunshine», dice, «e abbiamo subito chiesto di curare la regia ad Albertazzi, l’ultimo mostro sacro del teatro italiano. Per prepararmi alla parte, molto diversa dai miei ruoli precedenti, ho perfino visitato un call center erotico».
Mauro Suttora
Wednesday, August 29, 2007
Cosimo Mele torna a casa
Incredibile: il deputato dello scandalo assolto dalle sue elettrici
"Mimmuzzo sei un eroe: in paese ti perdoniamo"
Carovigno (Brindisi), 18 agosto
dal nostro inviato Mauro Suttora
Mimmo è tornato a casa. E nel suo paese molti lo accolgono come un eroe. Cosimo Mele, il deputato diventato famoso un mese fa per avere passato una notte brava con cocaina e due prostitute in un hotel a Roma, passeggia nel centro di Carovigno, la cittadina che lo ha mandato in Parlamento con quasi 40 voti su cento per la sua Udc (una delle percentuali più alte d’Italia). E i suoi elettori gli si stringono attorno. Lo abbracciano, lo riveriscono, gli stringono la mano. Le donne, soprattutto. Nonostante Mimmo abbia tradito la fiducia della seconda moglie, che gli ha appena dato la sua quarta figlia (Angelica, nata due settimane fa), Pinuccia «la secca» e le altre lo considerano vittima di una macchinazione. Tutto perdonato. E lui, sollevato, si fa fotografare sorridente in piazza, nel cortile del palazzo comunale, dal barbiere. Un trionfo.
«Macché, è una vergogna», s’indigna Rosetta Fusco, consigliera provinciale dell’Ulivo, insegnante in pensione, «e non confondiamo tutto il paese con i pochi fedeli che gli sono rimasti attorno». Pochi ? Tanti? Difficile calcolarlo. «Se mio marito facesse una cosa del genere lo caccerei di casa», taglia corto la barista del caffè del Corso, «però, insomma, gli altri politici a Roma non sono meglio, no?».
Comprensione anche dagli anziani seduti nei tavolini fuori. «E che sarà mai? Anche noi da giovani abbiamo fatto le nostre scappatelle. E Mimmuzzo ce lo ricordiamo da quando aveva cinque anni e girava per il paese in bici. È così alla mano, simpatico, sempre disponibile. Suo padre s’è fatto da solo. E lui è riuscito ad arrivare a Roma...»
Complicità maschilista? Oppure orgoglio campanilista per il primo paesano capace di farsi eleggere deputato, alla faccia dei detestati vicini di Ostuni, Fasano, San Vito dei Normanni? «Veramente un parlamentare Carovigno lo elesse già nel 1874, e fu l’esatto contrario di Mimmo Mele», ricorda Piero Scussat, che cura il sito dei Ds www.carovigno.net: «Si chiamava Salvatore Morelli e fu uno dei primi in Italia a battersi per il voto femminile. Evidentemente aveva una concezione della donna assai diversa da quella dimostrata da Mele».
È la sera di venerdì 17 agosto, la banda del paese suona sul palco in piazza per la festa della Madonna del Belvedere. Bancarelle e luminarie dappertutto. Il ristorante «Già sotto l’Arco», una stella Michelin, è pieno. La processione annuale passa per le vie, una statua della Vergine viene sorretta da uomini in costumi pittoreschi, risalenti ai tempi di bizantini, normanni e borboni. In prima fila camminano le autorità, tutti in giacca nonostante il caldo soffocante. La gente guarda soprattutto per vedere se c’è anche Mimmo.
Ma questa volta lui preferisce non uscire dalla sua villa estiva di Rosa Marina. È un grande comprensorio privato sulla costa, a pochi chilometri da Carovigno e dal villaggio Valtur di Ostuni. Possono entrarci solo i residenti: sbarre, cancelli e guardiani tengono fuori i non invitati. «È l’oasi di lusso dei ricchi della provincia di Brindisi, quelli che possono permettersi seconde case da mezzo milione di euro», mormorano gli invidiosi.
Ma tutta questa privacy non ha protetto né Mele a Roma, né il suo primogenito ventenne. Pure lui si è cacciato nei guai, la notte di Ferragosto. Durante una festa sulla spiaggia ha litigato con una comitiva di giovani baresi per questioni futili (un asciugamano spostato sulla sabbia, pare), e la security lo ha preso a botte. Così il padre il giorno dopo lo ha spedito in ospedale per una tac di controllo. E di nuovo titoloni sui giornali.
«In realtà sia Mele sia l’Udc stanno aspettando che il tempo passi e tutto torni come prima», commenta Raffaele Peciccia, da un quarto di secolo in consiglio comunale, consigliere provinciale e già vicesindaco di Carovigno, che ha lasciato l’Udc un anno fa proprio in polemica contro la decisione del segretario del partito Lorenzo Cesa di candidare Mele alla Camera: «Parliamo tanto di difesa della famiglia e di piaga della droga, ma poi si liquida la nottata all’hotel Flora come se fosse una “terapia” adottata da Mele per alleviare i traumi psicologici causati dalla lontananza da casa...» L’ironia di Peciccia prende di mira Cesa, che aveva cercato di giustificare in questo modo Mele. «E si fa finta di accogliere le sue dimissioni dal partito - ma non dal Parlamento - nominando però subcommissario provinciale del partito un suo fedelissimo, da lui messo a fare il sindaco di Carovigno».
Ben altre traversie ha superato in passato Mele. Nel ’99, quand’era vicesindaco, si fece sei mesi di carcere preventivo (il massimo consentito), accusato con intercettazioni telefoniche di essere andato al casinò di Sanremo a giocarsi i proventi di qualche tangente. Allora l’assoluzione popolare giunse subito: nel 2000 fu eletto al consiglio regionale. Il processo per quella vicenda si trascina incredibilmente da ben otto anni al tribunale di Brindisi.
«Mele ha portato nella nostra città solo scandali gravissimi, vicende giudiziarie di grande sensazione che hanno provocato derisione e indignazione», accusa Mario Cicorio, segretario Ds di Carovigno, «e per questo, nonostante la campagna per riabilitarlo cercando di far credere che i carovignesi gli siano solidali, siamo disgustati e ne chiediamo le dimissioni da deputato».
Stessa richiesta avanza l’ex collega di partito Peciccia, che aggiunge: «L’attuale assurda legge elettorale permette ai segretari nazionali dei partiti di decidere in anticipo chi dev’essere eletto. Così si manda in Parlamento chi ha grosse pendenze penali, con gravissime accuse. Io sono garantista, non bisogna condannare prima dei processi, ma non è neanche è il caso di premiare chi si trova in posizioni simili».
Cessione di cocaina, omissione di soccorso nei confronti della squillo che si è sentita male ed è finita in ospedale: queste sono le ipotesi di reato che ora Mele si troverà a fronteggiare al suo rientro a Roma a settembre. Quanto al vero consenso dei compaesani, potrà essere misurato solo la prossima primavera, quando i carovignesi voteranno per il Comune.
Ma anche su questo, i suoi avversari hanno da ridire: «All’ultimo censimento, nel 2001, Carovigno risultò avere superato i 15 mila abitanti», rivela l’architetto Vito Saponaro dei Ds, «ma proprio Mele fece ricorso per far annullare alcune schede dell’Istat». E perché? «Perché sopra i 15 mila abitanti si voterebbe col doppio turno, e così finirebbe il dominio di chi, come lui, ha solo la maggioranza relativa».
Il commento più buffo è probabilmente quello di un buontempone che sul sito internet Ds ha scritto: «Abbiamo fondato il Cosimo Mele Fans Club, perché Mimmuzzo con le sue gesta di trombatore indomito ha dato lustro a tutti i cittadini di Carovigno. Avete letto infatti cosa ha detto la sua squillo [intervistata da Oggi, ndr]? Che lui è andato avanti per cinque ore di fila, tanto da sfinirla. E ti credo che era così arrapato Mimmuzzo, con tutta la cocaina che si era fatto! Organizziamo un Mimmo Mele Day, altro che Family Day...»
Mauro Suttora
"Mimmuzzo sei un eroe: in paese ti perdoniamo"
Carovigno (Brindisi), 18 agosto
dal nostro inviato Mauro Suttora
Mimmo è tornato a casa. E nel suo paese molti lo accolgono come un eroe. Cosimo Mele, il deputato diventato famoso un mese fa per avere passato una notte brava con cocaina e due prostitute in un hotel a Roma, passeggia nel centro di Carovigno, la cittadina che lo ha mandato in Parlamento con quasi 40 voti su cento per la sua Udc (una delle percentuali più alte d’Italia). E i suoi elettori gli si stringono attorno. Lo abbracciano, lo riveriscono, gli stringono la mano. Le donne, soprattutto. Nonostante Mimmo abbia tradito la fiducia della seconda moglie, che gli ha appena dato la sua quarta figlia (Angelica, nata due settimane fa), Pinuccia «la secca» e le altre lo considerano vittima di una macchinazione. Tutto perdonato. E lui, sollevato, si fa fotografare sorridente in piazza, nel cortile del palazzo comunale, dal barbiere. Un trionfo.
«Macché, è una vergogna», s’indigna Rosetta Fusco, consigliera provinciale dell’Ulivo, insegnante in pensione, «e non confondiamo tutto il paese con i pochi fedeli che gli sono rimasti attorno». Pochi ? Tanti? Difficile calcolarlo. «Se mio marito facesse una cosa del genere lo caccerei di casa», taglia corto la barista del caffè del Corso, «però, insomma, gli altri politici a Roma non sono meglio, no?».
Comprensione anche dagli anziani seduti nei tavolini fuori. «E che sarà mai? Anche noi da giovani abbiamo fatto le nostre scappatelle. E Mimmuzzo ce lo ricordiamo da quando aveva cinque anni e girava per il paese in bici. È così alla mano, simpatico, sempre disponibile. Suo padre s’è fatto da solo. E lui è riuscito ad arrivare a Roma...»
Complicità maschilista? Oppure orgoglio campanilista per il primo paesano capace di farsi eleggere deputato, alla faccia dei detestati vicini di Ostuni, Fasano, San Vito dei Normanni? «Veramente un parlamentare Carovigno lo elesse già nel 1874, e fu l’esatto contrario di Mimmo Mele», ricorda Piero Scussat, che cura il sito dei Ds www.carovigno.net: «Si chiamava Salvatore Morelli e fu uno dei primi in Italia a battersi per il voto femminile. Evidentemente aveva una concezione della donna assai diversa da quella dimostrata da Mele».
È la sera di venerdì 17 agosto, la banda del paese suona sul palco in piazza per la festa della Madonna del Belvedere. Bancarelle e luminarie dappertutto. Il ristorante «Già sotto l’Arco», una stella Michelin, è pieno. La processione annuale passa per le vie, una statua della Vergine viene sorretta da uomini in costumi pittoreschi, risalenti ai tempi di bizantini, normanni e borboni. In prima fila camminano le autorità, tutti in giacca nonostante il caldo soffocante. La gente guarda soprattutto per vedere se c’è anche Mimmo.
Ma questa volta lui preferisce non uscire dalla sua villa estiva di Rosa Marina. È un grande comprensorio privato sulla costa, a pochi chilometri da Carovigno e dal villaggio Valtur di Ostuni. Possono entrarci solo i residenti: sbarre, cancelli e guardiani tengono fuori i non invitati. «È l’oasi di lusso dei ricchi della provincia di Brindisi, quelli che possono permettersi seconde case da mezzo milione di euro», mormorano gli invidiosi.
Ma tutta questa privacy non ha protetto né Mele a Roma, né il suo primogenito ventenne. Pure lui si è cacciato nei guai, la notte di Ferragosto. Durante una festa sulla spiaggia ha litigato con una comitiva di giovani baresi per questioni futili (un asciugamano spostato sulla sabbia, pare), e la security lo ha preso a botte. Così il padre il giorno dopo lo ha spedito in ospedale per una tac di controllo. E di nuovo titoloni sui giornali.
«In realtà sia Mele sia l’Udc stanno aspettando che il tempo passi e tutto torni come prima», commenta Raffaele Peciccia, da un quarto di secolo in consiglio comunale, consigliere provinciale e già vicesindaco di Carovigno, che ha lasciato l’Udc un anno fa proprio in polemica contro la decisione del segretario del partito Lorenzo Cesa di candidare Mele alla Camera: «Parliamo tanto di difesa della famiglia e di piaga della droga, ma poi si liquida la nottata all’hotel Flora come se fosse una “terapia” adottata da Mele per alleviare i traumi psicologici causati dalla lontananza da casa...» L’ironia di Peciccia prende di mira Cesa, che aveva cercato di giustificare in questo modo Mele. «E si fa finta di accogliere le sue dimissioni dal partito - ma non dal Parlamento - nominando però subcommissario provinciale del partito un suo fedelissimo, da lui messo a fare il sindaco di Carovigno».
Ben altre traversie ha superato in passato Mele. Nel ’99, quand’era vicesindaco, si fece sei mesi di carcere preventivo (il massimo consentito), accusato con intercettazioni telefoniche di essere andato al casinò di Sanremo a giocarsi i proventi di qualche tangente. Allora l’assoluzione popolare giunse subito: nel 2000 fu eletto al consiglio regionale. Il processo per quella vicenda si trascina incredibilmente da ben otto anni al tribunale di Brindisi.
«Mele ha portato nella nostra città solo scandali gravissimi, vicende giudiziarie di grande sensazione che hanno provocato derisione e indignazione», accusa Mario Cicorio, segretario Ds di Carovigno, «e per questo, nonostante la campagna per riabilitarlo cercando di far credere che i carovignesi gli siano solidali, siamo disgustati e ne chiediamo le dimissioni da deputato».
Stessa richiesta avanza l’ex collega di partito Peciccia, che aggiunge: «L’attuale assurda legge elettorale permette ai segretari nazionali dei partiti di decidere in anticipo chi dev’essere eletto. Così si manda in Parlamento chi ha grosse pendenze penali, con gravissime accuse. Io sono garantista, non bisogna condannare prima dei processi, ma non è neanche è il caso di premiare chi si trova in posizioni simili».
Cessione di cocaina, omissione di soccorso nei confronti della squillo che si è sentita male ed è finita in ospedale: queste sono le ipotesi di reato che ora Mele si troverà a fronteggiare al suo rientro a Roma a settembre. Quanto al vero consenso dei compaesani, potrà essere misurato solo la prossima primavera, quando i carovignesi voteranno per il Comune.
Ma anche su questo, i suoi avversari hanno da ridire: «All’ultimo censimento, nel 2001, Carovigno risultò avere superato i 15 mila abitanti», rivela l’architetto Vito Saponaro dei Ds, «ma proprio Mele fece ricorso per far annullare alcune schede dell’Istat». E perché? «Perché sopra i 15 mila abitanti si voterebbe col doppio turno, e così finirebbe il dominio di chi, come lui, ha solo la maggioranza relativa».
Il commento più buffo è probabilmente quello di un buontempone che sul sito internet Ds ha scritto: «Abbiamo fondato il Cosimo Mele Fans Club, perché Mimmuzzo con le sue gesta di trombatore indomito ha dato lustro a tutti i cittadini di Carovigno. Avete letto infatti cosa ha detto la sua squillo [intervistata da Oggi, ndr]? Che lui è andato avanti per cinque ore di fila, tanto da sfinirla. E ti credo che era così arrapato Mimmuzzo, con tutta la cocaina che si era fatto! Organizziamo un Mimmo Mele Day, altro che Family Day...»
Mauro Suttora
Thursday, August 23, 2007
Primo ristorante Ducasse in Italia
Sorpresa: prezzi abbordabili all'Andana
di Mauro Suttora
Badiola (Grosseto), 22 agosto 2007
Napoleone, imperatore di Francia, finì nell’isola d’Elba. Alain Ducasse, imperatore della cucina francese, si è spinto qualche chilometro più a sud: Badiola, a metà strada fra Castiglione della Pescaia e Grosseto. Lì ha aperto il suo primo ristorante italiano nell’albergo di lusso L’Andana.
Ducasse non è venuto in Italia né per conquistare, né per insegnare: «Sono un umile estimatore della cucina toscana», dice, «e qui scopro ogni giorno qualcosa di nuovo. I piatti di quella che ho chiamato Trattoria Toscana sono semplici, netti, appena filtrati dalla mia esperienza. E spesso serviti, come nel nostro bistrot lionese di Parigi, direttamente in tegami e pentole».
Ducasse è il cuoco più famoso del mondo. Ha preso il testimone dall’ormai ottuagenario Paul Bocuse e guida un impero dove non tramonta mai il sole. Da Parigi a Montecarlo, da Las Vegas a New York e Tokyo, i suoi oltre venti ristoranti fatturano più di cento milioni di euro l’anno. E poi alberghi, libri, editoria, tv, formazione, produzione e vendita di prodotti tipici.
«Ma la Maremma è il centro del centro del mondo, e questa terra», promette, «diventerà come la zona dello Champagne per la Francia: tra cinque anni sarà irriconoscibile», Sì, perché oltre al ristorante, ospitato in quello che fu il granaio della tenuta estiva dei granduchi di Toscana, L’Andana ha 500 ettari dove da poco sono stati messi a dimora vigneti di pregio, oltre a orti che producono frutta, verdura, piante aromatiche e l’olio d’oliva servito a tavola. L’hotel esclusivo annesso (stanze a partire da 460 euro, 330 in bassa stagione) è frequentato da miliardari e jet-set: in questi giorni c’era la regina Rania di Giordania.
Com’è nata l’avventura dell’Andana? Quando è scoppiato questo strano amore dello chef francese per il nemico, cioé la gastronomia italiana? Qui in Toscana il suo socio è Vittorio Moretti, proprietario degli spumanti bresciani Bellavista. «L’ho incontrato a casa di amici», racconta Ducasse. «Parlavano di questa tenuta in Maremma, di come fosse già perfetta per realizzare qualcosa di raro a livello turistico, e ho capito che avevamo molte idee in comune. Dopo aver visto il luogo, ricco di storia e suggestioni, ho detto subito di sì». Ed ecco la joint venture italo-francese, che ha investito nel progetto 25 milioni di euro.
Il segreto di Ducasse? «Sessanta per cento di materie prime e quaranta di tecnica», spiega, «perché il talento è del prodotto locale. Al di là di tutti i menu, la mia è una cucina essenziale, nella quale riconosciamo i gusti, li rispettiamo e li esaltiamo, dove le alleanze dei sapori sono prudenti e armoniose. Cerchiamo la giustezza delle cotture, delle preparazioni e delle riduzioni».
Fino a poco tempo fa giurava: «Mai in Italia, troppa concorrenza, non ci credo». Oggi invece dice: «Sono stregato da questi luoghi stupendi. Cerco di fare cucina toscana autentica, semplice e schietta: andiamo al mercato tutte le mattine, nessun connubio con la Francia. Solo cose semplici di questa terra». Ha così instaurato stretti rapporti con i contadini, i casari, i norcini e gli allevatori del posto.
Ogni mese Ducasse visita il ristorante, durante il giro perenne nei suoi locali intorno al mondo. «E controlla ogni dettaglio, per essere presente anche quando non c'è», assicura il direttore Maurizio Romani. Lo chef della Trattoria toscana è Christophe Martin, 32 anni: «Quando passa, Alain assaggia e studia tutti i piatti nel menù», Il quale cambia di giorno in giorno, a seconda delle disponibilità. Per esempio, se al mercato ittico di Castiglione una mattina non si trova niente di eccellente, quel giorno niente pesce. «Autenticità, semplicità e stagionalità», assicura Martin,«trasformiamo il meno possibile le materie prime che abbiamo scelto».
Per arrivare al ristorante si percorre un viale lungo un chilometro (l’«andana», appunto) che non ha niente da invidiare a quello di Bolgheri. Solo che qui i cipressi sono intervallati da pini marittimi. Il complesso è stato restaurato e arredato da star dell’architettura mondiale come Ettore Mocchetti, direttore di Ad. I piatti forti sono cinghiale in umido con le olive, zuppe con farro, cacciucco, ammazzafegati (salsiccia piccante di gustosa pesantezza), acquacotta (una minestra contadina), fagioli con le cotiche. Ma si assapora anche la delicatezza delle zuppe di pesce, del riso al nero di seppia, degli scampi. Così anche i vini: Monteregio, Montecucco o Morellino di Scansano, quelli delle cantine di famiglia Petra, si dividono in rossi generosi e bianchi delicati.
Ma la vera sorpresa arriva con i prezzi: questo è l’unico ristorante di Ducasse sul pianeta in cui risultano abbordabili. Perfino nella ricchissima New York si erano lamentati per i suoi «menù degustazione» a partire da 150 dollari a testa. Qui invece sono «politicamente corretti», come amano dire i proprietari. Così proviamo come antipasto una pappa al pomodoro fredda (15 euro), poi un abbondante piatto di affettati (finocchiona, lardo Val di Greve, soppressata Val di Chiana, salame di cinghiale, prosciutto dolce toscano e di cinta) a venti euro, e baccalà con fagioli a 22 euro (anche se con troppi fagioli e poco baccalà).
Nessun secondo supera i 24 euro (pesce: oltre a cacciucco e baccalà, filetti e pescatrice; carne: bistecca, agnello, braciole di vitello, osso buco d’agnello). Tagliata e fiorentina vengono sette euro l’etto. Deliziosa (e a dieci euro) la selezione di formaggi toscani (marzolino, caciotta, pecorini anche di fossa) serviti con confetture di cipolle e peperoni, e i dolci.
Quest’anno L’Andana ha conquistato la sua prima stella Michelin. Che si aggiunge alle numerose altre di cui si adorna Ducasse da vent’anni, cioè da quel 1987 in cui il principe Ranieri di Monaco lo chiamò per ridare prestigio al ristorante Louis XV dell’hotel de Paris. Missione compiuta nel giro di tre anni, e poi tre stelle conquistate anche per l’altro gioiello nella corona dell’imperatore Ducasse: il ristorante del Plaza Athénée a Parigi. Nel 2005 lo chef ottenne il record di nove stelle contemporanee, aggiungendo anche il punteggio massimo per la Essex House di Manhattan, che fra tre mesi si trasferirà al St.Regis sulla Quinta avenue.
Ma anche i suoi aficionados americani hanno scoperto che per assaggiare il suo lusso a prezzi quasi popolari conviene fare un salto qui in Toscana. Infatti la sala era piena di turisti statunitensi ed europei provenienti da Punta Ala, Elba e Argentario.
Mauro Suttora
La Trattoria Toscana si trova in località Badiola (Macchiascandona), a Castiglione della Pescaia (Grosseto), tel. 0564 944 800 (d’inverno aperto solo nei week-end).
di Mauro Suttora
Badiola (Grosseto), 22 agosto 2007
Napoleone, imperatore di Francia, finì nell’isola d’Elba. Alain Ducasse, imperatore della cucina francese, si è spinto qualche chilometro più a sud: Badiola, a metà strada fra Castiglione della Pescaia e Grosseto. Lì ha aperto il suo primo ristorante italiano nell’albergo di lusso L’Andana.
Ducasse non è venuto in Italia né per conquistare, né per insegnare: «Sono un umile estimatore della cucina toscana», dice, «e qui scopro ogni giorno qualcosa di nuovo. I piatti di quella che ho chiamato Trattoria Toscana sono semplici, netti, appena filtrati dalla mia esperienza. E spesso serviti, come nel nostro bistrot lionese di Parigi, direttamente in tegami e pentole».
Ducasse è il cuoco più famoso del mondo. Ha preso il testimone dall’ormai ottuagenario Paul Bocuse e guida un impero dove non tramonta mai il sole. Da Parigi a Montecarlo, da Las Vegas a New York e Tokyo, i suoi oltre venti ristoranti fatturano più di cento milioni di euro l’anno. E poi alberghi, libri, editoria, tv, formazione, produzione e vendita di prodotti tipici.
«Ma la Maremma è il centro del centro del mondo, e questa terra», promette, «diventerà come la zona dello Champagne per la Francia: tra cinque anni sarà irriconoscibile», Sì, perché oltre al ristorante, ospitato in quello che fu il granaio della tenuta estiva dei granduchi di Toscana, L’Andana ha 500 ettari dove da poco sono stati messi a dimora vigneti di pregio, oltre a orti che producono frutta, verdura, piante aromatiche e l’olio d’oliva servito a tavola. L’hotel esclusivo annesso (stanze a partire da 460 euro, 330 in bassa stagione) è frequentato da miliardari e jet-set: in questi giorni c’era la regina Rania di Giordania.
Com’è nata l’avventura dell’Andana? Quando è scoppiato questo strano amore dello chef francese per il nemico, cioé la gastronomia italiana? Qui in Toscana il suo socio è Vittorio Moretti, proprietario degli spumanti bresciani Bellavista. «L’ho incontrato a casa di amici», racconta Ducasse. «Parlavano di questa tenuta in Maremma, di come fosse già perfetta per realizzare qualcosa di raro a livello turistico, e ho capito che avevamo molte idee in comune. Dopo aver visto il luogo, ricco di storia e suggestioni, ho detto subito di sì». Ed ecco la joint venture italo-francese, che ha investito nel progetto 25 milioni di euro.
Il segreto di Ducasse? «Sessanta per cento di materie prime e quaranta di tecnica», spiega, «perché il talento è del prodotto locale. Al di là di tutti i menu, la mia è una cucina essenziale, nella quale riconosciamo i gusti, li rispettiamo e li esaltiamo, dove le alleanze dei sapori sono prudenti e armoniose. Cerchiamo la giustezza delle cotture, delle preparazioni e delle riduzioni».
Fino a poco tempo fa giurava: «Mai in Italia, troppa concorrenza, non ci credo». Oggi invece dice: «Sono stregato da questi luoghi stupendi. Cerco di fare cucina toscana autentica, semplice e schietta: andiamo al mercato tutte le mattine, nessun connubio con la Francia. Solo cose semplici di questa terra». Ha così instaurato stretti rapporti con i contadini, i casari, i norcini e gli allevatori del posto.
Ogni mese Ducasse visita il ristorante, durante il giro perenne nei suoi locali intorno al mondo. «E controlla ogni dettaglio, per essere presente anche quando non c'è», assicura il direttore Maurizio Romani. Lo chef della Trattoria toscana è Christophe Martin, 32 anni: «Quando passa, Alain assaggia e studia tutti i piatti nel menù», Il quale cambia di giorno in giorno, a seconda delle disponibilità. Per esempio, se al mercato ittico di Castiglione una mattina non si trova niente di eccellente, quel giorno niente pesce. «Autenticità, semplicità e stagionalità», assicura Martin,«trasformiamo il meno possibile le materie prime che abbiamo scelto».
Per arrivare al ristorante si percorre un viale lungo un chilometro (l’«andana», appunto) che non ha niente da invidiare a quello di Bolgheri. Solo che qui i cipressi sono intervallati da pini marittimi. Il complesso è stato restaurato e arredato da star dell’architettura mondiale come Ettore Mocchetti, direttore di Ad. I piatti forti sono cinghiale in umido con le olive, zuppe con farro, cacciucco, ammazzafegati (salsiccia piccante di gustosa pesantezza), acquacotta (una minestra contadina), fagioli con le cotiche. Ma si assapora anche la delicatezza delle zuppe di pesce, del riso al nero di seppia, degli scampi. Così anche i vini: Monteregio, Montecucco o Morellino di Scansano, quelli delle cantine di famiglia Petra, si dividono in rossi generosi e bianchi delicati.
Ma la vera sorpresa arriva con i prezzi: questo è l’unico ristorante di Ducasse sul pianeta in cui risultano abbordabili. Perfino nella ricchissima New York si erano lamentati per i suoi «menù degustazione» a partire da 150 dollari a testa. Qui invece sono «politicamente corretti», come amano dire i proprietari. Così proviamo come antipasto una pappa al pomodoro fredda (15 euro), poi un abbondante piatto di affettati (finocchiona, lardo Val di Greve, soppressata Val di Chiana, salame di cinghiale, prosciutto dolce toscano e di cinta) a venti euro, e baccalà con fagioli a 22 euro (anche se con troppi fagioli e poco baccalà).
Nessun secondo supera i 24 euro (pesce: oltre a cacciucco e baccalà, filetti e pescatrice; carne: bistecca, agnello, braciole di vitello, osso buco d’agnello). Tagliata e fiorentina vengono sette euro l’etto. Deliziosa (e a dieci euro) la selezione di formaggi toscani (marzolino, caciotta, pecorini anche di fossa) serviti con confetture di cipolle e peperoni, e i dolci.
Quest’anno L’Andana ha conquistato la sua prima stella Michelin. Che si aggiunge alle numerose altre di cui si adorna Ducasse da vent’anni, cioè da quel 1987 in cui il principe Ranieri di Monaco lo chiamò per ridare prestigio al ristorante Louis XV dell’hotel de Paris. Missione compiuta nel giro di tre anni, e poi tre stelle conquistate anche per l’altro gioiello nella corona dell’imperatore Ducasse: il ristorante del Plaza Athénée a Parigi. Nel 2005 lo chef ottenne il record di nove stelle contemporanee, aggiungendo anche il punteggio massimo per la Essex House di Manhattan, che fra tre mesi si trasferirà al St.Regis sulla Quinta avenue.
Ma anche i suoi aficionados americani hanno scoperto che per assaggiare il suo lusso a prezzi quasi popolari conviene fare un salto qui in Toscana. Infatti la sala era piena di turisti statunitensi ed europei provenienti da Punta Ala, Elba e Argentario.
Mauro Suttora
La Trattoria Toscana si trova in località Badiola (Macchiascandona), a Castiglione della Pescaia (Grosseto), tel. 0564 944 800 (d’inverno aperto solo nei week-end).
Monday, August 20, 2007
La ex signora Sottile commenta il caso Mele
"Però io non ho perdonato mio marito"
La moglie (separata in casa) di Salvo Sottile commenta il caso Mele
"Lui era finito in Vallettopoli accusato dalla Gregoraci". Poi la showgirl ha ritrattato. "Ma il dubbio ha incrinato il nostro legame", dice lei. E sugli onorevoli "vittime della solitudine" s'indigna: "Non scherziamo !"
di Mauro Suttora
Roma, 8 agosto
Guardavo Gianfranco con occhi sbarrati: Salvatore e una donna ? No, non era possibile ! Mio marito mi amava troppo per farmi una cosa del genere. E poi si arresta un uomo per una ragazza ? Come minimo deve averla violentata... Che diavolo stava succedendo ?".
Roma, via della Scrofa, sede di Alleanza nazionale. Le undici di sera del 16 giugno 2006. Gianfranco Fini, segretario del partito, ha appena avvertito Deborah Chiappini che Salvo Sottile, proprio portavoce e marito di lei, è agli arresti domiciliari per una questione di donne. "Si dice una valletta, comunque una non molto famosa", le dice il capo di An.
Come si sente la moglie di un politico invischiato in una storia di sesso, com' è capitato a Cosimo Mele ? Per spiegarlo Deborah Chiappini a un anno dallo scoppio di Vallettopoli ha scritto un libro, Io gli uomini non li capisco (ed.Mursia), in cui racconta le sue reazioni nel momento in cui seppe la notizia: "Sono scesa a comprare i giornali, ma ho tradito l' edicolante sotto casa per evitare scene imbarazzanti. Ho preso la macchina e sono andata da quello di piazza della Balduina. Non ho avuto neanche bisogno di aprirli. Era tutto in prima pagina: "Salvo Sottile avrebbe promesso aiuto professionale a una showgirl calabrese in cambio di favori sessuali". Sono rimasta seduta in auto per non so quanto tempo. Poi sono tornata a casa in stato semiconfusionale. Ho messo i giornali nelle mani di mio marito, e ho chiesto chi fosse quella ragazza. Lui ha negato tutto. Solo la mattina dopo ho letto per la prima volta il nome: Elisabetta Gregoraci".
Eppure Salvo l'aveva detto nei mesi precedenti, a Deborah, che aveva conosciuto quella che poi sarebbe diventata famosa come fidanzata di Flavio Briatore. Presentata da Cristiano Malgioglio, cercava una raccomandazione per lavorare in Rai. "Mio marito mi aveva detto di averla incontrata un paio di volte anche alla Farnesina, dove lavorava quando Fini era ministro degli Esteri", racconta Deborah. "Fino a quel momento avevo vissuto serena: lui amava me. Mai un dubbio, mai una crepa nella mia fiducia in lui".
Dopo, invece, è cominciata la tempesta. Nei 18 giorni di arresti domiciliari forse Sottile avrebbe preferito trovarsi in prigione piuttosto che chiuso nel suo appartamento a doversi confrontare ogni minuto con quella che, lo ammette anche Deborah, si era trasformata in una belva: "Dimmi tutto, confessa, cosa c' è stato tra voi ?", continuava a chiedergli, martellante, di giorno e di notte. Però lui negava sempre tutto.
Non avevano smesso di fare l' amore, ma era perfino peggio: "Il sesso fra noi non era mai stato così intenso come in quei giorni. Ma non era mai stato nemmeno così disperato. Dovevo riprendermi il corpo di mio marito. Il sospetto del tradimento mi faceva sentire "contaminata", derubata di una cosa che doveva essere solo mia. Cercavo di capire se c'erano gesti "nuovi" che poteva aver imparato dall'altra. Facevo sesso col cervello in corto circuito, volevo allo stesso tempo sbranarlo e consolarlo".
La Gregoraci ridimensiona con John Woodcock, il pm di Vallettopoli, i fatti che avevano portato all' accusa di concussione sessuale per Sottile: niente rapporti in quell' ufficio della Farnesina. Salvo e Deborah partono insieme in vacanza per dimenticare, riannodare. Ma una notte a Villasimius (Cagliari) lei gli urla: "Basta, io non ti credo. Chissà che cosa mi nascondi... tanto lo so che quello che hai appena fatto con me in camera l' hai sicuramente fatto anche con qualcun' altra".
Un anno dopo, nonostante sia arrivato il proscioglimento dall' accusa, Sottile non ha riacquistato il lavoro. E ha anche perso la moglie: oggi lui e Deborah vivono separati in casa. Insomma, è stato l' unico a pagare, visto che la Gregoraci è stata invece salvata da Silvio Berlusconi, che l' ha accolta nella sua Buona Domenica di Canale 5.
Ora che la sua vicenda si ripropone quasi in fotocopia nel caso Mele, Deborah Chiappini ci confida: "Esprimo solidarietà alla moglie di Mele, ma le nostre sono vicende differenti".
Peggio il sospetto di un' amante o la certezza di una prostituta ?
"Mah, è stato il dubbio a logorare il mio matrimonio fino a ridurlo all' attuale stadio terminale. In certi momenti avrei preferito che Salvo confessasse, anche se non so se lo avrei perdonato. Ma sapevo che proprio perché lui aveva paura di perdermi, non mi avrebbe mai detto nulla, soprattutto se fosse stato colpevole. Non so se mi avrebbe dato più fastidio sapere di una sua notte con una prostituta. È difficile fare classifiche, in questo campo... Sì, in fondo un' avventura a pagamento non implica un coinvolgimento sentimentale. Però per me è egualmente intollerabile".
La lontananza è un'attenuante per il politico, come dice Lorenzo Cesa, segretario dell' Udc, l'ex partito di Mele ?
"Non scherziamo ! Mio marito ha girato il mondo per anni dietro a Fini, ci vedevamo pochissimo, ma non per questo ci siamo mai traditi. No, è solo una scusa. Un parlamentare sa che deve venire quattro cinque giorni alla settimana a Roma, che sarà mai ?".
Fino a vent' anni fa i politici non facevano vita notturna. I socialisti, che per primi andarono nelle discoteche, vennero da molti guardati con sospetto...
"E allora ? Ci si può divertire dopo una giornata di lavoro, ma senza varcare certi limiti".
Insomma, nessun imbarazzo per un certo ambiente romano "gaudente" che ha prodotto Vallettopoli, stigmatizzato anche da Veronica Berlusconi nella sua famosa lettera al marito ?
"Guardi, Berlusconi è tutto tranne che un viscidone: i suoi complimenti esibiti alle donne e le barzellette spinte lo rendono semmai ancora più simpatico. Piuttosto, il caso Sircana dimostra che anche i politici di sinistra fanno certe cose. Ma, chissà perché, se ne parla meno...".
Mauro Suttora
La moglie (separata in casa) di Salvo Sottile commenta il caso Mele
"Lui era finito in Vallettopoli accusato dalla Gregoraci". Poi la showgirl ha ritrattato. "Ma il dubbio ha incrinato il nostro legame", dice lei. E sugli onorevoli "vittime della solitudine" s'indigna: "Non scherziamo !"
di Mauro Suttora
Roma, 8 agosto
Guardavo Gianfranco con occhi sbarrati: Salvatore e una donna ? No, non era possibile ! Mio marito mi amava troppo per farmi una cosa del genere. E poi si arresta un uomo per una ragazza ? Come minimo deve averla violentata... Che diavolo stava succedendo ?".
Roma, via della Scrofa, sede di Alleanza nazionale. Le undici di sera del 16 giugno 2006. Gianfranco Fini, segretario del partito, ha appena avvertito Deborah Chiappini che Salvo Sottile, proprio portavoce e marito di lei, è agli arresti domiciliari per una questione di donne. "Si dice una valletta, comunque una non molto famosa", le dice il capo di An.
Come si sente la moglie di un politico invischiato in una storia di sesso, com' è capitato a Cosimo Mele ? Per spiegarlo Deborah Chiappini a un anno dallo scoppio di Vallettopoli ha scritto un libro, Io gli uomini non li capisco (ed.Mursia), in cui racconta le sue reazioni nel momento in cui seppe la notizia: "Sono scesa a comprare i giornali, ma ho tradito l' edicolante sotto casa per evitare scene imbarazzanti. Ho preso la macchina e sono andata da quello di piazza della Balduina. Non ho avuto neanche bisogno di aprirli. Era tutto in prima pagina: "Salvo Sottile avrebbe promesso aiuto professionale a una showgirl calabrese in cambio di favori sessuali". Sono rimasta seduta in auto per non so quanto tempo. Poi sono tornata a casa in stato semiconfusionale. Ho messo i giornali nelle mani di mio marito, e ho chiesto chi fosse quella ragazza. Lui ha negato tutto. Solo la mattina dopo ho letto per la prima volta il nome: Elisabetta Gregoraci".
Eppure Salvo l'aveva detto nei mesi precedenti, a Deborah, che aveva conosciuto quella che poi sarebbe diventata famosa come fidanzata di Flavio Briatore. Presentata da Cristiano Malgioglio, cercava una raccomandazione per lavorare in Rai. "Mio marito mi aveva detto di averla incontrata un paio di volte anche alla Farnesina, dove lavorava quando Fini era ministro degli Esteri", racconta Deborah. "Fino a quel momento avevo vissuto serena: lui amava me. Mai un dubbio, mai una crepa nella mia fiducia in lui".
Dopo, invece, è cominciata la tempesta. Nei 18 giorni di arresti domiciliari forse Sottile avrebbe preferito trovarsi in prigione piuttosto che chiuso nel suo appartamento a doversi confrontare ogni minuto con quella che, lo ammette anche Deborah, si era trasformata in una belva: "Dimmi tutto, confessa, cosa c' è stato tra voi ?", continuava a chiedergli, martellante, di giorno e di notte. Però lui negava sempre tutto.
Non avevano smesso di fare l' amore, ma era perfino peggio: "Il sesso fra noi non era mai stato così intenso come in quei giorni. Ma non era mai stato nemmeno così disperato. Dovevo riprendermi il corpo di mio marito. Il sospetto del tradimento mi faceva sentire "contaminata", derubata di una cosa che doveva essere solo mia. Cercavo di capire se c'erano gesti "nuovi" che poteva aver imparato dall'altra. Facevo sesso col cervello in corto circuito, volevo allo stesso tempo sbranarlo e consolarlo".
La Gregoraci ridimensiona con John Woodcock, il pm di Vallettopoli, i fatti che avevano portato all' accusa di concussione sessuale per Sottile: niente rapporti in quell' ufficio della Farnesina. Salvo e Deborah partono insieme in vacanza per dimenticare, riannodare. Ma una notte a Villasimius (Cagliari) lei gli urla: "Basta, io non ti credo. Chissà che cosa mi nascondi... tanto lo so che quello che hai appena fatto con me in camera l' hai sicuramente fatto anche con qualcun' altra".
Un anno dopo, nonostante sia arrivato il proscioglimento dall' accusa, Sottile non ha riacquistato il lavoro. E ha anche perso la moglie: oggi lui e Deborah vivono separati in casa. Insomma, è stato l' unico a pagare, visto che la Gregoraci è stata invece salvata da Silvio Berlusconi, che l' ha accolta nella sua Buona Domenica di Canale 5.
Ora che la sua vicenda si ripropone quasi in fotocopia nel caso Mele, Deborah Chiappini ci confida: "Esprimo solidarietà alla moglie di Mele, ma le nostre sono vicende differenti".
Peggio il sospetto di un' amante o la certezza di una prostituta ?
"Mah, è stato il dubbio a logorare il mio matrimonio fino a ridurlo all' attuale stadio terminale. In certi momenti avrei preferito che Salvo confessasse, anche se non so se lo avrei perdonato. Ma sapevo che proprio perché lui aveva paura di perdermi, non mi avrebbe mai detto nulla, soprattutto se fosse stato colpevole. Non so se mi avrebbe dato più fastidio sapere di una sua notte con una prostituta. È difficile fare classifiche, in questo campo... Sì, in fondo un' avventura a pagamento non implica un coinvolgimento sentimentale. Però per me è egualmente intollerabile".
La lontananza è un'attenuante per il politico, come dice Lorenzo Cesa, segretario dell' Udc, l'ex partito di Mele ?
"Non scherziamo ! Mio marito ha girato il mondo per anni dietro a Fini, ci vedevamo pochissimo, ma non per questo ci siamo mai traditi. No, è solo una scusa. Un parlamentare sa che deve venire quattro cinque giorni alla settimana a Roma, che sarà mai ?".
Fino a vent' anni fa i politici non facevano vita notturna. I socialisti, che per primi andarono nelle discoteche, vennero da molti guardati con sospetto...
"E allora ? Ci si può divertire dopo una giornata di lavoro, ma senza varcare certi limiti".
Insomma, nessun imbarazzo per un certo ambiente romano "gaudente" che ha prodotto Vallettopoli, stigmatizzato anche da Veronica Berlusconi nella sua famosa lettera al marito ?
"Guardi, Berlusconi è tutto tranne che un viscidone: i suoi complimenti esibiti alle donne e le barzellette spinte lo rendono semmai ancora più simpatico. Piuttosto, il caso Sircana dimostra che anche i politici di sinistra fanno certe cose. Ma, chissà perché, se ne parla meno...".
Mauro Suttora
Friday, August 10, 2007
Emma Bonino e la Cina
BONINO E L’IMPRESA IMPOSSIBILE DI CONCILIARE DIRITTI E COMMERCI
Il Foglio, pag II, venerdì 10 agosto 2007
Roma. Povero Palden Gyatso, monaco buddista reduce da 33 anni di carcere cinese, che l’altra sera ha camminato dal Colosseo al Campidoglio attorniato dalle fiaccole della marcia per il Tibet. Come in tutte le capitali del mondo, le organizzazioni dei diritti umani ci hanno ricordato che, a un anno dall’inizio delle olimpiadi a Pechino, la repressione in Cina aumenta. “Il governo di Pechino non solo non mantiene le promesse di maggiore libertà fatte al Comitato olimpico internazionale”, avverte da Londra Irene Khan, segretaria di Amnesty International, “ma la polizia usa il pretesto dei giochi per estendere le incarcerazioni senza processo”.
Povero monaco, se avesse letto l’intervista che Emma Bonino, finora massima paladina italiana della democratizzazione mondiale, ha rilasciato proprio l’altro ieri al Sole 24 Ore. Con una clamorosa inversione a U, la ministra ora si dichiara contraria a sanzioni economiche contro le dittature: “Quando si commercia, circolano anche idee e persone”. È l’usurato argomento che, dalla strage di Tian an men dell’89, i sostenitori del business occidentale brandiscono nel perenne dibattito sulle sanzioni. Soprattutto negli Usa, che però mantengono tuttora ben nove classi di restrizioni commerciali e finanziarie contro i gerarchi comunisti di Pechino. A tutto beneficio dell’Europa, che infatti si batte per l’appeasement non solo verso la Cina, ma anche nei confronti dell’Iran (boicottato integralmente da Washington).
È da mesi che la Bonino ha abbracciato la ‘realpolitik’, rinunciando alla lotta nonviolenta dopo essersi seduta sulla poltrona di ministro del commercio estero. “I rapporti tra Italia e Cina non sono mai stati così buoni”, ha annunciato felice in giugno al forum italo-cinese per la promozione dell’export delle piccole e medie imprese, “le nostre esportazioni in Cina sono cresciute del 25 per cento nel 2006”.
È la stessa persona che negli ultimi vent’anni si era battuta contro le repressioni dei Falun Gong, che invitava ai congressi radicali dissidenti cinesi come Wei Jinsheng, che difendeva i separatisti uiguri dello Xinjang, che protestava per le persecuzioni dei cristiani, che premeva perché i premier italiani ricevessero il Dalai Lama a Roma, che andava a farsi arrestare dai talebani a Kabul e a incontrare la Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi a Rangoon? Ma, soprattutto, i radicali non si stanno attualmente battendo come leoni contro la pena di morte? E il 95 per cento delle esecuzioni capitali non avviene proprio in Cina?
La Bonino è molto apprezzata dalla business community come ministro. Attiva ed efficiente, come sempre. Ma il suo nuovo ruolo è inesorabilmente incompatibile con i passati ardori. Se fosse stato per lei, avrebbe scelto addirittura il ministero della Difesa. E lì la contraddizione sarebbe risultata plateale: una gandhiana antimilitarista a capo dei militari?
Fra i radicali c’è imbarazzo. Radio radicale cerca di far ingoiare il nuovo realismo governativo trasmettendo a raffica interviste a personaggi che dicono che sì, in fondo le sanzioni non sono molto efficaci. Il deputato Bruno Mellano (incarcerato pure lui in Laos nel 2001) obietta: “Ci domandiamo in che cosa consista il cosiddetto “dialogo critico” con i regimi dittatoriali. Abbiamo un anno di tempo, prima delle olimpiadi, per ottenere dai cinesi qualche miglioramento delle libertà fondamentali, senza attendere i tempi lunghi di un cambiamento culturale frutto delle aperture al mercato”.
Le sanzioni hanno funzionato in Sudafrica, ammette la Bonino. “Ma non contro i militari in Birmania”, aggiunge. E chi sono gli unici protettori della giunta birmana? Quante settimane durerebbe la giunta di Rangoon senza l’aiuto della Cina? La foto in gigantografia della birmana Aung San è sempre appesa sul Campidoglio. Fanno ormai 17 anni da quando vinse le elezioni e fu arrestata. Il sindaco Veltroni dice che la terrà lì finché non verrà liberata. Ma la martire birmana della democrazia ha perso un’alleata: la ex pasionaria italiana Emma, oggi appassionata soprattutto di made in Italy.
Mauro Suttora
Il Foglio, pag II, venerdì 10 agosto 2007
Roma. Povero Palden Gyatso, monaco buddista reduce da 33 anni di carcere cinese, che l’altra sera ha camminato dal Colosseo al Campidoglio attorniato dalle fiaccole della marcia per il Tibet. Come in tutte le capitali del mondo, le organizzazioni dei diritti umani ci hanno ricordato che, a un anno dall’inizio delle olimpiadi a Pechino, la repressione in Cina aumenta. “Il governo di Pechino non solo non mantiene le promesse di maggiore libertà fatte al Comitato olimpico internazionale”, avverte da Londra Irene Khan, segretaria di Amnesty International, “ma la polizia usa il pretesto dei giochi per estendere le incarcerazioni senza processo”.
Povero monaco, se avesse letto l’intervista che Emma Bonino, finora massima paladina italiana della democratizzazione mondiale, ha rilasciato proprio l’altro ieri al Sole 24 Ore. Con una clamorosa inversione a U, la ministra ora si dichiara contraria a sanzioni economiche contro le dittature: “Quando si commercia, circolano anche idee e persone”. È l’usurato argomento che, dalla strage di Tian an men dell’89, i sostenitori del business occidentale brandiscono nel perenne dibattito sulle sanzioni. Soprattutto negli Usa, che però mantengono tuttora ben nove classi di restrizioni commerciali e finanziarie contro i gerarchi comunisti di Pechino. A tutto beneficio dell’Europa, che infatti si batte per l’appeasement non solo verso la Cina, ma anche nei confronti dell’Iran (boicottato integralmente da Washington).
È da mesi che la Bonino ha abbracciato la ‘realpolitik’, rinunciando alla lotta nonviolenta dopo essersi seduta sulla poltrona di ministro del commercio estero. “I rapporti tra Italia e Cina non sono mai stati così buoni”, ha annunciato felice in giugno al forum italo-cinese per la promozione dell’export delle piccole e medie imprese, “le nostre esportazioni in Cina sono cresciute del 25 per cento nel 2006”.
È la stessa persona che negli ultimi vent’anni si era battuta contro le repressioni dei Falun Gong, che invitava ai congressi radicali dissidenti cinesi come Wei Jinsheng, che difendeva i separatisti uiguri dello Xinjang, che protestava per le persecuzioni dei cristiani, che premeva perché i premier italiani ricevessero il Dalai Lama a Roma, che andava a farsi arrestare dai talebani a Kabul e a incontrare la Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi a Rangoon? Ma, soprattutto, i radicali non si stanno attualmente battendo come leoni contro la pena di morte? E il 95 per cento delle esecuzioni capitali non avviene proprio in Cina?
La Bonino è molto apprezzata dalla business community come ministro. Attiva ed efficiente, come sempre. Ma il suo nuovo ruolo è inesorabilmente incompatibile con i passati ardori. Se fosse stato per lei, avrebbe scelto addirittura il ministero della Difesa. E lì la contraddizione sarebbe risultata plateale: una gandhiana antimilitarista a capo dei militari?
Fra i radicali c’è imbarazzo. Radio radicale cerca di far ingoiare il nuovo realismo governativo trasmettendo a raffica interviste a personaggi che dicono che sì, in fondo le sanzioni non sono molto efficaci. Il deputato Bruno Mellano (incarcerato pure lui in Laos nel 2001) obietta: “Ci domandiamo in che cosa consista il cosiddetto “dialogo critico” con i regimi dittatoriali. Abbiamo un anno di tempo, prima delle olimpiadi, per ottenere dai cinesi qualche miglioramento delle libertà fondamentali, senza attendere i tempi lunghi di un cambiamento culturale frutto delle aperture al mercato”.
Le sanzioni hanno funzionato in Sudafrica, ammette la Bonino. “Ma non contro i militari in Birmania”, aggiunge. E chi sono gli unici protettori della giunta birmana? Quante settimane durerebbe la giunta di Rangoon senza l’aiuto della Cina? La foto in gigantografia della birmana Aung San è sempre appesa sul Campidoglio. Fanno ormai 17 anni da quando vinse le elezioni e fu arrestata. Il sindaco Veltroni dice che la terrà lì finché non verrà liberata. Ma la martire birmana della democrazia ha perso un’alleata: la ex pasionaria italiana Emma, oggi appassionata soprattutto di made in Italy.
Mauro Suttora
Thursday, August 09, 2007
Cecilia Sarkozy
Oggi, 26 luglio 2007
di Mauro Suttora
Alta e felina, silenziosa e determinata, Cécilia Sarkozy sta facendosi amare e odiare da milioni di francesi. Ad appena tre mesi dall’elezione del marito, lei che diceva di non essere interessata alla politica a tal punto da non avere neppure votato per il suo Nicolas il 6 maggio, è balzata all’onore delle cronache come la salvatrice delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese condannati a morte in Libia.
Missione al femminile.
Con un blitz diplomatico degno di Kissinger è volata da Gheddafi e nel giro di poche ore, con l’aiuto della figlia del colonnello, Aisha, ha ottenuto quello che anni di trattative ufficiali non avevano prodotto, ma che avevano preparato. «Abbiamo votato Nicolas, non sua moglie», protestano i suoi avversari. Che abbondano non solo fra i socialisti, ma anche fra gli stessi compagni di partito di Sarkozy. Lei infatti si è installata all’Eliseo, si è dotata di un’addetta stampa e di un capo di gabinetto, e si comporta come un membro del governo. Proprio lei, che una volta si era imprudentemente vantata di «non avere una goccia di sangue francese nelle vene». Vero: è figlia di un ricco emigrato ebreo-zingaro rumeno e di una belga. Proprio lei, che due anni fa aveva scandalizzato la Francia intera fuggendo a New York con un amante, salvo poi tornare all’ovile. Proprio lei, che ha ravvivato l’immagine polverosa della presidenza francese, dopo due «vecchi» come Mitterrand e Chirac, esibendo con orgoglio nelle manifestazioni ufficiali le due belle figlie ventenni avute dal primo matrimonio, oltre a quello frutto dell’unione ormai quasi ventennale con Nicolas.
l I riflettori su di lei.
Ora, con la scusa degli «interventi umanitari», sembra invece aver preso gusto a recitare un ruolo anche politico. Resta il dilemma: la Francia ha già un presidente (che guida direttamente la politica estera), un ministro degli Esteri (Bernard Kouchner, socialista passato con l’ex avversario) e anche una stupenda viceministra di colore per gli Affari umanitari, Rama Yade, 30 anni. Ma a tutti Cécilia, soprattutto alla Commissiaria europea Benita Ferrero-Waldner, ha rubato i riflettori, scendendo trionfale in maglietta e pantaloni la scaletta dell’aereo con gli ostaggi «salvati». A che prezzo? Pare 420 milioni di euro, uno per ogni bimbo infettato.
l Il ruolo del presidente.
Il marito si è a sua volta precipitato a Tripoli per stringere la mano a Gheddafi, ma soprattutto per vendergli una centrale nucleare. Mossa azzardata, visto che la Libia come l’Iran è ricca di petrolio, ma resta una dittatura. Però anche il tiranno libico dev’essere rimasto folgorato dal piglio di questa francese cinquantenne, che esattamente come Hillary Clinton dieci anni fa si è conquistata un posto in politica senza avere ricevuto neanche un voto.
di Mauro Suttora
Alta e felina, silenziosa e determinata, Cécilia Sarkozy sta facendosi amare e odiare da milioni di francesi. Ad appena tre mesi dall’elezione del marito, lei che diceva di non essere interessata alla politica a tal punto da non avere neppure votato per il suo Nicolas il 6 maggio, è balzata all’onore delle cronache come la salvatrice delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese condannati a morte in Libia.
Missione al femminile.
Con un blitz diplomatico degno di Kissinger è volata da Gheddafi e nel giro di poche ore, con l’aiuto della figlia del colonnello, Aisha, ha ottenuto quello che anni di trattative ufficiali non avevano prodotto, ma che avevano preparato. «Abbiamo votato Nicolas, non sua moglie», protestano i suoi avversari. Che abbondano non solo fra i socialisti, ma anche fra gli stessi compagni di partito di Sarkozy. Lei infatti si è installata all’Eliseo, si è dotata di un’addetta stampa e di un capo di gabinetto, e si comporta come un membro del governo. Proprio lei, che una volta si era imprudentemente vantata di «non avere una goccia di sangue francese nelle vene». Vero: è figlia di un ricco emigrato ebreo-zingaro rumeno e di una belga. Proprio lei, che due anni fa aveva scandalizzato la Francia intera fuggendo a New York con un amante, salvo poi tornare all’ovile. Proprio lei, che ha ravvivato l’immagine polverosa della presidenza francese, dopo due «vecchi» come Mitterrand e Chirac, esibendo con orgoglio nelle manifestazioni ufficiali le due belle figlie ventenni avute dal primo matrimonio, oltre a quello frutto dell’unione ormai quasi ventennale con Nicolas.
l I riflettori su di lei.
Ora, con la scusa degli «interventi umanitari», sembra invece aver preso gusto a recitare un ruolo anche politico. Resta il dilemma: la Francia ha già un presidente (che guida direttamente la politica estera), un ministro degli Esteri (Bernard Kouchner, socialista passato con l’ex avversario) e anche una stupenda viceministra di colore per gli Affari umanitari, Rama Yade, 30 anni. Ma a tutti Cécilia, soprattutto alla Commissiaria europea Benita Ferrero-Waldner, ha rubato i riflettori, scendendo trionfale in maglietta e pantaloni la scaletta dell’aereo con gli ostaggi «salvati». A che prezzo? Pare 420 milioni di euro, uno per ogni bimbo infettato.
l Il ruolo del presidente.
Il marito si è a sua volta precipitato a Tripoli per stringere la mano a Gheddafi, ma soprattutto per vendergli una centrale nucleare. Mossa azzardata, visto che la Libia come l’Iran è ricca di petrolio, ma resta una dittatura. Però anche il tiranno libico dev’essere rimasto folgorato dal piglio di questa francese cinquantenne, che esattamente come Hillary Clinton dieci anni fa si è conquistata un posto in politica senza avere ricevuto neanche un voto.
Infermiere bulgare di Gheddafi
Cinque donne condannate a morte assieme a un medico a Tripoli. Con un’accusa tremenda:
avere infettato con l’Aids più di 400 bambini. Ma dopo otto anni di carcere e torture, bastano poche ore a Madame Sarkozy per far cambiare idea a Gheddafi. Ecco la cronaca dell’incredibile vicenda
Oggi, 26 luglio 2007
«Mi facevano dormire inginocchiato con le braccia ammanettate dietro la schiena. Ogni volta che chinavo la testa un secondino mi prendeva a calci. Ho ancora il corpo pieno di cicatrici, qualsiasi medico può esaminarmi per provare che sono stato torturato. Ma ci hanno trattati tutti come animali, per anni. Ci hanno massacrati con scosse elettriche, con botte, impedendoci di dormire...».
È questo il primo racconto di Achraf Juma Hajouj, viso emaciato e capelli precocemente ingrigiti. Medico palestinese, è stato otto anni in carcere in Libia con cinque infermiere bulgare. Accusati di avere infettato di Aids 426 bambini nell’ospedale di Bengasi (una cinquantina dei quali sono deceduti), i cinque erano stati condannati a morte nel 2004. Ma la scorsa settimana sono stati liberati da Cécilia Sarkozy, la moglie del presidente francese volata a Tripoli per trattare con il dittatore Muammar Gheddafi. Tornati in Bulgaria, ora sono tenuti sotto controllo in una residenza governativa, e tre di loro raccontano la loro allucinante esperienza in una conferenza stampa. Le altre tre infermiere fanno sapere di sentirsi ancora troppo deboli per potere affrontare i giornalisti.
Il loro incubo inizia il 9 febbraio 1999, quando vengono arrestati assieme ad altri 17 medici e infermieri bulgari che lavorano negli ospedali libici. Da anni professionisti della Bulgaria si recavano in Libia, priva di sufficiente personale medico-sanitario. Gli stipendi sono molto più alti di quelli percepiti in gran parte dei Paesi dell’Est. Durante i contratti, di solito biennali, è possibile guadagnare quasi interamente la somma necessaria per acquistare un appartamento in Bulgaria.
Dopo un po’ gli altri vengono liberati. Restano in carcere il medico e le infermiere Cristiana Balcheva, Nasia Nenova, Valentina Siropulo, Valia Cherveniashka e Snezhana Dimitrova. Secondo le autorità libiche sono tutte colpevoli di aver infettato centinaia di bambini dell’ospedale pediatrico di Bengasi. Ma non per sbaglio: ci sarebbe addirittura la premeditazione, e in Libia per queste cose si viene impiccati.
Sui motivi che starebbero dietro al folle gesto, i libici hanno sostenuto diverse ipotesi, ma tutte caratterizzate dal medesimo filo conduttore: un complotto contro il popolo libico. Durante la conferenza mondiale sull’Aids dell’aprile 2001 è il colonnello Gheddafi in persona a spiegare quale sarebbe stato il diabolico movente di infermiere e medico: «È stato chiesto loro di sperimentare gli effetti dell’Hiv sui bambini». E chi li avrebbe incaricati di questo odioso compito? Alcuni dicono la Cia. Altri il Mossad, il servizio segreto israeliano.
Il processo inizia nel giugno 2001. L’accusa si basa su confessioni ottenute sotto tortura, smentite in seguito dagli stessi detenuti. Si è parlato di contenitori con campioni di siero infetto trovati nelle abitazioni dei prigionieri, che però non sono mai stati messi a disposizione per un esame da parte della difesa. Come se non bastasse, fanno da contorno imputazioni meno gravi che vedono alcune delle donne colpevoli di relazioni sessuali illecite, nonché di produzione e consumo in pubblico di alcol.
Nel luglio 2004 il governo libico fornisce alla difesa 218 pagine in lingua araba di motivazioni per la condanna. Ma gli avvocati difensori sostengono e motivano l’innocenza dei propri clienti. Le prove sono fornite dalle testimonianze di Luc Montagnier, uno degli scopritori del virus dell’Aids, e del virologo italiano Vittorio Coalizzi. I due scienziati, incaricati dall’Unesco, avevano esaminato personalmente il caso recandosi all’ospedale Al-Fatih di Bengasi nel 2002. Era stato eseguito un esame genetico del virus, mettendo a confronto il sangue conservato di bambini infettati in anni diversi: nel 1997, nel ’98, nel ’99 e nel periodo successivo all’arrivo delle infermiere nell’ospedale. Le indagini dimostrano che i primi casi di infezione risalgono al ’96-’97, cioè molto prima che i processati giungessero in Libia.
Il virus ha le medesime caratteristiche in ogni campione esaminato, caratteristiche tra l’altro tipiche dell’Africa centrale e occidentale. Non può essere stato importato da altre aree geografiche, come sostengono invece gli accusatori libici. Le cause del propagarsi dell’epidemia sono da ricercarsi, secondo i due scienziati, nelle scarse condizioni igieniche dell’ospedale. La loro relazione dovrebbe cancellare i sospetti che hanno trasformato la vicenda in una cospirazione. Ma di queste prove i giudici libici non hanno tenuto conto.
Dopo infiniti rinvii, la corte di Tripoli delibera la sentenza: infermiere e medico saranno fucilati. Scattano i ricorsi in Appello, finché la Corte suprema tre settimane fa conferma la condanna a morte. In realtà Gheddafi ha sempre cercato di risolvere la questione negoziando e usando i sei prigionieri come ostaggi. In cambio prima voleva il rilascio dell’ufficiale libico condannato per l’attentato all’aereo americano Lockerbie (1988). Poi ha deciso di chiedere il risarcimento da parte della Bulgaria per le famiglie dei bambini rimasti vittime dell’epidemia. Ma il governo bulgaro ha sempre rifiutato ogni forma di baratto: «Le infermiere sono innocenti, quindi accettare di pagare un indennizzo sarebbe come ammettere la loro colpevolezza, e questo è inconcepibile», è stata la posizione ufficiale del governo di Sofia fino a una settimana fa.
Nel frattempo Gheddafi, spaventato dall’invasione americana in Iraq, si ammorbidisce. Nel dicembre 2003 ammette di avere prodotto armi chimiche di distruzione di massa nella fabbrica di Rabta, come accusavano gli Stati Uniti dagli anni Ottanta, e si prende la responsabilità per l’attentato di Lockerbie (260 morti causati da una bomba libica). Si avvia un processo di riavvicinamento della Libia all’Europa, l’Onu toglie le sanzioni economiche e si riaprono le ambasciate occidentali a Tripoli, anche se la Libia resta un’implacabile dittatura dove qualsiasi dissidente viene gettato in carcere. Ma l’Occidente pensa: meglio il laico Gheddafi (al potere da 38 anni, tiranno superato per longevità nel mondo soltanto da Fidel Castro) che non qualche fondamentalista islamico.
La Libia però deve fare i conti anche con i famigliari dei bambini sieropositivi, aizzati dalla Tv e dai giornali di stato libici contro le «streghe» bulgare. Per anni hanno lanciato pietre contro il tribunale gridando «Morte agli assassini«, «Impiccateli!», «La vita dei nostri bambini vale più di quella di un bulgaro». Anche adesso, dopo la liberazione dei sei e la grazia concessa dalla Bulgaria, protestano contro la violazione da parte di Sofia degli accordi presi con la signora Sarkozy, che prevedevano l’estradizione in un carcere bulgaro, ma non la libertà.
L’unico in Libia che negli ultimi tempi ha difeso medico e infermiere è stato il figlio di Gheddafi, Seif Al Islam: «Le autorità libiche devono ammettere la propria responsabilità per il dilagare dell’epidemia. Non credo nella colpevolezza delle infermiere». Anche la bellissima figlia del dittatore, Aisha, trentenne sposatasi l’anno scorso con un cugino, ha aiutato madame Sarkozy nell’opera di mediazione.
Mauro Suttora
avere infettato con l’Aids più di 400 bambini. Ma dopo otto anni di carcere e torture, bastano poche ore a Madame Sarkozy per far cambiare idea a Gheddafi. Ecco la cronaca dell’incredibile vicenda
Oggi, 26 luglio 2007
«Mi facevano dormire inginocchiato con le braccia ammanettate dietro la schiena. Ogni volta che chinavo la testa un secondino mi prendeva a calci. Ho ancora il corpo pieno di cicatrici, qualsiasi medico può esaminarmi per provare che sono stato torturato. Ma ci hanno trattati tutti come animali, per anni. Ci hanno massacrati con scosse elettriche, con botte, impedendoci di dormire...».
È questo il primo racconto di Achraf Juma Hajouj, viso emaciato e capelli precocemente ingrigiti. Medico palestinese, è stato otto anni in carcere in Libia con cinque infermiere bulgare. Accusati di avere infettato di Aids 426 bambini nell’ospedale di Bengasi (una cinquantina dei quali sono deceduti), i cinque erano stati condannati a morte nel 2004. Ma la scorsa settimana sono stati liberati da Cécilia Sarkozy, la moglie del presidente francese volata a Tripoli per trattare con il dittatore Muammar Gheddafi. Tornati in Bulgaria, ora sono tenuti sotto controllo in una residenza governativa, e tre di loro raccontano la loro allucinante esperienza in una conferenza stampa. Le altre tre infermiere fanno sapere di sentirsi ancora troppo deboli per potere affrontare i giornalisti.
Il loro incubo inizia il 9 febbraio 1999, quando vengono arrestati assieme ad altri 17 medici e infermieri bulgari che lavorano negli ospedali libici. Da anni professionisti della Bulgaria si recavano in Libia, priva di sufficiente personale medico-sanitario. Gli stipendi sono molto più alti di quelli percepiti in gran parte dei Paesi dell’Est. Durante i contratti, di solito biennali, è possibile guadagnare quasi interamente la somma necessaria per acquistare un appartamento in Bulgaria.
Dopo un po’ gli altri vengono liberati. Restano in carcere il medico e le infermiere Cristiana Balcheva, Nasia Nenova, Valentina Siropulo, Valia Cherveniashka e Snezhana Dimitrova. Secondo le autorità libiche sono tutte colpevoli di aver infettato centinaia di bambini dell’ospedale pediatrico di Bengasi. Ma non per sbaglio: ci sarebbe addirittura la premeditazione, e in Libia per queste cose si viene impiccati.
Sui motivi che starebbero dietro al folle gesto, i libici hanno sostenuto diverse ipotesi, ma tutte caratterizzate dal medesimo filo conduttore: un complotto contro il popolo libico. Durante la conferenza mondiale sull’Aids dell’aprile 2001 è il colonnello Gheddafi in persona a spiegare quale sarebbe stato il diabolico movente di infermiere e medico: «È stato chiesto loro di sperimentare gli effetti dell’Hiv sui bambini». E chi li avrebbe incaricati di questo odioso compito? Alcuni dicono la Cia. Altri il Mossad, il servizio segreto israeliano.
Il processo inizia nel giugno 2001. L’accusa si basa su confessioni ottenute sotto tortura, smentite in seguito dagli stessi detenuti. Si è parlato di contenitori con campioni di siero infetto trovati nelle abitazioni dei prigionieri, che però non sono mai stati messi a disposizione per un esame da parte della difesa. Come se non bastasse, fanno da contorno imputazioni meno gravi che vedono alcune delle donne colpevoli di relazioni sessuali illecite, nonché di produzione e consumo in pubblico di alcol.
Nel luglio 2004 il governo libico fornisce alla difesa 218 pagine in lingua araba di motivazioni per la condanna. Ma gli avvocati difensori sostengono e motivano l’innocenza dei propri clienti. Le prove sono fornite dalle testimonianze di Luc Montagnier, uno degli scopritori del virus dell’Aids, e del virologo italiano Vittorio Coalizzi. I due scienziati, incaricati dall’Unesco, avevano esaminato personalmente il caso recandosi all’ospedale Al-Fatih di Bengasi nel 2002. Era stato eseguito un esame genetico del virus, mettendo a confronto il sangue conservato di bambini infettati in anni diversi: nel 1997, nel ’98, nel ’99 e nel periodo successivo all’arrivo delle infermiere nell’ospedale. Le indagini dimostrano che i primi casi di infezione risalgono al ’96-’97, cioè molto prima che i processati giungessero in Libia.
Il virus ha le medesime caratteristiche in ogni campione esaminato, caratteristiche tra l’altro tipiche dell’Africa centrale e occidentale. Non può essere stato importato da altre aree geografiche, come sostengono invece gli accusatori libici. Le cause del propagarsi dell’epidemia sono da ricercarsi, secondo i due scienziati, nelle scarse condizioni igieniche dell’ospedale. La loro relazione dovrebbe cancellare i sospetti che hanno trasformato la vicenda in una cospirazione. Ma di queste prove i giudici libici non hanno tenuto conto.
Dopo infiniti rinvii, la corte di Tripoli delibera la sentenza: infermiere e medico saranno fucilati. Scattano i ricorsi in Appello, finché la Corte suprema tre settimane fa conferma la condanna a morte. In realtà Gheddafi ha sempre cercato di risolvere la questione negoziando e usando i sei prigionieri come ostaggi. In cambio prima voleva il rilascio dell’ufficiale libico condannato per l’attentato all’aereo americano Lockerbie (1988). Poi ha deciso di chiedere il risarcimento da parte della Bulgaria per le famiglie dei bambini rimasti vittime dell’epidemia. Ma il governo bulgaro ha sempre rifiutato ogni forma di baratto: «Le infermiere sono innocenti, quindi accettare di pagare un indennizzo sarebbe come ammettere la loro colpevolezza, e questo è inconcepibile», è stata la posizione ufficiale del governo di Sofia fino a una settimana fa.
Nel frattempo Gheddafi, spaventato dall’invasione americana in Iraq, si ammorbidisce. Nel dicembre 2003 ammette di avere prodotto armi chimiche di distruzione di massa nella fabbrica di Rabta, come accusavano gli Stati Uniti dagli anni Ottanta, e si prende la responsabilità per l’attentato di Lockerbie (260 morti causati da una bomba libica). Si avvia un processo di riavvicinamento della Libia all’Europa, l’Onu toglie le sanzioni economiche e si riaprono le ambasciate occidentali a Tripoli, anche se la Libia resta un’implacabile dittatura dove qualsiasi dissidente viene gettato in carcere. Ma l’Occidente pensa: meglio il laico Gheddafi (al potere da 38 anni, tiranno superato per longevità nel mondo soltanto da Fidel Castro) che non qualche fondamentalista islamico.
La Libia però deve fare i conti anche con i famigliari dei bambini sieropositivi, aizzati dalla Tv e dai giornali di stato libici contro le «streghe» bulgare. Per anni hanno lanciato pietre contro il tribunale gridando «Morte agli assassini«, «Impiccateli!», «La vita dei nostri bambini vale più di quella di un bulgaro». Anche adesso, dopo la liberazione dei sei e la grazia concessa dalla Bulgaria, protestano contro la violazione da parte di Sofia degli accordi presi con la signora Sarkozy, che prevedevano l’estradizione in un carcere bulgaro, ma non la libertà.
L’unico in Libia che negli ultimi tempi ha difeso medico e infermiere è stato il figlio di Gheddafi, Seif Al Islam: «Le autorità libiche devono ammettere la propria responsabilità per il dilagare dell’epidemia. Non credo nella colpevolezza delle infermiere». Anche la bellissima figlia del dittatore, Aisha, trentenne sposatasi l’anno scorso con un cugino, ha aiutato madame Sarkozy nell’opera di mediazione.
Mauro Suttora
Monday, August 06, 2007
No Sex in the City
What an Italian Man Thinks of American Women
Read No Sex in the City to unearth what happens when an Italian uomo courts the ladies of New York
by Francesca Di Meglio
Want to get inside the Italian man's head? Well, I've got the book for you. No Sex in the City (Cairo Publishing, 2006) by Mauro Suttora turns the tables on the American television show Sex in the City, which starred Sarah Jessica Parker as Carrie, who - along with her three best girlfriends - searched for love in New York City. Instead, Suttora recounts how he, an Italian man separated from his wife, moves to New York City to work as a journalist - and attract Sex in the City-type women.
He spills everything - from the despicable to the dolce - in his 206-page work. If you can read and understand Italian, No Sex in the City can give you insight into the Italian man's psyche. But be warned: you won't like everything you read, especially ifyou're a woman from New York.
Having lived just about all of my life right over the bridge from Manhattan in New Jersey, I jumped at the chance to get my hands on this book as soon as I read about it in Italy's version of Marie Claire last fall. However, my hopes for gushy tales of an Italian Mr. Big were dashed almost immediately.
Scorned by a lover from New York who dumped him via e-mail, Suttora spends the first few chapters bouncing from one woman to another rarely rounding second base and griping about being sexless in the city. Many of the women had lots of money, mostly thanks to their daddy, and most of them seemed too young for the fortysomething author. He recounts that he had actually met one of the women at an event I happened to attend - a concert Andrea Bocelli hosted for VIPs and journalists at the American Museum of Natural History. I never met the author but enjoyed the six degrees of separation.
Other than that, while reading the early parts of the book, I was completely turned off by Suttora because he didn't seem to think that fidelity in marriage was at all important. Pursuing a flirtatious wife of a diplomat seemed perfectly fine to him. I might have thrown my book across the room once or twice during that chapter. This might be why Italian men have a reputation as philanderers.
Suttora redeemed himself when he met Marsha and settled down with one woman, who he said he loved. He even seemed to give serious thought to marrying her and starting a family. And Marsha's very rich parents, especially her father, adored Suttora. But when Marsha insists on keeping her plans for a girls night out instead of staying with Suttora, he invites another woman to dinner. One thing leads to another, and he's unfaithful with this friend of a friend who he never sees again. First, however, he fantasizes about marrying this one-night stand and living off her money. It sounds like Suttora is turning into one of the women on Sex in the City.
Obviously, this act of infidelity is the beginning of the end for Marsha and him. The end end arrived, I think, because he was not willing to commit to her. He thought she just wanted to get married because marriage - replete with a giant rock of an engagement ring and a ridiculously expensive party - is part of the Manhattan culture. He may have a point here. Weddings certainly are big business in New York, and sometimes even the best women can get swept up in the hoopla. But we don't get Marsha's side of the story, so I don't want to be quick to judge. I know plenty of women in New York who want to marry for love and desire creating a family and home. For them, the wedding is just the beginning of something much bigger.
Accusations that none of the women Suttora met would cook are unfounded. I know plenty of foodies in Manhattan who love to host dinner parties (and cook everything themselves). Some of them even prepare family dinners during the week. Plenty of the bridges and tunnels girls - those of us from New Jersey, Brooklyn, and the Bronx - do just that. I think he was just hanging out with the wrong crowd.
Suttora seemed annoyed that when American women make the time to cook for their loved ones they want some gratitude. Here's a shocker, Mauro, Italian women I know wouldn't mind a thank you once in a while for all the things they do for you - from cooking to cleaning. Give it a try. You'll catch more queen bees with honey, I guarantee it. I know enough Italian women to understand that they are not much different from their New York sisters in this regard; they've just been living in patriarchy so long that they don't bother saying anything about it anymore. In the end, everyone just wants to be appreciated, especially by the ones they love most. That goes for men, too.
Normally, I wouldn't be this judgmental but I feel Suttora's judgmental tone gives me free reign. Like his female American counterparts in Sex in the City Suttora ran with crowds that provide only sex and no love, superficiality over substance, money and power over friendship and loyalty. Sometimes, we continuously seek the wrong kind of people (or flit from one social event to another) because we're simply not ready for the real thing. We don't really want any of these stories to work out. Our own fears and insecurities prevent us from falling in love. It happens to the best of us. Or maybe Suttora just wanted fodder for a book. Ponder that.
Despite his many flaws, Suttora is still an Italian man with charm and verve and wit. You, playing his favorite songs (which he relates to many of his experiences throughout the book) in your head, find yourself engaged in this snip it of his life. He has great taste to boot (Battisti is one of his favorites). And sometimes, he made me laugh out loud at his observations of the American people.
Much like Carrie and company, he left me wanting to know how his love life works out in the end. I'm waiting for the sequel, Lots of Sex in the City. I just hope, for his sake, it's with one kind, loving woman. Now that's a book I won't ever have to throw across the room!
Read No Sex in the City to unearth what happens when an Italian uomo courts the ladies of New York
by Francesca Di Meglio
Want to get inside the Italian man's head? Well, I've got the book for you. No Sex in the City (Cairo Publishing, 2006) by Mauro Suttora turns the tables on the American television show Sex in the City, which starred Sarah Jessica Parker as Carrie, who - along with her three best girlfriends - searched for love in New York City. Instead, Suttora recounts how he, an Italian man separated from his wife, moves to New York City to work as a journalist - and attract Sex in the City-type women.
He spills everything - from the despicable to the dolce - in his 206-page work. If you can read and understand Italian, No Sex in the City can give you insight into the Italian man's psyche. But be warned: you won't like everything you read, especially ifyou're a woman from New York.
Having lived just about all of my life right over the bridge from Manhattan in New Jersey, I jumped at the chance to get my hands on this book as soon as I read about it in Italy's version of Marie Claire last fall. However, my hopes for gushy tales of an Italian Mr. Big were dashed almost immediately.
Scorned by a lover from New York who dumped him via e-mail, Suttora spends the first few chapters bouncing from one woman to another rarely rounding second base and griping about being sexless in the city. Many of the women had lots of money, mostly thanks to their daddy, and most of them seemed too young for the fortysomething author. He recounts that he had actually met one of the women at an event I happened to attend - a concert Andrea Bocelli hosted for VIPs and journalists at the American Museum of Natural History. I never met the author but enjoyed the six degrees of separation.
Other than that, while reading the early parts of the book, I was completely turned off by Suttora because he didn't seem to think that fidelity in marriage was at all important. Pursuing a flirtatious wife of a diplomat seemed perfectly fine to him. I might have thrown my book across the room once or twice during that chapter. This might be why Italian men have a reputation as philanderers.
Suttora redeemed himself when he met Marsha and settled down with one woman, who he said he loved. He even seemed to give serious thought to marrying her and starting a family. And Marsha's very rich parents, especially her father, adored Suttora. But when Marsha insists on keeping her plans for a girls night out instead of staying with Suttora, he invites another woman to dinner. One thing leads to another, and he's unfaithful with this friend of a friend who he never sees again. First, however, he fantasizes about marrying this one-night stand and living off her money. It sounds like Suttora is turning into one of the women on Sex in the City.
Obviously, this act of infidelity is the beginning of the end for Marsha and him. The end end arrived, I think, because he was not willing to commit to her. He thought she just wanted to get married because marriage - replete with a giant rock of an engagement ring and a ridiculously expensive party - is part of the Manhattan culture. He may have a point here. Weddings certainly are big business in New York, and sometimes even the best women can get swept up in the hoopla. But we don't get Marsha's side of the story, so I don't want to be quick to judge. I know plenty of women in New York who want to marry for love and desire creating a family and home. For them, the wedding is just the beginning of something much bigger.
Accusations that none of the women Suttora met would cook are unfounded. I know plenty of foodies in Manhattan who love to host dinner parties (and cook everything themselves). Some of them even prepare family dinners during the week. Plenty of the bridges and tunnels girls - those of us from New Jersey, Brooklyn, and the Bronx - do just that. I think he was just hanging out with the wrong crowd.
Suttora seemed annoyed that when American women make the time to cook for their loved ones they want some gratitude. Here's a shocker, Mauro, Italian women I know wouldn't mind a thank you once in a while for all the things they do for you - from cooking to cleaning. Give it a try. You'll catch more queen bees with honey, I guarantee it. I know enough Italian women to understand that they are not much different from their New York sisters in this regard; they've just been living in patriarchy so long that they don't bother saying anything about it anymore. In the end, everyone just wants to be appreciated, especially by the ones they love most. That goes for men, too.
Normally, I wouldn't be this judgmental but I feel Suttora's judgmental tone gives me free reign. Like his female American counterparts in Sex in the City Suttora ran with crowds that provide only sex and no love, superficiality over substance, money and power over friendship and loyalty. Sometimes, we continuously seek the wrong kind of people (or flit from one social event to another) because we're simply not ready for the real thing. We don't really want any of these stories to work out. Our own fears and insecurities prevent us from falling in love. It happens to the best of us. Or maybe Suttora just wanted fodder for a book. Ponder that.
Despite his many flaws, Suttora is still an Italian man with charm and verve and wit. You, playing his favorite songs (which he relates to many of his experiences throughout the book) in your head, find yourself engaged in this snip it of his life. He has great taste to boot (Battisti is one of his favorites). And sometimes, he made me laugh out loud at his observations of the American people.
Much like Carrie and company, he left me wanting to know how his love life works out in the end. I'm waiting for the sequel, Lots of Sex in the City. I just hope, for his sake, it's with one kind, loving woman. Now that's a book I won't ever have to throw across the room!
Sunday, August 05, 2007
visita dal Papa
Domenica, 5 Agosto 2007
Il Gazzettino di Venezia
redazione di Udine
Recente visita in Vaticano dal cardinale Achille Silvestrini, dal Canonico di S.Pietro monsignor Vittorino Canciani e tradizionale udienza del mercoledì dal S.Padre Papa Benedetto XVI° di tre ex stelliniani: lo scienziato di fama mondiale esperto di nanotecnologia ingegnere Mauro Ferrari, originario di Udine, ma da anni negli Stati Uniti, di Mauro Suttora giornalista di "Oggi", del "New York Observer" e de "Il Foglio" diretto da Giuliano Ferrara, e dell'appena riconfermato sindaco di Varmo, Graziano Vatri.
Hanno frequentato il Liceo Classico "J. Stellini" di Udine diplomandosi nel 1978.
Il Gazzettino di Venezia
redazione di Udine
Recente visita in Vaticano dal cardinale Achille Silvestrini, dal Canonico di S.Pietro monsignor Vittorino Canciani e tradizionale udienza del mercoledì dal S.Padre Papa Benedetto XVI° di tre ex stelliniani: lo scienziato di fama mondiale esperto di nanotecnologia ingegnere Mauro Ferrari, originario di Udine, ma da anni negli Stati Uniti, di Mauro Suttora giornalista di "Oggi", del "New York Observer" e de "Il Foglio" diretto da Giuliano Ferrara, e dell'appena riconfermato sindaco di Varmo, Graziano Vatri.
Hanno frequentato il Liceo Classico "J. Stellini" di Udine diplomandosi nel 1978.
Monday, July 30, 2007
Il nostro McInerney nella citta' dell'eros
Nel suo libro 'No Sex in the City' Mauro Suttora riscopre i metodi degli anni '80
recensione del quotidiano 'Libero', 30 dicembre 2006
di Francesco Specchia
La classe non è acqua. E se lo fosse, potrebbe essere solo l'acqua grigia e vanitosa del fiume Hudson. Che a est taglia il New Jersey; mentre a ovest accarezza Manhattan come un sorso di champagne sprizzato in una flute.
Il suo scrosciare echeggia, lieve, fra i jazz club di Bleecker Street, i negozi di Armani e Calvin Klein, il profumo delle librerie antiquarie e quello dei dollari; fino a insinuarsi negli appartamentini del Village. Dove branchi di intellettuali radical chic ticchettano al computer la loro storia.
Uno di quegli intellettuali è Jay McInerney, l'uomo che nel best seller 'Le mille luci di New York' spogliò la Grande Mela, la rintronò d'alcol e cocaina e ne fece un mito degli anni '80. Un altro (meno intellettuale e - vivaddio - più giornalista) è Mauro Suttora, classe '59, moderatamente single, corrispondente del settimanale Oggi e columnist del New York Observer dal "centro esatto del mondo", ossia lo sterno, le viscere e l'inguine di Manhattan.
I due, Suttora e McInerney, non lo sanno ma si somigliano assai. Il primo è stato titolare d'un posto da cronista in una rivista chic, di tre mogli e due fidanzate, tutte modelle (l'ultima, Helen Bransford, è corsivista di Vogue); di due psicanalisti di fiducia; una passione smodata per Joseph Conrad e le storie dei reietti che galleggiano nei docks e la vodka on the rocks.
Il secondo ha vissuto, vent'anni dopo, tra preconcetti neocon e mostre al Guggenheim, donne-mantidi che lo divoravano in taxi o lo piantavano per email; mogli di ambasciatori che cattolicamente si spogliavano e pretendevano di "non essere penetrate"; riunioni condominiali all'insegna dell'equo canone selvaggio; aspiranti futuri suoceri Upper Eastsiders (abitatori di quartieri molto snob) che ritengono il gioco del golf e l'affitto di elicotteri le più nobili delle occupazioni.
Un'avvertenza. Il sesso - quello, vischioso, nelle feste per mannequin e brokers di McInerney e quello giocoso nel Rizzoli bookstore sulla 57esima Strada di Suttora - in questo tipo di letteratura è solo una scusa. O meglio una lente, un fil rouge che intreccia sapide microstorie, un espediente letterario che finisce per raccontare l'anima di New York stessa, la città più citta di tutte, il crogiuolo etnico che Henry James dichiarava "spaventosa, fantasticamente priva d'eleganza, confusamente orrenda".
New York è il cuore, il cervello, l'estremità, il pinnacolo del Nuovo Mondo. Per molti di noi è l'universo passionale dell'architetto Stanford White e Irving Berlin, di Dorothy Parker e dei coniugi Bernstein nel quale tutti ci muoviamo con confusa dimistichezza, una dimensione già descritta nel cinema di Chaplin, Scorsese, De Niro, Pacino, e dalla televisione di 'Sex and the City', del quale il libello di Suttora è la vera, solidamente virile, risposta italiana. L'ironia che annaffia il tutto, perlomeno, è la stessa.
Quando, ad esempio, parla dell'esemplare di fenotipo femminile un po' frigido dell'Upper East Side, Suttora suggerisce che "utilizza il proprio organo sessuale soprattutto per intrattenerci monologhi. Di qui il devastante successo della pièce teatrale sull'argomento: 'I monologhi della vagina'..."
E, forse senza nemmeno rendersene conto, si riaggancia al McInerney di 'Com'è finita', il cinico narratore di mignotte e prosseneti d'alto bordo, ex portaborse di deputati democratici che si mutano in fenomenali voltagabbana, gente che si giustifica ricordando che "Non è stato Kissinger a dire che il potere è afrodisiaco?"
Certo Suttora è meno politico di McInerney; soprattutto non fa del post-yuppismo una categoria dello spirito, non foss'altro perché sarebbe anacronistico. Dal suo "esilio newyorkese" il cronista vede l'eros come inevitabile compagno d'avventura. Gli dà, quasi, una forma socratica.
Quando, citando un indimenticato apologo di Massimo Fini sulla poesia del fondoschiena femminile, attribuisce agli americani la qualifica rozza e volgarotta di "bosomen" (più portati al seno che al culo, contrapposti ai "bottomen"), egli certifica un'innegabile prevalenza culturale europea; e, al contempo, traccia una mappa dei luoghi cittadini visti da dietro: "Quello fra Upper West Side e Central Park è un fondoschiena intellettuale, colloquiale... Il culo di Carnegie Hill è invece nobile: alto, lungo e appena rilevato... i culi popolari, bassi e larghi, sono purtroppo rari a Manhattan".
Come gli scrittori italiani che davvero sanno corteggiarla.
recensione del quotidiano 'Libero', 30 dicembre 2006
di Francesco Specchia
La classe non è acqua. E se lo fosse, potrebbe essere solo l'acqua grigia e vanitosa del fiume Hudson. Che a est taglia il New Jersey; mentre a ovest accarezza Manhattan come un sorso di champagne sprizzato in una flute.
Il suo scrosciare echeggia, lieve, fra i jazz club di Bleecker Street, i negozi di Armani e Calvin Klein, il profumo delle librerie antiquarie e quello dei dollari; fino a insinuarsi negli appartamentini del Village. Dove branchi di intellettuali radical chic ticchettano al computer la loro storia.
Uno di quegli intellettuali è Jay McInerney, l'uomo che nel best seller 'Le mille luci di New York' spogliò la Grande Mela, la rintronò d'alcol e cocaina e ne fece un mito degli anni '80. Un altro (meno intellettuale e - vivaddio - più giornalista) è Mauro Suttora, classe '59, moderatamente single, corrispondente del settimanale Oggi e columnist del New York Observer dal "centro esatto del mondo", ossia lo sterno, le viscere e l'inguine di Manhattan.
I due, Suttora e McInerney, non lo sanno ma si somigliano assai. Il primo è stato titolare d'un posto da cronista in una rivista chic, di tre mogli e due fidanzate, tutte modelle (l'ultima, Helen Bransford, è corsivista di Vogue); di due psicanalisti di fiducia; una passione smodata per Joseph Conrad e le storie dei reietti che galleggiano nei docks e la vodka on the rocks.
Il secondo ha vissuto, vent'anni dopo, tra preconcetti neocon e mostre al Guggenheim, donne-mantidi che lo divoravano in taxi o lo piantavano per email; mogli di ambasciatori che cattolicamente si spogliavano e pretendevano di "non essere penetrate"; riunioni condominiali all'insegna dell'equo canone selvaggio; aspiranti futuri suoceri Upper Eastsiders (abitatori di quartieri molto snob) che ritengono il gioco del golf e l'affitto di elicotteri le più nobili delle occupazioni.
Un'avvertenza. Il sesso - quello, vischioso, nelle feste per mannequin e brokers di McInerney e quello giocoso nel Rizzoli bookstore sulla 57esima Strada di Suttora - in questo tipo di letteratura è solo una scusa. O meglio una lente, un fil rouge che intreccia sapide microstorie, un espediente letterario che finisce per raccontare l'anima di New York stessa, la città più citta di tutte, il crogiuolo etnico che Henry James dichiarava "spaventosa, fantasticamente priva d'eleganza, confusamente orrenda".
New York è il cuore, il cervello, l'estremità, il pinnacolo del Nuovo Mondo. Per molti di noi è l'universo passionale dell'architetto Stanford White e Irving Berlin, di Dorothy Parker e dei coniugi Bernstein nel quale tutti ci muoviamo con confusa dimistichezza, una dimensione già descritta nel cinema di Chaplin, Scorsese, De Niro, Pacino, e dalla televisione di 'Sex and the City', del quale il libello di Suttora è la vera, solidamente virile, risposta italiana. L'ironia che annaffia il tutto, perlomeno, è la stessa.
Quando, ad esempio, parla dell'esemplare di fenotipo femminile un po' frigido dell'Upper East Side, Suttora suggerisce che "utilizza il proprio organo sessuale soprattutto per intrattenerci monologhi. Di qui il devastante successo della pièce teatrale sull'argomento: 'I monologhi della vagina'..."
E, forse senza nemmeno rendersene conto, si riaggancia al McInerney di 'Com'è finita', il cinico narratore di mignotte e prosseneti d'alto bordo, ex portaborse di deputati democratici che si mutano in fenomenali voltagabbana, gente che si giustifica ricordando che "Non è stato Kissinger a dire che il potere è afrodisiaco?"
Certo Suttora è meno politico di McInerney; soprattutto non fa del post-yuppismo una categoria dello spirito, non foss'altro perché sarebbe anacronistico. Dal suo "esilio newyorkese" il cronista vede l'eros come inevitabile compagno d'avventura. Gli dà, quasi, una forma socratica.
Quando, citando un indimenticato apologo di Massimo Fini sulla poesia del fondoschiena femminile, attribuisce agli americani la qualifica rozza e volgarotta di "bosomen" (più portati al seno che al culo, contrapposti ai "bottomen"), egli certifica un'innegabile prevalenza culturale europea; e, al contempo, traccia una mappa dei luoghi cittadini visti da dietro: "Quello fra Upper West Side e Central Park è un fondoschiena intellettuale, colloquiale... Il culo di Carnegie Hill è invece nobile: alto, lungo e appena rilevato... i culi popolari, bassi e larghi, sono purtroppo rari a Manhattan".
Come gli scrittori italiani che davvero sanno corteggiarla.
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