Thursday, December 19, 1991

Dateci una zampa, maghi del marketing















Il Wwf ha raggiunto quota 300mila soci. Greenpeace ne fa mille in più ogni mese. La Lipu è inondata di coupon per salvare la marmotta. Le nuove armi dei verdi si chiamano mailing, fund raising e sponsorship


di Mauro Suttora


Europeo, 20 dicembre 1991


Se continua così, fra qualche anno il Wwf avrà più iscritti del Pds. I soci italiani del World Wide Fund for Nature (Fondo mondiale per la natura) da 25mila che erano nel 1981 hanno appena festeggiato quota 300mila. Performance impressionante: poche associazioni al mondo possono vantare una crescita del 1200% in appena dieci anni.

Ma va bene anche alle altre organizzazioni ecologiste: dalla Lega Ambiente con i suoi 60mila iscritti, a Greenpeace che ne ha raccolti 55mila in soli tre anni, e che continua ad aumentare al ritmo di mille al mese.

Tutto questo nonostante il disastro ambientale italiano, la delusione dei verdi come partito, le sconfitte ripetute dei referendum anticaccia: da quello nazionale del 1990 a quelli in Friuli due settimane fa. Rigettati dalla politica, gli ecologisti nostrani si consolano partecipando con accanimento a iniziative concrete in favore della natura: piantano alberi, puliscono parchi, ramazzano spiagge, curano uccellini feriti. Ma mettono anche mano al portafogli: ‘adottano’ delfini, finanziano oasi, comprano magliette, regalano animali di peluche scelti dai cataloghi natalizi del Pandashop…

È un’attività frenetica che coinvolge una quindicina di associazioni nazionali più una miriade di gruppi locali, con bilanci annui che vanno dai 25 miliardi del Wwf ai 30 milioni della Lac (Lega abolizione caccia). E sono oltre mezzo milione gli italiani che hanno in tasca la tessera di una (o più di una) organizzazione ambientalista. Ma non è più un boom affidato al caso: da qualche anno l’entusiasmo spontaneo degli amanti della natura viene stimolato e poi organizzato scientificamente da esperti di marketing. I quali stanno importando in Italia le tecniche più avanzate del fund raising, del mailing e delle sponsorship, già sviluppatissime negli Stati Uniti.

Storicamente il nostro è un Paese cattolico in cui la carità è da sempre monopolio di missionari, suore e dame di san Vincenzo. E la raccolta di fondi per organismi laici senza scopo di lucro (Croce rossa, ricerca contro il cancro e altre gravi malattie) non è facilitata, come in America, dalla deducibilità fiscale dei contributi.

Ma i nuovi maghi del marketing verde non si son persi d’animo, e tanto per cominciare hanno messo a buon frutto le centinaia di migliaia di firme e indirizzi raccolti per i referendum. “A quegli 800mila firmatari abbiamo spedito una lettera con l’invito ad associarsi, e la risposta è stata buona”, ci dice Valerio Neri, direttore generale del Wwf.

Neri, 40 anni, è il superman dei nuovi manager ambientali. Ha insegnato filosofia del linguaggio all’università di Roma ed è entrato nel Wwf nel 1982. Le sue iniziative di direct marketing per convincere i soci a rinnovare l’iscrizione hanno avuto subito successo, e questo è stato molto importante per l’associazione del Panda negli anni della crescita impetuosa. Troppe volte, infatti, un eccessivo ricambio dei soci vanifica il reclutamento di nuovi iscritti: se molti non rinnovano la tessera, alla fine il saldo è insoddisfacente. “La percentuale di rinnovi è molto alta per il Wwf: bastano due-tre lettere di sollecito e arriviamo all’80 per cento”, spiega Neri.

Dal 1989 Neri è direttore generale dell’associazione fondata e presieduta da Fulco Pratesi, succedendo a Staffan de Mistura (oggi impegnato con l’Unicef in Jugoslavia) che già aveva introdotto buone dosi di managerialità nel Wwf. L’anno scorso un sondaggio Espansione-Swg fra 300 dirigenti italiani ha collocato Neri al quinto posto fra i direttori marketing più bravi d’Italia, e al terzo fra i creatori delle operazioni più innovative.

Così si è coronata una carriera cominciata per caso. “Ma la mia precedente esperienza di filosofo del linguaggio è stata preziosa”, sostiene Neri. “Un’operazione di mailing infatti costa molto, per cui occorre calibrare bene il messaggio da inserire nella lettera. Nella comunicazione ambientale dobbiamo far leva su emozioni e ricordi del linguaggio privato per catturare l’interesse”.

Insomma, Neri applica gli insegnamenti del filosofo Ludwig Wittgenstein quando scrive di suo pugno molte delle lettere con cui il Wwf, magari usando come testimonial Piero Angela, sollecita i simpatizzanti all’azione e al contributo finanziario. “La raccolta fondi è soltanto uno dei nostri obiettivi”, precisa Neri, “perché vogliamo anche spingere i nostri soci a compiere atti pratici, come spedire cartoline per qualche petizione a un uomo di governo, o a cessare un comportamento inquinante, fino ad assumere personalmente iniziative concrete”. Come i soci Wwf che hanno piantato alberi poche settimane fa a Milano.


Un altro asso nella manica del Wwf è Marina Salamon. Questa 33enne proprietaria della Doxa (con il padre Ennio che la dirige da 35 anni) e imprenditrice tessile (con l’ex compagno Luciano Benetton controlla due aziende a Treviso che fatturano 150 miliardi) fa parte della commissione Ambiente della Confindustria, e da un anno è anche consigliere d’amministrazione del Wwf Italia. Ha l’incarico di seguire le vendite del Pandashop, catalogo per corrispondenza allegato alla rivista mensile del Wwf che incassa cinque miliardi all’anno.

“Da adolescente frequentavo i campi di lavoro del Wwf”, ricorda la Salamon, “e ho riannodato i rapporti nell’86, quando ho aiutato a organizzare le cerimonie per il venticinquennale del Wwf internazionale ad Assisi”. Salamon senior a suo tempo si era impegnato con Italia Nostra a Milano per la creazione del parco del Ticino. Adesso sua figlia dedica in media una decina di ore alla settimana per andare a Roma e Milano alle riunioni Wwf. “Mi sono laureata, ho lavorato, e adesso posso permettermi di coltivare i miei veri interessi”, dice.

Anche dentro Confindustria Marina Salamon sta combattendo la sua battaglia ecologista. “È stato Luigi Abete a volere che m’impegnassi nel comitato Ambiente. Io per la verità producendo vestiti non ho grossi problemi di coscienza, anche perché compro tessuti già colorati. La mia impressione è che le grosse aziende, coordinate da Federchimica, Assoplastica e Assovetro, si stiano muovendo per ridurre l’inquinamento. Ma restano i problemi delle piccole industrie, e soprattutto di leggi confuse con sovrapposizione di poteri fra Stato e regioni. Non vorrei comunque ridurmi a fare il Bertuzzi [primo difensore civico d’Italia, ndr] della situazione, quella che parla e denuncia ma con scarsi risultati concreti. Per questo mi trovo meglio fra i giovani imprenditori, che ultimamente hanno assunto posizioni coraggiose, e non solo sui temi ambientali: penso al caso Libero Grassi e alla mafia in Sicilia”.

Le vendite del Pandashop curate dalla Salamon hanno un catalogo stampato su carta riciclata e provengono in gran parte da canali alternativi alle normali strutture industriali: comunità di ex tossicodipendenti o handicappati, cooperative del Terzo mondo). Assieme al professor Luigi Boitani, docente di management ambientale all’università di Roma, la Salamon ha vincolato a parco regionale 150 ettari di sue tenute in Toscana, vicino a Siena. E la scorsa settimana questa pasionaria dell’ambiente è volata in Kenya e Uganda, dove Boitani ha progettato nuovi parchi naturali, e dove stanno molti di quegli elefanti e rinoceronti per i quali il Wwf ha organizzato campagne negli ultimi anni.

Intanto, proprio una ricerca Doxa ha scoperto che il marchio del panda è conosciuto dall’80% degli italiani, e che il Wwf è noto perfino più della Croce rossa come raccoglitore di fondi. Perciò le aziende private fanno la coda per ottenere una sponsorizzazione che permetta di legare la propria immagine a quella prestigiosa del Wwf. “Ma accettiamo meno del 10 per cento delle proposte che ci vengono fatte”, dice Neri. Dagli sponsor il Wwf incassa un miliardo e mezzo annuo, che destina ai 42 parchi gestiti a proprie spese. La sponsorizzazione più grossa attualmente è quella della Perfetti, che abbina la caramella Golia all’orso bianco.

Con 26 dipendenti a tempo pieno, 300 obiettori in servizio civile, 300 sedi e 4mila Panda club nelle scuole, il Wwf riesce a proteggere quasi 20mila ettari di territorio in Italia, e a spendere più del ministero dell’Ambiente per i suoi parchi nazionali.


Un’altra storia di successo è quella di Greenpeace. Specializzata in spettacolari azioni dirette nonviolente, è sbarcata in Italia da pochi anni. L’unica sede è a Roma, dove con il direttore Gianni Squitieri  lavorano 12 persone. Non ha chiesto obiettori al ministero della Difesa. I 55mila soci contribuiscono in media con 40mila lire annue, e il bilancio si aggira sui due miliardi.

La responsabile marketing di Greenpeace è Silvia Provera, 33 anni, laureata in biologia: “La ‘raccolta fondi’ in Italia è quasi inesistente come tecnica specializzata”, ci dice nella sede sotto l’Aventino. “Per questo Greenpeace mia ha mandata a frequentare per due settimane un corso universitario di ‘fund raising’ a San Francisco. Ne sono uscita stordita: le organizzazioni no profit statunitensi si occupano quasi tutte di donne violentate, bambini brutalizzati, malattie terribili e altre amenità del genere. Ma lì il mailing raggiunge vette di sofisticazione scientifica. Anche perché società apposite sono in grado di affittare indirizzari perfino ridicoli, nella loro precisione: tutti i divorziati degli ultimi tre mesi, o chi acquista cibi naturali, o i ‘giovani evoluti’ che ‘vanno spesso al camping’, e così via…”

In Italia le liste sono più approssimative, garantiscono raramente una ‘redemption’ (risposta positiva) superiore al 3-4%. “Invece in Gran Bretagna e Olanda Greenpeace riesce a raggiungere risultati strepitosi con il mailing: perfino il 18 per cento su liste ‘fredde’, cioè di persone che non hanno dimostrato in precedenza interessi particolari per l’ambiente”.

In Olanda Greenpeace ha 700mila iscritti: uno in ogni famiglia. E da noi c’è il grande ostacolo della posta lenta, che rende difficoltose grosse spedizioni di lettere. Un’altra tecnica che le organizzazioni non a scopo di lucro utilizzano all’estero è lo scambio reciproco di indirizzari. In alcuni Paesi la legge lo proibisce, per non invadere la privacy con quantità non richieste di ‘junk mail’, posta spazzatura. Ma il divieto è superabile stampando la clausola “Se lei non vuole che il suo indirizzo venga dato ad altri, sbarri questa casella”. Quasi nessuno lo fa.

“In Italia però le associazioni ecologiste sono gelose, non prestano mai ad altri i propri indirizzari”, dice Silvia Provera. “Eppure i nostri iscritti spesso sono complementari. Il Wwf, per esempio, rispetto a noi ha soci o più giovani o più anziani, e più nell’area del protezionismo che in quella dell’ecologia politica. Noi invece siamo forti fra i 20-45enni”.

Per statuto, al contrario del Wwf, Greenpeace non può concedere il proprio marchio, farsi sponsorizzare né accettare donazioni da aziende: solo privati cittadini. “Abbiamo declinato anche i finanziamenti del ministero dell’Ambiente, perché non prendiamo soldi da governi. E perché abbiamo scoperto che in Italia pure questi fondi sono un po’ lottizzati”, dice la Provera. “Una volta mi ha telefonato un’associazione di pellicciai che voleva assolutamente farci una donazione. Ho spiegato che potevamo accettare solo il contributo del presidente come singola persona”.

Anche Greenpeace nella rivista mensile che invia ai soci ha un piccolo catalogo di magliette, adesivi e cartoline. Offre pure il disco inciso dalle principali rockstar per finanziare le campagne contro la caccia alle balene in Unione Sovietica, che ha venduto tre milioni di copie.


La Lega Ambiente (presidente Ermete Realacci, segretaria Renata Ingrao, 60mila iscritti) si sta avvicinando adesso alle campagne di mailing. “Con Antonio Lubrano come testimonial”, spiega l’amministratrice Rita Tiberi, “abbiamo contattato tutti i firmatari dei referendum. Così è cambiata un po’ anche la natura della nostra associazione, perché 20mila persone si sono iscritte direttamente alla sede nazionale senza passare per uno dei nostri 600 circoli locali”.

Una ventina di impiegati, 30 obiettori, due miliardi a bilancio, l’attività di Lega Ambiente si impernia soprattutto sulla Goletta verde estiva e sul Treno verde invernale, che girano Italia e Mediterraneo misurando l’inquinamento. I soci, più di sinistra delle altre associazioni, sono anche più severi nella scelta degli sponsor: hanno protestato quando la Montedison di Raul Gardini aveva sponsorizzato un loro convegno. Così il marchio del cigno verde non viene concesso alle aziende, che possono solo offrire fondi.

Ce l’hanno fatta Duracell con le sue pile (in risposta ad altre pile concorrenti abbinate al Wwf), Italstat, Assovetro, il detersivo ecologico Atlas, il consorzio Replast che ricicla la plastica. La Banca Toscana e Il Monte dei Paschi hanno sponsorizzato un convegno internazionale particolarmente costoso. E Ottavio Missoni ha disegnato tre magliette per la Goletta verde.


La Lipu (Lega italiana protezione uccelli), che gestisce 15 oasi e due ospedali veterinari, ha 30mila soci e due miliardi e mezzo di budget. Presidente, l’ex giornalista Rai Mario Pastore. Si è fatta sponsorizzare da Polenghi un centro per le cicogne a Racconigi (Cuneo), Invicta ha finanziato l’oasi di Torrile (Parma) e altri suoi benefattori sono stati Piaggio e Virgin dischi. Grande successo ha riscosso la recente campagna per la marmotta: ben 45mila coupon stampati su giornali sono arrivati alla sede nazionale di Parma, e formeranno un ottimo target per i prossimi mailing.


Italia Nostra, 20mila soci, si è fatta sponsorizzare da Scavolini e dal Lysoform della Lever quattro aree di rimboschimento post incendi. “Ma i mailing non possiamo permetterceli, costano troppo”, dice il segretario Vittorio Machella.

Molto intraprendente invece il presidente di Europe Conservation Fabio Ausenda: “Abbiamo raccolto 400 milioni da settemila donatori per le nostre campagne di adozione di lupi, balene e delfini”. Fra i finanziatori Moschino e Fox video per i lupi e Prénatal per le balene.

La più grande associazione animalista (da non confondere, avvertono gli specialisti, con i ‘conservazionisti’) è la Lav (Lega antivivisezione): 16 mila iscritti, 90 sedi, mezzo miliardo in bilancio, nessun obiettore (“Il ministero ce li nega”), niente personale stipendiato: “Siamo tutti volontari, al massimo c’è qualche rimborso spese”. Sono loro a inscenare ogni anno, all’apertura della Scala, gli happening anti-pellicce.

Anche Kronos 1991, specializzato nel misurare l’inquinamento di mari, laghi e fiumi, ha un modello lontano da quello ‘commerciale’ del Wwf: “Vogliamo che i nostri 4mila iscritti si mobilitino direttamente, non ci interessano i soci solo finanziari o epistolari”, dice il segretario Silvano Vinceti.

Sulla stessa lunghezza d’onda la Lac (Lega anticaccia) di Carlo Consiglio, professore di zoologia all’università di Roma, e Federnatura, che raduna 10mila soci sotto la presidenza di Francesco Corbetta, docente di botanica all’Aquila.

Apertissimi alle sponsorizzazioni sono invece il Fai (Fondo ambiente italiano, 15mila soci, bilancio di tre miliardi) di Giulia Maria Crespi, gli Amici della Terra e Marevivo (30 mila soci, un miliardo di budget: Tirrena assicurazioni, Marina militare, Enel, Alenia, Telespazio).

Quanto a Mountain Wilderness, l’associazione di Reinhold Messner che conta un migliaio di soci, ha ricevuto contributi da Fidia (farmaceutici) e Geospirit (abbigliamento sportivo).

Infine Animal Amnesty: “Siamo un ufficio di pubbliche relazioni per animali”, spiega l’addetto stampa Enzo Del Verme. Ottomila soci dichiarati, dieci addetti a tempo pieno, sono loro a coniare slogan fulminanti come “Tua madre ha una pelliccia? La mia non l’ha più”, oppure “Se pensi che la corrida sia divertente, prova a fare il toro”. Sponsor: Fiorucci, Videomusic, Young & Rubicam. 


















Friday, August 30, 1991

Il golpe di Mosca

FUORI GORBACIOV, ECCO ELTSIN. UNA RIVOLUZIONE CON SOLI TRE MORTI SEPPELLISCE IL COMUNISMO

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora


Europeo, 30 agosto 1991





«Cambiar nome? Non serve a niente. Anch'io ho cambiato nome, quattro volte. Ma adesso che sono arrivata al terzo marito mi ritrovo uguale a prima, con lo stesso caratteraccio».


Piazza Puskin, una bella e tiepida notte moscovita. Sotto la statua del poeta si danno appuntamento le coppiette di innamorati. Davanti a McDonald's c'è la solita fila di mezzo chilometro per un hamburger americano. E dall'altra parte della piazza, sotto la sede del settimanale Moskovskie Novosti, Notizie di Mosca, una centinaio di persone commentano la morte del partito comunista sovietico, decretata dal presidente Michail Gorbaciov 24 ore prima.


La battuta più bella la pronuncia la pluridivorziata Elena, contro chi ipotizza una resurrezione sotto diverso nome per i 14 milioni di membri di un Pcus rinnovato e purgato.




Un altro struggente tramonto chiude la settimana decisiva per la storia dell'Unione Sovietica. Era cominciata lunedì mattina sotto la pioggia, e con i carri armati del golpe nelle strade. È finita sabato sotto il sole con le dimissioni di Gorbaciov da segretario del Pcus, lo scioglimento del partito e la antica-nuova bandiera russa tricolore che sventola sul Cremlino.


In mezzo, sei giorni di rivoluzione. Una bella rivoluzione, con pochi morti e molta ironia. Perfino Gorbaciov è riuscito a scherzare sulla propria prigionia in Crimea. «È la nostra quinta rivoluzione», ricorda un signore in un capannello di piazza Puskin. E conta: quella decabrista nell'800, quella socialista nel 1905, la menscevica nel febbraio '17, la bolscevica nell'ottobre '17... D'estate, però, è la prima volta. Ma anche sulla numerazione delle loro rivoluzioni i russi riescono a litigare: «Quello bolscevico fu un colpo di stato, non una rivoluzione di popolo», puntualizza stizzito un altro.


Le uniche due parole che mettono d'accordo tutti sono «democrazia» e «Eltsin». La gente preferisce quest'ultimo, presidente della Russia (che copre il 75 per cento dell'Urss), a Gorbaciov, presidente tuttora non eletto di una cosa che ormai esiste ogni giorno di meno: l'Unione Sovietica.


Questa volta, contrariamente a 74 anni fa, i sei giorni di rivoluzione non hanno sconvolto il mondo. Più modestamente, lo hanno tranquillizzato. Le mamme russe ora portano i figli a visitare le barricate che hanno protetto Eltsin e il suo parlamento dai militari. Come la signora Ludmila Salnikova, che già la sera di giovedì 21 agosto conduce per mano la figlia Xenia di 8 anni a vedere in Piazza Rossa i fuochi d'artificio della festa antigolpista. La incontriamo in metropolitana, alla stazione del viale della Pace (Prospekt Mira).


È eccitata, felice e arrabbiatissima: «Dopo i botti andremo ad assaltare la sede del partito comunista», annuncia. «Ho appena visto la conferenza stampa di Gorbaciov in tv, quello scemo difende ancora il partito che l'ha tradito». Nella carrozza del metro (il biglietto costa quindici copechi, sei lire italiane) la gente legge i quotidiani con i primi titoli sul golpe fallito. I generali golpisti avevano chiuso tutti i giornali tranne sei, quelli fedeli al Pcus. Il giorno dopo Eltsin li ha fatti riaprire tutti, tranne quei sei (tra i quali l'esimia Pravda).


Usciamo con Ludmila e Xenia alla stazione del metro Barricada che ricorda gli scontri del 1905 fra i soldati zaristi e i rivoluzionari. Per coincidenza, le nuove barricate sono a poche decine di metri. E qui bisogna spiegare che il Bielo Dom, la Casa Bianca di Eltsin, si trova in una parte di Mosca che, come quasi tutta la città, non è a misura d'uomo bensì di Stalin e della sua megalomania.


Per capirci: non sareste presi dalla disperazione, o perlomeno da agorafobia, se doveste improvvisare qualche ostacolo antitank attorno al palazzo della Farnesina a Roma? La grande fortuna dei diecimila giovani di Eltsin è che, a mani nude, hanno potuto contare su un cantiere aperto proprio davanti al parlamento per lavori di fognatura in viale Kalinin. Si può quindi affermare, con rispetto parlando, che la nuova democrazia russa è nata non sulla canna del fucile, ma grazie a tubi di fogna e traversine di cemento.


Queste commoventi barricate, tenute su con tavoli, sedie, tondini di ferro, pezzi di pavé, perfino rami d'albero e tutto ciò che i giovani di Eltsin hanno trovato, sono diventate monumento nazionale. Nessuno osa più toccarle. Eppure tre filobus bruciacchiati ostruiscono il traffico su una delle principali circonvallazioni di Mosca. Vari deputati hanno proposto di lasciarne uno intatto per ricordo.


E per ricordare, adesso, la piccola Xenia, due anni dopo i suoi coetanei del muro di Berlino, si porta a casa un pezzo di fil di ferro della barricata come reliquia storica. Attorno si beve, si canta, si balla, si fa festa. Sono tornati il sorriso e l'entusiasmo sui visi tristi dei moscoviti. Perfino alcune guide turistiche dei greggi in viaggio organizzato hanno giunto una nuova tappa al tour della città: un po' di storia contemporanea, oltre a quella imbalsamata nel Cremlino.


Non si è ancora asciugata l'acqua nelle pozzanghere di viale Ciaikovski, in quel sottopasso illuminato dai neon arancioni che la Cnn ha mostrato a tutto il mondo in diretta nella notte degli scontri. Qui ci sono stati i tre morti che hanno pagato per tutti i milioni di russi il passaggio dalla dittatura alla democrazia.


A scuola ci hanno insegnato che la libertà concessa dall'alto, come quella della perestroika gorbacioviana, vale poco se non è conquistata anche con un conflitto, una rivolta, magari un po' di sangue. Per fortuna le rivoluzioni moderne sono sempre più spesso nonviolente. A volte hanno successo (Europa dell'Est, Filippine), a volte no (Cina, Birmania). «Ma la paura di una nuova strage tipo piazza Tian an men ha paralizzato molti soldati», commenta Oleg Finestein, scrittore, «questi generali non erano golpisti professionisti».


«Buonanotte amico, siamo con te». «In memoria vostra, amici». Nei tre punti dove si è ucciso ora ci sono montagne di fiori e queste scritte pitturate in bianco. «Riebata», amico, ha preso il posto di «Tovarish», compagno, parola squalificata perché comunista. Anzi, «comunista» è ormai diventato un insulto a Mosca. Centinaia di persone, soprattutto donne pie di mezza età che si raccolgono in preghiera, continuano a portar fiori ai nuovi martiri di viale Ciaikovski.


Arriviamo tardi, con Ludmila e Xenia, alla manifestazione contro la sede del Pcus (che poi Eltsin ha fatto chiudere), perché la grande attrazione della notte è l'abbattimento della statua di Felix Djerzinski, nella piazza di fronte alla sede del Kgb da lui fondato. Il giorno dopo è andata giù a picconate la statua di Sverdlov, e adesso tutti i dirigenti bolscevichi rischiano. Anche il monumento a Lenin in piazza Octoberskaia è nel mirino dei moscoviti.


«Io butterei giù anche il busto di Marx di fronte al teatro Bolscioi», propone Ludmila ormai in preda a furia iconoclasta. Per adesso ci si sfoga con le scritte. Sul basamento di Marx con l'appello storico «Proletari di tutto il mondo unitevi» qualcuno ha aggiunto «...e combattete contro il comunismo». Il giorno dopo invece campeggia un grosso «Scusatemi». Un turista stalinista italiano che indossa una giacca a vento con la scritta Cariplo comincia a urlare: «Porci fascisti! Dopo che li hanno fatti studiare tutti gratis, bel ringraziamento!»


Poco più in là, in piazza del Maneggio, cominciano i funerali di stato per le tre vittime. Cerimonia lunghissima e solenne che raggiunge l'apice quando, sotto la Casa Bianca, Eltsin raggiunge il corteo e porta le condoglianze ai parenti. Per la verità ai funerali non c'era moltissima gente, al massimo centomila persone. Non è neanche vero che la gente si rivolta in massa contro il partito comunista: la vita va avanti tranquilla, ed erano poche centinaia i dimostranti contro il palazzo del Comitato centrale del Pcus (quello dentro al Cremlino su cui adesso sventola la bandiera tricolore russa al posto di quella rossa).


In realtà questa è una rivoluzione soprattutto televisiva, con decine di milioni di persone le quali ogni giorno si bloccano davanti alle tv che trasmettono tutto in diretta e a canali unificati per ore e ore. Va bene l'entusiasmo per la libertà, ma se la gente non ricomincia a lavorare l'economia andrà ancora più a rotoli. Ora l'inflazione è al 100 per cento, i prezzi raddoppiano ogni anno. La produzione è crollata di un decimo e il rublo si cambia a quaranta lire, contro le 700 del cambio ufficiale.


L'unico posto a Mosca dove fra i lavoratori regna una perfetta e disciplinata efficienza, senza televisori nel retro ad aggravare la leggendaria accidia slava, è forse Pizza Hut. La Casa della pizza americana ha aperto da poco due ristoranti: uno nell'ex via Gorki tornata all'antico nome Tverskaia, l'altro in viale Kutuzovski, dove stanno molte redazioni di giornali e tv straniere che il governo sovietico costringe in quasi topaie.


Pizza Hut è un esempio agghiacciante di come potrebbero finire le cose se i governanti sovietici non introdurranno la libertà di mercato. Ogni ristorante ha tre porte. In due si paga con rubli (per sedersi e per l'asporto), nella terza in dollari. In teoria anche un russo potrebbe avere dollari. In pratica no, visto che dieci dollari, il minimo per chi vuole mangiare qualcosa, equivalgono a 320 rubli. Cioè la metà di uno stipendio mensile medio.


Così Pizza Hut e tutti i posti dove si può pagare in dollari hanno file lunghissime per i russi schiavi del loro rublo, mentre l'entrata è libera per i privilegiati occidentali. Certo, non si può passare al libero mercato da un giorno all'altro. Ma Gorbaciov finora non ha riformato granché. I russi sperano che Eltsin vada più avanti. «Tanto, peggio di così non possiamo stare», dice Andrei Sedov, ingegnere che da sei mesi ha abbandonato l'industria militare in cui lavorava e si è messo in proprio con una sua società.


Mauro Suttora

Boris Eltsin, un po' Pertini un po' Pannella

... E POI LEOLUCA ORLANDO, ANDREOTTI, REAGAN, KENNEDY: ECCO A CHI ASSOMIGLIA IL NUOVO CAPO RUSSO

Europeo, 30 agosto 1991

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora



Tradotto in italiano, Boris Nicolaievich Eltsin è un misto fra Sandro Pertini, Marco Pannella e Leoluca Orlando. Insomma, ci siamo capiti: una bomba ambulante. Con lui lo spettacolo è sempre assicurato. La noia - principale caratteristica della politica, in Russia come in Italia - è eliminata.

Come Pertini, Eltsin capisce al volo l'umore della gente che ha di fronte, e trova sempre le parole giuste. Parole terra terra: è l'unico leader sovietico a non parlare in politichese. E come il nostro ex presidente, fa impazzire la scorta quando si immerge nella folla, il suo ambiente naturale.

In questo è differente da Michail Gorbaciov, i cui «colloqui col popolo» sono troppo spesso sapientemente filtrati dal servizio d'ordine. Inoltre, quando Boris si trova di fronte a un operaio, lo ascolta. Gorby invece lo affligge con un monologo prolisso pensando alla tv che inquadra la scena.

Come Pannella, il nuovo «zar della Russia» ama i gesti teatrali. Nei due anni in cui è stato segretario del partito comunista di Mosca (cioè sindaco) gli piaceva improvvisare incursioni nei negozi per scoprire di persona le magagne del mercato nero.

Una volta, nell'87, si mette in fila davanti a una macelleria e, arrivato al banco, ordina un chilo di vitello. «Non c'è», gli risponde stancamente il commesso. Allora Boris, sicuro del contrario, piomba in magazzino e blocca le fettine di vitello che stavano uscendo dal retro verso le dacie della nomenklatura.

Memorabile anche il suo abbandono pubblico del partito comunista in pieno congresso, l'anno scorso: ha attraversato l'immensa sala da solo, a passo lento, in mezzo a un silenzio glaciale e imbarazzato. «Beh», brontolò Gorbaciov, seccatissimo per la figuraccia in diretta tv davanti all'intera Unione Sovietica, «adesso possiamo continuare i lavori». E mezza Russia cambiò canale.

Anche il capo dei radicali russi, come quello italiano, si lamenta sempre per l'ostracismo dei giornalisti. In particolare nei primi mesi di quest'anno, quando i giornali ancora controllati dal partito comunista (quasi tutti, in barba alla glasnost) lo hanno bersagliato con una campagna diffamatoria.

Ma i russi, dopo settant'anni di «disinformazia», sanno leggere fra le righe: chi è attaccato dalla Pravda si guadagna automaticamente la reputazione di brav'uomo. Risultato: alle elezioni del 12 giugno 1991 Eltsin è diventato il primo presidente democraticamente eletto nella storia della Russia, con quasi il 60 per cento dei voti.

Come Leoluca Orlando, anche Corvo bianco (questo il suo soprannome) ha un ciuffo ribelle che gli casca sulla fronte. E pure lui è un ex sindaco estraneo all'apparato: quando fu nominato viveva solo da pochi mesi a Mosca, dove lo ha chiamato da Sverdlovsk Gorbaciov nell'85.

Anche lui è stato cacciato perché pestava i piedi dei potenti, ha abbandonato il suo partito (come Orlando la Dc) ed è stato rieletto trionfalmente dalla città che aveva cercato di ripulire: 89 per cento dei voti come deputato di Mosca nel marzo '89.

«Ho lottato contro la mafia, ma non sono riuscito a colpire i suoi collegamenti con la politica»: frase pronunciata da Eltsin, ma che a Palermo suona familiare. Nei suoi comizi Eltsin suda, ci mette foga e convinzione. Poca sostanza e nessuna concretezza, accusano all'unisono i critici di Boris e Leoluca. Tre parole magiche nella loro bocca: «Democrazia, libertà, pulizia».

Andiamo avanti con i paragoni. Come Ronald Reagan, Eltsin sbadiglia quando i suoi consulenti lo tediano con briefing sull'economia. «Però», si difende lui, «in un anno a Mosca sono riuscito a portare in tribunale 860 apparatchik accusati di corruzione: non è conreta economia, questa?»

Gorbaciov si lesse da cima a fondo le 400 pagine del piano Shatalin che l'anno scorso doveva riformare l'economia sovietica in 500 giorni. Ne discusse per sette ore con l'autore. Alla fine lo buttò nel cestino perché non piaceva ai conservatori. Eltsin invece ammette di non avere studiato il mattone. Però nella sua Russia il piano di liberalizzazione lo sta applicando.

Nei rapporti con le donne, Eltsin è paragonabile a John Kennedy: un mandrillo. Però più romantico: come tutti i russi, sommerge con innumerevoli mazzi di fiori le sue predilette. E poi è anche cardiopatico, ha 60 anni, non può permettersi grandi performances.

Naturalmente in pubblico giura eterno e fedele amore alla moglie Maia che gli ha dato due figlie. E che ha un grosso pregio, per un politico russo: è brutta. Molto più brutta di Raissa Gorbaciova, soprannominata con fastidio «la zarina» dalle invidiose matrone russe.

Per la sua capacità di risorgere sempre dopo sconfitte che avrebbero distrutto un toro, il paragone casereccio lo si può fare con Giulio Andreotti. Alla fine dell'87 fu cacciato non solo dalla poltrona di sindaco di Mosca, ma perse anche la sedia del Politburo. Fu allora che lo soprannominarono «kamikaze della perestroika».

Subì perfino l'umiliazione di vedere pubblicato sulla Pravda il resoconto dell'allucinante processo che gli fecero Gorbaciov e i gerarchi comunisti, in perfetto stile stalinista. Con tanto di autocritica estorta: «Sì è vero, mi ha rovinato l'ambizione».

Gorbaciov gliene ha fatte passare di tutti i colori. Adesso Eltsin si vendica. Ogni giorno lo bacchetta sulle dita, come prima Gorby faceva con lui. «In qualsiasi altro Paese del mondo Eltsin sarebbe da anni al governo. Ma l'Urss è un Paese particolare», ha scritto il Financial Times.

Eppure l'Ovest lo ha sempre snobbato. C'è un signore, in particolare, che adesso dovrebbe nascondersi per la vergogna. Si chiama Jean-Pierre Cot, francese, vicepresidente del parlamento europeo. Pochi mesi fa, quando Eltsin era già leader indiscusso della Russia, gli impedì di parlare di fronte all'Europarlamento. Lo trattò come un mendicante e un ubriacone.

Si dice che Eltsin non è amato dall'intellighenzia perché è un populista. Storie. Fior di intellettuali hanno abbandonato da mesi Gorbaciov per diventare suoi consiglieri: l'economista Oleg Bogomolov, la sociologa Tatiana Zaslavskaia e l'esperto di affari esteri Georgi Arbatov, tutti gorbacioviani schifati dagli alleati trogloditi che Gorby si era scelto.

«Il comunismo? Sì, in Unione sovietica c'è. Però funziona solo per venti persone: i membri del Politburo, quelli con la villa», ha scritto Eltsin nella sua autobiografia (Confessioni sul tema, tradotto in Italia dall'editore Leonardo).

«Quando mi hanno fatto entrare per la prima volta nella mia dacia a Mosca, nell'85, mi sono perso. Avevamo tre camerieri, tre cuochi, un giardiniere». L'ingegnere edile alto 1 e 88 calato dagli Urali ora si dovrà abituare a governare l'Urss (o almeno la Russia) tirandola fuori dal caos.

Mauro Suttora

Friday, January 18, 1991

Il Friuli per il federalismo

IL CONSIGLIO REGIONALE CONDANNA A MORTE LO STATO CENTRALISTA


“Federalismo”, è la parola d’ordine del presidente Adriano Biasutti. Un neoleghista? Macché. Vuole solo affettare l’Italia, per servirla con contorno di Verdi. Ma non a Bossi


dal nostro inviato a Udine Mauro Suttora


Europeo, 18 gennaio 1991


Ottimo, il prosciutto crudo di Sauris. Delizioso quanto quello di San Daniele, l’altro rinomato affettato friulano. Non per nulla Adriano Biasutti, presidente dc del Friuli-Venezia Giulia, si è rifugiato proprio nella sua casa di montagna in questo paesino della Carnia dopo le polemiche sulla sua ultima clamorosa presa di posizione. Che, sintetizzata e tradotta dal politichese, si può riassumere in: “Facciamo a fette la penisola”. Per affettare meglio la Lega lombarda, spera sotto sotto l’intelligente Biasutti.


Non sono solo manovre di salumeria. Perla prima volta nella storia d’Italia il 19 dicembre 1990 una regione ha chiesto solennemente la sepoltura dello Stato centralista dopo 130 anni di vita. Passando, ovviamente, anche per la liquidazione della Prima repubblica. “L’Italia deve diventare uno Stato federale”, proclama la mozione approvata dal consiglio regionale friulano, con il sì di Biasutti. 

Non è certo una secessione come quella appena decisa dai vicini del Friuli, gli sloveni, contro la loro capitale Belgrado. Ma, se la parola “federalismo” ha un senso, è comunque un’intera regione che passa dalla parte di Umberto Bossi.


Lo spumante natalizio ha messo un po’ il silenziatore a questa rivolta contro Roma dell’estrema “marca nordorientale”. Ma il fuoco cova sotto la cenere. E l’incendio si sta spostando dalla Lombardia, dove ormai un terzo degli elettori è con la Lega, a tutto il Nordest. 

Ecco cosa dichiara il presidente della giunta veneta Franco Cremonese, dc: “Aumenta la domanda di autonomia… Il centralismo è sempre più insufficiente, povero di idee, incapace”. E Umberto Carraro, psi, presidente del consiglio regionale veneto, propone di eliminare ministeri come la Pubblica istruzione e l’Agricoltura, trasferendone le competenze alle regioni. 

(...) 

Friday, November 03, 1989

Suttora e De Corato assolti

Corriere della Sera, 21 settembre 1993

Non diffamo' Properzj, assolto il missino De Corato

Si e' conclusa dopo quattro anni di denunce una guerra a colpi di carta bollata tra due esponenti politici milanesi. L' ottava sezione del tribunale ha infatti assolto dall' accusa di diffamazione a mezzo stampa il consigliere comunale del Msi Riccardo De Corato. L' esponente missino era stato querelato dall' ex presidente della Provincia, il repubblicano Giacomo Properzj, arrestato e poi rilasciato nell' ambito dell' inchiesta milanese sulle tangenti.

L' allora numero uno di Palazzo Isimbardi si era ritenuto diffamato dal contenuto di un' intervista rilasciata da De Corato e pubblicata sull' Europeo del 3 novembre 1989. Nel servizio il capogruppo missino aveva accusato Properzj di coprire con artifici contabili i buchi del bilancio dell' amministrazione provinciale, che . secondo la sua tesi . sarebbe quindi stato truccato. Nella causa erano coinvolti anche l' autore del servizio, Mauro Suttora, e l' allora direttore del settimanale, Lanfranco Vaccari, che avevano sottoscritto la remissione di querela.

De Corato aveva voluto il processo e ieri e' stato assolto perche' il fatto non costituisce reato. Il pubblico ministero, Gemma Gualdi, aveva chiesto la condanna di De Corato a un milione di multa. Il tribunale ha accolto le conclusioni dei difensori Ignazio La Russa e Adriano Bazzoni.

Friday, October 06, 1989

Il centro sociale di Friburgo

Europeo 06 ottobre 1989

Marco di fabbrica

Alternative sociali: i successi economici degli autonomi di Friburgo

Nel ' 78 hanno occupato un edificio industriale. Ma , diversamente dai " ragazzi del Leoncavallo " , prima l' hanno rimesso a posto e poi hanno finito per comprarlo

di Mauro Suttora

Friburgo (Germania Ovest)
Il piu' bel centro sociale d' Europa sta nella citta' tedesca piu' vicina all' Italia : Friburgo , Habsburgerstrasse 9 . Mentre a Milano le autorita' vanno in tilt di fronte al problema del centro Leoncavallo (riquadro nella pagina seguente) , in questa citta' di 300 mila abitanti fra la Foresta Nera e il Reno va avanti da undici anni un esperimento felice di autogestione .

La " Fabrik " e' un edificio di mattoni a tre piani che da' su un cortile interno : una ex fabbrica tessile in periferia occupata nel ' 78 , dopo qualche anno di abbandono , da un gruppo di giovani dell' extrasinistra . E lo stesso periodo di nascita del Leoncavallo , e in Germania Ovest l' atmosfera politica e' simile a quella italiana : da noi le Br , li' la Raf ; in Italia , nel ' 77 , l' esplosione di autonomi e indiani metropolitani , in Germania i " suicidi " di Stammheim . Ma gli " autonomen " dei circoli giovanili tedeschi sono gia' ben lanciati sull' ecologia (le liste verdi nascono in Germania nel ' 79 , sei anni prima che in Italia) , cosicche' l' attivita' principale degli occupanti della Fabrik e' la lotta contro le centrali nucleari di Wyhl e , poco piu' in la' oltre il confine , di Fessenheim in Francia .

Falce , martello e stella rossa presto scompaiono dai muri , rimpiazzati dal sole ridente giallorosso con il noto slogan tradotto in ogni lingua : " Atomkraft ? Nein , danke " (Energia nucleare ? No , grazie) . Nell' 81 , inoltre , con l' arrivo dei missili atomici americani Cruise e Pershing in Germania , si sviluppa anche a Friburgo un forte movimento pacifista , la cui onda lunga non si e' ancor oggi esaurita : gli obiettori di coscienza tedeschi contro il servizio militare sono ben 60 mila all' anno , contro 7 mila in Italia .

Una grande differenza fra i giovani alternativi tedeschi e quelli di casa nostra e' la laboriosita' : la voglia di costruire in concreto , qui e subito , almeno un pezzo di " societa' alternativa " , senza aspettare improbabili rivoluzioni proletarie . Cosi' , mentre all' inizio degli anni Ottanta in Italia molti centri sociali si degradano e cadono a pezzi sotto i colpi piu' che della polizia dell' incuria degli stessi occupanti (anche il Leoncavallo prima dello sgombero di Ferragosto non era sfuggito a questo destino) , la Fabrik di Friburgo viene lentamente rimessa in sesto da abilissimi falegnami e muratori .

Stanza dopo stanza , sala dopo sala , i silenziosi freak tedeschi dai capelli lunghi (il pelo fluente non e ' mai passato di moda da queste parti) restaurano i tre piani dell' ex fabbrica , dentro la quale una decina di loro si stabilisce a tempo pieno , vivendo in una comune (senza pero' grandi scambi sessuali : il massimo della promiscuita' viene raggiunto con il frigorifero collettivo , dove peraltro i piu' individualisti piazzano ciascuno la propria scatola di burro privato , alla faccia di comunismo e anarchia) .

I rapporti con il proprietario del palazzo non sono cattivi : il collettivo d' occupazione si mette d' accordo per pagargli un affitto , che pero' restera' sempre molto basso in cambio delle migliorie effettuate dagli inquilini . Non tutti gli " hausbesetzers " , gli occupanti di case tedeschi , sono cosi' socievoli : a Berlino , Francoforte , Amburgo (e anche a Friburgo , nell' 82 e nell' 87) scoppiano spesso violenti incidenti fra squatter e polizia . Battaglie a colpi di idranti , e a volte ci scappa anche il morto .
Ma gli alternativi della Fabrik friburghese , cosi' come i loro compagni dei centri sociali Ufa Fabrik o Mehringhof a Berlino , Werkhof ad Amburgo e Gewerberhof a Karlsruhe , hanno ormai impiantato molte attivita' economiche nei locali occupati , e ci tengono a stabilizzarsi .

La Fabrik e' oggi un sorprendente microcosmo di socialismo egualitario nel cuore di una delle regioni piu' ricche d' Europa : " Qui dentro lavorano una settantina di persone " , spiega Hans Schmid , 34 anni , uno dei fondatori del centro sociale , " e il nostro stipendio medio e' di 1400 marchi al mese , uguale per tutti " . Non e' un gran vivere , un milione di lire al mese in Germania , dove un operaio della Mercedes puo' guadagnarne quattro . Ma a questi giovani spartani e francescani , che vanno in giro in bici o autostop , va bene .

" Cerchiamo ogni anno di bilanciare le entrate delle attivita' piu' redditizie con quelle che incassano meno " , dice Hans . Molto bene va la falegnameria , impiantata dietro al palazzo , in un capannone a due piani : e' ormai una piccola impresa avviata . Poi , in cantina , ci sono la tipografia e l' officina per la riparazione delle biciclette , che prendono lavoro da tutta Friburgo . Al piano rialzato c' e' l' asilo , per 18 bambini dai tre ai sei anni : ogni madre , a turno , viene una volta ogni tre settimane a preparare il pranzo per tutti .

Il resto dell' edificio , a parte una grande sala per assemblee , feste e spettacoli e i servizi in comune , ospita laboratori per attivita' artigianali di ogni tipo : grafica , serigrafia , ceramica , elettronica . Poi ci sono gli uffici : la redazione del giornale " di movimento " locale dove stanno anche i corrispondenti del Tageszeitung (il Manifesto tedesco) e di Liberation , la federazione di tutti i giardini d' infanzia della citta' , l' ufficio per la solidarieta' al Nicaragua (con gran traffico di materiali , medicine e volontari in partenza per Wiwili , la citta' nicaraguense gemellata con Friburgo) , il club motocicilistico , quello ciclistico , il collettivo antinucleare , la sede degli antimilitaristi , quella degli ecologisti che si battono contro la morte delle foreste , il complesso jazz , le femministe , il forum socialista , Robin Wood (una specie di Greenpeace piu' radicale) , il collettivo contro la criminalizzazione , la lista " per la pace " filocomunista , e quant' altro .

Ogni stanza con la sua moquette o il parquet , il telefono privato con il numero interno diretto , la porta chiusa a chiave o aperta , a seconda degli orari di lavoro indicati con pignoleria in un grande tabellone all' ingresso . Al terzo piano , una porta bianca con su scritto " Wohnung " , appartamento : ci vivono quattro persone . Al primo piano l' ufficio di Hans , col computer per la contabilita' di tutte le cooperative , e una possente cassaforte .

Ma il colpo grosso quelli della Fabrik lo hanno messo a segno nell' 84 : quando , per sventare una speculazione simile a quella che oggi a Milano rischia il Leoncavallo , si sono comprati l' intero edificio . Ci sono riusciti organizzando una maxicolletta di solidarieta' in tutta la regione . Hanno risposto circa 600 persone , che hanno prestato in media un milione e mezzo di lire a testa . Cosi' e' stato raccolto quasi un miliardo di lire . " Un buon affare " , commenta Hans , " adesso questi tremila metri quadri valgono molto di piu " . E gli ex occupanti , diventati padroni , lavorano per rimborsare al tasso del 3 per cento annuo i prestiti dei loro benefattori .

Due anni fa un altro progetto d' avanguardia : un impianto di riscaldamento per tutto lo stabile con riutilizzo del calore e risparmio di energia . Costo : centomila marchi , 70 milioni di lire . " Il Comune ci aveva promesso un contributo di 30 mila marchi , poi ce ne ha dati solo 10 mila " , si lamenta Hans .
Il sindaco socialdemocratico Rolf Boehme (i verdi hanno il 20 per cento a Friburgo , ma stanno all' opposizione) si e' pero' rifatto vivo l' anno scorso con un regalino da 50 milioni di lire : ha coperto il 10 per cento delle spese per aprire , accanto al centro sociale , un bar ristorante gestito dalla Fabrik . Dove naturalmente si sorseggia esclusivamente caffe' importato dal Nicaragua , e dove gli autonomi di Friburgo festeggiano ogni sera , tracannando birra assieme ai molti studenti universitari del quartiere , la propria autonomia realmente conquistata.

Mauro Suttora

Friday, September 22, 1989

Bnl e traffico d'armi

ALLE ARMI!

Europeo 22 settembre 1989

inchiesta: " il malaffare "

La BNL e il conflitto Teheran Bagdad

di Mauro Suttora

Non e' la prima volta che la Banca nazionale del lavoro fa da " sponda sporca " per traffici internazionali di armi verso Iran e Irak . Due anni fa la banca romana e' rimasta coinvolta nell' affare Tirrena Valsella . Anche allora , come oggi con l' Fbi statunitense , la verita' ci e' arrivata dall' estero : dalle dogane di Stoccolma , che avevano scoperto la violazione dell' embargo contro Iran e Irak da parte dell' industria svedese Bofors .

La Bofors , assieme a un consorzio europeo di produttori di munizioni (Snpe in Francia , Nobel in Gran Bretagna , Prb in Belgio , Muiden in Olanda) , fino al 1985 ha esportato illegalmente , attraverso triangolazioni con l' Italia , migliaia di tonnellate di mine e munizioni per alimentare la guerra del Golfo scoppiata nell' 80 . L' Italia era l' unico paese europeo le cui leggi permettevano di inviare armi e materiale bellico a paesi in guerra : l' embargo contro Iran e Irak fu dichiarato dal nostro governo solo nel 1984 .

Cosi' , per tutta la prima meta' degli anni ' 80 , l' Italia e' stata il miglior terminale europeo per i rifornimenti di armi ai paesi del Golfo : " Fino all' 85 almeno il vostro paese e' stato la ' ' sponda sporca ' ' di tutte le esportazioni belliche che avrebbero dovuto essere bloccate dagli embarghi nel resto d' Europa " , ha dichiarato all' " Europeo " il professor Aaron Karp della Columbia University di New York , uno dei massimi esperti mondiali del commercio d' armi .

Insomma , le industrie belliche europee facevano finta di esportare in Italia , ma la destinazione finale dei triangoli erano Iran e Irak . Il nostro governo era perfettamente a conoscenza di questo poco onorevole ruolo dell' Italia . L' unica sua preoccupazione era di bilanciare le forniture d' armi ai due contendenti per non favorire l' uno o l' altro . Per il resto , tutto era formalmente in regola , almeno fino all' embargo dell' 84 : le licenze d' esportazione venivano rilasciate senza troppi problemi dall' apposito comitato interministeriale (quello che adesso e' stato incriminato dal giudice veneziano Felice Casson , assieme ai vertici di Bnl e Banca commerciale , per le vendite all' Iran della francese Luchaire attraverso le societa' italiane Sea e Consar) .

Ai soldi non si comanda : in quegli anni , grazie alla sanguinosa guerra Iran Irak , le nostre industrie belliche riescono a superare la Gran Bretagna , e cosi' l' Italia si piazza al quarto posto al mondo fra gli esportatori di armi , avendo davanti solo Usa , Urss e Francia .
Oggi siamo ridiscesi al decimo posto in questa brutta classifica , ma manca sempre la legge di controllo sul commercio bellico promessa da dieci anni e mai approvata , un po' per la lentezza del Parlamento e un po' per le pressioni degli industriali delle armi (ma in Italia la maggior parte dell' industria bellica e' pubblica) .

C' e' anche un documento sequestrato dalle dogane svedesi : e' la garanzia che la Bnl diede per la vendita , da parte della Bofors e attraverso la societa' romana Tirrena , di una colossale partita di munizioni all' Iran : 5 . 300 tonnellate . Ma , come si e' detto , se si dimentica la provenienza di quel materiale (la Svezia e altri paesi che non potevano esportare armi in Iran e Irak) , le licenze di export della Tirrena erano , per la legge italiana , formalmente in regola . Anzi , ecco cosa precisa un manager della Bofors in un verbale sequestrato : " Il dottor Amadasi (proprietario della Tirrena , deceduto nell' 88 , ndr) ha parlato personalmente con il ministro degli Esteri questa settimana (la prima del maggio ' 84 , ndr) , e lui gli ha promesso che prolungheranno la licenza " .

Il ministro in questione era Giulio Andreotti , amico di Amadasi fin dagli anni ' 40 . L' ammontare dei " performance bonds " (garanzie per l' esecuzione del contratto) versati dalla Bnl per conto di Tirrena e Bofors all' Iran era di circa 1 , 2 miliardi di lire . La Tirrena per quell' intermediazione pago' 13 miliardi a Bofors e agli altri produttori europei . Ma si tratto' di un affare d' oro , perche' il prezzo di vendita all' Iran era di 75 miliardi : 315 milioni di corone svedesi .

Teheran pagava cosi' tanto perche' a causa degli embarghi in quel momento critico della guerra era molto difficile per l' Iran acquistare materiale bellico sui mercati internazionali . E quelle 5 . 300 tonnellate di munizioni per i suoi obici da 155 millimetri erano vitali : rappresentavano piu' di un anno del consumo nella carneficina in corso fra le paludi di Bassora .

Va da se' che all' interno degli enormi utili netti realizzati in quegli anni dalle nostre aziende belliche , grazie alla compiacenza di banche e governo , ci fosse ampio spazio per tangenti (o " compensi di intermediazione " , come vengono pudicamente chiamati) che poi tornavano in Italia .

Questo e' il caso , ad esempio , del tuttora irrisolto affare delle undici navi all' Irak , ordinate nell' 80 e ancora ferme a La Spezia . Una commissione d' inchiesta parlamentare , su indicazione del radicale Roberto Cicciomessere , e' riuscita a risalire al misterioso personaggio che nell' 82 intasco' 10 milioni di dollari di tangente sul conto numero P4 632 . 376 . 0 della Swiss Bank , sede di Zurigo : Rocco Basilico , ex presidente della Fincantieri , l' azienda pubblica che costrui' le navi .

La Bnl , naturalmente , non si limito' a garantire solo quel contratto da 75 miliardi della Tirrena nell' 84 . In quegli anni solo la Tirrena fece affari per altri 175 miliardi con Teheran , con almeno altri cinque contratti . Ed e' probabile che la Bnl o la Comit , altra banca pubblica abbia fornito la sua assistenza anche per l' export bellico verso il Golfo di Valsella , Otomelara , Snia , Agusta , Breda , Misar , Beretta , Selenia , Franchi e di altre industrie italiane .

Peraltro , anche il tanto strombazzato embargo fu poco piu' di una barzelletta : con la scusa che bisognava comunque rispettare i contratti gia' in corso , molte licenze di esportazione sono state prorogate fino all' 87 , cioe' quasi fino alla fine della guerra Iran Irak . E questo , per esempio , il caso della Oerlikon , l' industria bellica elvetica che in teoria non avrebbe potuto vendere nulla nei paesi in guerra , cosi' come stabilisce la legge della " pacifista " Svizzera . Ebbene , la Oerlikon non e' stata neanche costretta , come la Bofors , ad effettuare triangolazioni fuorilegge : ha esportato direttamente , fino all' ultimo , dal proprio stabilimento di via Scarsellini a Milano .

Mauro Suttora

Rimandati in Comunità

Europeo, 22/09/1989

Mercato unico. a che punto e l' attuazione delle norme

I migliori : Gran Bretagna e Danimarca . i peggiori : Spagna e Portogallo . e l' Italia ? in ritardo . ma pronta per la corsa finale , tutta in salita

di Mauro Suttora

Mancano 1 . 200 giorni . Fra tre anni , tre mesi e tre settimane , il primo gennaio 1993 , nascera' il mercato unico europeo . " Niente piu' frontiere fisiche , tecniche e fiscali fra i paesi membri della Cee " , aveva promesso il libro bianco della Commissione (il governo comunitario di Bruxelles) approvato nello storico vertice di Milano del giugno ' 85 , quello in cui Bettino Craxi riusci' a piegare le resistenze antieuropeiste di Margaret Thatcher . A quattro anni di distanza , giunta oltre la meta' del cammino pignolamente programmato nell' 85 (il libro bianco si addentrava in minutaglie , fino a stabilire per esempio che la misura sulla filiazione dei bovini sarebbe stata adottata nell' 86 , che entro l' 88 sarebbero scomparsi i controlli di polizia alle frontiere interne , che nel ' 90 i visti per l' estero sarebbero stati unificati e che nel ' 91 sarebbe stata la volta delle leggi sull' estradizione) , la Commissione presieduta dal francese Jacques Delors (socialista) ha tracciato un bilancio del cammino realmente percorso . E il bilancio non e' positivo .

Le direttive da adottare per arrivare al mercato unico sono 279 . Finora , pero' , i ministri dei Dodici hanno trovato un accordo solo su 68 di queste . E sono appena sette le direttive effettivamente diventate leggi in tutti e dodici i paesi membri . Lunedi' 18 settembre si riunira' a Bruxelles il Consiglio dei ministri incaricati di realizzare l' unificazione dei mercati . Ma il commissario della Comunita' per il mercato unico , il tedesco Martin Bangemann (liberale) , ha gia' stilato una pagella dei buoni e dei cattivi .

I pessimi sono Spagna e Portogallo , di gran lunga gli ultimi per il grado di applicazione delle leggi comunitarie nel proprio ordinamento interno . Ma per i due paesi iberici vale un' evidentissima circostanza attenuante : sono stati gli ultimi a entrare nella Cee , nell' 86 , ed e' quindi naturale che debba passare del tempo prima di una definitiva integrazione . Delors e Bangemann , pero' , tirano le orecchie anche ad altri quattro paesi " che hanno fatto registrare ritardi meno importanti ma altrettanto preoccupanti " : Grecia , Belgio , Irlanda e Italia .

Nel gruppo dei " buoni " , stranamente , con un alto numero di direttive adottate , si ritrovano invece i due paesi meno europeisti : Gran Bretagna e Danimarca . Quest' ultima , in particolare , ha gia' adottato un buon numero di direttive . La Danimarca e' pero' proprio in questi giorni nel mirino di Bruxelles per la scandalosa vicenda del ponte tunnel di 13 chilometri che colleghera' Copenaghen alla terraferma : il 22 settembre comincera' alla Corte europea di giustizia il processo intentato dalla commissione Cee contro il governo danese . Il gigantesco ponte tunnel , che costera' ben 3 . 400 miliardi di lire , e' stato infatti affidato a un consorzio che ha vinto la gara d' appalto impegnandosi esplicitamente a " usare manodopera e materiali danesi " . Una clausola protezionistica che fa a pugni col mercato libero del ' 93 , e quindi subito impugnata con successo da un consorzio avversario che fa capo al francese Bouygues .

Anche la Germania Ovest viene criticata da Bruxelles perche' e' indietro nelle misure sull' " Europa dei cittadini " , cioe' quelle sulla libera circolazione delle persone (la polizia tedesca e' molto occhiuta nei controlli ai confini) e sul riconoscimento dei titoli di studio comunitari (i tedeschi sono convinti che le lauree dei paesi mediterranei vengano piu' o meno regalate a degli ignorantoni ) . L' Olanda invece e' indietro nell' armonizzazione del proprio sistema fiscale . La Francia , al contrario , proprio la settimana scorsa ha completato una misura che favorira' la Renault rispetto ai costruttori di auto esteri : ha abbassato l' Iva sulle automobili e su tutti gli altri prodotti tassati al massimo (profumi , pellicce , attrezzature fotografiche , hi fi) dal 33 al 25 per cento . Il governo francese ci perdera' qualcosa come 600 miliardi di lire all ' anno , ma si avvicinera' cosi' alla media europea , in vista dell ' unificazione finale dell' Iva . Comunque , anche la Francia e' nell' elenco dei buoni .

Invece l' Italia e' decisamente " cattiva " , nonostante tutto il nostro entusiasmo europeista . " Si' , e' vero " , ammette Pierluigi Romita , ex Psdi , adesso Psi , neoministro delle Politiche comunitarie , " abbiamo un arretrato di circa 200 direttive europee da recepire , e siamo inadempienti su 130 di queste , per le quali sono gia' scaduti i termini " . Questo ritardo ha provocato fra l' altro un aumento , durante il 1988 , delle " infrazioni " sanzionate dalla Commissione europea a carico dell' Italia : su un totale di 307 nella Cee , il nostro paese ha ricevuto ben 107 " avvertimenti " , ovvero il doppio di qualsiasi altro Stato membro .

Anche qui , paradossalmente , i due paesi meno entusiasti verso l' Europa unita , Danimarca e Gran Bretagna , possono vantare il minor numero di infrazioni . Il ministro Romita promette pero' un cambio di marcia nei prossimi mesi : " Finora c' e' stata una mancanza di procedure e di competenze precise per il recepimento delle direttive Cee , e la nota lentezza del nostro Parlamento nel modificare le leggi interne . Ma finalmente e' entrata in vigore la cosiddetta ' ' legge comunitaria' ' varata da Antonio La Pergola , il mio predecessore : nella prossima primavera avremo cosi' un' apposita ' ' sessione comunitaria' ' , subito dopo quella di bilancio , durante la quale il Parlamento si concentrera' esclusivamente sull' approvazione delle direttive , e sulla loro trasformazione in leggi dello Stato " .

Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti si e' impegnato espressamente , nel suo discorso di insediamento , a dedicare almeno un Consigio dei ministri al mese esclusivamente alle questioni europee . " Spero che il primo avvenga entro settembre " , dice Romita . Ma , senza aspettare primavera , 60 direttive potrebbero essere adottate gia' nelle prossime settimane se venissero approvate tre leggi di delega al governo giacenti in Parlamento , e due ferme in Consiglio dei ministri : " La Camera non impegnata nell' esame della finanziaria e del bilancio in autunno potrebbe facilmente smaltirle " , auspica Romita .

Per la verita' , sono gli stessi auspici che formulava anche La Pergola un anno e mezzo fa , quando c' era un arretrato di 250 direttive . Dopodiche' , un centinaio sono state recepite . Ma poiche' il ritmo di emanazione di direttive da parte comunitaria e' aumentato in vista del ' 93 , il divario non e' stato colmato . " Un' altra novita' adesso " , promette Romita , " sono i maggiori poteri dati al ministro delle Politiche comunitarie , che coordinera' tutte le materie attinenti alle direttive Cee . E ci vorra' anche una nostra maggiore presenza a Bruxelles nella fase di definizione delle direttive , che spesso non rispecchiano gli interessi del nostro paese " .

Un argomento scottante sara' , nei prossimi mesi , quello della regolamentazione dell' accesso in Italia per gli immigrati africani . Oggi il nostro paese e' sotto accusa a Bruxelles perche' le nostre frontiere sono un colabrodo . E finche' l' Italia rappresentera' il " ventre molle " dell' Europa , difficilmente paesi molto piu' severi in fatto di immigrazione come Gran Bretagna e Germania Ovest saranno propensi ad aprire del tutto le loro frontiere comunitarie .

Insomma , e' probabile che un' Europa piu' aperta al proprio interno diventi piu' chiusa verso l' esterno . " Ma al di la' del recepimento delle direttive " , avverte il ministro Romita , " il vero distacco economico da colmare per far entrare l' Italia in Europa e' il risanamento della nostra finanza pubblica . Con i nostri deficit di bilancio sara' molto difficile arrivare preparati alla libera circolazione dei capitali " .

Mauro Suttora

Un suicidio sospetto

Europeo, 22/09/1989

dall' inchiesta: " il malaffare "

Storia di un suicidio dimenticato. Giuseppe Schiavo

di Mauro Suttora

Faceva molto caldo a Bagdad nel luglio ' 88 : quaranta gradi all' ombra . Solo di notte e all' alba un po' di fresco . Ma la citta' era in festa : era scoppiata la pace con l' Iran , dopo otto anni di guerra e un milione di morti . Facce tristi fra i businessmen occidentali trincerati nell' aria condizionata dell' hotel Rashid : i " buoni affari " dell' export bellico erano terminati , adesso anche loro dovevano riciclarsi e rassegnarsi alle meno remunerative commesse civili . Che comunque anche oggi sempre " civili " non sono : le attrezzature che l' Irak importa dall' Occidente (Italia compresa) per costruirsi bombe chimiche e atomiche vengono spacciate come " materiale per l' agricoltura e l' edilizia " , o come " componenti elettroniche " .

Cosi' , per esempio , nell' 83 la tedesca Messerschmitt , la francese Sagem e l' italiana Snia Bpd hanno aiutato il dittatore Saddam Hussein a realizzare il Condor 1 , razzo con 150 chilometri di gittata spacciato per un improbabile " missile meteorologico " (come se un paese in guerra si dilettasse con le previsioni del tempo) . Adesso invece e' la volta del Condor 2 , con portata sestuplicata , al quale hanno collaborato ex dipendenti della Snia . I profughi curdi hanno piu' volte accusato l' Italia (in particolare le aziende Sae , Gie Ansaldo e Montedison ) di aver contribuito all' edificazione di " fabbriche di fertilizzanti " dove in realta' vengono prodotti i gas per lo sterminio dei civili curdi .

E proprio dell' orrenda strage di Halabja , commessa dai soldati di Saddam Hussein nel marzo ' 88 contro un villaggio curdo , si parlo' in quei giorni a Bagdad durante una cena a cui parteciparono , fra gli altri , gli inviati speciali dei maggiori giornali italiani e l' addetto militare della nostra ambasciata in Irak , colonnello Giuseppe Schiavo . Il quale , oltre ad accusare i giornalisti italiani di essere filo iraniani , imbarazzo' i presenti sostenendo un' ardita tesi : " I civili curdi di Halabja sono morti perche' non dovevano trovarsi li' . Gli iraniani li hanno fatti tornare apposta nel villaggio , che era gia ' stato ' ' bonificato' ' dagli irakeni qualche mese prima " .

A questo punto la conversazione si ghiaccio' , perche' non e' educato litigare quando si e' ospiti . Che strani addetti militari l' Italia manda in giro per il mondo , pensammo . E ripensammo al colonnello Schiavo quando due mesi dopo , nel settembre ' 88 , gli irakeni " bonificarono " di nuovo con i gas chimici il Kurdistan , facendo fuggire centomila profughi in Turchia .

Il colonnello Schiavo , intanto , era tornato in Italia . Nelle scorse settimane e' stato interrogato per un' inchiesta , con tutta probabilita' sul traffico d' armi . Mercoledi' 6 settembre si e' suicidato con un colpo di pistola in testa nella sua casa di Torino . Perche' a soli 50 anni gli si era abbassata la vista , sostengono i familiari , e nessuno ha messo in dubbio le loro dichiarazioni . Ma e' credibile che l' impossibilita' di pilotare un aereo abbia spinto Schiavo al suicidio ?

Mauro Suttora

Friday, September 15, 1989

Lodovico Ligato, una carriera democristiana

Europeo, 15/09/1989

DC , soldi e famiglia

Gli inizi come cronista " dimezzato " e il passaggio al parlamentino regionale . Il grande salto verso la capitale , il successo , le incriminazioni , l' abbandono . Ecco la storia dell' ex presidente delle Ferrovie assassinato : ascesa e caduta di un politico degli anni Ottanta

di Mauro Suttora
Calati iuncu , ca la fiumara passa " . Proverbio calabro : giunco , stattene giu' finche' passano i guai . Aspetta . Lodovico Ligato non ha saputo aspettare . L' ex presidente delle Ferrovie assassinato a Reggio Calabria la notte del 26 agosto era troppo abituato a essere un " numero uno " per potere aspettare . E poi , aspettava gia' da un anno : da quel tristissimo 4 settembre del 1988 , quando i suoi guai erano cominciati e aveva dovuto lasciare la guida dell' " industria " piu' importante d' Italia ( " Piu' della Fiat " , diceva orgoglioso) .

Non sta bene parlar male dei morti . Ma la storia di " Vico " Ligato , nel bene e nel male , e' una storia esemplare . E la vicenda di una persona che ha fatto politica in Italia negli anni ' 80 . Che ha conquistato il potere dopo averlo cercato per vent' anni , e che lo ha perso in poche settimane dopo averlo gustato per pochi anni .

Storie calabresi ? " Non diciamo fesserie " , protesta Antonio La Tella , giornalista reggino amico di Ligato , " non riduciamo tutto a una questione di ' ndrangheta locale in cui Vico sarebbe rimasto impigliato . Da dieci anni lui stava a Roma . Era uno degli uomini piu' potenti d' Italia . Io sono democristiano da una vita , ho 60 anni . Ma la Dc di oggi che scarica Ligato e' irriconoscibile . E i molti che gli erano amici adesso sono solo dei grandi ipocriti " .

L' ascesa , il fulgore e il declino di Ligato , quindi , sono vicende politiche non confinabili alla Calabria o al Sud . " Cercate a Roma ! " , urla da due settimane Eugenia Mammana , la vedova . Ma anche piu' a Nord : non per niente uno dei tre scandali ferroviari che avevano gia' fatto secco Vico un anno fa , molto prima delle trenta pallottole di Bocale , e' targato Codemi . E Codemi e' l' anagramma di De Mico , l' imprenditore milanese che per un grattacielo costruito a Milano e non a Reggio Calabria ha inchiodato Ligato nel marzo ' 88 .

Ma , piu' in generale , e' tipicamente italiana e non solo meridionale o democristiana l' intera carriera politica di Ligato . Perche' anche nell' " onesto " Friuli , o in Piemonte , o in Toscana , prima di arrivare a Roma bisogna diventare potenti assessori , distribuire favori , incassare tangenti , manovrare , fare politica di professione , abbandonare il contatto con la vita reale . E stringere mani sporche .

Vico comincia a fare politica negli anni ' 60 . Prima regola : trovarsi un padrino . Rispettata : il protettore dell' aitante figlio di ferroviere che piace alle ragazze (soprannome : " Stallone d' oro " ) e' Nello Vincelli , eterno sottosegretario dc reggino , senatore fino all' 83 . Quello che , si scopre oggi , aveva come segretario particolare un signore , Enzo Cafari , condannato a tre anni per favoreggiamento di un boss della ' ndrangheta , e il cui studio romano era frequentato da Giuseppe Piromalli e Saverio Mammoliti.

Vincelli e' tuttora sulla breccia : azionista e consigliere d' amministrazione della Gazzetta del Sud , il quotidiano calabro (60mila copie) . Vico e' un precursore : capisce che politica in Italia si fa anche sui giornali , e si fa assumere . Subito come " numero uno " : a 23 anni , nel ' 62 , si siede direttamente sulla poltrona di caporedattore di Reggio . Si e' appena laureato in legge a Palermo , facolta' piu' lontana e piu' " facile " di Messina . Ma come giornalista e' bravo : stile secco , frasi chiare . Firma solo gli articoli che vanno in prima pagina .

Eccone uno del 4 luglio 1963 : " Ercole Versace , possidente reggino , e' sfuggito ai rapitori ( . . . ) . L' Aspromonte e' tutta una caserma da due giorni . Ore di ansia non solo per i tre banditi di Carmelia e Delianova , ma per tutti i latitanti di quelle contrade . Quando finira' l' impressione del momento , l' organizzazione allentera' le sue maglie . Tornera' la tranquillita' sulle montagne . Ma non per coloro che , come Versace , debbano viaggiare con denaro o abbiano campi e boschi " .

I problemi della Calabria sono quelli della poverta' . E poi la ' ndrangheta che cresce , esce dalle campagne e si organizza managerialmente . " Summit " di Montalto del ' 69 , i 72 mafiosi convegnisti arrestati si difendono : " Andavamo a raccogliere funghi " . Da quelle parti viene sorpresa anche la Mercedes di Riccardo Misasi , incontrastato " califfo " dc calabro , deputato dal ' 58 , 100 mila preferenze a ogni elezione .

Il giornalismo di Ligato , pero' , verso il ' 68 diventa un po' troppo " dimezzato " . Il direttore Nino Calarco lo accusa di usare il giornale per le sue battaglie personali e di corrente dc , e gli mette sopra un nuovo caporedattore : Aldo Sgroi . Vico resiste qualche mese , poi si dimette e si candida alle elezioni regionali del ' 70 .

Nascono in quell' anno le tanto sospirate autonomie locali , immensi poteri vengono trasferiti alle regioni . In teoria , e' il decentramento di Carlo Cattaneo . Nella pratica , e' il trionfo definitivo della burocrazia e del clientelismo locale , agevolati dalla vicinanza fisica e alleggeriti da onerosi viaggi a Roma .

Ligato e' il tipico prodotto del nuovo ente regione : intuisce subito che ormai un assessore regionale varra' piu' di un sottosegretario , un sindaco di capoluogo piu' di un ministro , un presidente di commissione piu' di un semplice deputato a Roma . All ' inizio subisce una piccola batosta : risulta l' ultimo degli eletti a Reggio con 13 mila voti . Ma la rivolta dei " Boia chi molla " gli fa spiccare il volo : tre consiglieri regionali dc reggini appoggiano la rivolta popolare contro il trasferimento del capoluogo a Catanzaro e vengono espulsi dal partito .

Lui invece rimane fedele alla linea nazionale e viene ricompensato con l' assessorato agli Enti locali . Assessore a soli 31 anni : di nuovo numero uno . Assieme all' amico Franco Quattrone nel ' 73 organizza la rivolta dei " giovani turchi " dc reggini contro Vincelli : passa dai fanfaniani ad Andreotti e , sotto lo slogan " Rinnovamento " , si impadronisce del partito . Alle amministrative del ' 75 lui e' capolista in Regione , Quattrone al Comune . Rispettata in pieno la regola per la quale i politici italiani si autoselezionano nelle faide interne di partito , e non nel governo concreto dei problemi .

A Vico resta comunque il tempo per tessere rapporti e alleanze con tutti i sindaci di Calabria , che devono passare necessariamente attraverso il suo assessorato strategico . Il successo cosi' e' garantito : 29 mila voti di preferenza . Dal ' 75 al ' 79 e' lui il politico piu' potente della Calabria : non Misasi , non Mancini . Vico e' un superassessore , assomma nella sua persona tre deleghe importantissime : Enti locali , Trasporti , Bilancio . La sua figura cresce , anche perche' mentre i presidenti di giunta cambiano a cadenza quasi annuale lui e' inaffondabile , e gira instancabilmente la Calabria dispensando favori , sorrisi e pacche sulle spalle . A Reggio e' lui , con piglio tracotante , a decidere i nomi di sindaco e assessori .

Nel ' 76 fa eleggere deputato l' amico Quattrone . Nel ' 78 molla Andreotti e fonda , assieme a Misasi , l' area Zac (la sinistra) calabra . Misasi gravita su De Mita , lui su Bodrato . Un ' alleanza a due dettata non dall' amore , ma dalla necessita' di coalizzarsi per far fuori Carmelo Puija , astro nascente dc di Catanzaro . Negli anni ' 80 , invece , per far fuori Ligato si alleano Misasi e Puija .

Naturalmente negli anni ' 70 Vico e' coinvolto fino al collo nella questione Gioia Tauro : l' industrializzazione mai avvenuta della provincia di Reggio Calabria che ha fatto sperperare migliaia di miliardi di soldi pubblici . Suoi grandi amici sono il cavaliere Giovanni Cali' , presidente dell' Asi (Area sviluppo industriale) , nonche' Raffaele Ursini , l ' avvocato di Roccella Jonica alla guida della Liquichimica , altro buco nero per le finanze statali (250 miliardi di allora per 800 posti di lavoro) .

Nel ' 79 , il punto piu' alto della parabola di Vico : 87 mila preferenze in Calabria per l' elezione a deputato , un record per un debuttante . Supera addirittura Misasi nelle preferenze , poi si mettono d' accordo per far risultare che il " califfo " ha avuto 700 voti in piu' . Ma da quel momento , inesorabilmente , Vico comincia a commettere errori . Uno dopo d' altro . La benzina accumulata da assessore negli anni ' 70 gli permettera' di essere rieletto nell' 83 (seppure con 24 mila voti in meno , facendosi superare anche dall' odiato Puija , e guardando col cannocchiale le 108mila preferenze di Misasi) , e anche di agguantare la presidenza delle Ferrovie due anni dopo . Ma la strada ormai e' in discesa . Perche' ?

" Vico , abituato a essere il numero uno , sperava che appena arrivato in Parlamento , sull' onda del trionfo del ' 79 , gli venisse offerto un sottosegretariato " , ricorda Nino Calarco , tuttora direttore della Gazzetta del Sud . E invece niente : anche perche' di regola i parlamentari dc di prima nomina non possono entrare nel governo . Rimasto peone a Roma , frustrato , nell' 80 Vico commette l' errore classico : taglia le gambe a tutti i suoi possibili concorrenti a Reggio . Vico non sopporta che qualche altro democristiano di Reggio gli possa fare ombra , e cosi' uccide i pulcini . Anche perche' non vuole che qualcuno compia ai suoi danni la scalata che lui stesso era riuscito a fare contro Misasi .

Ministro o sottosegretario Ligato non riesce a diventarlo neanche dopo l' 83 . Nei governi Craxi non c' e' posto per lui . Tramonta cosi' il sogno mai avverato di Reggio Calabria nel dopoguerra : avere un ministro . Vico si consola facendo il segretario della Commissione Trasporti della Camera e il relatore della legge di riforma delle Ferrovie .

Nell' 85 Misasi e De Mita lo mettono a capo del nuovo ente Ferrovie . Gli fanno balenare grandi traguardi , il programma di ammodernamento da 60mila miliardi , il ponte sullo stretto . Ma la realta' , ancora una volta , e' assai piu' misera : Misasi vuole far posto in Parlamento al primo dei non eletti , Mario Lagana' di Locri , per rinforzare gli equilibri del proprio feudo . In cambio , Lagana' molla la corrente di Emilio Colombo e si fa demitiano .

Alle politiche dell' 87 la corrente di Ligato non riesce a piazzare neanche un candidato , e si sfalda . Allora Vico scende a Reggio e per vendicarsi fa campagna elettorale , lui reggino , per due democristiani di Cosenza : Vito Napoli e Rosario Chiriano . Un " tradimento " che a Reggio non gli perdonano : quest' anno per le comunali , di maggio , i ligatiani sono esclusi dalla lista . Formalmente , perche' colpiti da comunicazione giudiziaria (come Pino Gentile , suo commensale all' ultima cena) . Ma da queste parti le comunicazioni giudiziarie si sprecano.

Le disavventure giudiziarie che in pochi mesi hanno costretto Ligato a dimettersi anche da presidente delle Ferrovie sono tre : oltre a quella delle tangenti De Mico , le bustarelle dell' avellinese Elio Graziano ( " Cinquanta milioni non bastano neanche per una scopata " , gli rispose sprezzante Michele Ligato , 27 anni , figlio di Vico , studente fuoricorso di economia e commercio) e l' incriminazione per le carte di credito aziendali .

Ma qui , e nella spudorata mossa di voler continuare a trafficare con ben 27 societa ' create negli ultimi mesi , salta fuori un altro difetto tipico dei politici italiani : i figli . Ligato junior e' piu' arrogante del padre . Anche gli amici piu' intimi di Vico , quelli che giurano se non sulla sua onesta' , almeno sulla zoppicante tesi della trappola ( " Ligato e' rimasto vittima della guerra di Craxi alla ' ' sinistra ferroviaria' ' di Claudio Signorile " , e' il ritornello di tutti i capi dc di Reggio Calabria , per i quali evidentemente i giudici sarebbero solo attrezzi nelle mani del segretario psi) , di fronte al ruolo crescente del figlio rimangono allibiti .

Si' , ammettono , a Vico negli ultimi anni e' piaciuto arricchirsi . Ville , attici e superattici per miliardi in Calabria , a Ischia , a Roma . Voci su partecipazioni in alberghi in Kenya e in villaggi turistici . Ma che il figlio avesse su di lui un tale ascendente da costringerlo perfino a rompere , quattro mesi fa , con il suo avvocato Nino Marazzita , nessuno lo sapeva . Forse , in mezzo alla tempesta , il giunco non sapeva bene dove ripararsi . Forse aveva trovato rifugio nelle smanie affaristiche del primogenito . Faccendieri della ' ndrangheta , commesse ferroviarie , i mille miliardi di appalti per Reggio Calabria : Vico aveva instradato il figlio sul suo stesso binario . Ma forse la locomotiva non era piu' lui .

Mauro Suttora
(Ha collaborato Filippo Pratico)