Wednesday, November 10, 2004

Tristi per la vittoria di Bush

DISPERAZIONE A HOLLYWOOD

di Mauro Suttora

10 novembre 2004

MICHAEL MOORE
Il regista 50enne premiato con l’Oscar nel 2003 per il documentario Bowling for Columbine, e con la Palma d’oro a Cannes quest’anno per il film anti-Bush Fahrenheit 9/11, mastica amaro. La sua propaganda cinematografica e i 63 comizi che ha tenuto in un mese non hanno avuto effetto sull’elettorato.
A Moore resta la consolazione pecuniaria: Fahrenheit 9/11 è distribuito da un mese in cassette e dvd negli Stati Uniti, e vende benissimo. Sul suo sito internet Moore ha pubblicato una nuova cartina dell’America con le zone pro-Kerry annesse al Canada e quelle pro-Bush, soprannominate «Jesusland».

BARBRA STREISAND
La cantante e attrice 62enne è stata la più impegnata contro Bush. Già dal 2001 ha incitato i democratici a «cacciare l’impostore» dalla Casa Bianca, e fino all’ultimo si è impegnata allo spasimo, anche mettendo mano al portafogli: ha finanziato i democratici con vari milioni di dollari.
Ma tutto questo attivismo, che ricorda quello del personaggio da lei interpretato in Com’eravamo con Robert Redford, è risultato inutile. Anche per lei, però, una consolazione: a dicembre esce il film Meet the Fockers (Ti presento gli stronzi), in cui fa la madre di Ben Stiller, la moglie di Dustin Hoffman e la consuocera di Robert de Niro e di Blythe Danner (mamma di Gwyneth Paltrow) nel seguito di Ti presento i miei.

REM
Il concerto del 4 novembre al Madison Square Garden di New York avrebbe dovuto essere una festa per la vittoria del democratico John Kerry. Invece ha vinto George Bush, e per i Rem è stata una serata tristissima. «Oggi è un giorno molto strano», ha ammesso il cantante e leader 45enne del complesso, Michael Stipe.
I Rem si erano impegnati molto nella campagna presidenziale: tutta la loro tournée di ottobre è stata dedicata a convincere i fans al voto contro Bush. Resta la musica, bella come sempre per questa band in attività da ben 23 anni, e ancora considerata fra le migliori del mondo assieme a U2 e Coldplay.

CAMERON DIAZ
La bella attrice 32enne era addirittura scoppiata a piangere durante un’apparizione tv nel talk show pomeridiano di Oprah Winfrey (il più seguito d’America), quando ha supplicato i giovani ad andare a votare: «Se volete che lo stupro diventi legale, non andateci», ha detto, dando così a intendere che Bush sia favorevole a legalizzare lo stupro.
La fidanzata del cantante Justin Timberlake (di nove anni più giovane) è riuscita a convincere i 18-24enni statunitensi a votare, e secondo le speranze i giovani si sono espressi per Kerry 54 a 46. Ma tutto ciò non è bastato per battere Bush.

BRUCE SPRINGSTEEN
Ha organizzato una mobilitazione di cantanti senza precedenti per un candidato presidenziale: 37 concerti in 30 città a favore di Kerry. «L’America non ha sempre ragione», aveva detto il «Boss» 55enne, «questa è una favola per bambini, però l’America è sempre vera, ed è cercando questa verità che troviamo un patriottismo più profondo».
Ha convinto molti a suonare con lui, dai Pearl Jam a Jackson Browne, da James Taylor alle Dixie Chicks. Ma non è riuscito a convincere il 51 per cento degli elettori che ha confermato Bush.

WHOOPI GOLDBERG
La simpatica attrice 49enne ha pagato di persona (e caro) il suo gioco di parole lo scorso luglio al Radio City Music Hall di New York, dove aveva fatto raccogliere sette milioni di dollari per i democratici durante un gala con Paul Newman, Meryl Streep, Jessica Lange e Jon Bon Jovi. Aveva preso in giro il cognome del presidente, associando «Bush» («cespuglio») a una zona intima del corpo. Subito la società Slim-Fast, con sede in Florida (stato governato da Jeb Bush, fratello di George), le ha tolto un contratto pubblicitario miliardario.

Barbara Bacci e Dominique Green

Un'italiana in Texas nel braccio della morte per dire addio a Dominique Green

Lei gli aveva scritto una cartolina. Lui aveva risposto chiedendole aiuto. Da allora Barbara Bacci è diventata la sua migliore amica. E ha voluto stargli vicino. Fino all'ultimo istante

dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 10 novembre 2004

"Hanno sdraiato e legato Dominique con le mani e i piedi a un letto a forma di croce. Le braccia erano aperte, il corpo tutto coperto. Perfino le mani gli hanno nascosto con un panno, per non far vedere gli spasimi della morte. Solo la parte di un braccio era libera, con le vene dove gli avrebbero iniettato il veleno.

All'interno della stanza c'era un microfono, per far sentire a noi testimoni le sue ultime parole e i rantoli della morte. Lo Stato del Texas prevede che venga resa pubblica perfino la registrazione con la trascrizione di queste frasi. Dominique però parlava con grande difficoltà, per lui era terribile perché non voleva morire.

Era confuso, si sforzava di non piangere, aveva poco fiato. Per noi era molto difficile capire le sue parole. Nessuno riusciva a comprenderne il significato. Gli hanno praticato una prima iniezione, che lo ha reso insensibile. Poi quella con il veleno, che gli ha paralizzato poco a poco il cuore e i polmoni.

Per fortuna la sua agonia è durata soltanto pochi minuti, è morto in fretta. Abbiamo assistito a tre rantoli, poi nella stanzetta è entrato un dottore che ha constatato la morte. Un cappellano gli ha toccato un piede. È stata una scena di una bassezza umana incredibile".

Barbara Bacci, 42 anni, una signora di Cuneo che da anni vive e lavora a Roma come traduttrice, racconta la morte del suo amico Dominique Green. Un ragazzo trentenne di colore giustiziato alle otto di sera di martedì 26 ottobre alla periferia di Houston.

Houston, la città del Texas diventata famosa negli anni Sessanta perché ospita la Nasa, e nei collegamenti da lì i giornalisti di tutto il mondo raccontavano emozionati lo sbarco sulla Luna. Il Texas è lo Stato americano che uccide di più: 18 condannati a morte quest'anno e 331 dal 1977, quando gli Stati Uniti ripristinarono la pena capitale. Più di un terzo del totale, quindi, che è 938. Quest'anno l'America ha giustiziato 53 persone. L'unica notizia positiva è che il numero si è ridotto della metà rispetto a tre anni fa.

Barbara Bacci, sposata con Luis Moriones, spagnolo e traduttore a Roma anche lui, ha conosciuto Dominique per caso dieci anni fa, quando lesse una sua lettera disperata sul quotidiano italiano La Stampa.

Nel 1991 Green era stato arrestato con l'accusa di aver ucciso un uomo nel drugstore di una stazione di servizio, alle cinque del mattino: "Era l'appello di un ragazzo imprigionato nel braccio della morte che cercava qualcuno con cui corrispondere", ricorda Barbara, "e noi rispondemmo con una semplice cartolina, senza pensarci troppo, spinti dalla pietà.

Lui replicò subito con una lettera lunghissima in cui ci raccontava la storia della sua vita. Era nato a Houston, il padre era sempre stato assente dalla sua vita e probabilmente faceva uso di droga. Lo ha visto per l'ultima volta al momento della condanna a morte nel '92. Cinque anni fa abbiamo assoldato un investigatore per trovarlo, promise che sarebbe andato a trovarlo in carcere, ma non lo ha mai fatto. Gli ha solo scritto".

E la madre? "Alcolizzata, drogata, con problemi mentali gravissimi, una personalità multipla al limite della schizofrenia. Dominique non voleva vederla, l'ultima volta che lei andò a trovarlo in carcere fu un anno e mezzo fa. Ma ogni volta che s'incontravano c'erano problemi, cosicché lui la tolse dalla lista delle persone che potevano visitarlo. Al processo aveva pronunciato parole terribili contro di lui, al momento dell'arresto disse addirittura ai poliziotti: "Fate bene a toglierlo dalla circolazione".

In effetti la vita del ragazzo aveva preso una brutta piega. Completamente sbandato, a 18 anni era stato già arrestato per droga e aveva scontato due anni in riformatorio. Naturalmente frequentava cattive compagnie. Come quella di due ragazzi di colore e un bianco che scorrazzavano in auto facendo rapine. Cose di poco conto, bottini da venti dollari, ma alla fine c'è scappato il morto.

Il ragazzo bianco non s'è fatto neppure un giorno di galera, gli altri due hanno accusato lui all'unisono. Green nega di aver sparato, ma non sa chi può essere stato e quindi non fa nomi. Una perizia balistica sul pistolone che sparò, ritrovato nella macchina, non trova impronte di Dominique.

"Nel dicembre '94 dovevo andare negli Stati Uniti", racconta Barbara Bacci, "e quindi ne approfittai per raggiungere anche Houston e vedere in faccia il mio nuovo "amico di lettera". Trovai una persona intelligente, interessante, sensibile. Allora era ottimista, pensava che con un altro avvocato avrebbe potuto risolvere le cose. Ma per me fu una visita scioccante, perché fino ad allora non mi ero resa bene conto di cosa vuol dire essere condannati alla pena di morte: vivere per anni e anni dentro a un carcere in completo isolamento, aspettando di essere uccisi".

Fra la donna italiana e il ragazzo americano nasce l'amicizia. Lui negli Stati Uniti aveva pochi appoggi: soprattutto David Atwood, direttore del Comitato per l'abolizione della pena di morte nel Texas.

"Ma la triste verità è che anche in una città abbastanza grande come Houston", spiega la signora Bacci, "quando c'è un'esecuzione si trovano soltanto pochissime persone disposte a protestare di fronte al carcere: sette, otto, al massimo dieci. Tanto che ad assistere alla fine di Dominique eravamo solo in cinque: due avvocati, Atwood, io e una signora newyorkese, Lorna Kelly, che Dominique aveva conosciuto di recente".

Insomma, anche se del caso Green si sono interessati in Spagna, Francia, Svezia e Germania, l'unica grossa solidarietà è arrivata dall'Italia, con una cinquantina di milioni raccolti per pagare gli avvocati.

E l'animatrice a volte solitaria del comitato per la liberazione di Dominique è stata Barbara Bacci, che è andata in Texas due, tre, anche quattro volte all'anno per dieci anni: "Gli unici appoggi", rivela, "li ho avuti dalla comunità di Sant'Egidio e dalla organizzazione radicale contro la pena di morte Nessuno tocchi Caino, il cui segretario, Sergio D'Elia, è venuto una volta a trovare Dominique".

Ma Green era colpevole o innocente? "Noi siamo contro la pena capitale in ogni caso", risponde la signora Bacci, "ma in questa vicenda particolare sono convinta che Dominique non sia stato quello che ha sparato".

E proprio poche ore prima dell'esecuzione della sentenza, un giudice, con il classico colpo di scena dei film americani, aveva chiesto la riapertura del caso per controllare 280 scatole di documenti riguardanti la vicenda, rinvenute al commissariato.

Niente da fare. Anche questa volta il governatore del Texas si è dimostrato irremovibile. Così come peraltro lo era il suo predecessore George Bush junior, poi diventato presidente. E pensare che nel caso di Green perfino i parenti della vittima, la moglie Bernadette Luckett Lastrapes e i due figli, hanno firmato un appello per la grazia.

"Per me è stato naturale fare quello che ho fatto in questi dieci anni", conclude la signora Bacci, "e purtroppo non è finita qui. Perché io a Houston vengo ospitata nella casa di un altro condannato a morte, Anthony Fuentes, che dovrebbe essere giustiziato fra tre settimane. Era il migliore amico di Dominique, dormiva nella cella attigua e assieme a lui giocava a pallacanestro in cortile: ma solo in due, numero massimo consentito. C'era un terzo loro amico. È stato ammazzato tre settimane fa. Queste sono cose inumane, e spero che il nostro impegno per salvare Dominique sia servito a qualcosa".
Mauro Suttora

Saturday, October 09, 2004

Zalmay Khalilzad

Se per la prima volta in 5 mila anni Kabul elegge il presidente, molto del merito va all'afghano d'America

di Mauro Suttora

Il Foglio, sabato 9 ottobre 2004

New York. Nel 1968 un afghano diciassettenne
sbarcò negli Stati Uniti con una
borsa di studio Afs (American Field Service).
Frequentò l’ultimo anno di high
school, giocò a pallacanestro, s’innamorò
dell’America, ma poi dovette tornare a Kabul
a finire il liceo. Zalmay Khalilzad però
era così fissato con gli Usa e il basket che
riuscì a convincere i genitori a iscriverlo a
un’università a stelle e strisce. Unico compromesso:
quella più vicina a casa. L’American
University di Beirut, quindi.

Intanto gli era cresciuta la barba, Nixon gli
era antipatico, contestava. Ma studiava,
era bravo, e quindi eccolo sbarcare all’università
di Chicago: dottorato in scienze
politiche. Basta basket, e amicizia con
Paul Wolfowitz fresco di Ph.D. Ma quando
nel ’79 ci arriva lui, al Ph.D., i sovietici invadono
l’Afghanistan. Così Zalmay agguanta
un posto di assistant professor alla
Columbia e rimane negli Usa. Diventa un
esperto prezioso per l’Amministrazione
Reagan, che negli anni 80 arma la resistenza
anticomunista dei mujaheddin.

Consulente del dipartimento di Stato, fonda
il Centro per gli studi mediorientali alla
Rand Corporation e diventa vicesegretario
alla Difesa nel ’91, quando Dick Cheney
è capo del Pentagono. Durante una cena
ufficiale del dicembre ’97, a Houston,
Khalilzad litiga con il ministro della Cultura
talebano. Spinto da sua moglie, la
scrittrice femminista austriaca Cheryl Benard,
gli contesta il carcere per le donne
senza burqa. Quello si mette a citare il Corano,
Zalmad alza la voce e cambia idea:
coi talebani non si può trattare, bisogna
combatterli. Peccato che Michael Moore,
che ha inserito nel suo “Fahrenheit 9/11”
immagini di quella delegazione afghana
invitata in Texas dalla Unocal per il progetto
di un oleodotto, non abbia filmato
anche lo storico alterco.

Intanto Khalilzad, insieme a Cheney, Rumsfeld, Fukuyama,
Forbes, Kagan, Podhoretz, Armitage, Bolton,
Kristol, Perle, Woolsey e tanti altri, firma
gli appelli del Pnac (Project for the
New American Century) per la promozione
delle libertà politiche nel mondo e il ripristino
della leadership militare degli
Stati Uniti. Con la vittoria di Bush torna al
Pentagono da consulente, e dopo l’11 settembre
2001 passa all’azione. Coordina la
parte politica della campagna d’Afghanistan,
poi si occupa anche un po’ d’Iraq, ma
alla fine si concentra su Kabul come plenipotenziario
presidenziale. Un anno fa
viene nominato ambasciatore. E oggi può
festeggiare: per la prima volta in cinquemila
anni, come scrive lui stesso in un editoriale
sul Wall Street Journal, i suoi compatrioti
eleggono direttamente il loro capo dello Stato.

“Su dieci miglia ne abbiamo percorse tre”

Raggiungiamo Khalilzad in videoconferenza
da New York. E’ ottimista, ma guardingo:
“Ci vorranno come minimo altri
cinque anni di nostra presenza qui per ricostruire
la nazione e lo stato di diritto.
Forse anche di più: direi che su un cammino
di dieci miglia ne abbiamo percorse
tre”. Il che vuol dire sette anni.

Non vuole fare propaganda, ammette: “I signori
della guerra, i potentati locali, l’oppio, il
controllo del territorio non completo: tutto
vero. Ma questa è una battaglia che
dobbiamo vincere, e resteremo qui tutto il
tempo che occorre per vincerla. I nostri
nemici non s’illudano. Tre milioni di profughi
sono tornati, altre centinaia di migliaia
parteciperanno alle elezioni, se ne
sono registrati 700 mila solo in Pakistan.
La stragrande maggioranza della gente è
felice della nostra presenza qui, sperano
in un futuro di tranquillità e prosperità
dopo un quarto di secolo di disastri. Questa
volta non li abbandoneremo. Non ripeteremo
l’errore della metà degli anni
90, quando ce ne andammo e lasciammo
che nel vuoto di potere s’installassero gli estremisti”.

Gli oppositori di Bush lo definiscono
vicerè e proconsole, dicono che
il presidente Hamid Karzai non conta, è
una sua marionetta, e che è lui il vero capo
dell’Afghanistan. “Saranno i dieci milioni
di afghani che si sono registrati e
che voteranno liberamente a scegliere il
loro presidente. Certo, in Afghanistan c’è
ancora bisogno dei soldati della Nato e
degli Stati Uniti per mantenere la pace.
Ma le cose migliorano. Capisco anche i nostri
nemici, capisco che ci vogliano attaccare
sanguinosamente in questo periodo,
perché se riusciamo a far funzionare le
cose qui sarà un fatto rivoluzionario per
tutta l’area dal Marocco al Pakistan. Avremo
ancora giorni difficilissimi davanti a
noi. Ma ce la faremo”.

Mauro Suttora

Friday, September 17, 2004

parla Martin Scorsese

intervista al regista nella sede dell'Actors' Guild

di Mauro Suttora

New York, 17 settembre 2004

“Devo tutto al cinema italiano, da De Sica a Rossellini a Fellini, da Bertolucci al Pasolini di Accattone. I miei nonni arrivarono negli Usa nel 1910, ma a casa mia tutti continuavano a vedere i film italiani negli anni Quaranta e Cinquanta [i film negli Usa non sono doppiati, hanno i sottotitoli, ndr], e il vostro cinema ha continuato a essere fortissimo fino agli anni Settanta, anche Ottanta. Gli italiani, assieme ai francesi, hanno reinventato il cinema in quel periodo”.

Le organizzazioni degli italiani d’America protestano spesso contro la nom ea di mafiosi che continua a rimanere appiccicata loro addosso, dai Soprano a De Niro a Steven Spielberg, produttore del nuovo cartone animato Shark Tale in cui tutti i pesci cattivi parlano con l’accento italiano. Che ne pensa?

“Ai miei familiari italiani piaceva la satira anche contro se stessi, che è sempre stata una caratteristica dei film italiani. La capivano e la apprezzavano. I film di Pietro Germi e certi personaggi interpretati da Marcello Mastroianni erano veramente tremendi nei confronti dell’Italia contemporanea. 
Quanto a me, a volte è la realtà a imitare la fantasia: sono rimasto stupefatto quando ho saputo che Brusca, il mafioso pentito che fece arrestare l’allora capo dei capi, Totò Riina, dichiarò che il loro mondo, il loro tremendo livello di violenza era proprio come nei Goodfellas, il mio film del 1990”.

Cosa manca al cinema italiano di oggi per ripetere i fasti di quello del passato?

“I film non nascono dal nulla: sono il prodotto della situazione sociale, politica ed economica di una nazione. Ogni società crea il proprio cinema. Il neorealismo nacque dalla devastazione provocata dalla Seconda guerra mondiale. L’Italia si era unita da meno di cent’anni, l’industrializzazione è avvenuta soltanto negli anni Cinquanta... 
Da allora molte microculture sono sparite: ho visto un bellissimo documentario di Vittorio De Seta, Banditi ad Orgosolo, ho seguito le polemiche di Pasolini contro il consumismo, conosco abbastanza bene l’Italia. In una scena della versione originale di Mean Streets, quella lunga due ore e mezzo inserita nei nuovi dvd, Robert De Niro improvvisa una scena con Harvey Keitel e sembra proprio di essere a Elizabeth Street, nel cuore di Little Italy a New York. 
Ma oggi non vivo in Italia, quindi non so rispondere a questa domanda. Bertolucci una volta mi ha detto che i giovani registi hanno sempre paura di misurarsi con la grandezza dei vecchi. 
Ma io e i miei amici, John Cassavetes, Brian De Palma, bruciavamo dalla voglia di raccontare le storie che avevamo in mente quando eravamo giovani, negli anni Sessanta. 
Certo è che non auguro all’Italia un’altra catastrofe come la Seconda guerra mondiale affinchè ne possa scaturire di nuovo del grande cinema.
Un altro mini-documentario di De Seta descrive la Pasqua dei contadini di Lipari, le loro tradizioni. Se tutto ciò sparisce, perdiamo qualcosa di noi, della nostra cultura”.

Come sarà The Aviator, il suo prossimo film che uscirà a Natale, due anni dopo The Gangs of New York?

The Aviator è un film su Hollywood: Leonardo DiCaprio recita la parte di Howard Hughes, il leggendario miliardario eccentrico appassionato di aerei. A me non piace volare, quindi è proprio per questo che gli aerei mi affascinano. In quell’epoca gli aerei su cui volava Hughes erano impressionantemente fragili, come una sedia con due ali. Hughes era il fuorilegge di Hollywood. Nel film ci sono anche Kate Blanchett nel ruolo di Katharine Hepburn e Jude Law”.

Sta preparando anche un documentario su Bob Dylan?

“Sì, lo sto scrivendo, lo finiremo verso la metà del 2005. Descrive la carriera di Dylan, ma soltanto fino al 1966. Sarà un film sul cambiamento: la musica di Dylan si evolveva a una velocità tale che quando un suo disco veniva pubblicato lui era già da un’altra parte. Sarà un’opera molto interessante, spero, anche perchè abbiamo avuto accesso agli archivi personali di Dylan”.

Lei ha un rapporto molto stretto con la musica: nel 1969 è stato aiuto regista in Woodstock, nel 1978 ha filmato L’Ultimo Valzer sull’addio ai concerti della Band, il gruppo che accompagnava Dylan, e recentemente è stato coinvolto in una serie di documentari sulla storia del blues. Cosa pensa delle colonne sonore?

“Ovviamente la musica in un film è importantissima. Ma troppo spesso negli ultimi tempi noto che Hollywood usa le colonne sonore per spiegare, letteralmente, agli spettatori quali sentimenti devono provare mentre guardano una scena: ora è il momento di piangere, ora di commuoversi, ora di ridere... Un tempo la musica si limitava a suggerire”.
Mauro Suttora

Thursday, September 16, 2004

Berlusconi Goes on Holiday

Letter From Sardinia: Il Cavaliere Goes on Holiday

September 20, 2004

By Mauro Suttora
Newsweek International

Yes, under his leadership Italy's public debt has soared to 1.5 trillion euros, the third largest in the world. Yes, he controls six TV channels, monopolizing 90 percent of Italian television. And no, he hasn't solved his various conflicts of interest: he doesn't want to give up his media empire and sees no reason why as prime minister he shouldn't meddle on its behalf. But whatever you think about his politics, Silvio Berlusconi is fun.

Just last month I was enjoying a cocktail in a cafe in Porto Cervo, the tony resort in Sardinia where he also holidays. Suddenly the whole town square erupted in shouts. "Berlusconi! Blair! Here they come!" Everybody rushed to a corner of the piazzetta, where the Italian and British prime ministers were walking, loosely protected by a very few bodyguards in spite of all the terrorism alerts. Berlusconi had this incredible white bandanna wrapped around his balding pate, looking like a weird cross between Janis Joplin and Steven Van Zandt. The guy is 68, and though reportedly multilifted, his face definitely shows his age. Yet he was so happy and smiling that the crowd broke into spontaneous applause.

Spontaneity: exactly what his so-serious political adversaries lack. As it happened, another guy in a bandanna was visiting Porto Cervo that day: Johnny Depp, star of "Pirates of the Caribbean." He didn't meet Berlusconi and Blair, even though he was hanging out just steps away at the fashionable Nikki Beach club. (Bad sign, when Italians borrow names from St-Tropez.) Half of Italy regards Berlusconi as a modern pirate, doing his dirty business. But to me he's got the swashbuckling appeal of Depp. Or maybe James Bond. Cruising off the Costa Smeralda one day, I noticed an immense scaffolding rising from the water. A friend explained that it was a "secret" port, being cut into the cliff below Berlusconi's immense villa. The better for clandestine arrivals, I imagine. Or getaways.

Berlusconi's "bandanna mystery" was headline news, of course. Turns out that Il Cavaliere was shielding a new hair transplant from the sun, not to mention prying eyes. Italy under Silvio lifts your spirit. You think you're living a perpetual joke. And he loves to joke. I didn't overhear his conversation with Tony and Cherie, but I'm sure he was full of corny stories. No doubt after dinner he treated them to one of his Neapolitan love songs, which he writes for his beautiful wife, Veronica.

The ex-actress was the talk of the town some months ago, as all Italy gossiped about her alleged (and again "secret") love affair with a handsome leftist philosopher. My God, the enemy (a communist) in bed! How did jovial Berlusconi respond? During a press conference with the Danish prime minister, he chirped: "I'll introduce you to my wife, poor woman." So he defused the rumors.

Veronica has just published her autobiography, second only to the pope's on Italy's best-seller list. She denies everything, except that her man (Silvio) talks in his sleep. But Berlusconi, like Ben Stiller in "Meet the Parents," has a mother-in-law too. The lady spent a miserable summer, confined in a little apartment in Porto Rotondo, far from Berlusconi's numerous Sardinian villas. (One for himself, one for his brother, one for his mother, others for his children.) Generous and grandiose with his guests, the doting Mr. B "forgot" to include her in his swishy Sardinian summering. He really is one of us.

If any problem clouded his horizon apart from dodging his community-property taxes it was the way locals retaliated by not cleaning the water-treatment facility near his villa. It stank. The Blairs noticed. What a show!

© 2004 Newsweek, Inc.

Tuesday, August 31, 2004

Convention repubblicana

CONVENTION REPUBBLICANA

Oggi, agosto 2004

New York (Stati Uniti). «Combatteremo i terroristi su tutta la Terra. Non per orgoglio, non per potere, ma perchè è in gioco la vita dei nostri cittadini. Attacchiamo i terroristi all'estero per non doverli affrontare qui a casa nostra. Vogliamo far avanzare la libertà in Medio oriente perchè solo la libertà porterà un futuro di speranza, la pace che tutti vogliamo. E vinceremo. Niente ci fermerà».
Il presidente degli Stati Uniti George Bush junior non indietreggia di un millimetro. Afghanistan e Iraq restano in fiamme, i soldati americani uccisi sono ormai mille (neanche uno morì invece nella guerra in Kosovo), metà dei cittadini statunitensi non pensano che andare a Bagdad sia stata una buona idea, l’odio contro l’America è aumentato nel mondo. Ma lui, nel discorso di chiusura della Convention repubblicana in cui ha accettato la nomination, tiene duro: «I regimi assassini di Saddam Hussein e dei Talebani sono finiti, cinquanta milioni di persone sono state liberate, la democrazia sta arrivando in Medio oriente. Abbiamo guidato la coalizione, molti si sono uniti a noi, e oggi tutti siamo più sicuri».

Silvio Berlusconi è stato ringraziato solennemente da Bush, assieme all’inglese Tony Blair e agli altri leader dei Paesi con truppe in Iraq: «Non dimenticheremo che italiani, britannici, australiani, polacchi, olandesi e tanti altri alleati sono al nostro fianco».
Si è concluso così, in una pioggia di palloncini, coriandoli e stelle filanti, il congresso repubblicano. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Neanche Osama Bin Laden era riuscito a far scappare così tanta gente da New York. La settimana scorsa la città si è svuotata come mai a memoria d'uomo. I ricchi si sono rifugiati nelle loro villone agli Hamptons (quelle immortalate nel film Il Grande Gatsby con Robert Redford), i poveri hanno smesso di arrivare a Manhattan in metro per lavorare e sono rimasti nei loro ghetti di Harlem, Brooklyn, Bronx.

La «città che non dorme mai» è piena tutto l'anno, anche nell'insopportabile caldo-umido di agosto. Ma la paura suscitata dal congresso del partito del presidente l'ha lasciata in mano ai repubblicani e ai loro oppositori. Paura per attacchi di Al Qaeda, ma anche fastidio per il clima da occupazione militare che ha bloccato tante strade. Me ne sono accorto già la sera di venerdì 27 agosto, tre giorni prima che la Convention iniziasse. Camminavo nella Seconda Avenue, quando improvvisamente il traffico si è fermato. Migliaia di giovani ciclisti anti-Bush avevano invaso Manhattan. Poi in centinaia si sono fatti docilmente arrestare (per manifestazione non autorizzata) sotto un minaccioso elicottero che incombeva
con un faro tipo Apocalypse Now. Soltanto dopo due ore le auto hanno potuto
ripartire. Moltissimi ragazzi hanno dormito all'aria aperta nel parco della
chiesa Saint Mark. Ma è stata solo la prima di centinaia di manifestazioni,
grandi e piccole, che hanno punteggiato tutta la settimana. Alla fine gli
arresti (tutti senza violenza, con rilascio dopo poche ore) sono ammontati a
duemila.

Dall'altra parte della città invece le strade sono rimaste spettralmente
libere. Transenne ovunque, poliziotti in assetto di guerra, mitra in
evidenza. Il palasport Madison Square Garden, che noi italiani abbiamo
cominciato ad amare appena lo aprirono nel '68 perchè il pugile Nino
Benvenuti ci venne per battere Emile Griffith, era come una fortezza
assediata. Il rapporto fra personale di sicurezza e partecipanti (cinquemila
delegati da tutti gli Stati Uniti, diecimila giornalisti da tutto il mondo)
era di uno a uno. «Qualche volta penso che questo vecchio mondo/ sia come il
cortile di una grande prigione/ alcuni di noi sono prigionieri/ il resto
guardie», cantava Bob Dylan. Sono passati trent'anni, e ormai ci siamo.
Grazie Osama. Ma i delegati repubblicani, in maggioranza gente simpatica di
mezza età vestita chiassosamente, hanno sopportato stoicamente sia gli
sberleffi dei newyorkesi (che in otto su dieci sono democratici, anche se
poi eleggono sindaci repubblicani come Rudy Giuliani o l'attuale, il
miliardario Michael Bloomberg), sia le code per farsi perquisire prima di
entrare, più estenuanti di quelle degli aeroporti.

Sabato sera mi hanno invitato a un pre-Gala nelle nuove Torri gemelle della
Time Warner: un centro commerciale dove i ristoranti piu' famosi di New York
(Le Cirque di Sirio Maccioni, Patsy's - il preferito di Frank Sinatra - e il
nippobrasiliano Sushisamba) sfamavano ai loro banchetti migliaia di
giornalisti e delegati, presto ubriacati dall'alcol offerto gratis senza
limiti.

Domenica ho assistito per strada a un altro corteo contro Bush, poi in un
teatro di Broadway a una commedia satirica contro il suo rivale John Kerry e
la moglie Teresa Heinz (proprietaria dell'omonima multinazionale del
ketchup), infine sono andato a ritirare l'accredito per entrare al Madison
Square Garden. Lì, oltre alla tessera plasticata, mi hanno consegnato una
borsa-regalo per giornalisti che conteneva una scatola di Cheese Macaroni,
ovvero «pasta al formaggio» confezionata apposta dalla Kraft per il partito
repubblicano, un «podometro» per misurare i passi (dimagrire col footing è
l'attività più importante oggi negli Usa), schede telefoniche, caramelle
m&m, «Listerine» (strisce da succhiare per rinfrescare l'alito), una
macchina fotografica usa-e-getta e una guida turistica di New York.

I congressi politici negli Stati Uniti sono molto più divertenti di quelli
italiani. Perchè in realtà qui i partiti non esistono: ogni quattro anni,
prima delle elezioni presidenziali, si formano dei comitati elettorali in
ogni stato, i candidati vengono scelti con le primarie, e alla fine si
riuniscono le Convention, che sono più che altro fiere (o «extravaganzas»
come le chiamano in inglese) con un sacco di feste, riunioni, cene e regali.
Domenica sera sono andato alla festa delle figlie gemelle di Bush, le 22enni
neolaureate Jenna e Barbara, dove però non hanno fatto entrare i giornalisti
dopo averli invitati. Potevamo soltanto stazionare fuori dalla sala da ballo
Roseland sulla 52esima Strada, aspettando che le ragazze arrivassero sul
tappeto rosso e sperando che dicessero qualcosa. Dopo un po' me ne sono
andato, e non ho perso niente: le «first daughters» hanno solo sorriso ai
fotografi, mute.

Di giorno i delegati sono liberi di scorrazzare per la città da turisti (i
democratici lo hanno fatto a Boston un mese fa), perchè le sedute plenarie
hanno luogo soltanto dalle 19 alle 23, in coincidenza con la prima serata
Tv. E i discorsi importanti - non più di due ogni sera - vengono pronunciati
verso le dieci, per coprire tutti i fusi orari degli Stati Uniti (a
quell'ora sono le sette in California). La prima sera ha parlato Giuliani,
il sindaco italoamericano che ha ripulito New York dal crimine e che
vienedato come candidato presidenziale nel 2008, quando Bush anche se
vincerà non potrà più ricandidarsi. Ha fra l'altro accusato l'Italia di
essere stata debole con i terroristi nel 1985, quando lasciammo scappare il
capo dei dirottatori della nave Achille Lauro.

Martedì ho assistito al duetto semicomico delle gemelle Bush: «Nostra nonna
Barbara [moglie di George Bush senior, vice di Ronald Reagan e presidente
dall'88 al '92, ndr] pensa che Sex and the City [il serial Tv più famoso
d'America] sia qualcosa che fanno solo gli adulti, e di cui non si parla
mai...». Poi è salita sul palco la loro mamma Laura con i suoi bellissimi
occhi azzurri da gatta, e ha spiegato cosa significa essere «conservatori
compassionevoli», lo slogan del congresso. Ma quello che ha fatto esplodere
la platea è stato Arnold Schwarzenegger, l'attore eletto l'anno scorso
governatore della California: «L'America è un grande Paese, perchè permette
a uno come me che a vent'anni non sapeva ancora parlare inglese di arrivare
dove sono arrivato... Gli Stati Uniti sono sempre il sogno di tutti gli
immigranti del mondo... Non siamo imperialisti, perchè vogliamo esportare
solo democrazia, libertà e diritti umani».

Nel pomeriggio di martedì ho scoperto che la sempre bella Bo Derek, 47 anni
(l'attrice per cui Dudley Moore perse la testa nel film 10, ormai un quarto
di secolo fa), una dei pochi personaggi di Hollywood che appoggia Bush,
partecipava a una riunione in un club esclusivo all'ultimo piano di uno dei
più famosi grattacieli di Manhattan, il MetLife (l'ex Pan Am che taglia in
due Park Avenue). Un incontro molto particolare: di repubblicani pro-libertà
di aborto. Hanno partecipato anche Bloomberg, il governatore dello stato di
New York George Pataki, ed è abortista perfino l'ex presidente Gerald Ford.
Esistono pure loro nel grande partito presidenziale, che riesce a tenere
assieme proibizionisti e libertari sulla droga, fautori del pareggio di
bilancio e «spendaccioni», e che su una questione scottante come i matrimoni
gay vede in disaccordo addirittura il presidente Bush (il quale vuole
vietarli con legge costituzionale) e il suo vice Dick Cheney, disposto a
delegare a ciascuno dei 50 stati la decisione perchè ha una figlia lesbica.

L'unico tema su cui i repubblicani sono veramente uniti è la guerra in Iraq:
non esiste alcun pacifista al loro interno. Dopo la strage dell'11 settembre 2001 Bush ha aumentato gli stanziamenti militari da 300 a 500 miliardi di dollari annui: gli Stati Uniti spendono in armi più di tutti gli altri stati del mondo messi assieme.
Insomma, finchè si scherza si scherza. Questa Convention è stata una grande
fiera, ma alla fine si sceglie l'uomo più potente del mondo, che può
deciderne le sorti. Appuntamento fra sette settimane e mezzo, quando martedì
2 novembre gli statunitensi eleggeranno o il repubblicano Bush, o il
democratico Kerry.

Mauro Suttora

Sunday, May 09, 2004

Newsweek: My Big Date With Nicole

May 31, 2004

LETTER FROM NEW YORK; Pg. 11

By Mauro Suttora

article on Newsweek

"I had dinner with Nicole Kidman." Hmm... I hadn't known my friend Christian, an Italian journalist, was a celebrity hound. Like most New Yorkers, we make a point of ignoring such people. "Where?" I asked. "At the Mercer Kitchen." What did you talk about, I wanted to know. And how did a poor schmuck like Christian meet Nicole? Well, he explained, "we weren't at the same table. Just next to each other. But I was as close as possible."

Christian's boast came to mind when I received this e-mail from another friend, a casting agent: "Looking for protesters on Sunday. Movie: The Interpreter with Nicole Kidman and Sean Penn. Location: the United Nations. All ethnicities welcome. Pay: $75. Bring photo I.D."

Why not? It was my day off. I was curious. And for the rest of my life I'd be able to say I acted with Nicole Kidman. Besides, "The Interpreter" would be an international blockbuster. My mother in Italy would love it, and Christian would die of envy.

That Saturday night I could hardly sleep. Nicole! I rose before dawn, showered, shaved and headed out into the rainy darkness of my new career. Outside a rundown building on 44th Street, not far from the United Nations, a van was unloading doughnuts, and a queue of several hundred would-be extras wound out the front door. We were ushered into a huge room on the third floor, overlighted and full of grubby plastic chairs. Sadly, this was not going to be an intimate thing between Nicole and me. I spent the morning filling out forms.

Around midday, a chorus of less-than-courteous young men and women began shouting that it was time for "the talent" (meaning us) to get out on the set. It had stopped raining, so they herded us into Dag Hammarskjold Plaza. We were issued signs to wave around and told to demonstrate. Nearby, a little group of real demonstrators huddled in a tent, campaigning for a free Tibet. Tourists glared, furious that because of us they couldn't visit the United Nations. "You are the only ones who get TV coverage, huh?" one muttered, eyeing the microphones and the cameras focused on us instead of the soggy Tibetans. "Be professional," a fierce little assistant director barked. The problem was that Sean Penn had shown up, along with legendary director Sydney Pollack. In the movie Penn plays a secret agent, incognito in our midst. Right. Who wouldn't crane their necks to look at him?

After a couple of hours, we were ordered back to our holding pen, where we were again scolded--this time for jumping too enthusiastically on the buffet of turkey sandwiches. Extras may be artists, I learned, but it takes sharp elbows to get your share of free food. During the afternoon shoots, I was selected as a passerby who refuses the leaflets handed out by the protesters. I hope Pollack didn't notice; otherwise, my face will be edited out of close-ups of the demo itself. Either I protest, or I don't give a damn, but I shouldn't be permitted to switch sides so swiftly. I mean, this is not Italian politics--nor Italian B-movies of the '50s, in which Roman slaves could be seen wearing wristwatches.

At 7 p.m. we queued to get our pay. But instead of money we got another form to fill out: "No signature, no pay!" Two weeks later I received a check for $62, after federal, state and city taxes. I calculated that Nicole and Sean every day make 20 times more than all 600 extras combined. My pay amounted to $4 an hour. My maid makes $15. And I got only a glimpse of Nicole. Don't tell Christian.

© 2004 Newsweek

Wednesday, May 05, 2004

Niall Ferguson al Cfr

IMPERO AMERICANO

Il Foglio, mercoledi 5 maggio 2004

"Anglobalizzazione". Dr. Ferguson invita gli Stati Uniti a essere imperialisti (per il bene dell'"Anglobalizzazione", come la chiama il prof scozzese)

New York. "Anglobalizzazione", la chiama lo scozzese Niall Ferguson, 40 anni ma gia' professore a Oxford e alla New York University, nonche' senior fellow della Hoover Institution a Stanford (Palo Alto, California). Lui ne va entusiasta: "Al mondo farebbe bene un lungo periodo di semina delle istituzioni anglosassoni: gli Stati Uniti hanno la responsabilità di continuare l'opera civilizzatrice dell'impero britannico".
Ma i suoi interlocutori al Cfr (Council on Foreign Relations) di New York, dove presenta il suo ultimo libro ("Colossus: the Price of the American Empire") non ne sono convinti: "L'America non e' un impero coloniale, anche se ringraziamo Ferguson per le sue stimolanti provocazioni polticamente scorrette", lo liquida educatamente Alan Brinkley, rettore della Columbia University.

Eppure Ferguson, senza essere un neocon, possiede argomenti che lasciano il segno, e sfidano quel misto di ipocrisia, dissimulazione e falsita' che gli americani chiamano "denial": "Non potete negarlo, ormai anche commentatori di sinistra come Michael Ignatieff ammettono che il vostro e' un impero. La parola ha perso il suo connotato negativo. Ma certo, non e' detto che gli Stati Uniti vogliano essere all'altezza della sfida che viene loro lanciata: quella di raccogliere l'eredita dell'impero liberale britannico, durato tre secoli."

L'autore di libri scorrevoli come "La Prima guerra mondiale: il più grande errore della storia mondiale" (pubblicato in Italia da Corbaccio) e "Soldi e potere nel mondo moderno. 1700-2000" (Ponte alle Grazie) constata l'ovvio: "Mai prima d'ora, nella storia umana, una nazione si era trovata cosi' davanti alle altre in tutti i campi: politico, economico, culturale, militare. In politica estera gli Stati Uniti mirano esplicitamente a cambiare i regimi e a ricostruire nazioni. In economia il modello del libero mercato non ha alternative. La cultura pop americana, dal cinema alla musica, e' amata universalmente. E le vostre forze armate hanno una capacita' di dominio globale. Perche' non chiamarlo impero?"

Il pudore nel pronunciare questa parola, sostiene Ferguson, viene da lontano: da quando le tredici colonie ribelli dell'impero che oggi hanno sostituito s'imbarcarono nell'annessione di mezzo continente: "Gli americani si sono sempre considerati messaggeri di liberta'. E se oggi se ne vergognano, e' un brutto segno. Perche' se non esiste la consapevolezza di essere un potere imperiale, con tutti i suoi diritti e i suoi doveri, si resta vittima della cronica disattenzione per le cose del mondo che e' il maggior difetto della classe dirigente statunitense oggi".

Ferguson accusa gli americani di non impegnarsi abbastanza, in sostanza di non essere abbastanza imperialisti, di non possedere la mentalita' coloniale: "Contrariamente agli inglesi di uno e due secoli fa, pochissimi fra i vostri migliori laureati vogliono partire verso i Paesi in via di sviluppo per aiutarli a crescere. Oggi a Bagdad quasi nessun americano conosce l'arabo. Ne' fra i giovani universitari e' aumentato l'interesse verso l'Islam dopo l'11 settembre. Gli americani, quando invadono un Pese, dicono: 'Ce ne andremo il piu' presto possibile'. Invece sarebbe necessario l'esatto contrario: l'Inghilterra pianificava secoli di permanenza, e tutte le sue ex colonie oggi ne godono i frutti. Anche gli Stati Uniti, hanno ottenuto risultati solo nei luoghi dove sono rimasti a lungo: in Giappone sette anni, in Germania dieci, in Corea addirittura per combatterci un'altra guerra. E le truppe americane stazionano ancora in questi tre fortunati Paesi, dopo piu' di mezzo secolo. Viceversa, dov'e' stata adottata la tecnica del mordi e fuggi i risultati sono stati negativi: Libano, Liberia, Cambogia, Somalia. Haiti e' stata occupata dal 1915 al '34, poi di nuovo nel '94: un disastro. E cosi' nella Repubblica Dominicana, amministrata dal 1916 al '24. Per far attecchire concetti come stato di diritto, legalita', sistemi fiscali equi, dipendenti pubblici onesti, separazione dei poteri, liberta' di stampa e istituzioni forti che li proteggano, occorrono decenni, se non secoli. Democrazia non e' improvvisare un'elezione".

Un interlocutore nella platea del Cfr obietta che il mondo islamico non ha mai accettato colonizzazioni, e porta l'esempio delle rivolte algerina contro la Francia, libica contro l'Italia e irachena contro il governo filoinglese nel '58: "Ma l'Indonesia islamica e' stata amministrata per secoli dall'Olanda", risponde Ferguson, "e negli altri Paesi la trasformazione e' stata troppo superficiale per produrre benefici. Londra ha comunque influito sull'Iraq dal 1918 al '58: magari gli Stati Uniti durassero quarant'anni! Invece voi ragionate in termini di cicli elettorali: al massimo quattro anni. E questa e' la miglior ricetta per il disastro. Certo, anche gli imperi liberali commettono errori. La strage britannica di Amritsar in India contro i gandhiani, per esempio: 300 morti. Ma domandiamoci anche qual era la misura degli altri massacri in quegli stessi anni: i centomila morti della strage di Nanchino commessa dai giapponesi nel '37?".

Mauro Suttora

Saturday, April 24, 2004

Il neocon Kagan fa marcia indietro

Foglio, sabato 24 aprile 2004 - prima pagina

SAPER FARE LE ALLEANZE

Il Foglio, 24 aprile 2004

di Mauro Suttora

Ora il neocon Kagan dice che Rumsfeld se ne deve andare, e che Bush sa affrontare i nemici ma non gli amici

New York. Robert Kagan, 46 anni, autore del manifesto neocon "Paradiso e potere", ribadisce la sua richiesta: "Donald Rumsfeld se ne deve andare". Ma accanto al segretario della Difesa mette pure il segretario di Stato: "Dopo l'uscita del libro di Bob Woodward anche la posizione di Colin Powell è diventata insostenibile".

Gran folla l'altra sera alla Japan Society per un dibattito fra le due K più prestigiose nella politica estera americana: Kagan e il clintoniano Charles Kupchan, autore nel 2002 di "The End o f the American Era".

"È vero", ammette subito Kagan, "Bush non sta facendo un buon lavoro in Iraq. È stato bravo nell'affermare il diritto alla difesa preventiva, nel sollecitare la riforma del mondo arabo e nell'affrontare con realismo la questione palestinese. Ma non riesce a gestire bene il nuovo mondo unipolare, una situazione confusa e senza precedenti dai tempi dell'impero romano. Occorre coltivare le alleanze, anche con accordi e compromessi, perchè la questione della legittimità conta molto in politica estera: è importante ciò che il mondo pensa di noi, non possiamo ignorarlo.  Dobbiamo riconciliare il nostro potere con l'ordine internazionale, per riassicurare coloro che normalmente starebbero dalla nostra parte".

Parole di moderazione sorprendenti in bocca a un neocon, ma anche Kagan deve fare i conti con gli scricchiolii della Coalizione dei volenterosi: dopo la Spagna, anche la Polonia si è messa a borbottare. "Gli europei comunque non si illudano", avverte, "anche con un eventuale presidente Kerry non sarà automatico trovare un accordo. Ormai fra Europa e America c'è una grande divisione. E prima o poi ci ritroveremo davanti i problemi di Iran e Corea del Nord: rimandarli non significa risolverli. Chi oggi tanto invoca Onu e Consiglio di sicurezza sa bene che questi organismi non hanno mai funzionato. Insomma, si accusa l'amministrazione Bush di aver distrutto una trama di relazioni internazionali che in realtà non era stata mai tessuta, a cominciare dall'intervento in Kosovo non autorizzato dall'Onu".

"Il più grosso equivoco nel quale si cullano gli europei", dice Kagan, "è che la politica estera americana sia improvvisamente caduta in mano a un gruppetto di estremisti. In realtà il desiderio di cacciare Saddam è enormemente condiviso, è sempre esistito un consenso bipartisan su questo. E non c'è voluto l'11 settembre per convincerci. Andate a rileggervi i discorsi di Clinton dal '97 al '99: avrebbe potuto pronunciarli chiunque, nell'attuale amministrazione. E' inutile domandarsi chi scatena le guerre, perchè la risposta non è mai univoca. Chi provocò la guerra contro la Spagna del 1898, per esempio? Teddy Roosevelt, William Randolph Hearst? No, tutti gli Stati Uniti la volevano, non era solo l'isteria di qualcuno, e il presidente William McKinley era popolarissimo. Stesso discorso su Pearl Harbor o il Vietnam, che non fu certo un'avventura solitaria di Robert McNamara".

"Quella del Kosovo fu una guerra illegale ma legittima, questa in Iraq è legale ma illegittima", ribatte Kupchan, "e mi spiego: avrei voluto che l'asticella del livello di pericolo necessario per attaccare preventivamente l'Iraq fosse messa più in alto. La minaccia non era così imminente. Insomma, il concetto di guerra preventiva è giusto, ma è stato sbagliato inaugurarlo con l'Iraq, discreditandolo. Ci siamo bruciati le dita, e ora sarebbe molto più difficile attaccare, che so, la Corea del Nord. Gli Stati Uniti non sono più visti come la soluzione ma come il problema, perchè l'unipolarismo funziona solo se il polo unico è considerato legittimo. La nostra arma principale non sono le  portaerei o gli aerei F16, ma il prestigio. Non è vero che è meglio essere temuti che amati".

Anche Kupchan converge al centro e ammette: "Bush ha fatto cose buone, per esempio l'antiterrorismo non militare: è notevole che da due anni e mezzo non ci siano attentati negli Stati Uniti, anche se prima o poi mi sembra inevitabile che qualcosa accada. Un altro punto su cui Bush ha ragione è che l'Onu limita il nostro potere. È vero, ma è esattamente questo il motivo per cui al resto del mondo l'Onu piace. Cosa ci costava, per esempio, avvertire preventivamente Xavier Solana del nostro sì all'ultimo piano di pace di Ariel Sharon? Dimostriamo una straordinaria assenza di tatto... Ma dò ragione a Kagan: con Kerry non cambierà molto. L'internazionalismo liberal del nordest è ormai tramontato, negli Stati Uniti. E dall'Iraq non possiamo andarcene".
Mauro Suttora

Monday, April 12, 2004

Mauro of Manhattan

NO SEX IN THE CITY

New York Observer, April 12, 2004

by Mauro Suttora


We are done with Sex and the City here in Manhattan, but in Italy they’re still airing last year’s episodes and dubbing the final series. Many Italians are crazy about it, and ask me how the real thing is in New York. 
After one year of living in the city (and witnessing one episode being shot right where I work, at the Rizzoli bookstore on 57th Street), I can reply: Liza, Manhattan, in her mid-30′s. Tall, beautiful, sexy: an irresistible smash. Let’s be scientific: My friend Andrea Califano, professor of genomics at Columbia University, explains that Liza is the perfect phenotype, meaning a genotype (the universal “fashion victim”) who can be detected only in a specific environment (Upper East Side).
The night we met, I walked her home. She was heavily drunk, but found the lucidity to enter a deli and buy Altoids (giant American mints for your breath). In the phenotype language, that means “Kiss me.” Downstairs from her apartment, she muttered something about Eros Ramazzotti and Laura Pausini. I jumped right in: “Let me translate them for you.”
“You come and you go”, she ordered imperiously, pretending to get back in control. I was soon to learn that “pretending” and “control” are two main features of the Upper East Sider. Other key words are “stress” and “relax.”
“Let’s put on some relaxation music …. ” She stopped me when our lips touched. She kissed like a princess. She wore luscious leopard pants. But in bed, she turned out as warm as a Mont Blanc glacier. Nevertheless, I fell for her.
Frigidity is considered a minor problem by New Yorkers: They rely on 12-steps programs or yoga to overcome it. Once I went to bed with an exquisite divorcée. I tried hard to please her. “Don’t worry, I never come the first time,” she finally told me.
I couldn’t wait for the second time. Same scene, until she smiled: “I seldom come.”
This phenotype utilizes her vagina mainly to have monologues with. The 10021 zip code (richest on earth) is the empire of finger and clitoris: “The quickest way to a woman’s heart is through her clit,” wrote comedian Wanda Sykes on Esquire a few months ago. “When we say ‘Harder! Harder!’ that means ‘Take it out and touch my clit.’”
No wonder “vibrant” has become the most used positive adjective here.
Liza and me have been together for a few weeks. She was very affectionate: Every two to three hours, she called me or sent me e-mails and cell messages. She showered me with attentions and gifts: heart-shaped chocolates, little funny letters, candies against cough. We shared lunch breaks, she would come to pick me up at work, we slept together. She drank a lot. “I’ll dry you up,” I joked her. She didn’t appreciate. And I didn’t enjoy paying the fantastic wine bills in restaurants.
She wore Prada shoes, Bulgari watches, Helen Yarmak furs. She used to carry her $2,000 Dolce and Gabbana bag hanging on her arm protruded in front of her, strutting majestically as if she held some imaginary cup in her hand. 
She would rarely venture west of Sixth Avenue and south of 50th Street: “I don’t like downtown; it’s dirty.” She couldn’t walk with her impressive high heels on, so plenty of taxis were essential. She was constantly in debt: rescheduling, consolidating, refinancing it.
She didn’t mention children, although her child-bearing time was running out. It’s incredible how New York women believe they can easily be mothers at 40. Little by little, she took more time for herself: girlies’ nights, gym, jogging, shopping, hairdresser, errands, bikini wax, facials, sunbathing on the rooftop …. Nails, most of all.
“I am stressed, I have to relax, I need my space,” she would tell me while canceling dates.
“Have you ever thought of incorporating me in your relaxation time, or making love is just one more tiresome activity for you?” I mildly protested.
She dumped me by e-mail. Suddenly, she didn’t want to see me nor even say a word on the phone. The day before, she was talking about us meeting her parents and making plans for a trip to Italy: schedules, planes to book, places to visit. The day after, she couldn’t stand me. 
“It is best to go our separate ways,” she wrote, “I feel suffocated. I tried to make things work but it was not there for me, I got caught up in the moment …. Who would not want to go to Italy? You are too much, I am overwhelmed.”
The cheapest Italian beach playboy would flush his used women down the toilet with more grace. Or perhaps we Eurotrash are too sentimental. I don’t mind being ditched, it was just the speed from sweet to sour which surprised me. I blamed this oligophrenia on the booze. I asked her the real reason for the turnaround.
“To be quite honest with you, I am in love with another man,” she replied. Ah, the usual Upper East Side sport: double dating, overbooking …. Poor him:Where was he during that month? There are many Lizas on those blocks. Not all necessarily gold diggers, nor man-eaters. Just “fear of commitment,” I am told. Or “decline of desire.” No sex in the city.
-Mauro Suttora

Wednesday, January 28, 2004

Sandra Savaglio a Baltimora

"Time" sceglie un' italiana per raccontare l'esilio dei cervelli europei

Con questa copertina da star ho toccato il cielo con un dito

"Per fare ricerca vivo all'estero da anni", dice l'astrofisica Sandra Savaglio, indicata come testimonial della crisi della scienza nel Vecchio Continente "Ho vinto un posto a Roma, ma mi è stato contestato per invidia"

Baltimora (Stati Uniti)

Oggi, 28 gennaio 2004

dal nostro inviato Mauro Suttora 

Da quattordici anni Sandra gira per il mondo a scrutare le stelle, e quando sua madre l'ha potuta ammirare sulla copertina del settimanale americano Time la settimana scorsa, le ha telefonato dicendole semplicemente: "Sono orgogliosa di te". 

"Come l'Europa ha perso le proprie stelle della scienza", annuncia la rivista, ed eccola lì la nostra Sandra Savaglio da Cosenza, bella e radiosa davanti alle bandiere americana ed europea. L'articolo è un atto d'accusa non solo contro l'Italia, ma a carico dell'intero Vecchio Continente che si è lasciato scappare ben 400 mila scienziati e ricercatori, per i quali gli Stati Uniti spendono quasi il doppio di noi (ricavandone il 78 per cento in più quanto a brevetti di alta tecnologia). 

Che Sandra potesse diventare una stella nella scienza delle stelle lo si intuisce già nel 1990, quando l'allora 22enne studentessa di Fisica all'università di Calabria non esita ad andarsene a Monaco di Baviera, facendo la pendolare per quattro anni con il prestigioso European Southern Observatory guidato dal premio Nobel Riccardo Giacconi. 

Laurea, specializzazione in astronomia e tanto, tanto studio: così una ragazza del Sud nel '98 approda, dopo altri due anni di post dottorato in Germania, nel sancta sanctorum dell'astrofisica mondiale, alla sede di Baltimora del telescopio spaziale Hubble. La invita qui il professore inglese Karl Glazebrook, che lavora con l'italiano Duccio Macchetto, intervistato su Oggi due settimane fa. 

"Sono venuta negli Stati Uniti perché le migliori opportunità per noi ricercatori si trovano qui", ci dice la Savaglio da quel vero e proprio paradiso in terra che è il campus della Johns Hopkins University, con i suoi edifici di mattoni rossi in stile coloniale immersi in un parco di alberi secolari e prati sterminati. 

L'eclettica Sandra, che pratica anche molto sport, nel 2000 pubblica un articolo sulla rivista scientifica Nature. Riesce infatti a spiegare, con il collega calabrese Vincenzo Carboni, il repentino calo di prestazioni durante il primo chilometro di corsa da parte di un atleta. I due ricercatori dimostrano che dopo 150 secondi dall'inizio della gara il corridore passa da un metabolismo anaerobico (tipico degli sprinter alla Mennea) a uno aerobico, proprio di fondisti e mezzofondisti. La regola è valida anche per il nuoto, dove il passaggio da un metabolismo all'altro avviene dopo i primi 400 metri.

In quello stesso anno, un breve ritorno in patria: la Savaglio vince un concorso per l'Osservatorio di Monte Porzio, vicino a Roma. "Ma un tizio che aveva interesse a sistemare lì sua figlia mi ha costretto a rifare il concorso per una irregolarità formale. L'ho rivinto. Subito dopo mi ha denunciato per truffa per una storia avvenuta anni prima. Tutto per vendicarsi del fatto che sua figlia non era riuscita a entrare all'Osservatorio. Ho dovuto aspettare fino al maggio 2003 per ottenere l'assoluzione piena, "perché il fatto non sussiste". Il direttore dell'Osservatorio, Roberto Buonanno, ha cercato di aiutarmi, di starmi vicino, ma nel frattempo ho maturato l'idea di andarmene di nuovo dall'Italia". 

Così, due anni fa è tornata a Baltimora dopo avere studiato in altri grossi osservatori agli angoli del pianeta: Australia, Cile, Hawaii. Su quest'ultima esperienza (il Gemini Deep Survey Team) ha appena presentato al congresso di Atlanta dell'Associazione astronomica americana un rapporto che ha fatto sensazione, attirando l' attenzione del quotidiano più diffuso d'America, Usa Today: osservando 300 galassie distanti da sette a dieci miliardi di anni luce "abbiamo scoperto che 19 su cento sono ellittiche e già piene di vecchie stelle rosse", spiega la Savaglio. 
Ciò significa che queste galassie si sono formate una dozzina di miliardi di anni fa, "soltanto" un miliardo di anni dopo il Big Bang che ha dato il via all' universo, e quindi sono molto più mature di quanto si pensasse. 

Alle prese con questi misteri enormi, persi in distanze infinite di tempo e di spazio, Sandra è una stella che brilla di luce propria: "Negli Stati Uniti in genere non valgono amicizie, parentele, protezioni politiche, età", spiega. "L'unica cosa che conta è il merito e la voglia di impegnarsi. E i miei colleghi, anche se sposati e con figli, lavorano più di me, serate comprese. Pure in Italia ci sono tanti astronomi che si fanno valere a livello internazionale. Ma i mezzi sono scarsi perché la scienza non rappresenta una priorità per i nostri governanti, e la burocrazia frena tutto". 

Figlia di un impiegato delle poste e di un'ostetrica, la minore di quattro fratelli e sorelle, Sandra Savaglio ricorda che "in Italia perfino per una penna bisogna fare una richiesta scritta, mentre qui basta andare a prenderla nell'armadietto della cancelleria. Gli americani hanno tanti difetti: mangiano male, vestono peggio... Ma sono aperti e danno spazio a chi ha spirito d'iniziativa".

Sandra è curiosa e affamata di vita: "Sono fidanzata con una persona stupenda, e oltre alla mia attività che mi dà grandi soddisfazioni m'interesso di numismatica e fotografia". 
Guadagna tremila dollari al mese, il triplo di quanto racimolerebbe in Italia, ma si dice pronta a tornare se le cose da noi cambiassero, indipendentemente dai soldi. Come peraltro ha fatto la più illustre delle nostre scienziate, la Nobel Rita Levi Montalcini, anche lei emigrata negli Stati Uniti per vent'anni. 

Fra le migliaia di altri italiani "in esilio" in America, Time cita Michele Pagano, professore associato di patologia alla New York University, e Valerio Dorrello, anch' egli medico, anch'egli alla Nyu, che culla il sogno di aprire un laboratorio di ricerca nella sua Napoli "ma con tecnologie e organizzazione americane".

A Columbus (Ohio) c'è Mauro Ferrari, 44enne udinese laureato in Matematica a Padova e poi diventato professore a Berkeley, in California: oggi è uno dei maggiori esperti mondiali di nanotecnologie. 
In un laboratorio farmaceutico del New Jersey lavora Emilia Vitale, napoletana: torna in Italia soltanto per visitare i parenti. E la Columbia University di Manhattan, una delle più antiche d'America, sta aprendo una facoltà di Genomica: per fondarla hanno chiamato il fiorentino Andrea Califano, che opera in quel confine d'avanguardia assoluta che si situa fra i computer e la genetica. Piccoli Nobel crescono. Ma dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, purtroppo.

Mauro Suttora

Wednesday, January 14, 2004

Duccio Macchetto e il telescopio Hubble

Parla il direttore delle operazioni scientifiche del telescopio all'università Johns Hopkins di Baltimora (Usa)
 
Un italiano difende il telescopio Hubble

Non spegnete l'occhio puntato sull'universo!

"Da anni invia sulla Terra rare immagini dei segreti del cosmo, è sbagliato pensare di oscurarlo per risparmiare", spiega Duccio Macchetto, direttore della straordinaria missione spaziale

Oggi, 14 gennaio 2004

dal nostro inviato Mauro Suttora

Baltimora (Stati Uniti)

Siamo nell'ufficio dell'uomo che, nel mondo intero, riesce a guardare più lontano: fino a quattordici miliardi di anni luce di distanza. È questo, infatti, il raggio d'azione del telescopio Hubble. E quest'uomo è un italiano: Duccio Macchetto, 61 anni, direttore delle operazioni scientifiche del telescopio all'università Johns Hopkins di Baltimora, immersa nella tranquillità dei boschi del Maryland. 

Dal 1990 Hubble ruota attorno alla Terra, e ci regala immagini stupende captate senza l'ostacolo dell'atmosfera. Le più recenti potete vederle in queste pagine: galassie così irraggiungibili che per comprenderne la lontananza non bastano le nostre misure. Miliardi di miliardi di miliardi di chilometri sono poca cosa rispetto alle distanze dell'universo, tanto che bisogna ricorrere alla velocità della luce per afferrarle. 

Il disastro dello Shuttle avvenuto il primo febbraio 2003 ha colpito indirettamente anche il telescopio spaziale. La navetta, infatti, il prossimo novembre avrebbe dovuto raggiungere Hubble per cambiare giroscopi e batterie, controllarne l'efficienza e ripararne i piccoli guasti. Una specie di "tagliando" da fare una volta ogni tre anni, ma che dovrà essere rimandato al giugno 2006. 

"E questa data è ancora incerta", spiega il professor Macchetto, "perché le complicazioni sono moltissime. Lo Shuttle infatti non potrà riprendere i voli finché non sarà garantita la completa sicurezza per i suoi astronauti. Dopodiché la precedenza dovrà essere data alla missione di assistenza per la Stazione spaziale, che orbita anch'essa attorno alla Terra: è un progetto in grosse difficoltà tecniche, politiche e finanziarie, perché non si possono licenziare da un giorno all'altro centinaia di scienziati che hanno accumulato esperienze uniche, dicendo loro di aspettare uno o due anni, finché i voli riprenderanno". 

Quindi il "povero" telescopio dovrà aspettare parecchio. 

"C'è un altro motivo", prosegue Macchetto, "per cui la Stazione spaziale avrà la precedenza rispetto a Hubble: la sicurezza. In caso di emergenza, infatti, gli astronauti dello Shuttle potranno ancorarsi o rifugiarsi nella Stazione. Possibilità inesistente per Hubble, che non possiede cabine". 

Ma ce la farà Hubble ad aspettare fino al 2006?
 
"Non dovrebbe essere un problema enorme, anche se entreremo in una zona di rischio scientifico. A bordo di Hubble, infatti, ci sono strumenti che vanno riparati o rinnovati con una certa frequenza. Su sei giroscopi, per esempio, tre sono necessari per puntare il telescopio con la precisione di cui abbiamo bisogno. Uno è già morto, un altro ci dà qualche problema ogni tanto, e quindi ce ne resta solo uno di riserva. Perdere una mezza giornata di osservazioni ogni tanto non rappresenta un grosso impatto in termini di costi, ma con due soli giroscopi potremmo funzionare soltanto al cinquanta per cento". 

Però le difficoltà aguzzano l'ingegno, e voi avete fatto di necessità virtù...
 
"Sì, abbiamo sviluppato un software che ci permetterà di usare solo due giroscopi per darci informazioni sui tre assi, con un degrado dei tempi e della precisione di puntamento di appena il dieci per cento. Un altro problema per la ritardata manutenzione potrebbe nascere dalle batterie. Oggi usiamo tutti gli strumenti a bordo simultaneamente, ma se non potremo più caricarle al massimo dovremo spegnere uno o due strumenti, a turno".

Secondo alcuni, però, Hubble potrà essere presto sostituito dal prossimo telescopio spaziale, il Webb. Quindi non varrebbe la pena spenderci sopra troppa manutenzione.
 
"No, Webb non sostituirà Hubble, perché il primo capta i raggi infrarossi, mentre il secondo funziona con gli ultravioletti: sono due telescopi complementari. Webb avrebbe dovuto essere lanciato nel 2007, ma ha già quattro o cinque anni di ritardo. Ed è bene che ci siano poi altri tre anni di funzionamento affiancato prima di mandare in pensione Hubble: non prima del 2012, quindi. Ma c'è anche un altro modo per misurare l' utilità di Hubble: il numero degli scienziati che ci chiedono tempi di osservazione sul nostro telescopio. Sono sei sette volte superiori al tempo disponibile. Riceviamo richieste da tutti i Paesi del mondo, e purtroppo dobbiamo operare una dura selezione". 

Ci sono però ben trenta scienziati italiani coinvolti in qualche modo nel progetto Hubble.

"Sì, non per essere campanilisti ma questo è un risultato di cui possiamo andar fieri. E Hubble continua a essere il gioiello di punta dell'astronomia mondiale, con pubblicazioni e citazioni triple rispetto a qualsiasi altro osservatorio al mondo". 

Ma a che cosa serve, in concreto, Hubble? Che cosa ci ha fatto scoprire dal 1990 quest'aggeggio di dodici tonnellate che gira in continuazione 600 chilometri sopra le nostre teste?
 
"Grazie a Hubble la nostra percezione dell'universo è totalmente cambiata. Sapevamo che l'universo è in espansione: lo stabilì per primo negli anni Venti proprio il signor Edwin Hubble, che ha dato il nome al telescopio. Nel '95 però abbiamo scoperto che la velocità di questa espansione non è costante, ma in continua accelerazione. Insomma, abbiamo individuato la misteriosa forza espansiva intuita da Albert Einstein ancor prima di Hubble. Einstein pensava di essersi sbagliato su questo, l'aveva definito 'il mio più grosso errore'. E invece aveva ragione anche su questo". 

Quanto è vecchio l'universo, e quanto durerà?
 
"Prima di Hubble pensavamo che il Big Bang fosse avvenuto una decina di miliardi di anni fa. Ora questa stima si è spinta molto più indietro, a quindici miliardi di anni. E Hubble ci permette di osservare galassie a 14 miliardi di anni luce di distanza, quindi "appena" un miliardo di anni dopo la loro nascita. Poiché la luce ci mette tempo a viaggiare, noi stiamo vedendo in questo momento quelle galassie così come esse erano 14 miliardi di anni fa. 
Quanto al futuro, ragioniamo in termini di miliardi di miliardi di anni. Il nostro Sole e la nostra Terra, invece, spariranno "soltanto" fra pochi miliardi di anni. Insomma, non sappiamo cos'è l'universo, anche se sappiamo cosa fa. Per sintetizzare: Hubble ci ha fatto capire che è aumentata di gran lunga la nostra ignoranza dell'universo. Ora sappiamo che ci sono molte più cose che non conosciamo". 

L'eterna domanda: c'è possibilità di vita su qualche altra galassia?
 
"Fino al '95 non conoscevamo pianeti fuori dal nostro sistema solare. Telescopi da terra ne avevano scoperti più di cento, ma in forma indiretta, cioè osservando le perturbazioni del moto delle stelle attorno alle quali questi pianeti girano. Nessuno però prima di Hubble era riuscito a osservare direttamente un pianeta, e addirittura l'atmosfera di uno di questi. Grazie a Hubble ora sappiamo che in quell'atmosfera c'è del sodio. Stiamo studiando una lunga lista di altri pianeti e il nostro obiettivo è quello di trovare atmosfere con composizioni chimiche simili alla nostra Terra; ovviamente siamo alla ricerca di possibili siti dove possa esistere la vita. Ma noi siamo solo un puntino infinitesimale all'interno della nostra galassia, e di galassie ce ne sono centinaia di miliardi..." 

Quanto costa la missione Hubble?
 
"Circa 250 milioni di dollari all'anno. Una quota infinitesimale anche questa, in confronto per esempio alle spese militari degli Stati Uniti: 400 miliardi di dollari annui. I generali americani spendono per le loro ricerche spaziali, i loro missili e i loro satelliti tre volte più della Nasa. Quanto all'Unione europea, dà ai suoi agricoltori per "non" produrre il triplo dei soldi che investe nelle ricerche spaziali". 

Mi dica una ricaduta concreta sulla nostra vita quotidiana delle vostre ricerche.
 
"Il software che abbiamo sviluppato, di cui parlavamo prima, servirà anche per individuare i tumori al seno con noduli inferiori al millimetro. I sensori che abbiamo a bordo sono gli stessi che adesso fanno funzionare i satelliti meteorologici, e anche i nostri telefonini. Ma preferisco risponderle con una frase di Lord Rutherford, premio Nobel per la Fisica, il quale al principio del secolo scorso riuscì a dire testualmente: "I raggi X non serviranno a niente". Questo dimostra che noi fisici e astrofisici per primi non sappiamo prevedere gli effetti delle nostre scoperte: le ricadute della ricerca astronomica sono tutte a lungo termine".

Mauro Suttora