PAROLE E PORTAFOGLI
Abramoff fa tremare Washington ma non il sistema: la politica in America è caccia ai finanziamenti
giovedì 5 gennaio 2006
New York. Il suo tempo valeva oro: 750 dollari all'ora. Per fare più in fretta, e guadagnare perfino sui propri regali, aveva aperto a Washington un elegante ristorante, il 'Signatures' su Pennsylvania Avenue, nel quale invitava a pranzo e a cena i suoi clienti. Offerta anche cucina kosher. E tutti potevano essere clienti di Jack Abramoff, il 46enne principe dei lobbisti statunitensi: dagli indiani che volevano aprire casino' (gli unici col permesso di farlo, fuori da Las Vegas e Atlantic City, e che gli hanno versato 82 milioni) ai politici in cerca di soldi per la rielezione. Ora, allo scopo di ridurre da venti a dieci gli anni che passerà in carcere per truffa, associazione a delinquere ed evasione fiscale, collabora con la giustizia. E 240 parlamentari statunitensi tremano.
Abramoff è repubblicano, negli anni Ottanta fece fortuna come giovane reaganiano, e nel '94 è montato in groppa al trionfo del suo partito che per la prima volta dopo quarant'anni aveva riconquistato la maggioranza al Congresso, proprio con lo slogan "ripuliamo Washington". Ora assieme a lui finisce nella polvere Tom DeLay, l'ex presidente della Camera texano, il terzo repubblicano più potente degli Stati Uniti dopo il presidente e il capogruppo al Senato. Ma i quattro milioni e mezzo di tangenti che Abramoff ha distribuito negli ultimi sei anni sono andati anche a 80 democratici, oltre che a 120 repubblicani.
"L'aspetto più choccante dello scandalo Abramoff non è la ricchezza che distribuiva, ma il numero dei congressmen che eseguivano i suoi ordini", commenta desolato l'editorialista di Usa Today. Tutti disposti a votare si' o no solo in base al posto in palco di lusso alla partita di baseball, al viaggio in Scozia per giocare a golf nel campo di St. Andrews, ai 50mila per la mogliettina del portaborse e agli altri status symbol della capitale americana.
Ma se Abramoff ha potuto avere successo, ammonisce il senatore John McCain, è perchè il lobbismo è l'industria più sviluppata di Washington. Sono ben 700, infatti, i membri della American League of Lobbyists, i quali hanno già cominciato a innaffiare abbondantemente i candidati alle elezioni midterm del prossimo novembre. Tutto - quasi tutto - alla luce del sole, con tanto di rendiconti pubblici: i repubblicani hanno finora raccolto quasi tredici milioni di dollari, i democratici undici, i sindacati ne hanno distribuiti nove, quelli dei dipendenti pubblici quattro, quelli delle costruzioni due.
Ci sono i lobbisti verdi corti di manica: finora hanno raccolto da propri simpatizzanti un milione e 700mila dollari, ma ne hanno distribuiti soltanto mezzo milione. Gli advocacy groups per i diritti umani, invece, sono avventati: hanno già promesso ai futuri parlamentari 900mila dollari, avendone in cassa soltanto 500mila. E poi avanti con la pioggia di bigliettoni: assicuratori, donne, medici, cinematografari, antiabortisti e prochoice, cacciatori e anti...
Il recordman, in questo festival del fundraising, è Michael Bloomberg. Il sindaco di New York appena rieletto fino al 2010 è infatti quello che ha speso di più nella storia per una singola campagna elettorale: 75 milioni. Con un record ulteriore: tutto di tasca propria. Ma sbaglia chi scambiasse la democrazia americana per una plutocrazia: il magnate della birra Pete Coors, per esempio, nel 2004 non è riuscito a farsi eleggere senatore del suo Colorado, nonostante investimenti altrettanto sontuosi. Ne' i lobbisti riescono a comprare tutto: proprio Bloomberg, per esempio, l'altro giorno si è scagliato contro il commercio troppo libero delle armi da fuoco, nonostante la pressione costante della potentissima Nra (National Rifle Association, quella che coniò lo slogan "Happiness is a warm gun" apprezzato perfino da John Lennon).
La battaglia anticorruzione di McCain
Lo scandalo Abramoff, con le sue probabili decine di vittime imminenti, raddrizzerà Washington? Non scherziamo. L'ultimo sondaggio Gallup conferma i film di Frank Capra: il 49% degli americani adulti sono convinti che la maggioranza dei membri del congresso siano corrotti. Disprezzo bipartisan: il 47% punta il dito contro i repubblicani, l'altro 44 contro i democratici. Lo schifo nei confronti della politica professionista è talmente spontaneo, nello statunitense medio, che il presidente George Bush lo sfrutta abilmente nei propri discorsi: "Ho proposto questo e quello, ma i politici di Washington mi hanno bloccato", neanche fosse un qualsiasi Mr. Smith.
Che fare, allora? Tutta la campagna presidenziale di McCain, nel 2000, si era sviluppata sul tema della lotta contro le lobbies. Ma McCain ha perso, perchè fra le abitudini connaturate degli americani c'e' quella di "far combaciare le parole col portafogli", e quindi di tirar fuori i soldi quando si crede in una causa o in una persona. Proibire i contributi alle campagne elettorali e abolire i lobbisti è quindi impossibile. Negli Stati Uniti non esistono sezioni di partito e segretari: ci sono soltanto "fundraiser", raccoglitori di fondi per pagare le campagne elettorali. La politica consiste in questo. Si possono soltanto stabilire patetici paletti, come il limite di poche migliaia di dollari ai contributi personali verso un singolo candidato, nell'illusione di calmierare l'influenza dei Paperoni.
Ora si parla di punire gli eletti che votano su un tema per il quale hanno ricevuto contributi nelle settimane o mesi precedenti. Ma al povero dittatore Omar Bongo del Gabon, che per essere ricevuto da Bush nel 2004 dovette versare milioni di dollari ad Abramoff, i soldi chi li restituirà?
Mauro Suttora
Monday, January 16, 2006
Wednesday, January 04, 2006
Intercettazioni Usa fuorilegge
L'IMBARAZZANTE SCOOP A SCOPPIO RITARDATO DEL NEW YORK TIMES
4 gennaio 2006
New York. Per la terza volta in tre anni, il New York Times scivola su un proprio scoop e riesce a trasformare un successo in una disgrazia. Nel 2003 ci fu lo scandalo di Jayson Blair, il cronista di colore considerato un genio, e che invece s'inventava gli articoli. La scorsa estate è stata la volta di Judith Miller: un mese in carcere per essersi rifiutata di rivelare le sue "fonti". Poi però si scopre che questa supposta eroina della libertà di stampa voleva soltanto proteggere l'amico Scooter Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Infine, il grande scoop del 15 dicembre: il presidente George Bush fa intercettare senza mandato le comunicazioni di cittadini americani in territorio americano, mentre una legge del 1979 lo proibisce.
Un 'colpo' giornalistico di gran peso politico, rimbalzato in tutto il mondo e arricchito dalla rivelazione (da parte del settimanale Newsweek) che il 6 dicembre Bush aveva convocato alla Casa Bianca editore e direttore del quotidiano newyorkese, scongiurandoli di non pubblicare l'articolo. Niente da fare. Trionfo del quarto potere. Peccato però che solo poche ore dopo il sito web Drudgereport abbia rivelato che quel commendevole scoop era stato tenuto nel cassetto per più di un anno, e che non era stato pubblicato prima del voto presidenziale del novembre 2004 per non interferire nella campagna elettorale.
Due giorni fa James Risen, l'autore dell'articolo, grande esperto di servizi segreti, ha pubblicato il libro 'State of War: The Secret History of the Cia and the Bush Administration'. Dentro c'è per intera la lunga inchiesta del 15 dicembre, più altre storie. Il libro è stato chiuso in tipografia mesi fa. Cos'è successo, allora? Il Times ha voluto fare un favore al proprio reporter, ritardando la pubblicazione dello scoop affinchè facesse da traino alle vendite del libro? Inconcepibile, per un giornale serio. Più credibile una seconda ipotesi: Risen, contrariato per la non pubblicazione dello scoop, si è preso un'aspettativa, ha scritto il libro, e solo in prossimità dell'uscita il Times si è deciso a pubblicare l'inchiesta, per non fare la figura del censore e fornire a Risen l'aureola del giornalista silenziato.
E qui entra in scena Byron Calame, una vera calamità per i vertici del New York Times. Il quale, prendendo sul serio il proprio ruolo di "public editor" del quotidiano, cioè di difensore dei diritti del lettore, ha mandato ben 28 domande al direttore Bill Keller: "Perchè il ritardo di un anno nella pubblicazione dello scoop? E' vero, come ha scritto lo stesso Risen il 15 dicembre, che il giornale ci ha messo così tanto perchè ha voluto sottoporre l'inchiesta a tutte le verifiche possibili? Quali sono state queste verifiche? Come mai c'è voluto un anno per effettuarle? Quand'era pronta la prima versione dell'articolo? Prima o dopo il voto presidenziale del 2004? Quali pressioni avete avuto da Bush per la non pubblicazione?" E così via.
Keller si è rifiutato di rispondere a tutte le domande: "Non è possibile avere una discussione completa sui retroscena di questa storia senza rivelare quando e come abbiamo saputo quel che abbiamo saputo. E questo, non possiamo farlo", si è limitato a replicare seccamente. L'indomito Calame si è rivolto allora al giovane editore Arthur Sulzberger. Ma anche lui non ha volto rispondere. E allora il public editor si è vendicato pubblicando parola per parola sul New York Times, nello spazio a lui dedicato domenica scorsa, tutta la vicenda del suo inutile tentativo di chiarimento: "Un pesante silenzio sulle intercettazioni", è stato il titolo masochista inflitto agli increduli lettori.
Intanto, mentre da sinistra il Times è accusato di censura, a destra l'addebito è di aver danneggiato la lotta contro i terroristi. Per questo il ministero della Giustizia ha aperto un'inchiesta sulla vicenda, con l'obiettivo di scoprire chi siano i confidenti di Risen dentro ai servizi segreti. Si apparecchia quindi un altro caso Miller, sulla protezione delle gole profonde in nome della libertà di stampa.
L'unica stampa che finora ha beneficiato della vicenda è stata quella del libro di Risen, nel quale sono contenute ulteriori rivelazioni sull'intelligence poco intelligente del dopo 11 settembre 2001. Nel settembre 2002, per esempio, la Cia reclutò un'anestesista irachena ormai cittadina americana, Sawsan Alhaddad di Cleveland, spedendola a Bagdad da suo fratello, scienziato coinvolto nel programma nucleare di Saddam Hussein. Il quale, stupito dalla sue insistenti domande, le rivelò che il programma non esisteva più da dieci anni. Altri trenta parenti di scienziati iracheni furono inviati in Iraq con missioni pericolose di questo tipo, tutte senza esito. Ciononostante, nell'ottobre 2002 i servizi Usa conclusero ufficialmente che Saddam aveva ricominciato il programma atomico.
Un altro inquietante capitolo del libro rivela che un dirigente Cia inviò per sbaglio a un proprio agente iraniano un documento dal quale si potevano individuare tutte le spie che l'agenzia aveva in Iran. Quell'agente purtroppo faceva il doppio gioco: nel giro di poche settimane la rete spionistica americana in Iran fu quasi completamente smantellata, con arresti e incarcerazioni. Chi ha visto l'ultimo film di George Clooney, "Syriana", non fatica a credere a questi incidenti.
Mauro Suttora
4 gennaio 2006
New York. Per la terza volta in tre anni, il New York Times scivola su un proprio scoop e riesce a trasformare un successo in una disgrazia. Nel 2003 ci fu lo scandalo di Jayson Blair, il cronista di colore considerato un genio, e che invece s'inventava gli articoli. La scorsa estate è stata la volta di Judith Miller: un mese in carcere per essersi rifiutata di rivelare le sue "fonti". Poi però si scopre che questa supposta eroina della libertà di stampa voleva soltanto proteggere l'amico Scooter Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Infine, il grande scoop del 15 dicembre: il presidente George Bush fa intercettare senza mandato le comunicazioni di cittadini americani in territorio americano, mentre una legge del 1979 lo proibisce.
Un 'colpo' giornalistico di gran peso politico, rimbalzato in tutto il mondo e arricchito dalla rivelazione (da parte del settimanale Newsweek) che il 6 dicembre Bush aveva convocato alla Casa Bianca editore e direttore del quotidiano newyorkese, scongiurandoli di non pubblicare l'articolo. Niente da fare. Trionfo del quarto potere. Peccato però che solo poche ore dopo il sito web Drudgereport abbia rivelato che quel commendevole scoop era stato tenuto nel cassetto per più di un anno, e che non era stato pubblicato prima del voto presidenziale del novembre 2004 per non interferire nella campagna elettorale.
Due giorni fa James Risen, l'autore dell'articolo, grande esperto di servizi segreti, ha pubblicato il libro 'State of War: The Secret History of the Cia and the Bush Administration'. Dentro c'è per intera la lunga inchiesta del 15 dicembre, più altre storie. Il libro è stato chiuso in tipografia mesi fa. Cos'è successo, allora? Il Times ha voluto fare un favore al proprio reporter, ritardando la pubblicazione dello scoop affinchè facesse da traino alle vendite del libro? Inconcepibile, per un giornale serio. Più credibile una seconda ipotesi: Risen, contrariato per la non pubblicazione dello scoop, si è preso un'aspettativa, ha scritto il libro, e solo in prossimità dell'uscita il Times si è deciso a pubblicare l'inchiesta, per non fare la figura del censore e fornire a Risen l'aureola del giornalista silenziato.
E qui entra in scena Byron Calame, una vera calamità per i vertici del New York Times. Il quale, prendendo sul serio il proprio ruolo di "public editor" del quotidiano, cioè di difensore dei diritti del lettore, ha mandato ben 28 domande al direttore Bill Keller: "Perchè il ritardo di un anno nella pubblicazione dello scoop? E' vero, come ha scritto lo stesso Risen il 15 dicembre, che il giornale ci ha messo così tanto perchè ha voluto sottoporre l'inchiesta a tutte le verifiche possibili? Quali sono state queste verifiche? Come mai c'è voluto un anno per effettuarle? Quand'era pronta la prima versione dell'articolo? Prima o dopo il voto presidenziale del 2004? Quali pressioni avete avuto da Bush per la non pubblicazione?" E così via.
Keller si è rifiutato di rispondere a tutte le domande: "Non è possibile avere una discussione completa sui retroscena di questa storia senza rivelare quando e come abbiamo saputo quel che abbiamo saputo. E questo, non possiamo farlo", si è limitato a replicare seccamente. L'indomito Calame si è rivolto allora al giovane editore Arthur Sulzberger. Ma anche lui non ha volto rispondere. E allora il public editor si è vendicato pubblicando parola per parola sul New York Times, nello spazio a lui dedicato domenica scorsa, tutta la vicenda del suo inutile tentativo di chiarimento: "Un pesante silenzio sulle intercettazioni", è stato il titolo masochista inflitto agli increduli lettori.
Intanto, mentre da sinistra il Times è accusato di censura, a destra l'addebito è di aver danneggiato la lotta contro i terroristi. Per questo il ministero della Giustizia ha aperto un'inchiesta sulla vicenda, con l'obiettivo di scoprire chi siano i confidenti di Risen dentro ai servizi segreti. Si apparecchia quindi un altro caso Miller, sulla protezione delle gole profonde in nome della libertà di stampa.
L'unica stampa che finora ha beneficiato della vicenda è stata quella del libro di Risen, nel quale sono contenute ulteriori rivelazioni sull'intelligence poco intelligente del dopo 11 settembre 2001. Nel settembre 2002, per esempio, la Cia reclutò un'anestesista irachena ormai cittadina americana, Sawsan Alhaddad di Cleveland, spedendola a Bagdad da suo fratello, scienziato coinvolto nel programma nucleare di Saddam Hussein. Il quale, stupito dalla sue insistenti domande, le rivelò che il programma non esisteva più da dieci anni. Altri trenta parenti di scienziati iracheni furono inviati in Iraq con missioni pericolose di questo tipo, tutte senza esito. Ciononostante, nell'ottobre 2002 i servizi Usa conclusero ufficialmente che Saddam aveva ricominciato il programma atomico.
Un altro inquietante capitolo del libro rivela che un dirigente Cia inviò per sbaglio a un proprio agente iraniano un documento dal quale si potevano individuare tutte le spie che l'agenzia aveva in Iran. Quell'agente purtroppo faceva il doppio gioco: nel giro di poche settimane la rete spionistica americana in Iran fu quasi completamente smantellata, con arresti e incarcerazioni. Chi ha visto l'ultimo film di George Clooney, "Syriana", non fatica a credere a questi incidenti.
Mauro Suttora
Thursday, December 22, 2005
Corrispondenti esteri a New York
URAGANI MEDIATICI
Perché una pena di morte negli Stati Uniti surriscalda i giornalisti e le uccisioni a Pechino e in Iran no
Il Foglio, giovedi' 22 dicembre 2005
New York. La mobilitazione contro l'esecuzione di Stanley 'Tookie' Williams non è servita a nulla, ma ha provocato una memorabile tempesta fra i giornalisti esteri a New York. E' noto: l'unica Foreign Press Association (Fpa) che conta qualcosa negli Stati Uniti è quella di Hollywood. Non perchè i corrispondenti che si occupano di cinema siano più bravi, ma perchè ogni anno decidono chi premiare con i Golden Globe, cioè gli antipasti propiziatori degli Oscar. La Fpa di New York, invece, politicamente vale quanto l'Associazione Stampa Estera di Roma: poco. Iscriversi costa 70 dollari l'anno, dentro ci si trova di tutto: dai corrispondenti delle più prestigiose testate mondiali, a poveracci che si spacciano per giornalisti allo scopo di raccattare qualche invito a pranzi e cocktail. Non impone controlli sulle credenziali come quelli severi del Foreign Press Center governativo di Lexington Avenue, che pretende addirittura una prova certificata dai consolati dell'esistenza dei media per i quali si chiede l'accredito.
La direttrice della Fpa è Suzanne Adams, una simpatica signora ultrasettantenne che ogni tanto organizza gite in barca nella baia di Manhattan, scampagnate in qualche factory outlet, incontri con Ivana Trump e degustazioni di rum o whisky. Il clou dell'attività della Fpa è l'annuale gala di maggio al Mark Hotel di Madison Avenue, in cui si distribuiscono borse di studio per giovani promettenti e si ascoltano big della politica e della comunicazione: George Stephanopoulos, ex addetto stampa di Bill Clinton e oggi presentatore di un talk show sulla tv Abc, oppure il rettore della Columbia University.
Un trantran dignitoso, che negli ultimi giorni è stato scosso da un acceso dibattito sulla pena di morte. A dar fuoco alle polveri è stato Roberto Rezzo, corrispondente dell'Unità da New York, che già aveva sollecitato una mobilitazione pro-Tookie presso i membri dell'Acina (Associazione Corrispondenti Italiani Nord America) L'Acina ha fatto circolare il testo dell'appello, invitando a sottoscriverlo. L'ex presidente della Fpa Jeffrey Blyth, invece, si è ribellato: «Perchè ai soci dell'Fpa viene chiesto di impegnarsi a favore di un assassino condannato a morte in California? Firmare appelli non è compito dei corrispondenti esteri negli Usa. Il suo giornale sa di questo suo impegno?». Risposta di Rezzo: «L'Unità è stata fondata nel 1924 dal filosofo Antonio Gramsci, e ha una solida reputazione nella difesa dei diritti umani. Mi appoggia in questa battaglia dandomi spazio e risorse. Il mio era solo un appello personale. Capisco che lei è favorevole alla pena di morte, e rispetto la sua opinione. Ma dubitare della mia etica professionale è inaccettabile».
Tuona Andy Robinson (La Vanguardia, Barcellona): «Ogni giornalista ha il dovere di difendere i diritti umani violati dalla pena di morte. E proprio questo dovrebbe fare la Fpa, invece di organizzare aperitivi sponsorizzati da industrie private. Sono anche choccato dal fatto che la nostra associazione abbia avuto un presidente favorevole alla pena capitale». Proprio in questi giorni la Fpa elegge il nuovo presidente. Il candidato Alan Capper (corripondente di una radio inglese) promette battagliero: «Non saremo più un club dove ci limitiamo a sorseggiare aperitivi». A questo punto non ci ho visto più e ho voluto dare un contributo al dibattito: «Sono personalmente contrario alla pena di morte, però i giornalisti dovrebbero rimanere neutrali, senza immischiarsi nei dibattiti interni americani. E poi i cocktail mi piacciono...»
Ana Grumberg, più nota come nuora del leggendario promoter di boxe bushiano Don King che come giornalista (collabora con una tv francese), molla una carico da novanta: «Io sto sempre dalla parte delle vittime [sottinteso: dei killer che vengono condannati a morte, ndr]. Chiedere ai colleghi di firmare questa petizione è offensivo. Non desideriamo neppure che ci venga chiesto di farlo. Tookie è un criminale incallito, che ha assassinato varie persone e vive gratis in prigione. A noi nessuno paga vitto e alloggio. Mantenere in carceri di lusso criminali della peggiore specie non è la mia idea di giustizia».
Alessandra Farkas (Corriere della Sera) cerca di elevare il dibattito: «La pena di morte riguarda più i diritti umani che la politica. Quasi tutti noi proveniamo da Paesi dove è stata abolita da parecchio. Gli Stati Uniti sono l'unica democrazia occidentale dov'è ancora in uso, assieme ad alcune fra le peggiori dittature del mondo. Non è questione di destra o sinistra, ma del diritto umano basilare alla vita».
«E il diritto alla vita di quelli che sono stati ammazzati, allora?», le risponde Daniela Hoffman della tv tedesca Rtl, «Gli assassini sapevano quali sarebbero state le conseguenze del loro atto se fossero stati presi. Mi preoccupa semmai la correttezza dei processi: troppo spesso in questo Paese viene condannato chi non ha i soldi per l'avvocato». Eva Schweitzer, freelance tedesca, raccoglie l'assist e vince la palma della più antiamericana: «Il miliardario assassino Robert Durst è a piede libero. E' ridicolo pretendere di essere neutrali. Se gli Stati Uniti vogliono fare i poliziotti del mondo, sottoponiamoli allo scrutinio del mondo intero: la cosa deve funzionare in entrambe le direzioni».
Secondo Amnesty International, nel 2004 in Cina ci sono state 3.400 esecuzioni, sul totale mondiale di 3.797. Per i radicali di Nessuno Tocchi Caino la cifra cinese è più vicina a 5.000. Il boia è attivissimo anche in Iran, Arabia Saudita e Vietnam. Negli Usa, una cinquantina di esecuzioni. Per ogni articolo che leggiamo su un giustiziato negli Usa, quindi, ce ne dovrebbero essere cento sulla Cina... se solo conoscessimo volto e nome dei condannati cinesi. Con due aggravanti: i processi in Cina sono assai meno equi che negli Usa, e non essendoci democrazia la maggioranza non può decidere sulla pena di morte. La maggioranza degli americani invece la approva. Ma i corrispondenti esteri, fra un cocktail e l'altro a Manhattan, sembrano dimenticarlo.
Mauro Suttora
Perché una pena di morte negli Stati Uniti surriscalda i giornalisti e le uccisioni a Pechino e in Iran no
Il Foglio, giovedi' 22 dicembre 2005
New York. La mobilitazione contro l'esecuzione di Stanley 'Tookie' Williams non è servita a nulla, ma ha provocato una memorabile tempesta fra i giornalisti esteri a New York. E' noto: l'unica Foreign Press Association (Fpa) che conta qualcosa negli Stati Uniti è quella di Hollywood. Non perchè i corrispondenti che si occupano di cinema siano più bravi, ma perchè ogni anno decidono chi premiare con i Golden Globe, cioè gli antipasti propiziatori degli Oscar. La Fpa di New York, invece, politicamente vale quanto l'Associazione Stampa Estera di Roma: poco. Iscriversi costa 70 dollari l'anno, dentro ci si trova di tutto: dai corrispondenti delle più prestigiose testate mondiali, a poveracci che si spacciano per giornalisti allo scopo di raccattare qualche invito a pranzi e cocktail. Non impone controlli sulle credenziali come quelli severi del Foreign Press Center governativo di Lexington Avenue, che pretende addirittura una prova certificata dai consolati dell'esistenza dei media per i quali si chiede l'accredito.
La direttrice della Fpa è Suzanne Adams, una simpatica signora ultrasettantenne che ogni tanto organizza gite in barca nella baia di Manhattan, scampagnate in qualche factory outlet, incontri con Ivana Trump e degustazioni di rum o whisky. Il clou dell'attività della Fpa è l'annuale gala di maggio al Mark Hotel di Madison Avenue, in cui si distribuiscono borse di studio per giovani promettenti e si ascoltano big della politica e della comunicazione: George Stephanopoulos, ex addetto stampa di Bill Clinton e oggi presentatore di un talk show sulla tv Abc, oppure il rettore della Columbia University.
Un trantran dignitoso, che negli ultimi giorni è stato scosso da un acceso dibattito sulla pena di morte. A dar fuoco alle polveri è stato Roberto Rezzo, corrispondente dell'Unità da New York, che già aveva sollecitato una mobilitazione pro-Tookie presso i membri dell'Acina (Associazione Corrispondenti Italiani Nord America) L'Acina ha fatto circolare il testo dell'appello, invitando a sottoscriverlo. L'ex presidente della Fpa Jeffrey Blyth, invece, si è ribellato: «Perchè ai soci dell'Fpa viene chiesto di impegnarsi a favore di un assassino condannato a morte in California? Firmare appelli non è compito dei corrispondenti esteri negli Usa. Il suo giornale sa di questo suo impegno?». Risposta di Rezzo: «L'Unità è stata fondata nel 1924 dal filosofo Antonio Gramsci, e ha una solida reputazione nella difesa dei diritti umani. Mi appoggia in questa battaglia dandomi spazio e risorse. Il mio era solo un appello personale. Capisco che lei è favorevole alla pena di morte, e rispetto la sua opinione. Ma dubitare della mia etica professionale è inaccettabile».
Tuona Andy Robinson (La Vanguardia, Barcellona): «Ogni giornalista ha il dovere di difendere i diritti umani violati dalla pena di morte. E proprio questo dovrebbe fare la Fpa, invece di organizzare aperitivi sponsorizzati da industrie private. Sono anche choccato dal fatto che la nostra associazione abbia avuto un presidente favorevole alla pena capitale». Proprio in questi giorni la Fpa elegge il nuovo presidente. Il candidato Alan Capper (corripondente di una radio inglese) promette battagliero: «Non saremo più un club dove ci limitiamo a sorseggiare aperitivi». A questo punto non ci ho visto più e ho voluto dare un contributo al dibattito: «Sono personalmente contrario alla pena di morte, però i giornalisti dovrebbero rimanere neutrali, senza immischiarsi nei dibattiti interni americani. E poi i cocktail mi piacciono...»
Ana Grumberg, più nota come nuora del leggendario promoter di boxe bushiano Don King che come giornalista (collabora con una tv francese), molla una carico da novanta: «Io sto sempre dalla parte delle vittime [sottinteso: dei killer che vengono condannati a morte, ndr]. Chiedere ai colleghi di firmare questa petizione è offensivo. Non desideriamo neppure che ci venga chiesto di farlo. Tookie è un criminale incallito, che ha assassinato varie persone e vive gratis in prigione. A noi nessuno paga vitto e alloggio. Mantenere in carceri di lusso criminali della peggiore specie non è la mia idea di giustizia».
Alessandra Farkas (Corriere della Sera) cerca di elevare il dibattito: «La pena di morte riguarda più i diritti umani che la politica. Quasi tutti noi proveniamo da Paesi dove è stata abolita da parecchio. Gli Stati Uniti sono l'unica democrazia occidentale dov'è ancora in uso, assieme ad alcune fra le peggiori dittature del mondo. Non è questione di destra o sinistra, ma del diritto umano basilare alla vita».
«E il diritto alla vita di quelli che sono stati ammazzati, allora?», le risponde Daniela Hoffman della tv tedesca Rtl, «Gli assassini sapevano quali sarebbero state le conseguenze del loro atto se fossero stati presi. Mi preoccupa semmai la correttezza dei processi: troppo spesso in questo Paese viene condannato chi non ha i soldi per l'avvocato». Eva Schweitzer, freelance tedesca, raccoglie l'assist e vince la palma della più antiamericana: «Il miliardario assassino Robert Durst è a piede libero. E' ridicolo pretendere di essere neutrali. Se gli Stati Uniti vogliono fare i poliziotti del mondo, sottoponiamoli allo scrutinio del mondo intero: la cosa deve funzionare in entrambe le direzioni».
Secondo Amnesty International, nel 2004 in Cina ci sono state 3.400 esecuzioni, sul totale mondiale di 3.797. Per i radicali di Nessuno Tocchi Caino la cifra cinese è più vicina a 5.000. Il boia è attivissimo anche in Iran, Arabia Saudita e Vietnam. Negli Usa, una cinquantina di esecuzioni. Per ogni articolo che leggiamo su un giustiziato negli Usa, quindi, ce ne dovrebbero essere cento sulla Cina... se solo conoscessimo volto e nome dei condannati cinesi. Con due aggravanti: i processi in Cina sono assai meno equi che negli Usa, e non essendoci democrazia la maggioranza non può decidere sulla pena di morte. La maggioranza degli americani invece la approva. Ma i corrispondenti esteri, fra un cocktail e l'altro a Manhattan, sembrano dimenticarlo.
Mauro Suttora
Wednesday, December 21, 2005
Tibet, basta nonviolenza?
"SIAMO TROPPO PASSIVI", PRIMI DUBBI TIBETANI SULLA NONVIOLENZA
Il Foglio
21 dicembre 2005
New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.
La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".
Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.
Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"
Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.
La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.
"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.
I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.
Il Foglio
21 dicembre 2005
New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.
La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".
Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.
Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"
Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.
La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.
"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.
I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.
Tuesday, December 13, 2005
Tookie condannato a morte
PREMIO NOBEL O SEDIA ELETTRICA PER TOOKIE?
Oggi, 8 dicembre 2005
Alla fine sarà Arnold Schwarzenegger a graziarlo? Il governatore della California decide l'8 dicembre, la sedia elettrica è pronta per il 13. Stan(ley) «Tookie» Williams, 51 anni, di colore, è uno delle centinaia di condannati alla pena capitale che aspettano nei bracci della morte americani per decenni. A 17 anni, nel 1971, aveva fondato una banda di giovani criminali: i Crits. Le gang di Los Angeles sono famigerate, fanno quasi parte del paesaggio assieme alla collina di Bel Air e alla spiaggia di Santa Monica. I telefilm ci hanno abituati alla loro imprese: scontri con le bande rivali, rapine, stupri, traffici di droga.
Nel '79 Albert Lewis Owens aveva due figlie ed era il cassiere di un 7/11, un supermercatino aperto 24 ore su 24. Stan lo trascinò in una stanza sul retro e gli ordinò di inginocchiarsi. Poi lo colpì con due pistolettate sul collo, stile esecuzione, dopo che lui e i complici si erano impadroniti del contante. In seguito Stan si vantò di aver «fatto fuori un bianco, gli ho sparato alla schiena per 63 dollari».
Undici giorni dopo. Nella reception del motel Brookhaven c'erano i proprietari, i coniugi cinesi sessantenni Yen-I Yang e Tsai-Shai Chen Yang, con la figlia Yu-Chin Yang Lin, 42 anni. La banda di Stan irruppe dalla porta per rapinare l'incasso. La famigliola venne tenuta a bada in un angolo con una pistola spianata. Poi dodici colpi in tutto, a bruciapelo. Le due donne agonizzarono un paio d'ore prima di morire. Stan in tutta calma si chinò per recuperare i bossoli, non voleva che la sua pistola firmasse la strage. Purtroppo per lui, ne dimenticò uno. E quando venne arrestato, qualche giorno dopo, nella sua auto c'era la pistola. Omicidi inutili, gratuiti. Le vittime non rappresentavano più alcun pericolo per i rapinatori, vennero assassinate a sangue freddo. Due anni dopo arriva la condanna a morte per Stan, il capobanda.
Da allora, però, la versione ufficiale è stata messa in discussione. Attorno a Stan, incarcerato a San Quintino, si raccoglie un comitato che esamina ogni particolare del processo. Stan si pente per gli anni passati a seminare il terrore a Los Angeles, ma non ammette quegli omicidi. «La condanna si basa su indizi, non su prove», sostengono i suoi avvocati. I testimoni che lo hanno inchiodato avevano interesse a farlo: erano tutti alla ricerca di attenuanti per reati gravissimi come stupri, mutilazioni e omicidi. Di fronte all'ennesimo appello, nel 2002 una corte ammise che gli accusatori di Stan avevano la fedina penale sporca, e un incentivo a mentire per ottenere clemenza.
«Sulle scene dei delitti sono state rilevate impronte digitali», incalzano gli avvocati di Stan, «ma non le sue. La traccia di uno stivale insanguinato non apparteneva a lui. Il bossolo trovato? Sì, proveniva da una pistola comprata da Stan cinque anni prima. Ma non è vero che l'arma è stata rinvenuta nella sua auto: era sotto il letto di una coppia incriminata per truffa a un'assicurazione e indagata per aver ucciso un loro complice. Marito e moglie l'hanno fatta franca dopo aver testimoniato contro Stan».
Quanto al testimone principale dell'accusa, un pregiudicato bianco che si trovava nella cella accanto a quella di Stan durante il processo, anni dopo si è scoperto che era stato un informatore pagato della polizia. Davanti alla corte aveva detto che Stan si era confidato con lui, confessando tutto. Dopodichè le sue accuse, omicidio e stupro, vennero derubricate e grazie a qualche attenuante ha ottenuto la possibilità della libertà condizionale.
La giuria, poi: gli unici tre giurati di colore sono stati ricusati dal pubblico ministero, per cui la corte di dodici persone era quasi interamente bianca, tranne un sudamericano e un filippino. Lo stesso rappresentante dell'accusa è stato tacciato di razzismo, per aver detto durante le sue arringhe che Stan assomigliava a una «tigre del Bengala rinchiusa nello zoo di San Diego», il cui «ambiente naturale è la giungla, come quella di certi quartieri di Los Angeles».
Fin qui, quello di Stan Williams sarebbe un giallo giudiziario come tanti. Il problema è che Stan, ormai 51enne, dopo un quarto di secolo è diventato un'altra persona rispetto al bullo da gang che era prima. Ha scritto nove libri di successo per bambini, e in tutti incita i ragazzini a evitare la cultura di morte e sopraffazione di cui negli anni Settanta era uno dei simboli, almeno nei ghetti. Ha fatto il volontario per molti programmi che cercano di tenere i ragazzi lontani dalle strade, ricevendo perfino un premio dal presidente degli Stati Uniti la scorsa estate. Ha scritto un'autobiografia: Blue Rage, Black Redemption (Rabbia blu, Redenzione nera), e l'attore Jamie Foxx, premio Oscar 2005 per il film Ray sulla vita del cantante Ray Charles, l'anno scorso ha interpretato un film tv proprio sulla figura diventata ormai famosa di Stan Williams.
La conversione di Stan lo ha fatto perfino candidare al premio Nobel, già nel 2000: per la letteratura, e anche per la pace. Chiedono la grazia, fra gli altri, gli attori Tim Robbins (protagonista nel '94 di un film simile alla vicenda di Stan, Le ali della libertà), sua moglie Susan Sarandon, Anjelica Huston, la cantante Bonnie Raitt, tutti i musicisti rap, il politico di colore Jesse Jackson. I giovani delinquenti di colore rinchiusi nelle prigioni americane hanno fatto di Stan un idolo: rappresenta la loro speranza di redenzione. E ce ne sono tanti, perchè negli Usa i carcerati sono ben due milioni: otto volte più che in Italia, in proporzione agli abitanti.
L'11 ottobre, però, la Corte suprema degli Stati Uniti si è espressa definitivamente sull'ultimo appello presentato dagli avvocati di Stan: niente da fare, gli appigli sono finiti, preparate la sedia elettrica. Ora l'ultima speranza è nelle mani di Schwarzenegger. Qualcuno la butta in politica, e sostiene che il governatore grazierà Stan per ingraziarsi gli elettori di colore alle prossime elezioni. Dalla sua cella di un metro e 30 per tre, Stan Williams aspetta.
Mauro Suttora
Oggi, 8 dicembre 2005
Alla fine sarà Arnold Schwarzenegger a graziarlo? Il governatore della California decide l'8 dicembre, la sedia elettrica è pronta per il 13. Stan(ley) «Tookie» Williams, 51 anni, di colore, è uno delle centinaia di condannati alla pena capitale che aspettano nei bracci della morte americani per decenni. A 17 anni, nel 1971, aveva fondato una banda di giovani criminali: i Crits. Le gang di Los Angeles sono famigerate, fanno quasi parte del paesaggio assieme alla collina di Bel Air e alla spiaggia di Santa Monica. I telefilm ci hanno abituati alla loro imprese: scontri con le bande rivali, rapine, stupri, traffici di droga.
Nel '79 Albert Lewis Owens aveva due figlie ed era il cassiere di un 7/11, un supermercatino aperto 24 ore su 24. Stan lo trascinò in una stanza sul retro e gli ordinò di inginocchiarsi. Poi lo colpì con due pistolettate sul collo, stile esecuzione, dopo che lui e i complici si erano impadroniti del contante. In seguito Stan si vantò di aver «fatto fuori un bianco, gli ho sparato alla schiena per 63 dollari».
Undici giorni dopo. Nella reception del motel Brookhaven c'erano i proprietari, i coniugi cinesi sessantenni Yen-I Yang e Tsai-Shai Chen Yang, con la figlia Yu-Chin Yang Lin, 42 anni. La banda di Stan irruppe dalla porta per rapinare l'incasso. La famigliola venne tenuta a bada in un angolo con una pistola spianata. Poi dodici colpi in tutto, a bruciapelo. Le due donne agonizzarono un paio d'ore prima di morire. Stan in tutta calma si chinò per recuperare i bossoli, non voleva che la sua pistola firmasse la strage. Purtroppo per lui, ne dimenticò uno. E quando venne arrestato, qualche giorno dopo, nella sua auto c'era la pistola. Omicidi inutili, gratuiti. Le vittime non rappresentavano più alcun pericolo per i rapinatori, vennero assassinate a sangue freddo. Due anni dopo arriva la condanna a morte per Stan, il capobanda.
Da allora, però, la versione ufficiale è stata messa in discussione. Attorno a Stan, incarcerato a San Quintino, si raccoglie un comitato che esamina ogni particolare del processo. Stan si pente per gli anni passati a seminare il terrore a Los Angeles, ma non ammette quegli omicidi. «La condanna si basa su indizi, non su prove», sostengono i suoi avvocati. I testimoni che lo hanno inchiodato avevano interesse a farlo: erano tutti alla ricerca di attenuanti per reati gravissimi come stupri, mutilazioni e omicidi. Di fronte all'ennesimo appello, nel 2002 una corte ammise che gli accusatori di Stan avevano la fedina penale sporca, e un incentivo a mentire per ottenere clemenza.
«Sulle scene dei delitti sono state rilevate impronte digitali», incalzano gli avvocati di Stan, «ma non le sue. La traccia di uno stivale insanguinato non apparteneva a lui. Il bossolo trovato? Sì, proveniva da una pistola comprata da Stan cinque anni prima. Ma non è vero che l'arma è stata rinvenuta nella sua auto: era sotto il letto di una coppia incriminata per truffa a un'assicurazione e indagata per aver ucciso un loro complice. Marito e moglie l'hanno fatta franca dopo aver testimoniato contro Stan».
Quanto al testimone principale dell'accusa, un pregiudicato bianco che si trovava nella cella accanto a quella di Stan durante il processo, anni dopo si è scoperto che era stato un informatore pagato della polizia. Davanti alla corte aveva detto che Stan si era confidato con lui, confessando tutto. Dopodichè le sue accuse, omicidio e stupro, vennero derubricate e grazie a qualche attenuante ha ottenuto la possibilità della libertà condizionale.
La giuria, poi: gli unici tre giurati di colore sono stati ricusati dal pubblico ministero, per cui la corte di dodici persone era quasi interamente bianca, tranne un sudamericano e un filippino. Lo stesso rappresentante dell'accusa è stato tacciato di razzismo, per aver detto durante le sue arringhe che Stan assomigliava a una «tigre del Bengala rinchiusa nello zoo di San Diego», il cui «ambiente naturale è la giungla, come quella di certi quartieri di Los Angeles».
Fin qui, quello di Stan Williams sarebbe un giallo giudiziario come tanti. Il problema è che Stan, ormai 51enne, dopo un quarto di secolo è diventato un'altra persona rispetto al bullo da gang che era prima. Ha scritto nove libri di successo per bambini, e in tutti incita i ragazzini a evitare la cultura di morte e sopraffazione di cui negli anni Settanta era uno dei simboli, almeno nei ghetti. Ha fatto il volontario per molti programmi che cercano di tenere i ragazzi lontani dalle strade, ricevendo perfino un premio dal presidente degli Stati Uniti la scorsa estate. Ha scritto un'autobiografia: Blue Rage, Black Redemption (Rabbia blu, Redenzione nera), e l'attore Jamie Foxx, premio Oscar 2005 per il film Ray sulla vita del cantante Ray Charles, l'anno scorso ha interpretato un film tv proprio sulla figura diventata ormai famosa di Stan Williams.
La conversione di Stan lo ha fatto perfino candidare al premio Nobel, già nel 2000: per la letteratura, e anche per la pace. Chiedono la grazia, fra gli altri, gli attori Tim Robbins (protagonista nel '94 di un film simile alla vicenda di Stan, Le ali della libertà), sua moglie Susan Sarandon, Anjelica Huston, la cantante Bonnie Raitt, tutti i musicisti rap, il politico di colore Jesse Jackson. I giovani delinquenti di colore rinchiusi nelle prigioni americane hanno fatto di Stan un idolo: rappresenta la loro speranza di redenzione. E ce ne sono tanti, perchè negli Usa i carcerati sono ben due milioni: otto volte più che in Italia, in proporzione agli abitanti.
L'11 ottobre, però, la Corte suprema degli Stati Uniti si è espressa definitivamente sull'ultimo appello presentato dagli avvocati di Stan: niente da fare, gli appigli sono finiti, preparate la sedia elettrica. Ora l'ultima speranza è nelle mani di Schwarzenegger. Qualcuno la butta in politica, e sostiene che il governatore grazierà Stan per ingraziarsi gli elettori di colore alle prossime elezioni. Dalla sua cella di un metro e 30 per tre, Stan Williams aspetta.
Mauro Suttora
Wednesday, December 07, 2005
Economia Usa a tutta birra
Bush vuole sempre meno tasse, qualche amico e' perplesso. Se Snow lascia non e' crisi, e' prassi
Il Foglio
mercoledi 7 dicembre 2005
New York. I 600 operai in tuta della Deere-Hitachi, fabbrica di ruspe idrauliche, lo interrompono spesso con applausi. Manco fossero la platea in divisa dei suoi ultimi discorsi. Ma hanno ottime ragioni per farlo, perchè i numeri che George Bush sta snocciolando sono trionfali: quattro milioni e mezzo di posti di lavoro creati negli ultimi quattro anni, 215mila solo nell’ultimo mese, produttività in aumento, boom dell’economia. Trimestre dopo trimestre, implacabile, il pil degli Stati Uniti esibisce percentuali di crescita quadruple rispetto alla vecchia Europa: mai sotto il quattro per cento. E il presidente arriva in una fabbrica di Kernersville, nella Carolina del Nord, per galvanizzare un’opinione pubblica abbacchiata dallo stallo in Iraq: “I tagli alle tasse funzionano, oggi in America tutti quelli che cercano lavoro lo trovano”, proclama orgoglioso.
Ci si lamenta per l’outsourcing, ma qui i posti di lavoro non fuggono in Cina o in Messico: aumentano, invece, nella joint-venture nippoamericana nata nel 1988 che negli ultimi mesi ha superato i mille dipendenti. Ottime notizie quindi per l’economia americana, e se il ministro del Tesoro John Snow si dimetterà dopo tre anni sarà solo per un pacifico avvicendamento. Il candidato a succedergli è Andrew Card, capo di gabinetto del presidente, terzo fedelissimo insider della Casa Bianca che verrebbe così promosso al rango di ministro dopo Condi Rice agli Esteri e Alberto Gonzalez alla Giustizia. Snow si è messo in urto con Dennis Hastert, presidente repubblicano della Camera, negando per tre volte prestiti federali alla compagnia aerea in bancarotta United Airlines che ha la sede proprio nello stato di Hastert, l’Illinois.
Bush attribuisce il merito della crescita continua alla propria politica fiscale: “Qualche politicante a Washington vorrebbe chiedervi più soldi, io invece chiedo al Congresso di rendere permanenti i tagli alle tasse”, annuncia accentuando l’accento texano, in simpatia con la pronuncia strascicata sudista di queste parti. Frasi semplici e secche, scritte da ottimi speechwriters che fanno arrivare il presidente al cuore del pubblico: “Lo so, il petrolio e il riscaldamento costano di più, anche se dopo gli aumenti dell’uragano Katrina la benzina è tornata ai prezzi di prima. Ma l’energia è un problema. Dobbiamo risparmiare, e la legge approvata l’anno scorso va in questa direzione. I nostri nipoti faranno andare le loro auto col mais e l’idrogeno, ho introdotto misure per le energie alternative. Sacrificando solo duemila acri in Alaska potremo sfruttare le risorse sotterranee di milioni di acri, nel rispetto della natura. Da lì ci arriveranno un milione di barili di petrolio al giorno, che ci renderanno meno dipendenti dall’estero”.
Tiene duro anche sulla riforma delle pensioni, Bush, nonostante la scarsa fortuna del suo tour propagandistico post-elettorale di inizio 2005: “Il dovere di un presidente è affrontare i problemi, non di rinviarli alle generazioni future”. E proprio come fece durante la campagna presidenziale dell’anno scorso, ribadisce che sono i lavoratori, gli imprenditori, gli agricoltori, a creare la ricchezza del Paese. Non il governo: “Il nostro ruolo è solo quello di creare un ambiente in cui la piccola impresa possa diventare grande, in cui l’imprenditore prosperi, e dove la gente che sogna di comprarsi una casa sia in grado di farlo”.
La ricetta Bush per l’economia non è cambiata in questi cinque anni di governo: meno tasse, commercio libero, immigrazione generosa. Sul free trade sta correndo rischi grossi: il deficit commerciale Usa l’anno scorso ha raggiunto i 668 miliardi di dollari. Ma il presidente ci crede fino in fondo, è convinto che globalizzazione e liberalizzazione del commercio internazionale siano le basi per la ricchezza non solo degli Stati Uniti, ma di tutti i Paesi che vi partecipano.
Peccato che questo entusiasmo presidenziale americano non sia condiviso dall’Europa protezionista in agricoltura. La quale oppone barriere anche nelle altre due industrie ‘A’ della supremazia statunitense: aeronautica e audiovisiva. Fino a disegnare una letale alleanza anti-Usa con i dittatori di Pechino: apertura di fabbriche Airbus in Cina, in cambio del monopolio sull’immenso mercato aereo cinese. Andrebbero così all’aria tutte le precauzioni di Washington sul trasferimento di alta tecnologia con applicazioni militari alla Cina. Una Cina che ha appena dichiarato ufficialmente di “non volere accettare mai l’indipendenza di Taiwan”. Pochi dirigenti Usa hanno studiato Lenin, ma la maggiore dimestichezza degli europei con il padre del comunismo realizzato non impedisce loro di “vendere anche la corda con cui verranno impiccati”.
E qui si torna al problema del deficit. Perchè il debito pubblico Usa è di ottomila miliardi di dollari, e aumenta di un miliardo e mezzo al giorno. Gli americani stanno spendendo più di quello che guadagnano e comprando più di quello che vendono. Due terzi del debito estero statunitense sono nelle mani di appena quattro Paesi asiatici: Cina, Giappone, Corea e Taiwan. Se questi grandi creditori si mettessero d’accordo, potrebbero far crollare il dollaro in poche ore. Ciò non accadrà, perchè assieme ai filistei morirebbe anche Sansone. Ma Bush è conscio del problema, e anche davanti ai fortunati operai della Carolina del Nord promette: “Dimezzeremo il deficit entro il 2009”. E’ sulla buona strada: il disavanzo federale si è ridotto di un quarto in un solo anno. Il rosso è passato dai 413 miliardi del 2004 ai 318 di quest’anno (un risultato che, ancora una volta, fa vergognare l’Europa). Ma l’anno prossimo risalirà a 341, e per questo sia il presidente della Federal Reserve Bruce Greenspan sia il suo successore (da gennaio) Ben Bernanke continuano a insistere sui conti.
Bush si impegna alla disciplina sulla spesa: “Tutta quella che non riguarda la sicurezza verrà limitata. Ma siamo in guerra, e non faremo mancare nulla ai nostri soldati”. Sui 500 miliardi annui al Pentagono (rispetto ai 300 dell’era Clinton) neanche i democratici osano metter voce. Per due motivi: non vogliono apparire poco “patriottici”, e ognuno di loro ha nel proprio collegio elettorale una fabbrica o una base militare. Così, si arriva al paradosso di un Paese ricchissimo in cui, grazie a tasse che non sono mai state così basse, le grandi imprese non sanno dove stivare i propri profitti, che non sono mai stati così alti. Ma che, ammonisce il repubblicano Peter Peterson, ex ministro del Commercio di Richard Nixon, prendendo a prestito il titolo di una canzone di Jackson Browne, sta correndo sul vuoto, “running on empty”. Il burrone è rappresentato dal doppio deficit: quello commerciale (troppo import, poco export) e quello di bilancio (troppe spese, poche tasse).
“L’economia tira come una locomotiva, non cresceva così dal ‘99, c’è veramente bisogno di altri tagli fiscali per stimolarla?”, si domanda il settimanale “Weekly Standard” di Rupert Murdoch, organo dei neoconservatori. Come tutte le perplessità, sono quelle degli amici a fare più male. George Bush vittima del proprio trionfo, insomma. La ricetta liberista reaganiana ha funzionato ancora una volta, la barca è lanciatissima, ma forse è giunto il momento di metter dentro i remi per non andare a sbattere.
Mauro Suttora
Il Foglio
mercoledi 7 dicembre 2005
New York. I 600 operai in tuta della Deere-Hitachi, fabbrica di ruspe idrauliche, lo interrompono spesso con applausi. Manco fossero la platea in divisa dei suoi ultimi discorsi. Ma hanno ottime ragioni per farlo, perchè i numeri che George Bush sta snocciolando sono trionfali: quattro milioni e mezzo di posti di lavoro creati negli ultimi quattro anni, 215mila solo nell’ultimo mese, produttività in aumento, boom dell’economia. Trimestre dopo trimestre, implacabile, il pil degli Stati Uniti esibisce percentuali di crescita quadruple rispetto alla vecchia Europa: mai sotto il quattro per cento. E il presidente arriva in una fabbrica di Kernersville, nella Carolina del Nord, per galvanizzare un’opinione pubblica abbacchiata dallo stallo in Iraq: “I tagli alle tasse funzionano, oggi in America tutti quelli che cercano lavoro lo trovano”, proclama orgoglioso.
Ci si lamenta per l’outsourcing, ma qui i posti di lavoro non fuggono in Cina o in Messico: aumentano, invece, nella joint-venture nippoamericana nata nel 1988 che negli ultimi mesi ha superato i mille dipendenti. Ottime notizie quindi per l’economia americana, e se il ministro del Tesoro John Snow si dimetterà dopo tre anni sarà solo per un pacifico avvicendamento. Il candidato a succedergli è Andrew Card, capo di gabinetto del presidente, terzo fedelissimo insider della Casa Bianca che verrebbe così promosso al rango di ministro dopo Condi Rice agli Esteri e Alberto Gonzalez alla Giustizia. Snow si è messo in urto con Dennis Hastert, presidente repubblicano della Camera, negando per tre volte prestiti federali alla compagnia aerea in bancarotta United Airlines che ha la sede proprio nello stato di Hastert, l’Illinois.
Bush attribuisce il merito della crescita continua alla propria politica fiscale: “Qualche politicante a Washington vorrebbe chiedervi più soldi, io invece chiedo al Congresso di rendere permanenti i tagli alle tasse”, annuncia accentuando l’accento texano, in simpatia con la pronuncia strascicata sudista di queste parti. Frasi semplici e secche, scritte da ottimi speechwriters che fanno arrivare il presidente al cuore del pubblico: “Lo so, il petrolio e il riscaldamento costano di più, anche se dopo gli aumenti dell’uragano Katrina la benzina è tornata ai prezzi di prima. Ma l’energia è un problema. Dobbiamo risparmiare, e la legge approvata l’anno scorso va in questa direzione. I nostri nipoti faranno andare le loro auto col mais e l’idrogeno, ho introdotto misure per le energie alternative. Sacrificando solo duemila acri in Alaska potremo sfruttare le risorse sotterranee di milioni di acri, nel rispetto della natura. Da lì ci arriveranno un milione di barili di petrolio al giorno, che ci renderanno meno dipendenti dall’estero”.
Tiene duro anche sulla riforma delle pensioni, Bush, nonostante la scarsa fortuna del suo tour propagandistico post-elettorale di inizio 2005: “Il dovere di un presidente è affrontare i problemi, non di rinviarli alle generazioni future”. E proprio come fece durante la campagna presidenziale dell’anno scorso, ribadisce che sono i lavoratori, gli imprenditori, gli agricoltori, a creare la ricchezza del Paese. Non il governo: “Il nostro ruolo è solo quello di creare un ambiente in cui la piccola impresa possa diventare grande, in cui l’imprenditore prosperi, e dove la gente che sogna di comprarsi una casa sia in grado di farlo”.
La ricetta Bush per l’economia non è cambiata in questi cinque anni di governo: meno tasse, commercio libero, immigrazione generosa. Sul free trade sta correndo rischi grossi: il deficit commerciale Usa l’anno scorso ha raggiunto i 668 miliardi di dollari. Ma il presidente ci crede fino in fondo, è convinto che globalizzazione e liberalizzazione del commercio internazionale siano le basi per la ricchezza non solo degli Stati Uniti, ma di tutti i Paesi che vi partecipano.
Peccato che questo entusiasmo presidenziale americano non sia condiviso dall’Europa protezionista in agricoltura. La quale oppone barriere anche nelle altre due industrie ‘A’ della supremazia statunitense: aeronautica e audiovisiva. Fino a disegnare una letale alleanza anti-Usa con i dittatori di Pechino: apertura di fabbriche Airbus in Cina, in cambio del monopolio sull’immenso mercato aereo cinese. Andrebbero così all’aria tutte le precauzioni di Washington sul trasferimento di alta tecnologia con applicazioni militari alla Cina. Una Cina che ha appena dichiarato ufficialmente di “non volere accettare mai l’indipendenza di Taiwan”. Pochi dirigenti Usa hanno studiato Lenin, ma la maggiore dimestichezza degli europei con il padre del comunismo realizzato non impedisce loro di “vendere anche la corda con cui verranno impiccati”.
E qui si torna al problema del deficit. Perchè il debito pubblico Usa è di ottomila miliardi di dollari, e aumenta di un miliardo e mezzo al giorno. Gli americani stanno spendendo più di quello che guadagnano e comprando più di quello che vendono. Due terzi del debito estero statunitense sono nelle mani di appena quattro Paesi asiatici: Cina, Giappone, Corea e Taiwan. Se questi grandi creditori si mettessero d’accordo, potrebbero far crollare il dollaro in poche ore. Ciò non accadrà, perchè assieme ai filistei morirebbe anche Sansone. Ma Bush è conscio del problema, e anche davanti ai fortunati operai della Carolina del Nord promette: “Dimezzeremo il deficit entro il 2009”. E’ sulla buona strada: il disavanzo federale si è ridotto di un quarto in un solo anno. Il rosso è passato dai 413 miliardi del 2004 ai 318 di quest’anno (un risultato che, ancora una volta, fa vergognare l’Europa). Ma l’anno prossimo risalirà a 341, e per questo sia il presidente della Federal Reserve Bruce Greenspan sia il suo successore (da gennaio) Ben Bernanke continuano a insistere sui conti.
Bush si impegna alla disciplina sulla spesa: “Tutta quella che non riguarda la sicurezza verrà limitata. Ma siamo in guerra, e non faremo mancare nulla ai nostri soldati”. Sui 500 miliardi annui al Pentagono (rispetto ai 300 dell’era Clinton) neanche i democratici osano metter voce. Per due motivi: non vogliono apparire poco “patriottici”, e ognuno di loro ha nel proprio collegio elettorale una fabbrica o una base militare. Così, si arriva al paradosso di un Paese ricchissimo in cui, grazie a tasse che non sono mai state così basse, le grandi imprese non sanno dove stivare i propri profitti, che non sono mai stati così alti. Ma che, ammonisce il repubblicano Peter Peterson, ex ministro del Commercio di Richard Nixon, prendendo a prestito il titolo di una canzone di Jackson Browne, sta correndo sul vuoto, “running on empty”. Il burrone è rappresentato dal doppio deficit: quello commerciale (troppo import, poco export) e quello di bilancio (troppe spese, poche tasse).
“L’economia tira come una locomotiva, non cresceva così dal ‘99, c’è veramente bisogno di altri tagli fiscali per stimolarla?”, si domanda il settimanale “Weekly Standard” di Rupert Murdoch, organo dei neoconservatori. Come tutte le perplessità, sono quelle degli amici a fare più male. George Bush vittima del proprio trionfo, insomma. La ricetta liberista reaganiana ha funzionato ancora una volta, la barca è lanciatissima, ma forse è giunto il momento di metter dentro i remi per non andare a sbattere.
Mauro Suttora
Tuesday, November 22, 2005
Il wrestler Guerrero
CON LA DROGA NON SI VINCE MAI, ANCHE EDDIE HA PERSO
Oggi, 14 novembre 2005
Eddie Guerrero: decine di milioni di fans del wrestling lo adoravano, in tutto il mondo. E quando lo hanno trovato morto, il mattino della scorsa domenica in una stanza d’albergo a Minneapolis, con lo spazzolino ancora in bocca, il dolore per la scomparsa di questo «eroe» trentottenne è stato istantaneo e planetario. Una valanga di messaggi di cordoglio si è riversata sul suo sito internet e nei programmi Tv di questa strana disciplina, a metà strada fra lo sport e il circo. Eddie si drogava, strabeveva, si dopava. Tutti lo sapevano. Lui non lo nascondeva. Ma proprio per questo risultava vero, maledetto e, tutto sommato, simpatico.
Il wrestling o lo si ama o lo si odia. Lo detestano soprattutto i genitori dei ragazzini che vengono ipnotizzati dallo spettacolo trucido di energumeni che se la danno di santa ragione, senza regole apparenti, dentro e fuori dal ring. La scorsa primavera alcune associazioni e parlamentari anche in Italia hanno chiesto di bandirlo dai teleschermi, perchè troppo violento. Ma i palasport di tutto il pianeta si riempiono quando i campioni del wrestling arrivano in città con il loro spettacolo. E Italia Uno, di fronte a tanto successo, ha raddoppiato lo spazio dedicato ai «lottatori»: da una a due ore ogni sabato sera, dalle sette alle nove. Ogni giorno alle 19.30 il canale Sport Italia offre mezz’ora degli spettacoli originali americani con i sottotitoli. E vanno a ruba videogiochi, tatuaggi, magliette, dvd, figurine, pupazzi, perfino uova di Pasqua...
Eddie Guerrero avrebbe dovuto arrivare in Italia proprio questa settimana, assieme agli altri campioni: Dave Batista, Randy Orton, Christian, JBL. Tutto esaurito a Roma, Milano, Livorno, Ancona, Bolzano. Come la Formula Uno di Bernie Ecclestone, anche il wrestling mondiale è controllato da un’unica persona: Vince McMahon, 60 anni, cresciuto in una roulotte con la madre e i suoi amanti, primo cadetto di una scuola militare Usa a finire sotto corte marziale, processato e assolto una dozzina d’anni fa per aver somministrato steroidi agli atleti della sua organizzazione, la Wwe (World Wrestling Entertainment).
Negli ultimi anni la mania per il wrestling è esplosa, tanto che McMahon ha trovato conveniente dividere in due lo spettacolo che porta in giro per il mondo: da una parte i «blu» del torneo Smackdown, dall’altra i «rossi» del Raw. Mentre una va in tournée nell’emisfero nord, l’altra copre quello sud. Uno dei più grandi wrestlers della storia è stato il giapponese Antonio Inoki, oggi 62enne: intelligentissimo, finita la carriera sul ring si è dato alla politica ed è diventato ministro dello Sport.
Eddie Guerrero, invece, era messicano. Fiero delle proprie origini, e infatti come soprannome aveva scelto “La Raza”. Praticamente tutti nella sua famiglia sono lottatori: padre, zio, fratelli maggiori, cugino, nipoti (fra cui Chavo, ora una star anche lui). A 25 anni la sua fama esce dai confini del Messico, Eddie comincia a esibirsi fra Stati Uniti e Giappone. Nel 1994 il suo migliore amico e collega Art Barr viene trovato morto per abuso di alcol e stupefacenti. Eddie non si riprenderà più da questa scomparsa. Nel frattempo si è sposato con Vicky, dalla quale ha tre figlie: Shaul (oggi 14enne), Sherilyn, 9, e Kaylie Marie, 3.
Nel Capodanno 1998 è vittima di un gravissimo incidente automobilistico. Riporta fratture multiple causate da un volo di trenta metri fuori dalla sua auto, ma sopravvive e dopo soli sei mesi torna sul ring. Inizia però la dipendenza dagli antidolorifici, per superare le continue fitte provocate dalle vertebre incrinate per sempre. Nel giugno 2001 il gran patron McMahon convince Eddie a ricoverarsi in un centro di riabilitazione da alcol e droga, dopo che il wrestler si presenta ad uno show televisivo in uno stato inguardabile. Viene così sospeso per permettergli le cure mediche necessarie. A novembre McMahon lo riaccoglie a braccie aperte nella federazione, dopo che sembra avere superato i suoi problemi di dipendenza. Poi però viene arrestato per guida in stato di ebbrezza, e la Wwe lo licenzia.
Ma Guerrero ce la fa a sollevarsi per l’ennesima volta dalla polvere, e riottiene una parte nella continua telenovela che la Wwe mette in scena. «Ultimamente i suoi grandi duelli erano con un altro supercampione, Rey Mysterio», spiega Marco Bianchi, dirigente assicurativo a Udine e appassionato di wrestling nonostante i suoi 46 anni: «Eddie sosteneva di essere il vero padre del figlio di Rey, tanto che si presentava sul ring con una maglietta con su scritto ‘I am your papi’. Ciò aizzava l’ira di Ray. La mossa più spettacolare di questo Mysterio è la cosiddetta 619, ovvero il prefisso telefonico della città di San Diego. Significa che quando lui la infligge ai suoi avversari, fingendo di dar loro un doppio calcio sul viso, è come se chiamasse la moglie a casa per avvertirla che ha vinto, e che quindi sta tornando...»
Ma come fanno questi incredibili sbatacchiamenti, calci su ogni parte del corpo, strangolamenti simulati, urla di dolore e colpi proibiti, ad affascinare tante persone? «Beh, l’intreccio narrativo è sempre sorprendente», spiega il dottor Bianchi, «e tutte le risse, polemiche e alleanze improvvise riescono a essere spettacolari e a far sorridere. Sono bravi anche i commentatori, e poi non si tratta di buffoni. Ci sono atleti veri, Kurt Angle per esempio ha vinto l’oro alle Olimpiadi del ‘96 ad Atlanta. Certo, siamo lontani dalla lotta greco-romana classica o dal catch, ma tutto sommato vedere due che si menano senza farsi del male può essere liberatorio. Insomma, perchè la boxe sì e il wrestling no?»
Eddie Guerrero era alto 1 e 76, pesava cento chili. Aveva dovuto faticare il doppio per convincere i promoters di essere abbastanza grosso per battersi. E poi, sarà anche vero che nel wrestling è tutto finto, ma ci vuole comunque una grossa forza e abilità per cadere sulla schiena da tre metri di altezza senza farsi troppo male. Bisogna essere come minimo eccellenti incassatori.
Ultimamente Guerrero era diventato molto religioso, aveva trovato conforto nella fede. Sua moglie lo aveva riaccolto a casa dopo le ultime sbandate con le sostanze proibite. Sembrava avercela fatta. Invece la droga se l’è preso per sempre. E anche questa, si spera, sarà una lezione per i teenager assetati di emozioni truculente che si eccitano col wrestling.
Mauro Suttora
Oggi, 14 novembre 2005
Eddie Guerrero: decine di milioni di fans del wrestling lo adoravano, in tutto il mondo. E quando lo hanno trovato morto, il mattino della scorsa domenica in una stanza d’albergo a Minneapolis, con lo spazzolino ancora in bocca, il dolore per la scomparsa di questo «eroe» trentottenne è stato istantaneo e planetario. Una valanga di messaggi di cordoglio si è riversata sul suo sito internet e nei programmi Tv di questa strana disciplina, a metà strada fra lo sport e il circo. Eddie si drogava, strabeveva, si dopava. Tutti lo sapevano. Lui non lo nascondeva. Ma proprio per questo risultava vero, maledetto e, tutto sommato, simpatico.
Il wrestling o lo si ama o lo si odia. Lo detestano soprattutto i genitori dei ragazzini che vengono ipnotizzati dallo spettacolo trucido di energumeni che se la danno di santa ragione, senza regole apparenti, dentro e fuori dal ring. La scorsa primavera alcune associazioni e parlamentari anche in Italia hanno chiesto di bandirlo dai teleschermi, perchè troppo violento. Ma i palasport di tutto il pianeta si riempiono quando i campioni del wrestling arrivano in città con il loro spettacolo. E Italia Uno, di fronte a tanto successo, ha raddoppiato lo spazio dedicato ai «lottatori»: da una a due ore ogni sabato sera, dalle sette alle nove. Ogni giorno alle 19.30 il canale Sport Italia offre mezz’ora degli spettacoli originali americani con i sottotitoli. E vanno a ruba videogiochi, tatuaggi, magliette, dvd, figurine, pupazzi, perfino uova di Pasqua...
Eddie Guerrero avrebbe dovuto arrivare in Italia proprio questa settimana, assieme agli altri campioni: Dave Batista, Randy Orton, Christian, JBL. Tutto esaurito a Roma, Milano, Livorno, Ancona, Bolzano. Come la Formula Uno di Bernie Ecclestone, anche il wrestling mondiale è controllato da un’unica persona: Vince McMahon, 60 anni, cresciuto in una roulotte con la madre e i suoi amanti, primo cadetto di una scuola militare Usa a finire sotto corte marziale, processato e assolto una dozzina d’anni fa per aver somministrato steroidi agli atleti della sua organizzazione, la Wwe (World Wrestling Entertainment).
Negli ultimi anni la mania per il wrestling è esplosa, tanto che McMahon ha trovato conveniente dividere in due lo spettacolo che porta in giro per il mondo: da una parte i «blu» del torneo Smackdown, dall’altra i «rossi» del Raw. Mentre una va in tournée nell’emisfero nord, l’altra copre quello sud. Uno dei più grandi wrestlers della storia è stato il giapponese Antonio Inoki, oggi 62enne: intelligentissimo, finita la carriera sul ring si è dato alla politica ed è diventato ministro dello Sport.
Eddie Guerrero, invece, era messicano. Fiero delle proprie origini, e infatti come soprannome aveva scelto “La Raza”. Praticamente tutti nella sua famiglia sono lottatori: padre, zio, fratelli maggiori, cugino, nipoti (fra cui Chavo, ora una star anche lui). A 25 anni la sua fama esce dai confini del Messico, Eddie comincia a esibirsi fra Stati Uniti e Giappone. Nel 1994 il suo migliore amico e collega Art Barr viene trovato morto per abuso di alcol e stupefacenti. Eddie non si riprenderà più da questa scomparsa. Nel frattempo si è sposato con Vicky, dalla quale ha tre figlie: Shaul (oggi 14enne), Sherilyn, 9, e Kaylie Marie, 3.
Nel Capodanno 1998 è vittima di un gravissimo incidente automobilistico. Riporta fratture multiple causate da un volo di trenta metri fuori dalla sua auto, ma sopravvive e dopo soli sei mesi torna sul ring. Inizia però la dipendenza dagli antidolorifici, per superare le continue fitte provocate dalle vertebre incrinate per sempre. Nel giugno 2001 il gran patron McMahon convince Eddie a ricoverarsi in un centro di riabilitazione da alcol e droga, dopo che il wrestler si presenta ad uno show televisivo in uno stato inguardabile. Viene così sospeso per permettergli le cure mediche necessarie. A novembre McMahon lo riaccoglie a braccie aperte nella federazione, dopo che sembra avere superato i suoi problemi di dipendenza. Poi però viene arrestato per guida in stato di ebbrezza, e la Wwe lo licenzia.
Ma Guerrero ce la fa a sollevarsi per l’ennesima volta dalla polvere, e riottiene una parte nella continua telenovela che la Wwe mette in scena. «Ultimamente i suoi grandi duelli erano con un altro supercampione, Rey Mysterio», spiega Marco Bianchi, dirigente assicurativo a Udine e appassionato di wrestling nonostante i suoi 46 anni: «Eddie sosteneva di essere il vero padre del figlio di Rey, tanto che si presentava sul ring con una maglietta con su scritto ‘I am your papi’. Ciò aizzava l’ira di Ray. La mossa più spettacolare di questo Mysterio è la cosiddetta 619, ovvero il prefisso telefonico della città di San Diego. Significa che quando lui la infligge ai suoi avversari, fingendo di dar loro un doppio calcio sul viso, è come se chiamasse la moglie a casa per avvertirla che ha vinto, e che quindi sta tornando...»
Ma come fanno questi incredibili sbatacchiamenti, calci su ogni parte del corpo, strangolamenti simulati, urla di dolore e colpi proibiti, ad affascinare tante persone? «Beh, l’intreccio narrativo è sempre sorprendente», spiega il dottor Bianchi, «e tutte le risse, polemiche e alleanze improvvise riescono a essere spettacolari e a far sorridere. Sono bravi anche i commentatori, e poi non si tratta di buffoni. Ci sono atleti veri, Kurt Angle per esempio ha vinto l’oro alle Olimpiadi del ‘96 ad Atlanta. Certo, siamo lontani dalla lotta greco-romana classica o dal catch, ma tutto sommato vedere due che si menano senza farsi del male può essere liberatorio. Insomma, perchè la boxe sì e il wrestling no?»
Eddie Guerrero era alto 1 e 76, pesava cento chili. Aveva dovuto faticare il doppio per convincere i promoters di essere abbastanza grosso per battersi. E poi, sarà anche vero che nel wrestling è tutto finto, ma ci vuole comunque una grossa forza e abilità per cadere sulla schiena da tre metri di altezza senza farsi troppo male. Bisogna essere come minimo eccellenti incassatori.
Ultimamente Guerrero era diventato molto religioso, aveva trovato conforto nella fede. Sua moglie lo aveva riaccolto a casa dopo le ultime sbandate con le sostanze proibite. Sembrava avercela fatta. Invece la droga se l’è preso per sempre. E anche questa, si spera, sarà una lezione per i teenager assetati di emozioni truculente che si eccitano col wrestling.
Mauro Suttora
Bob Woodward
22 novembre 2005
Ha già fatto cadere un presidente degli Stati Uniti. Riuscirà a distruggerne un altro? Miliardario, rispettato, invidiato, a 62 anni Bob Woodward può considerarsi un uomo fortunato. Ne aveva 29 quando scoppiò lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon alle dimissioni. Poi Robert Redford lo immortalò nel film "Tutti gli uomini del presidente": lui era il bello, mentre il collega Carl Bernstein (interpretato da Dustin Hoffman) era il bravo, brutto e un po' sfigato.
Copione rispettato in questi trent'anni: Woodward ha scritto sette libri arrivati primi in classifica, spaziando da John Belushi alla Cia, da Bill Clinton a George Bush junior. Ha vinto ogni premio giornalistico immaginabile, dal Pulitzer in giù. E' entrato nel circuito delle celebrities che si fanno pagare ogni discorso decine di migliaia di dollari. E' sicuramente il giornalista investigativo più famoso del mondo. Tutti i presidenti, democratici e repubblicani, gli aprono le porte della Casa Bianca per confidarsi con lui e regalargli materiale per il successivo bestseller. Newsweek gli ha dedicato cinque copertine, tre dei suoi libri sono stati trasformati in film. Bernstein, invece, ha avuto problemi con tutto: carriera, donne, alcol, soldi, salute. Non si è certo rovinato, se la passa egregiamente pure lui, ma il confronto col collega (amico mai) stride.
La scorsa settimana Woodward ha inaugurato un nuovo capitolo della sua lunga e avventurosa vita professionale. Ha confessato fuori tempo massimo di essere stato il primo a conoscere l'identità di Valerie Plame, agente segreta della Cia. Gliela rivelò un "alto personaggio della Casa Bianca" nel giugno 2003, due settimane prima che ne parlasse Lewis "Scooter" Libby (potente capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) alla giornalista Judith Miller.
Perchè il ritardo di questa rivelazione? Ormai Libby ha dovuto dimettersi e ora rischia fino a trent'anni di carcere per quello che negli Usa è un reato gravissimo. Woodward, fra l'altro, non fa il nome della sua nuova "gola profonda", perchè le ha promesso di non rivelarne l'identità fino a quando lei stessa non esca allo scoperto. Si ripetono esattamente, insomma, i fatti degli anni '70: anche allora la Gola profonda del Watergate rimase sconosciuta, per lo stesso motivo. Si è rivelata solo pochi mesi fa: era Mark Felt, oggi novantenne, un dirigente dell'Fbi arrabbiato perchè Nixon gli aveva bloccato la carriera.
Woodward si è a sua volta arrabbiato con Felt perchè gli ha bruciato il libro - e i miliardi - che aveva già scritto aspettando la sua morte. Ma ora è il direttore del suo giornale - il quotidiano Washington Post - ad arrabbiarsi con lui per averlo tenuto all'oscuro della nuova Gola profonda in questi due anni. E Woodward, che al Post è formalmente solo uno dei tanti vicedirettori, ha dovuto chiedere scusa a Leonard Downie. Che differenza con trent'anni fa! Il direttore di allora, Ben Bradlee, sapeva tutto, proteggeva i suoi reporters cuccioli, e pure lui ha mantenuto fino all'ultimo il segreto. Ma non si può certo pretendere che un "senatore" superstar ultrasessantenne come Woodward si abbassi oggi a raccontare i suoi scoop al direttore di turno.
Per la verità lo scoop non c'è mai stato. Perchè nè Woodward nè la concorrente Miller del New York Times hanno mai scritto il nome della Plame. A rivelare il nome dell'agente segreto è stato il columnist di destra Robert Novak, nel luglio 2003. Ma lui se l'è cavata senza un giorno di carcere perchè ha subito collaborato con il procuratore Patrick Fitzgerald. Il quale non ha potuto incriminare il divulgatore del segreto perchè, ha spiegato, "finora contro di lui ho raccolto solo indizi, non prove". Libby, invece, passa i suoi guai non per aver rivelato una notizia che poi non è stata scritta, ma per aver mentito al procuratore sotto giuramento. Quindi la nuova testimonianza di Woodward non lo toglie dalla graticola.
Insomma, si tratta di una vicenda intricatissima. Proprio come il Watergate. Subito dopo l'interrogatorio di Woodward, Fitzgerald ha chiesto l'insediamento di un'altra corte speciale. Chi è la Gola profonda eccellente che rischia l'incriminazione? Tutti hanno smentito, da Cheney a Condi Rice, da Karl Rove "cervello" di Bush all'ex segretario di stato Colin Powell. E' quest'ultimo l'autore della battuta più importante del libro più recente di Woodward, quello in cui si spiega la malaugurata genesi della guerra all'Iraq. Powell, sconsigliando Bush di invadere, lo avvertì: "Chi rompe paga e i cocci sono suoi". Ora Woodward rischia per la seconda volta di rompere una cospirazione segreta dell'uomo più potente della Terra: il presidente Usa.
Mauro Suttora
Ha già fatto cadere un presidente degli Stati Uniti. Riuscirà a distruggerne un altro? Miliardario, rispettato, invidiato, a 62 anni Bob Woodward può considerarsi un uomo fortunato. Ne aveva 29 quando scoppiò lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon alle dimissioni. Poi Robert Redford lo immortalò nel film "Tutti gli uomini del presidente": lui era il bello, mentre il collega Carl Bernstein (interpretato da Dustin Hoffman) era il bravo, brutto e un po' sfigato.
Copione rispettato in questi trent'anni: Woodward ha scritto sette libri arrivati primi in classifica, spaziando da John Belushi alla Cia, da Bill Clinton a George Bush junior. Ha vinto ogni premio giornalistico immaginabile, dal Pulitzer in giù. E' entrato nel circuito delle celebrities che si fanno pagare ogni discorso decine di migliaia di dollari. E' sicuramente il giornalista investigativo più famoso del mondo. Tutti i presidenti, democratici e repubblicani, gli aprono le porte della Casa Bianca per confidarsi con lui e regalargli materiale per il successivo bestseller. Newsweek gli ha dedicato cinque copertine, tre dei suoi libri sono stati trasformati in film. Bernstein, invece, ha avuto problemi con tutto: carriera, donne, alcol, soldi, salute. Non si è certo rovinato, se la passa egregiamente pure lui, ma il confronto col collega (amico mai) stride.
La scorsa settimana Woodward ha inaugurato un nuovo capitolo della sua lunga e avventurosa vita professionale. Ha confessato fuori tempo massimo di essere stato il primo a conoscere l'identità di Valerie Plame, agente segreta della Cia. Gliela rivelò un "alto personaggio della Casa Bianca" nel giugno 2003, due settimane prima che ne parlasse Lewis "Scooter" Libby (potente capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) alla giornalista Judith Miller.
Perchè il ritardo di questa rivelazione? Ormai Libby ha dovuto dimettersi e ora rischia fino a trent'anni di carcere per quello che negli Usa è un reato gravissimo. Woodward, fra l'altro, non fa il nome della sua nuova "gola profonda", perchè le ha promesso di non rivelarne l'identità fino a quando lei stessa non esca allo scoperto. Si ripetono esattamente, insomma, i fatti degli anni '70: anche allora la Gola profonda del Watergate rimase sconosciuta, per lo stesso motivo. Si è rivelata solo pochi mesi fa: era Mark Felt, oggi novantenne, un dirigente dell'Fbi arrabbiato perchè Nixon gli aveva bloccato la carriera.
Woodward si è a sua volta arrabbiato con Felt perchè gli ha bruciato il libro - e i miliardi - che aveva già scritto aspettando la sua morte. Ma ora è il direttore del suo giornale - il quotidiano Washington Post - ad arrabbiarsi con lui per averlo tenuto all'oscuro della nuova Gola profonda in questi due anni. E Woodward, che al Post è formalmente solo uno dei tanti vicedirettori, ha dovuto chiedere scusa a Leonard Downie. Che differenza con trent'anni fa! Il direttore di allora, Ben Bradlee, sapeva tutto, proteggeva i suoi reporters cuccioli, e pure lui ha mantenuto fino all'ultimo il segreto. Ma non si può certo pretendere che un "senatore" superstar ultrasessantenne come Woodward si abbassi oggi a raccontare i suoi scoop al direttore di turno.
Per la verità lo scoop non c'è mai stato. Perchè nè Woodward nè la concorrente Miller del New York Times hanno mai scritto il nome della Plame. A rivelare il nome dell'agente segreto è stato il columnist di destra Robert Novak, nel luglio 2003. Ma lui se l'è cavata senza un giorno di carcere perchè ha subito collaborato con il procuratore Patrick Fitzgerald. Il quale non ha potuto incriminare il divulgatore del segreto perchè, ha spiegato, "finora contro di lui ho raccolto solo indizi, non prove". Libby, invece, passa i suoi guai non per aver rivelato una notizia che poi non è stata scritta, ma per aver mentito al procuratore sotto giuramento. Quindi la nuova testimonianza di Woodward non lo toglie dalla graticola.
Insomma, si tratta di una vicenda intricatissima. Proprio come il Watergate. Subito dopo l'interrogatorio di Woodward, Fitzgerald ha chiesto l'insediamento di un'altra corte speciale. Chi è la Gola profonda eccellente che rischia l'incriminazione? Tutti hanno smentito, da Cheney a Condi Rice, da Karl Rove "cervello" di Bush all'ex segretario di stato Colin Powell. E' quest'ultimo l'autore della battuta più importante del libro più recente di Woodward, quello in cui si spiega la malaugurata genesi della guerra all'Iraq. Powell, sconsigliando Bush di invadere, lo avvertì: "Chi rompe paga e i cocci sono suoi". Ora Woodward rischia per la seconda volta di rompere una cospirazione segreta dell'uomo più potente della Terra: il presidente Usa.
Mauro Suttora
Monday, November 21, 2005
Kristol/Fukuyama al Cfr
Al Council on Foreign Relations incontro sulle prospettive della destra statunitense in Iraq. Kristol a confronto con Fukuyama
UNA SERATA TRA CONSERVATORI CHE CHIEDONO A BUSH PIU' DECISIONE
Il Foglio, 23 novembre 2005
di Mauro Suttora
New York. "Sull'Iraq sono moderatamente ottimista. Abbiamo risolto un problema - Saddam - e sono convinto che alla fine vinceremo. Non vedo perchè dovremmo fare autocritica. E se dovessi muoverne una al presidente George Bush, è quella semmai di non essere abbastanza ambizioso: sulla democratizzazione dovremmo essere più pressanti, sia con i nostri alleati Egitto e Arabia Saudita, sia con la Siria". William Kristol, direttore del settimanale di Rupert Murdoch Weekly Standard e leader neocon, era tranquillissimo l'altra sera al Council on Foreign Relations. Anche perchè una volta tanto giocava in casa: il titolo del dibattito infatti era "Guerra in Iraq: le prospettive dalla destra". I suoi interlocutori: Gary Rosen, vicedirettore del mensile Commentary fondato da Norman Podhoretz, e Francis Fukuyama, professore di economia politica alla Johns Hopkins University. Perfino il moderatore non era neutrale: Roger Hertog, finanziere di Wall Street e finanziatore della stampa conservatrice.
E' stato Fukuyama, quindici anni fa avventato teorico della "fine della storia" (dopo il crollo dell'Urss), a fare il controcanto ai neocon: "Ora mi considerano quasi un apostata, ma mi stupisce che proprio loro, avversari ideologici di un qualsiasi progetto di ingegneria sociale in politica interna, per quella estera propugnino invece il progetto più straordinariamente ambizioso di questo tipo: democratizzare il Medio Oriente. Impresa nobile e auspicabile, ma la cui fattibilità è ancora tutta da dimostrare."
A Kristol le attuali polemiche sulla presenza o meno di armi di distruzione di massa in Iraq e i fallimenti dell'intelligence importano poco: "Bush non si è certo svegliato una mattina dicendo 'Hey, andiamo a farci questa bella avventura in Iraq'. Non era neanche inevitabile andarci. Secondo gli europei, per esempio, abbiamo fatto una cosa terribile. Ma anche rispettati conservatori americani come Brent Scowcroft dopo l'11 settembre continuavano a ragionare con la mentalità del containement, che bene o male ci ha assicurato mezzo secolo di pace. A tutti costoro però dobbiamo chiedere: qual era l'alternativa alla rimozione di Saddam? Avremmo dovuto tenere le nostre truppe sul suolo sacro dell'Arabia Saudita per continuare a proteggerla dal dittatore. Le sanzioni all'Iraq stavano per essere tolte..."
"I realisti, anche repubblicani, erano disposti a trovare un accordo con un altro dirigente baathista dopo la caduta di Saddam", aggiunge Rosen, "ma sarebbe stato questo un risultato decente? E, parlando di alternative: senza guerra oggi Saddam sarebbe ancora lì. Ma è provato che con uno come lui nè la deterrenza nè il containement funzionavano. Oggi ci confronteremmo con l'incubo non solo delle armi atomiche, chimiche e biologiche irachene, ma anche con il pericolo che Saddam le dia aa Al Qaeda".
A Fukuyama che teme una "metastasi terrorista" dopo l'attentato in Giordania Kristol risponde che non vede questo pericolo: "Ora non è peggio di tre anni fa. Abbiamo seri problemi in Iraq, ma nel resto del mondo gli attentati non sono aumentati. Quanto ai vari sondaggi secondo i quali l'antiamericanismo sarebbe aumentato a causa del nostro intervento, domando: ma 30/40 anni fa, quando certi satrapi mediorientali berciavano contro di noi e volevano espropriarci, le cose andavano meglio? Né oggi mi risulta che improvvisamente i giovani arabi o islamici non vogliano piu venire a studiare negli Stati Uniti. Quanto agli iracheni, l'80 per cento vogliono che restiamo. E allora perchè dovremmo indicare stupidamente una data per il nostro ritiro? Quello sì che sarebbe un disastro, se fosse precipitoso. Sarebbe una tragedia anche se perdessimo l'appoggio degli sciiti: allora sì che dovremmo andarcene. E dove, poi? In una base in Kuwait, per poi tornare se scoppia la guerra civile? Uno scenario da incubo. Tutto questo ci costa 80 morti al mese? Sì, ed è tremendo. Ma se fosse vero che la maggioranza degli iracheni non ci vuole, altro che 80 morti... Non mi preoccuperei neppure eccessivamente per l'aumento dell'isolazionismo qui da noi: una leadership forte riesce a far comprendere al Paese che dopo l'11 settembre è necessario un nostro livello di coinvolgimento più alto all'estero".
Mauro Suttora
UNA SERATA TRA CONSERVATORI CHE CHIEDONO A BUSH PIU' DECISIONE
Il Foglio, 23 novembre 2005
di Mauro Suttora
New York. "Sull'Iraq sono moderatamente ottimista. Abbiamo risolto un problema - Saddam - e sono convinto che alla fine vinceremo. Non vedo perchè dovremmo fare autocritica. E se dovessi muoverne una al presidente George Bush, è quella semmai di non essere abbastanza ambizioso: sulla democratizzazione dovremmo essere più pressanti, sia con i nostri alleati Egitto e Arabia Saudita, sia con la Siria". William Kristol, direttore del settimanale di Rupert Murdoch Weekly Standard e leader neocon, era tranquillissimo l'altra sera al Council on Foreign Relations. Anche perchè una volta tanto giocava in casa: il titolo del dibattito infatti era "Guerra in Iraq: le prospettive dalla destra". I suoi interlocutori: Gary Rosen, vicedirettore del mensile Commentary fondato da Norman Podhoretz, e Francis Fukuyama, professore di economia politica alla Johns Hopkins University. Perfino il moderatore non era neutrale: Roger Hertog, finanziere di Wall Street e finanziatore della stampa conservatrice.
E' stato Fukuyama, quindici anni fa avventato teorico della "fine della storia" (dopo il crollo dell'Urss), a fare il controcanto ai neocon: "Ora mi considerano quasi un apostata, ma mi stupisce che proprio loro, avversari ideologici di un qualsiasi progetto di ingegneria sociale in politica interna, per quella estera propugnino invece il progetto più straordinariamente ambizioso di questo tipo: democratizzare il Medio Oriente. Impresa nobile e auspicabile, ma la cui fattibilità è ancora tutta da dimostrare."
A Kristol le attuali polemiche sulla presenza o meno di armi di distruzione di massa in Iraq e i fallimenti dell'intelligence importano poco: "Bush non si è certo svegliato una mattina dicendo 'Hey, andiamo a farci questa bella avventura in Iraq'. Non era neanche inevitabile andarci. Secondo gli europei, per esempio, abbiamo fatto una cosa terribile. Ma anche rispettati conservatori americani come Brent Scowcroft dopo l'11 settembre continuavano a ragionare con la mentalità del containement, che bene o male ci ha assicurato mezzo secolo di pace. A tutti costoro però dobbiamo chiedere: qual era l'alternativa alla rimozione di Saddam? Avremmo dovuto tenere le nostre truppe sul suolo sacro dell'Arabia Saudita per continuare a proteggerla dal dittatore. Le sanzioni all'Iraq stavano per essere tolte..."
"I realisti, anche repubblicani, erano disposti a trovare un accordo con un altro dirigente baathista dopo la caduta di Saddam", aggiunge Rosen, "ma sarebbe stato questo un risultato decente? E, parlando di alternative: senza guerra oggi Saddam sarebbe ancora lì. Ma è provato che con uno come lui nè la deterrenza nè il containement funzionavano. Oggi ci confronteremmo con l'incubo non solo delle armi atomiche, chimiche e biologiche irachene, ma anche con il pericolo che Saddam le dia aa Al Qaeda".
A Fukuyama che teme una "metastasi terrorista" dopo l'attentato in Giordania Kristol risponde che non vede questo pericolo: "Ora non è peggio di tre anni fa. Abbiamo seri problemi in Iraq, ma nel resto del mondo gli attentati non sono aumentati. Quanto ai vari sondaggi secondo i quali l'antiamericanismo sarebbe aumentato a causa del nostro intervento, domando: ma 30/40 anni fa, quando certi satrapi mediorientali berciavano contro di noi e volevano espropriarci, le cose andavano meglio? Né oggi mi risulta che improvvisamente i giovani arabi o islamici non vogliano piu venire a studiare negli Stati Uniti. Quanto agli iracheni, l'80 per cento vogliono che restiamo. E allora perchè dovremmo indicare stupidamente una data per il nostro ritiro? Quello sì che sarebbe un disastro, se fosse precipitoso. Sarebbe una tragedia anche se perdessimo l'appoggio degli sciiti: allora sì che dovremmo andarcene. E dove, poi? In una base in Kuwait, per poi tornare se scoppia la guerra civile? Uno scenario da incubo. Tutto questo ci costa 80 morti al mese? Sì, ed è tremendo. Ma se fosse vero che la maggioranza degli iracheni non ci vuole, altro che 80 morti... Non mi preoccuperei neppure eccessivamente per l'aumento dell'isolazionismo qui da noi: una leadership forte riesce a far comprendere al Paese che dopo l'11 settembre è necessario un nostro livello di coinvolgimento più alto all'estero".
Mauro Suttora
Friday, November 18, 2005
Bob Tisch
PORTACHIAVI, ALBERGHI, FOOTBALL. COSI' BOB TISCH DIVENTO' L'ANTI TRUMP
di Mauro Suttora
Il Foglio, 18 novembre 2005
Addio allo zio Paperone piu' simpatico d'America
New York. La sua famiglia traslocava ogni tre anni. Così, ogni volta risparmiava tre mesi d'affitto: lo sconto iniziale offerto dai proprietari per attirare nuovi inquilini. Non che i genitori di Bob Tisch fossero poveri. Suo padre, emigrato dalla Russia, era piccolo imprenditore nel ramo vestiti, e poi si è dato alla pallacanestro. Ma la depressione degli anni '30 costringeva anche la classe media a risparmiare su tutto.
Gli inflissero un nome impressionante, quando nacque nel 1926: Preston Robert. Mai usato. Bob scorrazza per Bensonhurst, il quartiere di Brooklyn dove ebrei e italiani convivono nei termini di una perenne tregua armata. Il "C'era una volta in America" del ragazzo Tisch si dipana poi (causa i traslochi triennali) nel Bronx, e quindi di nuovo a Brooklyn, dove prende il diploma liceale. Tutte le estati nel campeggio gestito dalla mamma, piccolo investimento familiare. Infine la guerra, e nel '44 l'università. Lì lo incontra Joan, mentre lui vende portachiavi di fronte allo stadio di football: uno per dieci cents, due per quindici. Si sposano nel '48.
Bob è ancora studente di legge ad Harvard quando consiglia a suo padre di comprare un vecchio albergo del New Jersey per 175mila dollari. Lo rimettono a posto, aggiungono una piscina e inventano "promozioni" bizzarre, come le tre renne fatte venire apposta dalla Finlandia per trascinare una slitta invernale. Successone. Iniziano gli anni '50: la famiglia Tisch ha tanti di quei soldi che si mette a giocare a Monopoli con terreni, case e hotel ad Atlantic City. Il fratello di Bob, Larry, fiuta gli affari e compra alberghi decrepiti, anche a Manhattan, per pochi dollari. Poi arriva Bob che li restaura, aumenta le tariffe e li gestisce. Controlla tutto: vuole assumere di persona perfino i fattorini.
Nel 1956, quando costruisce il suo primo grande albergo in Florida, paga sull'unghia 17 milioni di dollari. Nienti prestiti, il contrario di Donald Trump. Il primo anno ha già fatturato 12 milioni. Il segreto: le convenzioni aziendali. Nel 1960 l'antitrust costringe il colosso del cinema Loews a dividersi in due: da una parte la produzione dei film, dall'altra le sale. I fratelli Tisch comprano queste ultime con 65 milioni. Poi ne demoliscono alcune per costruirci alberghi, come il Summit da 800 camere a Lexington Avenue, primo nuovo hotel a Manhattan dai tempi della Depressione. E l'Americana con duemila stanze è l'albergo più alto del mondo (cinquanta piani) quando apre nel '62.
Bob e Larry non sanno più dove mettere i soldi. Differenziano gli investimenti, e nasce un "conglomerato": comprano società di tabacco (Lorillard), assicurative (Cna), di orologi (Bulova). Mentre il fratello coltiva la passione della tv (presidente Cbs per nove anni) e il figlio Steve quella cinematografica (produttore di "Forrest Gump"), Bob si dà al servizio civico. Negli anni '70 inventa i "power breakfast", i leggendari "breakfast da Ti...sch" che tiene ogni mattina nel suo hotel Regency di Park Avenue, e ai quali partecipano Henry Kissinger, l'allora sindaco di New York David Dinkins, e politici, finanzieri, industrali, attori. Si mangia, si chiacchiera e si fanno affari.
Bob Tisch ha una simpatia straordinaria ("larger than life") e contagiosa. S'impegna per tirar fuori la Grande Mela dalla crisi finanziaria del '76: viene nominato "ambasciatore di New York a Washington" dal sindaco, e conserva questa carica informale e gratuita fino al '93. Coagula gli investimenti per il centro congressi Javits. Nel '76 e '80 è presidente organizzativo delle convention democratiche, ma il suo impegno è bipartisan. Nell'86 Ronald Reagan lo nomina a capo delle Poste Usa, che subiscono la concorrenza dei corrieri privati.
A Bob piace lavorare anche di domenica, e quindi fino a 35 anni non vede neanche una partita di football. Ma a 65 anni vuole togliersi un altro sfizio, e compra la metà della squadra dei New York Giants. Rischia di passare alla storia soprattutto per questo, a giudicare dai necrologi di ieri. Coincidenze: l'altro proprietario, Wellington Mara, è morto tre settimane fa a 89 anni, di tumore. Il fratello Larry, dopo aver finanziato la costruzione di metà New York University (compreso il restauro della stupenda villa Acton, campus fiorentino), è scomparso due anni fa. Oggi l'impero Tisch vale 74 miliardi di dollari. Un anno fa a Bob è stato diagnosticato un tumore al cervello. Lui ha continuato a far colazione al Regency e a regalare centinaia di milioni per costruire palestre nelle scuole. Il Paperone simpatico è morto il 15 novembre a 79 anni nella sua casa di Manhattan.
di Mauro Suttora
Il Foglio, 18 novembre 2005
Addio allo zio Paperone piu' simpatico d'America
New York. La sua famiglia traslocava ogni tre anni. Così, ogni volta risparmiava tre mesi d'affitto: lo sconto iniziale offerto dai proprietari per attirare nuovi inquilini. Non che i genitori di Bob Tisch fossero poveri. Suo padre, emigrato dalla Russia, era piccolo imprenditore nel ramo vestiti, e poi si è dato alla pallacanestro. Ma la depressione degli anni '30 costringeva anche la classe media a risparmiare su tutto.
Gli inflissero un nome impressionante, quando nacque nel 1926: Preston Robert. Mai usato. Bob scorrazza per Bensonhurst, il quartiere di Brooklyn dove ebrei e italiani convivono nei termini di una perenne tregua armata. Il "C'era una volta in America" del ragazzo Tisch si dipana poi (causa i traslochi triennali) nel Bronx, e quindi di nuovo a Brooklyn, dove prende il diploma liceale. Tutte le estati nel campeggio gestito dalla mamma, piccolo investimento familiare. Infine la guerra, e nel '44 l'università. Lì lo incontra Joan, mentre lui vende portachiavi di fronte allo stadio di football: uno per dieci cents, due per quindici. Si sposano nel '48.
Bob è ancora studente di legge ad Harvard quando consiglia a suo padre di comprare un vecchio albergo del New Jersey per 175mila dollari. Lo rimettono a posto, aggiungono una piscina e inventano "promozioni" bizzarre, come le tre renne fatte venire apposta dalla Finlandia per trascinare una slitta invernale. Successone. Iniziano gli anni '50: la famiglia Tisch ha tanti di quei soldi che si mette a giocare a Monopoli con terreni, case e hotel ad Atlantic City. Il fratello di Bob, Larry, fiuta gli affari e compra alberghi decrepiti, anche a Manhattan, per pochi dollari. Poi arriva Bob che li restaura, aumenta le tariffe e li gestisce. Controlla tutto: vuole assumere di persona perfino i fattorini.
Nel 1956, quando costruisce il suo primo grande albergo in Florida, paga sull'unghia 17 milioni di dollari. Nienti prestiti, il contrario di Donald Trump. Il primo anno ha già fatturato 12 milioni. Il segreto: le convenzioni aziendali. Nel 1960 l'antitrust costringe il colosso del cinema Loews a dividersi in due: da una parte la produzione dei film, dall'altra le sale. I fratelli Tisch comprano queste ultime con 65 milioni. Poi ne demoliscono alcune per costruirci alberghi, come il Summit da 800 camere a Lexington Avenue, primo nuovo hotel a Manhattan dai tempi della Depressione. E l'Americana con duemila stanze è l'albergo più alto del mondo (cinquanta piani) quando apre nel '62.
Bob e Larry non sanno più dove mettere i soldi. Differenziano gli investimenti, e nasce un "conglomerato": comprano società di tabacco (Lorillard), assicurative (Cna), di orologi (Bulova). Mentre il fratello coltiva la passione della tv (presidente Cbs per nove anni) e il figlio Steve quella cinematografica (produttore di "Forrest Gump"), Bob si dà al servizio civico. Negli anni '70 inventa i "power breakfast", i leggendari "breakfast da Ti...sch" che tiene ogni mattina nel suo hotel Regency di Park Avenue, e ai quali partecipano Henry Kissinger, l'allora sindaco di New York David Dinkins, e politici, finanzieri, industrali, attori. Si mangia, si chiacchiera e si fanno affari.
Bob Tisch ha una simpatia straordinaria ("larger than life") e contagiosa. S'impegna per tirar fuori la Grande Mela dalla crisi finanziaria del '76: viene nominato "ambasciatore di New York a Washington" dal sindaco, e conserva questa carica informale e gratuita fino al '93. Coagula gli investimenti per il centro congressi Javits. Nel '76 e '80 è presidente organizzativo delle convention democratiche, ma il suo impegno è bipartisan. Nell'86 Ronald Reagan lo nomina a capo delle Poste Usa, che subiscono la concorrenza dei corrieri privati.
A Bob piace lavorare anche di domenica, e quindi fino a 35 anni non vede neanche una partita di football. Ma a 65 anni vuole togliersi un altro sfizio, e compra la metà della squadra dei New York Giants. Rischia di passare alla storia soprattutto per questo, a giudicare dai necrologi di ieri. Coincidenze: l'altro proprietario, Wellington Mara, è morto tre settimane fa a 89 anni, di tumore. Il fratello Larry, dopo aver finanziato la costruzione di metà New York University (compreso il restauro della stupenda villa Acton, campus fiorentino), è scomparso due anni fa. Oggi l'impero Tisch vale 74 miliardi di dollari. Un anno fa a Bob è stato diagnosticato un tumore al cervello. Lui ha continuato a far colazione al Regency e a regalare centinaia di milioni per costruire palestre nelle scuole. Il Paperone simpatico è morto il 15 novembre a 79 anni nella sua casa di Manhattan.
Internet resta agli Usa
MA COSI’ HA VINTO LA LIBERTA’
quotidiano PuntoCom
venerdi’ 18 novembre 2005
Ci si comincia a dividere già sul nome del vertice: Smsi (Sommet Mondial sur la Societé de l’Information), alla francese, o Wsis (World Summit on the Information Society), all’inglese? I 17 mila delegati provenienti da tutto il mondo che ieri hanno aperto a Tunisi la megaconferenza dell’Onu vorrebbero, nella grande maggioranza, togliere agli Stati Uniti il controllo sull’ente che gestisce Internet, l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers).
Si tratta di una società privata della California senza scopo di lucro che dagli anni ‘90 regola la concessione degli indirizzi web e risolve le dispute. La sua sede è a Marina del Rey (Los Angeles). In teoria dipende dal ministero del Commercio statunitense, ma nella pratica non ha mai subìto interferenze, né ne ha imposte alla rete. Una gestione notarile, abbastanza libertaria, che si è limitata ad assecondare la spontaneità del mercato. Aggiungendo per esempio i nuovi suffissi tematici .biz (per le utenze d’affari), .info (per i media), .coop (cooperative), .name (per i privati), o quello geopolitico .eu (Europa).
«Ma chi ci garantisce che in futuro gli Usa continuino con l’attuale laissez-faire, soprattutto in caso di emergenze terroristiche?», si chiede il quotidiano francese di sinistra Libération. La risposta, probabilmente, ha il nome di un giornalista proprio di Libération, Christophe Boltanski, picchiato e accoltellato il 12 novembre da una squadraccia paragovernativa tunisina. Boltanski aveva osato scrivere articoli su sette dissidenti tunisini incarcerati, e sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Tunisia, Paese considerato “moderato”. E’ subito tornato in Francia, sconvolto. Ma quello tunisino è solo uno dei tanti regimi repressivi che amerebbero controllare direttamente i server internet per poterli censurare più agevolmente. Il sito del partito radicale italiano, per esempio, che appoggia i dissidenti, in questi giorni è stato oscurato in Tunisia.
Non a caso i principali avversari dell’attuale monopolio Usa su Internet sono Paesi autoritari o dittatoriali come Cina e Iran. Per loro è essenziale controllare il traffico sulla rete, e quindi limitare l’odierna condizione di sostanziale festosa anarchia autogestita. Anche perchè, appena in un Paese il potere comincia a vacillare, si assiste immediatamente a un’esplosione di blog politici, come nelle ultime settimane in Siria. Ma, ovviamente, i regimi polizieschi si nascondono dietro all’antiamericanismo per coagulare consenso sull’ipotesi di un passaggio di poteri dall’Icann americano all’Onu: «Basta con il controllo unilaterale degli Usa» è il loro slogan.
Fra un’Icann americana e un’Onu condizionata dalle dittature, la soluzione potrebbe stare nel mezzo: un’agenzia tecnica come la Uit (Unione internazionale delle telecomunicazioni), che da Ginevra coordina da sempre i traffici e le frequenze di radio, tv e telefoni. Ma mentre sotto l’amministrazione Clinton gli Usa sembravano orientati ad accettare una rapida internazionalizzazione dell’Icann, lo scorso giugno l’amministrazione Bush ha dichiarato che intende mantenerne il controllo per un tempo indefinito. E questa posizione nazionalista ha aizzato reazioni simmetriche di segno opposto. Ormai il conflitto si è totalmente politicizzato, è diventato una questione di principio.
Fra i venti membri del consiglio d’amministrazione dell’Icann c’è un italiano, Roberto Gaetano, che da trent’anni lavora per agenzie dell’Onu fra Vienna e Ginevra. Presidente dell’Icann fino al dicembre 2007 è Vinton Cerf, al quale proprio la scorsa settimana il presidente Usa George Bush junior ha conferito la massima onoreficenza civile statunitense, la Medaglia della Libertà. Cerf può essere considerato il papà di Internet: ne ha inventato lui il software fondamentale, il TCP/IP.
A finanziare fino agli anni Settanta il progetto Arpanet, predecessore di Internet, fu il Pentagono. Ma, paradossalmente, proprio la principale caratteristica tecnica richiesta dai militari statunitensi, e cioè la flessibilità del sistema di comunicazione, con il massimo decentramento per consentirgli di funzionare anche dopo un attacco che ne mettesse fuori uso alcune parti, è oggi l’ostacolo più grosso per i “normalizzatori”: «Controllare il flusso della rete è impossibile», avverte Leonard Kleinrock, scienziato dell’Ucla (University California Los Angeles), «sarebbe come pretendere di controllare il flusso degli oceani».
Per una volta, quindi, i libertari, i giovani, gli hackers, i noglobal abitualmente schierati contro gli Stati Uniti in quasi tutti i campi, si ritrovano involontariamente ma inevitabilmente schierati al fianco dell’America: a chi ha a cuore la libertà del web conviene l’attuale approccio non burocratico dell’Icann. Il che non vuol dire che anche dentro agli Stati Uniti non esistano forti spinte per una maggiore intrusione poliziesca in Internet: l’emergenza terrorismo spinge automaticamente le autorità a chiedere barriere, controlli, divieti. Ma finora i libertari hanno avuto la meglio.
quotidiano PuntoCom
venerdi’ 18 novembre 2005
Ci si comincia a dividere già sul nome del vertice: Smsi (Sommet Mondial sur la Societé de l’Information), alla francese, o Wsis (World Summit on the Information Society), all’inglese? I 17 mila delegati provenienti da tutto il mondo che ieri hanno aperto a Tunisi la megaconferenza dell’Onu vorrebbero, nella grande maggioranza, togliere agli Stati Uniti il controllo sull’ente che gestisce Internet, l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers).
Si tratta di una società privata della California senza scopo di lucro che dagli anni ‘90 regola la concessione degli indirizzi web e risolve le dispute. La sua sede è a Marina del Rey (Los Angeles). In teoria dipende dal ministero del Commercio statunitense, ma nella pratica non ha mai subìto interferenze, né ne ha imposte alla rete. Una gestione notarile, abbastanza libertaria, che si è limitata ad assecondare la spontaneità del mercato. Aggiungendo per esempio i nuovi suffissi tematici .biz (per le utenze d’affari), .info (per i media), .coop (cooperative), .name (per i privati), o quello geopolitico .eu (Europa).
«Ma chi ci garantisce che in futuro gli Usa continuino con l’attuale laissez-faire, soprattutto in caso di emergenze terroristiche?», si chiede il quotidiano francese di sinistra Libération. La risposta, probabilmente, ha il nome di un giornalista proprio di Libération, Christophe Boltanski, picchiato e accoltellato il 12 novembre da una squadraccia paragovernativa tunisina. Boltanski aveva osato scrivere articoli su sette dissidenti tunisini incarcerati, e sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Tunisia, Paese considerato “moderato”. E’ subito tornato in Francia, sconvolto. Ma quello tunisino è solo uno dei tanti regimi repressivi che amerebbero controllare direttamente i server internet per poterli censurare più agevolmente. Il sito del partito radicale italiano, per esempio, che appoggia i dissidenti, in questi giorni è stato oscurato in Tunisia.
Non a caso i principali avversari dell’attuale monopolio Usa su Internet sono Paesi autoritari o dittatoriali come Cina e Iran. Per loro è essenziale controllare il traffico sulla rete, e quindi limitare l’odierna condizione di sostanziale festosa anarchia autogestita. Anche perchè, appena in un Paese il potere comincia a vacillare, si assiste immediatamente a un’esplosione di blog politici, come nelle ultime settimane in Siria. Ma, ovviamente, i regimi polizieschi si nascondono dietro all’antiamericanismo per coagulare consenso sull’ipotesi di un passaggio di poteri dall’Icann americano all’Onu: «Basta con il controllo unilaterale degli Usa» è il loro slogan.
Fra un’Icann americana e un’Onu condizionata dalle dittature, la soluzione potrebbe stare nel mezzo: un’agenzia tecnica come la Uit (Unione internazionale delle telecomunicazioni), che da Ginevra coordina da sempre i traffici e le frequenze di radio, tv e telefoni. Ma mentre sotto l’amministrazione Clinton gli Usa sembravano orientati ad accettare una rapida internazionalizzazione dell’Icann, lo scorso giugno l’amministrazione Bush ha dichiarato che intende mantenerne il controllo per un tempo indefinito. E questa posizione nazionalista ha aizzato reazioni simmetriche di segno opposto. Ormai il conflitto si è totalmente politicizzato, è diventato una questione di principio.
Fra i venti membri del consiglio d’amministrazione dell’Icann c’è un italiano, Roberto Gaetano, che da trent’anni lavora per agenzie dell’Onu fra Vienna e Ginevra. Presidente dell’Icann fino al dicembre 2007 è Vinton Cerf, al quale proprio la scorsa settimana il presidente Usa George Bush junior ha conferito la massima onoreficenza civile statunitense, la Medaglia della Libertà. Cerf può essere considerato il papà di Internet: ne ha inventato lui il software fondamentale, il TCP/IP.
A finanziare fino agli anni Settanta il progetto Arpanet, predecessore di Internet, fu il Pentagono. Ma, paradossalmente, proprio la principale caratteristica tecnica richiesta dai militari statunitensi, e cioè la flessibilità del sistema di comunicazione, con il massimo decentramento per consentirgli di funzionare anche dopo un attacco che ne mettesse fuori uso alcune parti, è oggi l’ostacolo più grosso per i “normalizzatori”: «Controllare il flusso della rete è impossibile», avverte Leonard Kleinrock, scienziato dell’Ucla (University California Los Angeles), «sarebbe come pretendere di controllare il flusso degli oceani».
Per una volta, quindi, i libertari, i giovani, gli hackers, i noglobal abitualmente schierati contro gli Stati Uniti in quasi tutti i campi, si ritrovano involontariamente ma inevitabilmente schierati al fianco dell’America: a chi ha a cuore la libertà del web conviene l’attuale approccio non burocratico dell’Icann. Il che non vuol dire che anche dentro agli Stati Uniti non esistano forti spinte per una maggiore intrusione poliziesca in Internet: l’emergenza terrorismo spinge automaticamente le autorità a chiedere barriere, controlli, divieti. Ma finora i libertari hanno avuto la meglio.
Friday, October 28, 2005
Lapo Elkann Agnelli
ECCO COME SI DISINTOSSICA IN ARIZONA
Oggi, mercoledi 26 ottobre 2005
Wickenburg (Stati Uniti), ottobre
Sarà un ex colonnello pilota militare dell'Air Force, l'aeronautica americana, a tirar fuori Lapo Elkann dalla droga? Pat Mellody, 72 anni, è un personaggio qui a Wickenburg. Siamo nel deserto dell'Arizona, cento chilometri a nord-ovest e un'ora di auto da Phoenix. Ma ai vip con l'aereo privato questo paesino di seimila abitanti offre anche un aeroporto. Vegetazione principale: i saguari, gli alti cactus a ipsilon tipici dei film sul Far West e dei cartoni animati di Gatto Silvestro. Dopo il paese, si imbocca la statale 93 fino ad arrivare in un posto incantevole, con vista mozzafiato sulla valle del fiume indiano Hassayampa e i monti Bradshaw.
Qui c'è il centro di recupero The Meadows (I Prati), fondato da Mellody 27 anni fa. Era un ranch, lo Slash Bar K, dove i turisti giocavano a fare i cowboy con i cavalli e il lazo. «Ma oggi Mellody è diventato il terzo datore di lavoro a Wickenburg», dicono in paese. Al primo posto c'è un'altra comunità, il Remuda Ranch, riservato ad anoressiche e bulimiche. Al secondo c'è la scuola. E al terzo ecco il rehab (centro di riabilitazione) più famoso del mondo, a causa dei famosi che ci arrivano da ogni parte del globo. L'ultima, la modella cocainomane inglese Kate Moss, sta per uscire dai Meadows. C'è arrivata alla fine di settembre, e sta completando i 35 giorni del programma. Stessa sorte attenderebbe Lapo.
Negli Stati Uniti i tossicodipendenti non restano in comunità per anni, come in Italia. I percorsi di riabilitazione sono molto più veloci e costosi. Quello dei Meadows viene mille dollari al giorno, più annessi e connessi (spese alberghiere, farmaci, eventuali cure supplementari). Il totale giornaliero raggiunge a volte anche i 3.000 dollari. I posti sono solo settanta, ci sono piscina e campi da tennis. Viene trattato ogni tipo di dipendenza: non solo da cocaina ed eroina, ma anche da alcol, sesso, gioco d'azzardo. Multi-disorder facility, la chiamano: struttura per vari disordini.
Massimo riserbo, ovviamente, sui clienti. No comment totale su nomi, arrivi, partenze. Ma di se stesso Mellody racconta qualcosa: «Sono cresciuto ad Akron, nell'Ohio, proprio la città dov'è nata la Alcolisti Anonimi. Mio padre partecipò a uno dei primi programmi». Poi, durante la guerra del Vietnam, l'incarico di curare i soldati reduci dalla jungla che si aggrappavano a sostanze di ogni tipo. Infine, l'arrivo in Arizona per gestire Meadows. Ne prende presto il controllo con i suoi programmi che sono un misto di saggezza Zen, New Age e buon senso californiano. Incontra la moglie Pia, infermiera, ex alcolista pure lei, e autrice di quattro libri sul loro metodo in dodici stadi per affrontare le varie dipendenze.
Ogni anno quasi duemila tossici vengono curati a Wickenburg dentro a cinque centri. In paese non sono granché fieri di questo record, preferiscono parlare invece dei 22 mila turisti che nel 2004 hanno visitato i sette ranch dei cowboy sopravvissuti. Ma il calcolo della convenienza è presto fatto: i turisti pagano 100-200 dollari al giorno, i tossici dieci volte tanto. Ormai l'economia del paese è stata essa stessa drogata da questo viavai di celeb rehab. Non molto lontano da Wickenburg c'è Sedona, un'altra piccola «capitale mondiale» dell'anti-vizio e famoso centro del New Age dove ex hippies sono in perenne ricerca di «energie positive».
Lapo è solo l'ultimo dei vip segnalati qui per i motivi più diversi. Nei Meadows, per esempio, è venuta l'anno scorso la modella Elle Macpherson a curare la depressione post-parto che l'ha fatta divorziare dal marito. L'ex marito di Halle Berry, Eric Benet, ha affrontato la sua mania per il sesso e l'incapacità di restare fedele. E poi AJ McLean, uno dei Backstreet Boys, la moglie del senatore George McCain, il figlio del cantante Rod Stewart, il calciatore Paul Gascoigne, una cantante delle Atomic Kitten. Schiava della polvere bianca era pure Whitney Houston, mentre il chitarrista dei Rolling Stones, Ron Wood, si è asciugato dalla bottiglia.
Dentro, perfino una droga blandissima come il caffè è vietata. Qui Lapo Elkann non potrà telefonare, né fumare. Mangerà cibi senza zucchero, e tante fibre. La sua sveglia suonerà alle sei del mattino, andrà a nanna entro le dieci. E dovrà rifarsi il letto. Non riceverà le visite di amici né di parenti strettissimi. Saranno ammesse solo alla domenica verso la fine delle cinque settimane. La sua terapia prevede anche sessioni di gruppo «per condividere e smaltire il dolore» e pittura per rilassarsi (consigliati gli autoritratti, per riacquistare stima in se stessi). Non mancano agopuntura, yoga, t'ai chi, stretching. Una squadra multidisciplinare di psichiatri, psicologi e infermiere segue costantemente ogni malato, uno per uno. Se fanno i bravi, i pazienti vengono ricompensati con una notte nel deserto assieme a un indiano Navajo, il quale a un certo punto agita una penna bianca in aria per simboleggiare l'espulsione del «bagaglio emozionale».
Con le dimissioni dalla clinica la cura non finisce. Come nelle università, infatti, i «laureati» di Meadows vengono caldamente sollecitati a rimanere «alunni», ex allievi in contatto fra loro nelle città di origine. Un po' per non ricaderci, un po' per offrire reti di protezione ai nuovi arrivati. Il motto di Meadows è: «Where recovery becomes reality», dove il recupero diventa realtà. Non ci resta che augurare anche a Lapo che la guarigione diventi realtà.
Mauro Suttora
Oggi, mercoledi 26 ottobre 2005
Wickenburg (Stati Uniti), ottobre
Sarà un ex colonnello pilota militare dell'Air Force, l'aeronautica americana, a tirar fuori Lapo Elkann dalla droga? Pat Mellody, 72 anni, è un personaggio qui a Wickenburg. Siamo nel deserto dell'Arizona, cento chilometri a nord-ovest e un'ora di auto da Phoenix. Ma ai vip con l'aereo privato questo paesino di seimila abitanti offre anche un aeroporto. Vegetazione principale: i saguari, gli alti cactus a ipsilon tipici dei film sul Far West e dei cartoni animati di Gatto Silvestro. Dopo il paese, si imbocca la statale 93 fino ad arrivare in un posto incantevole, con vista mozzafiato sulla valle del fiume indiano Hassayampa e i monti Bradshaw.
Qui c'è il centro di recupero The Meadows (I Prati), fondato da Mellody 27 anni fa. Era un ranch, lo Slash Bar K, dove i turisti giocavano a fare i cowboy con i cavalli e il lazo. «Ma oggi Mellody è diventato il terzo datore di lavoro a Wickenburg», dicono in paese. Al primo posto c'è un'altra comunità, il Remuda Ranch, riservato ad anoressiche e bulimiche. Al secondo c'è la scuola. E al terzo ecco il rehab (centro di riabilitazione) più famoso del mondo, a causa dei famosi che ci arrivano da ogni parte del globo. L'ultima, la modella cocainomane inglese Kate Moss, sta per uscire dai Meadows. C'è arrivata alla fine di settembre, e sta completando i 35 giorni del programma. Stessa sorte attenderebbe Lapo.
Negli Stati Uniti i tossicodipendenti non restano in comunità per anni, come in Italia. I percorsi di riabilitazione sono molto più veloci e costosi. Quello dei Meadows viene mille dollari al giorno, più annessi e connessi (spese alberghiere, farmaci, eventuali cure supplementari). Il totale giornaliero raggiunge a volte anche i 3.000 dollari. I posti sono solo settanta, ci sono piscina e campi da tennis. Viene trattato ogni tipo di dipendenza: non solo da cocaina ed eroina, ma anche da alcol, sesso, gioco d'azzardo. Multi-disorder facility, la chiamano: struttura per vari disordini.
Massimo riserbo, ovviamente, sui clienti. No comment totale su nomi, arrivi, partenze. Ma di se stesso Mellody racconta qualcosa: «Sono cresciuto ad Akron, nell'Ohio, proprio la città dov'è nata la Alcolisti Anonimi. Mio padre partecipò a uno dei primi programmi». Poi, durante la guerra del Vietnam, l'incarico di curare i soldati reduci dalla jungla che si aggrappavano a sostanze di ogni tipo. Infine, l'arrivo in Arizona per gestire Meadows. Ne prende presto il controllo con i suoi programmi che sono un misto di saggezza Zen, New Age e buon senso californiano. Incontra la moglie Pia, infermiera, ex alcolista pure lei, e autrice di quattro libri sul loro metodo in dodici stadi per affrontare le varie dipendenze.
Ogni anno quasi duemila tossici vengono curati a Wickenburg dentro a cinque centri. In paese non sono granché fieri di questo record, preferiscono parlare invece dei 22 mila turisti che nel 2004 hanno visitato i sette ranch dei cowboy sopravvissuti. Ma il calcolo della convenienza è presto fatto: i turisti pagano 100-200 dollari al giorno, i tossici dieci volte tanto. Ormai l'economia del paese è stata essa stessa drogata da questo viavai di celeb rehab. Non molto lontano da Wickenburg c'è Sedona, un'altra piccola «capitale mondiale» dell'anti-vizio e famoso centro del New Age dove ex hippies sono in perenne ricerca di «energie positive».
Lapo è solo l'ultimo dei vip segnalati qui per i motivi più diversi. Nei Meadows, per esempio, è venuta l'anno scorso la modella Elle Macpherson a curare la depressione post-parto che l'ha fatta divorziare dal marito. L'ex marito di Halle Berry, Eric Benet, ha affrontato la sua mania per il sesso e l'incapacità di restare fedele. E poi AJ McLean, uno dei Backstreet Boys, la moglie del senatore George McCain, il figlio del cantante Rod Stewart, il calciatore Paul Gascoigne, una cantante delle Atomic Kitten. Schiava della polvere bianca era pure Whitney Houston, mentre il chitarrista dei Rolling Stones, Ron Wood, si è asciugato dalla bottiglia.
Dentro, perfino una droga blandissima come il caffè è vietata. Qui Lapo Elkann non potrà telefonare, né fumare. Mangerà cibi senza zucchero, e tante fibre. La sua sveglia suonerà alle sei del mattino, andrà a nanna entro le dieci. E dovrà rifarsi il letto. Non riceverà le visite di amici né di parenti strettissimi. Saranno ammesse solo alla domenica verso la fine delle cinque settimane. La sua terapia prevede anche sessioni di gruppo «per condividere e smaltire il dolore» e pittura per rilassarsi (consigliati gli autoritratti, per riacquistare stima in se stessi). Non mancano agopuntura, yoga, t'ai chi, stretching. Una squadra multidisciplinare di psichiatri, psicologi e infermiere segue costantemente ogni malato, uno per uno. Se fanno i bravi, i pazienti vengono ricompensati con una notte nel deserto assieme a un indiano Navajo, il quale a un certo punto agita una penna bianca in aria per simboleggiare l'espulsione del «bagaglio emozionale».
Con le dimissioni dalla clinica la cura non finisce. Come nelle università, infatti, i «laureati» di Meadows vengono caldamente sollecitati a rimanere «alunni», ex allievi in contatto fra loro nelle città di origine. Un po' per non ricaderci, un po' per offrire reti di protezione ai nuovi arrivati. Il motto di Meadows è: «Where recovery becomes reality», dove il recupero diventa realtà. Non ci resta che augurare anche a Lapo che la guarigione diventi realtà.
Mauro Suttora
Friday, October 21, 2005
La famiglia con 16 figli
... e tutti iniziano per J...
Oggi, 20 ottobre 2005
Springdale (Stati Uniti)
Quando Jim Duggar, agente immobiliare dell'Arkansas (lo stesso stato dell'ex presidente Bill Clinton), sposò Michelle nel 1984, l'idea era di avere due figli. Ma con calma, perchè lei era appena diciottenne. Il primo, Joshua, nacque nel 1987. «Subito dopo rimasi di nuovo incinta», racconta Michelle, «nonostante prendessi la pillola. Ma ebbi un aborto spontaneo. Noi siamo molto religiosi, e leggemmo sulla Bibbia che i bambini sono un regalo di Dio. Però, usando gli anticoncezionali, ci sembrava di rifiutarli. Così gliene chiedemmo altri, e iniziai subito la gravidanza di due gemelli, Jana e John-David, che oggi hanno 15 anni. Da allora non abbiamo più smesso: ho avuto quasi un figlio ogni anno».
L'ultima, Johannah, è arrivata due settimane fa. In mezzo: Jill, Jessa, Jinger, Joseph, Josiah, Joy-Anna, i gemelli Jedidiah e Jeremiah, Jason, James, Justin e Jackson, di un anno e mezzo. Tredici parti naturali, tre cesarei. Dieci maschi, sei femmine: totale, sedici. Record mondiale? Chissà, forse in Africa... Quel che è certo, è che tutti i loro nomi iniziano per J. Perchè? «Non c'è un motivo particolare, abbiamo cominciato da mio marito Jim», spiega la supermamma Michelle, «e poi abbiamo continuato così per non far sentire nessuno escluso».
Ma come si svolge la vita in una famiglia con sedici figli? «Col tempo abbiamo sviluppato una strategia giornaliera per assicurare un ordinato andamento delle cose. La nostra casa ha 240 metri quadri con quattro camere da letto, e molti letti a castello. Jim ed io ci alziamo alle sei, i ragazzi alle sette. Ognuno si lava, si veste, si pettina, e i più grandi ne hanno uno o due da accudire. Alle otto ci sediamo per fare colazione. Abbiamo calcolato che ogni settimana consumiamo un'ottantina di litri di latte, quindici forme di pane, sei chili di burro. E poi 35 chili di mele, trenta di patate, 24 di gelato, venti di riso, una quindicina di mais e di frutta surgelata, cinque di carne di pollo... Dimentico qualcosa? Ah, sì, 140 banane. La nostra spesa settimanale per il cibo è sui 500 dollari.
«A colazione leggiamo qualcosa dal libro dei Proverbi, poi ognuno pulisce una parte della casa. I grandi hanno dei compiti fissi, una specie di 'giurisdizione', e si possono far aiutare dai più piccoli a loro affidati. Durante il giorno stiamo attenti a non lasciare le cose in giro e a buttare ogni cartaccia e residuo, ma il disordine si crea comunque. Alle nove comincia la scuola. I nostri figli studiano tutti a casa, abbiamo deciso così dopo aver visto gli eccellenti risultati di altri ragazzi educati in questo modo. In questo modo si crea anche più unità in famiglia. E poi, studiare assieme è più divertente. Io ho cominciato a insegnare a Joshua quando ha compiuto quattro anni. Anche qui, i più grandi insegnano lettura, scrittura e matematica ai più piccoli, e poi si dedicano ai propri compiti individuali. Tutti imparano a suonare il violino e il pianoforte.
«A mezzogiorno interrompiamo per pranzare. Jill, che ha 14 anni, è quella che più spesso mi aiuta a preparare da mangiare. Dopo puliamo i piatti, riordiniamo, e all'una e mezzo quelli che hanno meno di quattro anni vanno a fare il riposino. Con i più grandi, invece, nel pomeriggio io stessa affronto le materie più impegnative: scienza, storia, legge, medicina. Impariamo a memoria molte poesie e anche inni religiosi, per esercitare il cervello. Alle quattro finiscono le lezioni collettive e fino alle cinque tutti studiano per conto proprio. A cena tocca a Jana, la nostra primogenita femmina, aiutarmi a far da mangiare. Alle sette tempo libero per tutti, anche se visto che abbiamo un solo pianoforte da dividere in undici dobbiamo fare i turni fino a sera. I più piccoli si preparano ad andare a letto, e uno dopo l'altro tutti fanno la doccia o il bagno e si lavano i denti.
«Alle nove di sera arriva quello che è forse il momento pìu bello della giornata. Papà, che è tornato dal lavoro, ci legge dei brani della Bibbia e poi ne discutiamo assieme. I più piccoli si addormentano sul divano, e comunque andiamo tutti a letto alle dieci. Intanto la lavatrice è sempre in funzione: facciamo sette bucati al giorno, mettiamo tutto nell'asciugatrice e poi qualcuno mi aiuta a piegare e riporre negli armadi. Una stanza intera l'abbiamo dovuta convertire in armadio per i vestiti da appendere. Calze, mutande e magliette di ciascuno stanno in grandi scatole col nome del proprietario. Le femmine portano calze bianche, i maschi nere, così possiamo fare lavatrici uniformi. A ogni cambio di stagione mettiamo i vestiti che non usiamo più in grossi scatoloni che etichettiamo e portiamo in cantina, per liberare gli armadi.
«Avere tanti figli può sembrare faticoso, ma non è così, perchè tutti aiutano. Lavoriamo in squadra, al muro della sala da pranzo c'è appesa la lista dei compiti di ciascuno. Abbiamo anche delle pagelle mensili, con i voti che ciascuno prende in quattro campi: studio, lavori domestici, musica e igiene personale. Così i bambini si responsabilizzano e imparano a essere premiati o puniti. In casa ci sono sette computer, tutti col filtro per internet, ma niente tv.
«Andiamo a fare la spesa nel minivan con 15 posti, oppure nel bus con 21 posti se dobbiamo comprare parecchia roba. Di solito riempiamo dai cinque ai sette carrelli. Non riceviamo alcun aiuto finanziario esterno, lo stipendio di Jim (dai 50 ai 70 mila dollari annui) ci basta, ma stiamo molto attenti ad approfittare di ogni offerta speciale, e a risparmiare. Compriamo molti vestiti e giocattoli usati... Ogni tanto facciamo una scampagnata col nostro bus. Ho calcolato di aver avuto doglie per un totale di 127 ore, ma se Dio ci benedirà con altri figli li accoglieremo con gioia. So che posso sembrare una pazza a dirlo, ma ce la faremo comunque. Ora stiamo comprando una nuova casa da 700 metri quadri con due grandi dormitori per i maschi e le femmine. Non vediamo l'ora di traslocare, ma siamo comunque una famiglia unita e felice».
Mauro Suttora
Oggi, 20 ottobre 2005
Springdale (Stati Uniti)
Quando Jim Duggar, agente immobiliare dell'Arkansas (lo stesso stato dell'ex presidente Bill Clinton), sposò Michelle nel 1984, l'idea era di avere due figli. Ma con calma, perchè lei era appena diciottenne. Il primo, Joshua, nacque nel 1987. «Subito dopo rimasi di nuovo incinta», racconta Michelle, «nonostante prendessi la pillola. Ma ebbi un aborto spontaneo. Noi siamo molto religiosi, e leggemmo sulla Bibbia che i bambini sono un regalo di Dio. Però, usando gli anticoncezionali, ci sembrava di rifiutarli. Così gliene chiedemmo altri, e iniziai subito la gravidanza di due gemelli, Jana e John-David, che oggi hanno 15 anni. Da allora non abbiamo più smesso: ho avuto quasi un figlio ogni anno».
L'ultima, Johannah, è arrivata due settimane fa. In mezzo: Jill, Jessa, Jinger, Joseph, Josiah, Joy-Anna, i gemelli Jedidiah e Jeremiah, Jason, James, Justin e Jackson, di un anno e mezzo. Tredici parti naturali, tre cesarei. Dieci maschi, sei femmine: totale, sedici. Record mondiale? Chissà, forse in Africa... Quel che è certo, è che tutti i loro nomi iniziano per J. Perchè? «Non c'è un motivo particolare, abbiamo cominciato da mio marito Jim», spiega la supermamma Michelle, «e poi abbiamo continuato così per non far sentire nessuno escluso».
Ma come si svolge la vita in una famiglia con sedici figli? «Col tempo abbiamo sviluppato una strategia giornaliera per assicurare un ordinato andamento delle cose. La nostra casa ha 240 metri quadri con quattro camere da letto, e molti letti a castello. Jim ed io ci alziamo alle sei, i ragazzi alle sette. Ognuno si lava, si veste, si pettina, e i più grandi ne hanno uno o due da accudire. Alle otto ci sediamo per fare colazione. Abbiamo calcolato che ogni settimana consumiamo un'ottantina di litri di latte, quindici forme di pane, sei chili di burro. E poi 35 chili di mele, trenta di patate, 24 di gelato, venti di riso, una quindicina di mais e di frutta surgelata, cinque di carne di pollo... Dimentico qualcosa? Ah, sì, 140 banane. La nostra spesa settimanale per il cibo è sui 500 dollari.
«A colazione leggiamo qualcosa dal libro dei Proverbi, poi ognuno pulisce una parte della casa. I grandi hanno dei compiti fissi, una specie di 'giurisdizione', e si possono far aiutare dai più piccoli a loro affidati. Durante il giorno stiamo attenti a non lasciare le cose in giro e a buttare ogni cartaccia e residuo, ma il disordine si crea comunque. Alle nove comincia la scuola. I nostri figli studiano tutti a casa, abbiamo deciso così dopo aver visto gli eccellenti risultati di altri ragazzi educati in questo modo. In questo modo si crea anche più unità in famiglia. E poi, studiare assieme è più divertente. Io ho cominciato a insegnare a Joshua quando ha compiuto quattro anni. Anche qui, i più grandi insegnano lettura, scrittura e matematica ai più piccoli, e poi si dedicano ai propri compiti individuali. Tutti imparano a suonare il violino e il pianoforte.
«A mezzogiorno interrompiamo per pranzare. Jill, che ha 14 anni, è quella che più spesso mi aiuta a preparare da mangiare. Dopo puliamo i piatti, riordiniamo, e all'una e mezzo quelli che hanno meno di quattro anni vanno a fare il riposino. Con i più grandi, invece, nel pomeriggio io stessa affronto le materie più impegnative: scienza, storia, legge, medicina. Impariamo a memoria molte poesie e anche inni religiosi, per esercitare il cervello. Alle quattro finiscono le lezioni collettive e fino alle cinque tutti studiano per conto proprio. A cena tocca a Jana, la nostra primogenita femmina, aiutarmi a far da mangiare. Alle sette tempo libero per tutti, anche se visto che abbiamo un solo pianoforte da dividere in undici dobbiamo fare i turni fino a sera. I più piccoli si preparano ad andare a letto, e uno dopo l'altro tutti fanno la doccia o il bagno e si lavano i denti.
«Alle nove di sera arriva quello che è forse il momento pìu bello della giornata. Papà, che è tornato dal lavoro, ci legge dei brani della Bibbia e poi ne discutiamo assieme. I più piccoli si addormentano sul divano, e comunque andiamo tutti a letto alle dieci. Intanto la lavatrice è sempre in funzione: facciamo sette bucati al giorno, mettiamo tutto nell'asciugatrice e poi qualcuno mi aiuta a piegare e riporre negli armadi. Una stanza intera l'abbiamo dovuta convertire in armadio per i vestiti da appendere. Calze, mutande e magliette di ciascuno stanno in grandi scatole col nome del proprietario. Le femmine portano calze bianche, i maschi nere, così possiamo fare lavatrici uniformi. A ogni cambio di stagione mettiamo i vestiti che non usiamo più in grossi scatoloni che etichettiamo e portiamo in cantina, per liberare gli armadi.
«Avere tanti figli può sembrare faticoso, ma non è così, perchè tutti aiutano. Lavoriamo in squadra, al muro della sala da pranzo c'è appesa la lista dei compiti di ciascuno. Abbiamo anche delle pagelle mensili, con i voti che ciascuno prende in quattro campi: studio, lavori domestici, musica e igiene personale. Così i bambini si responsabilizzano e imparano a essere premiati o puniti. In casa ci sono sette computer, tutti col filtro per internet, ma niente tv.
«Andiamo a fare la spesa nel minivan con 15 posti, oppure nel bus con 21 posti se dobbiamo comprare parecchia roba. Di solito riempiamo dai cinque ai sette carrelli. Non riceviamo alcun aiuto finanziario esterno, lo stipendio di Jim (dai 50 ai 70 mila dollari annui) ci basta, ma stiamo molto attenti ad approfittare di ogni offerta speciale, e a risparmiare. Compriamo molti vestiti e giocattoli usati... Ogni tanto facciamo una scampagnata col nostro bus. Ho calcolato di aver avuto doglie per un totale di 127 ore, ma se Dio ci benedirà con altri figli li accoglieremo con gioia. So che posso sembrare una pazza a dirlo, ma ce la faremo comunque. Ora stiamo comprando una nuova casa da 700 metri quadri con due grandi dormitori per i maschi e le femmine. Non vediamo l'ora di traslocare, ma siamo comunque una famiglia unita e felice».
Mauro Suttora
Thursday, October 20, 2005
Socialisti Usa e radicali
DIASPORE SOCIALISTE USA (E CONTORNO DI RADICALI)
Il Foglio, 20 ottobre 2005
di Mauro Suttora
E' morto Kemble, neocon dal volto umano e capo dei Social democrats, con il pallino della democrazia
New York. E' morto Penn Kemble. Leader socialdemocratico americano, era dirigente della Freedom House, del Consiglio delle Democrazie, e negli otto anni di Bill Clinton era stato vicedirettore dell'Usia (United States Information Agency). Intellettuale stimato e bipartisan, nel 2002 anche l'amministrazione Bush gli aveva dato un incarico, in una commissione sul Sudan. Nello stesso anno ha firmato un appello per la protezione della libertà a Hong Kong del Pnac (Project for a New American Century), il cuore dell'iniziativa politica neocon. E l'anno scorso è stato tra i promotori dell'appello bipartisan del Foglio per l'invio di soldati Nato in Iraq, firmato fra gli altri da Gianfranco Fini, Umberto Ranieri, Franco Marini e Piero Ostellino.
Strani tipi, i socialdemocratici statunitensi. Nella gioventù socialista Usa, fra gli anni Sessanta e Settanta, sono passati personaggi poi famosi come Jeane Kirkpatrick (ambasciatrice di Ronald Reagan all'Onu) e Paul Wolfowitz. Dirigente dell'organizzazione, con Kemble, è stato Joshua Muravchik, oggi colonna dell'Aei (American Enterprise Institute), il think tank neocon. Del gruppo fa parte anche il quotato saggista Paul Berman, che ha appoggiato la guerra in Iraq ma l'anno scorso ha votato John Kerry. Il socialdemocratico con la posizione di governo più importante, anch'egli impermeabile ai cambi di amministrazione, è Carl Gershman, presidente da ben 21 anni del Ned (National Endowment for Democracy), voluto da Ronald Reagan per combattere l’Impero del Male (l’Urss), e oggi impegnato ad assistere finanziariamente i Paesi in transizione verso la democrazia (all'attivo le rivoluzioni nonviolente in Serbia, Georgia e Ucraina).
La lotta per la democrazia. Questa è la principale mission che si sono dati i Social democrats statunitensi. E non da ieri: il congresso della diaspora socialista Usa risale infatti al 1972, un terzo di secolo fa. Allora l'onusto Socialist Party of America si spaccò in tre proprio perchè all'ex trotszkysta Max Shachtman non andava giù la tolleranza per l'Unione Sovietica. La sua corrente vinse il congresso, e gli "equivalentisti" (quelli che mettevano Usa e Urss sullo stesso livello) se ne andarono. Quei "compagni" esistono ancora, anche se ridotti a poche centinaia: stanno nel Socialist Party Usa e nei Democratic socialists. L'Internazionale socialista riconosce come propri membri americani solo questi ultimi, oltre ai Social democrats.
Il legame con i radicali italiani
Contrariamente all'Italia, non c'è alcuna possibilità di riunificazione fra i socialisti e socialdemocratici statunitensi. I Democratic socialists, infatti, sono il classico partitino la cui settarietà e faziosità è inversamente proporzionale alla propria dimensione. Si accontentano di essere una piccola corrente all'interno del partito democratici. I Social democrats, al contrario, hanno da tempo abbandonato la forma partito e operano esclusivamente come club di liberi pensatori. Sulla politica interna ed economica ci sarebbero diversi punti di contatto, ma la politica estera li divide irrimediabilmente: si accusano reciprocamente di essere falchi e molli pacifisti.
Curiosamente, anche negli Usa come in Italia nelle vicende socialiste appaiono i radicali di Marco Pannella. Un pannelliano fiorentino di 30 anni, Matteo Mecacci, rappresentante del partito all'Onu, ha avuto infatti l'onore due settimane fa di essere invitato a parlare dal palco del Ned nello stesso giorno del presidente degli Stati Uniti. Al mattino George Bush ha tenuto un importante discorso nella sede del Ned di Washington, e nel pomeriggio Mecacci ha dibattuto gli stessi temi a New York con il numero due dell’Onu, Mark Malloch Brown, potente capo di gabinetto del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan.
Mecacci è stato presentato con parole lusinghiere da Gershman, il presidente socialdemocratico del Ned, all’auditorium del palazzo McGraw-Hill del Rockefeller Center, di fronte a una qualificata platea di ambasciatori ed esperti di politica estera: «Il partito radicale transnazionale di Emma Bonino si batte per una riforma dell’Onu, in cui le democrazie contino di più e non vengano ostacolate dalle dittature, che sono ormai soltanto una minoranza fra gli stati rappresentati al Palazzo di vetro». Mecacci ha scritto anche vari editoriali con il segretario radicale Daniele Capezzone sul Washington Times, il quotidiano legato al Pentagono. Destra, sinistra, nonviolenza, guerra? Socialdemocratici americani e radicali italiani non vedono contraddizioni e spargono il loro verbo democratizzatore ovunque.
Mauro Suttora
Il Foglio, 20 ottobre 2005
di Mauro Suttora
E' morto Kemble, neocon dal volto umano e capo dei Social democrats, con il pallino della democrazia
New York. E' morto Penn Kemble. Leader socialdemocratico americano, era dirigente della Freedom House, del Consiglio delle Democrazie, e negli otto anni di Bill Clinton era stato vicedirettore dell'Usia (United States Information Agency). Intellettuale stimato e bipartisan, nel 2002 anche l'amministrazione Bush gli aveva dato un incarico, in una commissione sul Sudan. Nello stesso anno ha firmato un appello per la protezione della libertà a Hong Kong del Pnac (Project for a New American Century), il cuore dell'iniziativa politica neocon. E l'anno scorso è stato tra i promotori dell'appello bipartisan del Foglio per l'invio di soldati Nato in Iraq, firmato fra gli altri da Gianfranco Fini, Umberto Ranieri, Franco Marini e Piero Ostellino.
Strani tipi, i socialdemocratici statunitensi. Nella gioventù socialista Usa, fra gli anni Sessanta e Settanta, sono passati personaggi poi famosi come Jeane Kirkpatrick (ambasciatrice di Ronald Reagan all'Onu) e Paul Wolfowitz. Dirigente dell'organizzazione, con Kemble, è stato Joshua Muravchik, oggi colonna dell'Aei (American Enterprise Institute), il think tank neocon. Del gruppo fa parte anche il quotato saggista Paul Berman, che ha appoggiato la guerra in Iraq ma l'anno scorso ha votato John Kerry. Il socialdemocratico con la posizione di governo più importante, anch'egli impermeabile ai cambi di amministrazione, è Carl Gershman, presidente da ben 21 anni del Ned (National Endowment for Democracy), voluto da Ronald Reagan per combattere l’Impero del Male (l’Urss), e oggi impegnato ad assistere finanziariamente i Paesi in transizione verso la democrazia (all'attivo le rivoluzioni nonviolente in Serbia, Georgia e Ucraina).
La lotta per la democrazia. Questa è la principale mission che si sono dati i Social democrats statunitensi. E non da ieri: il congresso della diaspora socialista Usa risale infatti al 1972, un terzo di secolo fa. Allora l'onusto Socialist Party of America si spaccò in tre proprio perchè all'ex trotszkysta Max Shachtman non andava giù la tolleranza per l'Unione Sovietica. La sua corrente vinse il congresso, e gli "equivalentisti" (quelli che mettevano Usa e Urss sullo stesso livello) se ne andarono. Quei "compagni" esistono ancora, anche se ridotti a poche centinaia: stanno nel Socialist Party Usa e nei Democratic socialists. L'Internazionale socialista riconosce come propri membri americani solo questi ultimi, oltre ai Social democrats.
Il legame con i radicali italiani
Contrariamente all'Italia, non c'è alcuna possibilità di riunificazione fra i socialisti e socialdemocratici statunitensi. I Democratic socialists, infatti, sono il classico partitino la cui settarietà e faziosità è inversamente proporzionale alla propria dimensione. Si accontentano di essere una piccola corrente all'interno del partito democratici. I Social democrats, al contrario, hanno da tempo abbandonato la forma partito e operano esclusivamente come club di liberi pensatori. Sulla politica interna ed economica ci sarebbero diversi punti di contatto, ma la politica estera li divide irrimediabilmente: si accusano reciprocamente di essere falchi e molli pacifisti.
Curiosamente, anche negli Usa come in Italia nelle vicende socialiste appaiono i radicali di Marco Pannella. Un pannelliano fiorentino di 30 anni, Matteo Mecacci, rappresentante del partito all'Onu, ha avuto infatti l'onore due settimane fa di essere invitato a parlare dal palco del Ned nello stesso giorno del presidente degli Stati Uniti. Al mattino George Bush ha tenuto un importante discorso nella sede del Ned di Washington, e nel pomeriggio Mecacci ha dibattuto gli stessi temi a New York con il numero due dell’Onu, Mark Malloch Brown, potente capo di gabinetto del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan.
Mecacci è stato presentato con parole lusinghiere da Gershman, il presidente socialdemocratico del Ned, all’auditorium del palazzo McGraw-Hill del Rockefeller Center, di fronte a una qualificata platea di ambasciatori ed esperti di politica estera: «Il partito radicale transnazionale di Emma Bonino si batte per una riforma dell’Onu, in cui le democrazie contino di più e non vengano ostacolate dalle dittature, che sono ormai soltanto una minoranza fra gli stati rappresentati al Palazzo di vetro». Mecacci ha scritto anche vari editoriali con il segretario radicale Daniele Capezzone sul Washington Times, il quotidiano legato al Pentagono. Destra, sinistra, nonviolenza, guerra? Socialdemocratici americani e radicali italiani non vedono contraddizioni e spargono il loro verbo democratizzatore ovunque.
Mauro Suttora
Wednesday, October 19, 2005
Angela Merkel
Oggi, 12 ottobre 2005
«Chi ha qualcosa da dire non ha bisogno di trucco»: così Angela Merkel, 51 anni, la nuova cancelliera tedesca, risponde ai consulenti «per l'immagine» del partito democristiano tedesco, quando la implorano di tenersi un po' più su, di mettersi un bel rossetto, di passare più spesso dal parrucchiere. Niente da fare. Lei, tetra e tetragona come la teutonica prof di chimica che è, per tutta la campagna elettorale non si è curata della forma, andando dritta alla sostanza. Ha promesso ai suoi compatrioti meno assistenza, meno sussidi, più competizione, più libero mercato. E alla fine ha vinto.
Sarà la prima donna a guidare la Germania dopo mille anni: dai tempi delle imperatrici Teofania di Bisanzio e di sua suocera Santa Adelaide, che dal 983 al 995 fecero da reggenti al minorenne Ottone III. Adolf Hitler si rivolta nella tomba, di fronte a questa signora così poco marziale che si è impadronita del Reich. Ma sotto l'apparenza dimessa e pacioccona, e nonostante il nome, Angela ha un'anima di ferro. Altro che «Angie», come hanno cercato di soprannominarla quelli delle pubbliche relazioni: a ogni suo comizio trasmettevano l'omonima, romantica canzone dei Rolling Stones per ingentilirla. Missione impossibile: come si fa ad addolcire la figlia di un severo pastore luterano cresciuta per 35 anni sotto la dittatura comunista della Germania Est, e sopravvissuta per i successivi quindici alle trappole degli squali della politica, «amici» e nemici uniti nell'invidia della sua rapida ascesa?
Angela Merkel è la più giovane cancelliera del dopoguerra (meglio non risalire fino a Hitler, nominato a 44 anni). E' anche la prima che viene dall'Est, e la prima democristiana divorziata e risposata. Suo padre, oggi quasi ottantenne, continua a vivere nel paesino a nord di Berlino in cui la portò quand'era ancora in fasce. Da Amburgo dov'era nata, infatti, la famigliola nel '54 si trasferisce all'Est, perchè a padre Horst Kasner la chiesa ordina di coprire una parrocchia rimasta senza pastore. «Solo due tipi di persone lasciano la Germania occidentale per quella orientale: i comunisti e gli idioti», commenta il traslocatore. Alla mamma il regime impedisce l'insegnamento: troppo pericoloso mettere in cattedra una che viene dall'Ovest, potrebbe essere una spia.
Angela e i fratellini (un maschio e una femmina) crescono nel clima di sospetto e terrore instillato dalla polizia segreta Stasi. La chiesa viene tollerata, ma suo padre subisce le angherie dei gerarchi: solo negli anni '70 gli concederanno il permesso per viaggiare un po' in Italia e in Gran Bretagna. Ma senza famiglia. «Eravamo i figli di un pastore», ricorda lei, «e dovevamo primeggiare in tutto per sopravvivere». Volontà d'acciaio: a otto anni rimane tre quarti d'ora sul bordo della piscina per trovare il coraggio di tuffarsi la prima volta. Dissimulazione: mai esprimere i propri pensieri, chiunque può fare una spiata. A 14 anni Angela simpatizza per i ragazzi della Primavera di Praga, ma guai a dirlo. Vuole fare la traduttrice, impara perfettamente il russo e l'inglese. Nel 1970 viene premiata dalla scuola con un viaggio all'estero: a Mosca. «Comprai lì, al mercato nero, il mio primo disco dei Beatles: Yellow Submarine».
Ma suo padre commette un'imprudenza: durante qualche riunione privata in parrocchia commenta gli scritti di Andrei Sacharov. Viene etichettato come dissidente, e ad Angela viene impedito di fare l'interprete (mestiere riservato ai fedeli alla linea). Così la ragazza si iscrive a chimica all'università di Lipsia. A 23 anni si sposa con un compagno di studi, dopo soli quattro anni divorzia, ma ne conserva il cognome: Merkel. Pare per non dover tornare al cognome del padre, col quale è in rotta. Tuttora i loro rapporti non sono buoni. Negli anni '80 Angela si specializza in fisica a Berlino, ed entra nella prestigiosa Accademia delle Scienze. Lì conosce Joachim Sauer, il suo secondo marito, più anziano di cinque anni. Figlio di un pasticciere, anche lui divorziato, è un'autorità mondiale nella fisica quantistica. Ma non può partecipare a congressi all'estero perchè rifiuta di iscriversi al partito comunista.
Angela invece naviga meglio, assume qualche incarico nella gioventù del partito che però non le verrà rinfacciato in seguito. I due convivono per tredici anni senza sposarsi. Lo faranno solo negli anni '90, quando lei è un pezzo grosso dc e un vescovo protesta pubblicamente. Ma ancor oggi il marito fa vita riservatissima, non si fa mai vedere assieme a lei in pubblico. La accompagna solo una volta all'anno al festival di Wagner a Bayreuth, ma anche lì rifiuta sempre di parlare ai giornalisti. I quali si vendicano chiamandolo «fantasma dell'opera».
Arriva la data fatidica: 9 novembre 1989. Quella sera crollano il Muro di Berlino e il comunismo. Ma Angela Merkel sembra un personaggio di Milan Kundera: manca l'appuntamento con la storia. Il suo appuntamento è con un'amica per andare in sauna, come ogni settimana. E non vuole mancare l'impegno. Fa la sua prima passeggiata a Berlino Ovest soltanto il giorno dopo. Con calma. L'entusiasmo le arriva qualche settimana dopo, quando si butta in politica per aiutare un partitino messo in piedi dai dissidenti protestanti che aveva conosciuto in famiglia. Poi arriva la riunificazione, e lei finisce nella Cdu nazionale. Anche perchè vari membri del suo ex partito vengono smascherati come collaborazionisti dei servizi segreti.
Inizia la seconda navigazione nella vita di Angela. Che lascia la carriera di scienziata e sceglie la politica a tempo pieno. Il cancelliere Helmut Kohl la nota, la prende sotto la sua ala e la valorizza. Prima la fa eleggere al Parlamento, poi la nomina ministro. C'è bisogno di volti nuovi dell'Est, in più lei è donna e quarantenne. La circospezione e la tenacia appresi dietro la cortina di ferro le tornano utili: «Mio padre mi ha insegnato a non fidarsi mai», confessa. Diventa ministro dell'Ambiente e si scontra con Gerhard Schroeder, allora presidente socialista della Bassa Sassonia. Il quale la umilia su una disputa di centrali nucleari. Lei gli promette vendetta. Ma la vera battaglia Angela la deve sostenere all'interno del proprio partito. La «cocca di Kohl» finisce pure lei all'opposizione quando nel '98 Schroeder vince le elezioni. I democristiani perdono il potere, si scatena la lotta per la successione.
Lei stessa, afferrato il pugnale di Bruto, uccide politicamente il suo padrino: è l'unica ad avere il coraggio di invitare pubblicamente Kohl, colpito dagli scandali, a farsi da parte. Poi però deve soccombere, lei protestante, ai potenti dc cattolici bavaresi, che rifiutano di candidarla al voto del 2002. Ma lei continua imperterrita a macinare politica sedici ore al giorno, non ha figli, si concede poche distrazioni (la lirica, i film di Dustin Hoffman). Un mastino. Edmund Stoiber e Wolfgang Schauble, i suoi rivali all'interno del partito, alla fine devono farle strada: sarà lei a sfidare Schroeder nel settembre 2005. L'attacco più cattivo glielo lancia la giovane e bella moglie del cancelliere socialista: «Non è una donna come le altre», alludendo alla sua scarsa avvenenza e alla mancata maternità. Il voto finisce in parità. Ma lei tiene duro, e alla fine si allea proprio con i socialisti. Senza Schroeder, però: c'era quel vecchio conticino da regolare...
Mauro Suttora
«Chi ha qualcosa da dire non ha bisogno di trucco»: così Angela Merkel, 51 anni, la nuova cancelliera tedesca, risponde ai consulenti «per l'immagine» del partito democristiano tedesco, quando la implorano di tenersi un po' più su, di mettersi un bel rossetto, di passare più spesso dal parrucchiere. Niente da fare. Lei, tetra e tetragona come la teutonica prof di chimica che è, per tutta la campagna elettorale non si è curata della forma, andando dritta alla sostanza. Ha promesso ai suoi compatrioti meno assistenza, meno sussidi, più competizione, più libero mercato. E alla fine ha vinto.
Sarà la prima donna a guidare la Germania dopo mille anni: dai tempi delle imperatrici Teofania di Bisanzio e di sua suocera Santa Adelaide, che dal 983 al 995 fecero da reggenti al minorenne Ottone III. Adolf Hitler si rivolta nella tomba, di fronte a questa signora così poco marziale che si è impadronita del Reich. Ma sotto l'apparenza dimessa e pacioccona, e nonostante il nome, Angela ha un'anima di ferro. Altro che «Angie», come hanno cercato di soprannominarla quelli delle pubbliche relazioni: a ogni suo comizio trasmettevano l'omonima, romantica canzone dei Rolling Stones per ingentilirla. Missione impossibile: come si fa ad addolcire la figlia di un severo pastore luterano cresciuta per 35 anni sotto la dittatura comunista della Germania Est, e sopravvissuta per i successivi quindici alle trappole degli squali della politica, «amici» e nemici uniti nell'invidia della sua rapida ascesa?
Angela Merkel è la più giovane cancelliera del dopoguerra (meglio non risalire fino a Hitler, nominato a 44 anni). E' anche la prima che viene dall'Est, e la prima democristiana divorziata e risposata. Suo padre, oggi quasi ottantenne, continua a vivere nel paesino a nord di Berlino in cui la portò quand'era ancora in fasce. Da Amburgo dov'era nata, infatti, la famigliola nel '54 si trasferisce all'Est, perchè a padre Horst Kasner la chiesa ordina di coprire una parrocchia rimasta senza pastore. «Solo due tipi di persone lasciano la Germania occidentale per quella orientale: i comunisti e gli idioti», commenta il traslocatore. Alla mamma il regime impedisce l'insegnamento: troppo pericoloso mettere in cattedra una che viene dall'Ovest, potrebbe essere una spia.
Angela e i fratellini (un maschio e una femmina) crescono nel clima di sospetto e terrore instillato dalla polizia segreta Stasi. La chiesa viene tollerata, ma suo padre subisce le angherie dei gerarchi: solo negli anni '70 gli concederanno il permesso per viaggiare un po' in Italia e in Gran Bretagna. Ma senza famiglia. «Eravamo i figli di un pastore», ricorda lei, «e dovevamo primeggiare in tutto per sopravvivere». Volontà d'acciaio: a otto anni rimane tre quarti d'ora sul bordo della piscina per trovare il coraggio di tuffarsi la prima volta. Dissimulazione: mai esprimere i propri pensieri, chiunque può fare una spiata. A 14 anni Angela simpatizza per i ragazzi della Primavera di Praga, ma guai a dirlo. Vuole fare la traduttrice, impara perfettamente il russo e l'inglese. Nel 1970 viene premiata dalla scuola con un viaggio all'estero: a Mosca. «Comprai lì, al mercato nero, il mio primo disco dei Beatles: Yellow Submarine».
Ma suo padre commette un'imprudenza: durante qualche riunione privata in parrocchia commenta gli scritti di Andrei Sacharov. Viene etichettato come dissidente, e ad Angela viene impedito di fare l'interprete (mestiere riservato ai fedeli alla linea). Così la ragazza si iscrive a chimica all'università di Lipsia. A 23 anni si sposa con un compagno di studi, dopo soli quattro anni divorzia, ma ne conserva il cognome: Merkel. Pare per non dover tornare al cognome del padre, col quale è in rotta. Tuttora i loro rapporti non sono buoni. Negli anni '80 Angela si specializza in fisica a Berlino, ed entra nella prestigiosa Accademia delle Scienze. Lì conosce Joachim Sauer, il suo secondo marito, più anziano di cinque anni. Figlio di un pasticciere, anche lui divorziato, è un'autorità mondiale nella fisica quantistica. Ma non può partecipare a congressi all'estero perchè rifiuta di iscriversi al partito comunista.
Angela invece naviga meglio, assume qualche incarico nella gioventù del partito che però non le verrà rinfacciato in seguito. I due convivono per tredici anni senza sposarsi. Lo faranno solo negli anni '90, quando lei è un pezzo grosso dc e un vescovo protesta pubblicamente. Ma ancor oggi il marito fa vita riservatissima, non si fa mai vedere assieme a lei in pubblico. La accompagna solo una volta all'anno al festival di Wagner a Bayreuth, ma anche lì rifiuta sempre di parlare ai giornalisti. I quali si vendicano chiamandolo «fantasma dell'opera».
Arriva la data fatidica: 9 novembre 1989. Quella sera crollano il Muro di Berlino e il comunismo. Ma Angela Merkel sembra un personaggio di Milan Kundera: manca l'appuntamento con la storia. Il suo appuntamento è con un'amica per andare in sauna, come ogni settimana. E non vuole mancare l'impegno. Fa la sua prima passeggiata a Berlino Ovest soltanto il giorno dopo. Con calma. L'entusiasmo le arriva qualche settimana dopo, quando si butta in politica per aiutare un partitino messo in piedi dai dissidenti protestanti che aveva conosciuto in famiglia. Poi arriva la riunificazione, e lei finisce nella Cdu nazionale. Anche perchè vari membri del suo ex partito vengono smascherati come collaborazionisti dei servizi segreti.
Inizia la seconda navigazione nella vita di Angela. Che lascia la carriera di scienziata e sceglie la politica a tempo pieno. Il cancelliere Helmut Kohl la nota, la prende sotto la sua ala e la valorizza. Prima la fa eleggere al Parlamento, poi la nomina ministro. C'è bisogno di volti nuovi dell'Est, in più lei è donna e quarantenne. La circospezione e la tenacia appresi dietro la cortina di ferro le tornano utili: «Mio padre mi ha insegnato a non fidarsi mai», confessa. Diventa ministro dell'Ambiente e si scontra con Gerhard Schroeder, allora presidente socialista della Bassa Sassonia. Il quale la umilia su una disputa di centrali nucleari. Lei gli promette vendetta. Ma la vera battaglia Angela la deve sostenere all'interno del proprio partito. La «cocca di Kohl» finisce pure lei all'opposizione quando nel '98 Schroeder vince le elezioni. I democristiani perdono il potere, si scatena la lotta per la successione.
Lei stessa, afferrato il pugnale di Bruto, uccide politicamente il suo padrino: è l'unica ad avere il coraggio di invitare pubblicamente Kohl, colpito dagli scandali, a farsi da parte. Poi però deve soccombere, lei protestante, ai potenti dc cattolici bavaresi, che rifiutano di candidarla al voto del 2002. Ma lei continua imperterrita a macinare politica sedici ore al giorno, non ha figli, si concede poche distrazioni (la lirica, i film di Dustin Hoffman). Un mastino. Edmund Stoiber e Wolfgang Schauble, i suoi rivali all'interno del partito, alla fine devono farle strada: sarà lei a sfidare Schroeder nel settembre 2005. L'attacco più cattivo glielo lancia la giovane e bella moglie del cancelliere socialista: «Non è una donna come le altre», alludendo alla sua scarsa avvenenza e alla mancata maternità. Il voto finisce in parità. Ma lei tiene duro, e alla fine si allea proprio con i socialisti. Senza Schroeder, però: c'era quel vecchio conticino da regolare...
Mauro Suttora
Musulmane
Una serata con Phyllis Chesler, la femminista che difende le donne islamiche dalle donne di sinistra
Il Foglio, 19 ottobre 2005
di Mauro Suttora
New York. Il femminismo è morto? Sì, se non sceglie come priorità il dramma delle donne islamiche. Lo sostiene Phyllis Chesler, 65 anni, dall’alto dei due milioni e mezzo di copie vendute di “Le donne e la pazzia”, caposaldo della letteratura femminista negli anni Settanta. Il sottotitolo del suo nuovo libro-choc (“The Death of Feminism”, che segue “Donna contro donna”, tradotto in Italia nel 2003 da Mondadori) fa imbestialire varie ex compagne: “What’s Next in the Struggle for Women’s Freedom”. Cioè: di cosa dobbiamo occuparci ora, per fa avanzare la libertà delle donne? Per Chesler la risposta è chiara: «L’apartheid schiavista subito dal mondo femminile nell’Islam. Se non capiamo il pericolo per i nostri valori - e per le nostre vite - rappresentato dal razzismo e dal sessismo dei reazionari musulmani, siamo morte: uccise dal virus della passività provocata dalla correttezza politica».
Venerdì sera, Quinta avenue di Manhattan, di fronte all’Empire State Building. La pioggia torrenziale non deterre decine di donne dall’affollare il salone dei dibattiti della Cuny (City University di New York), l’ateneo pubblico che fece aspettare 22 anni anche la Chesler prima di concederle la cattedra di ruolo in Psicologia. Ora però il suo avversario non è più l’establishment accademico maschile, ma il femminismo di sinistra. Incrostatosi esso stesso come nuovo potere, in una palude conformista dove per ogni docente repubblicano ce ne sono sette democratici (proporzione raddoppiata rispetto a trent’anni fa), e in cui i contributi pro-Kerry ad Harvard e negli atenei pubblici californiani (Berkeley, Ucla) hanno superato l’anno scorso di 19 volte quelli pro-Bush.
In questo ambientino, automatiche le proteste contro le organizzatrici del Now (National Organization of Women) e della Cuny appena annunciata la Chesler come protagonista della conferenza. «Davanti a un clima d’intimidazione degno dell’era McCarthy, ringrazio le dirigenti per aver difeso il primo emendamento alla costituzione, proteggendo la mia libertà di parola», esordisce la “traditrice”. Che difende tuttora l’intervento in Iraq, ma che già poche settimane dopo l’11 settembre 2001 suscitò clamore appoggiando l’attacco all’Afghanistan sul New York Times. E non ha migliorato il proprio status di pecora nera pubblicando due anni fa, lei ebrea di Brooklyn, una requisitoria contro “Il nuovo Antisemitismo”.
Il marito di Kabul
In questa sua ultima polemica contro il maschilismo islamico Phyllis Chesler parte da lontano, ma anche da molto vicino: «Nell’estate ‘61 mi trasferii a Kabul, dopo aver sposato il mio fidanzato Alì. Lui proveniva da una potente famiglia afghana, eravamo stati assieme per due anni frequentando l’università qui in America. Alì era delizioso, interessante, coltivato: parlavamo di Simone Signoret, Fellini, Proust e Dostoievski... Peccato che abbia smesso di parlarmi una volta in Afghanistan. Reimmerso nell’ambiente di famiglia, cambiò totalmente. Quanto a me, vissi segregata da quando all’aeroporto di Kabul mi confiscarono il passaporto. Ero praticamente agli arresti domiciliari, Ma anche in casa non potevo mai stare da sola, se volevo leggere o scrivere mi chiedevano perchè fossi così triste dal volerlo fare. Non esiste il concetto di privacy, da quelle parti. Ero prigioniera. Scoprii che il padre di Alì aveva tre mogli.
Dopo qualche mese di incubo riuscii a scappare e a tornare indietro. Baciai la terra quando atterrai all’aeroporto di New York. Ero incinta, ma se lo avessi detto a Kabul non mi avrebbero lasciata partire. Abortii».
Nulla è cambiato negli ultimi 44 anni, sostiene questa fondatrice del femminismo Usa: «Nell’Islam i matrimoni continuano a essere combinati, le donne vengono torturate, per le accusate di adulterio c’è la lapidazione. A scagliare la prima pietra sono il padre o il primogenito... E i maschi musulmani sono ancora affetti dalla sindrome di personalità multipla culturale, come il mio Alì: diversi quando sono in occidente, ritengono noi degli ingenui perchè di personalità tendiamo ad averne una sola... Di fronte a tutto questo, giustifico che gli Stati Uniti usino la propria potenza per sottrarre le donne islamiche al loro tremendo destino, e anche che facciano ricorso allo strumento militare come mezzo estremo».
Segue dibattito. Cagnara. Parlano alcune femministe di estrema sinistra, senza porre domande. Quando la Chesler interrompe i loro comizietti si mettono a urlare contro la censura, il fascismo e Bush. Unica obiezione sensata: le donne saudite stanno peggio delle irachene sotto Saddam, ma Riyad è alleata degli Usa. «Su questo mi trovo più a destra di Bush», risponde ironica Phyllis Chesler.
Mauro Suttora
Il Foglio, 19 ottobre 2005
di Mauro Suttora
New York. Il femminismo è morto? Sì, se non sceglie come priorità il dramma delle donne islamiche. Lo sostiene Phyllis Chesler, 65 anni, dall’alto dei due milioni e mezzo di copie vendute di “Le donne e la pazzia”, caposaldo della letteratura femminista negli anni Settanta. Il sottotitolo del suo nuovo libro-choc (“The Death of Feminism”, che segue “Donna contro donna”, tradotto in Italia nel 2003 da Mondadori) fa imbestialire varie ex compagne: “What’s Next in the Struggle for Women’s Freedom”. Cioè: di cosa dobbiamo occuparci ora, per fa avanzare la libertà delle donne? Per Chesler la risposta è chiara: «L’apartheid schiavista subito dal mondo femminile nell’Islam. Se non capiamo il pericolo per i nostri valori - e per le nostre vite - rappresentato dal razzismo e dal sessismo dei reazionari musulmani, siamo morte: uccise dal virus della passività provocata dalla correttezza politica».
Venerdì sera, Quinta avenue di Manhattan, di fronte all’Empire State Building. La pioggia torrenziale non deterre decine di donne dall’affollare il salone dei dibattiti della Cuny (City University di New York), l’ateneo pubblico che fece aspettare 22 anni anche la Chesler prima di concederle la cattedra di ruolo in Psicologia. Ora però il suo avversario non è più l’establishment accademico maschile, ma il femminismo di sinistra. Incrostatosi esso stesso come nuovo potere, in una palude conformista dove per ogni docente repubblicano ce ne sono sette democratici (proporzione raddoppiata rispetto a trent’anni fa), e in cui i contributi pro-Kerry ad Harvard e negli atenei pubblici californiani (Berkeley, Ucla) hanno superato l’anno scorso di 19 volte quelli pro-Bush.
In questo ambientino, automatiche le proteste contro le organizzatrici del Now (National Organization of Women) e della Cuny appena annunciata la Chesler come protagonista della conferenza. «Davanti a un clima d’intimidazione degno dell’era McCarthy, ringrazio le dirigenti per aver difeso il primo emendamento alla costituzione, proteggendo la mia libertà di parola», esordisce la “traditrice”. Che difende tuttora l’intervento in Iraq, ma che già poche settimane dopo l’11 settembre 2001 suscitò clamore appoggiando l’attacco all’Afghanistan sul New York Times. E non ha migliorato il proprio status di pecora nera pubblicando due anni fa, lei ebrea di Brooklyn, una requisitoria contro “Il nuovo Antisemitismo”.
Il marito di Kabul
In questa sua ultima polemica contro il maschilismo islamico Phyllis Chesler parte da lontano, ma anche da molto vicino: «Nell’estate ‘61 mi trasferii a Kabul, dopo aver sposato il mio fidanzato Alì. Lui proveniva da una potente famiglia afghana, eravamo stati assieme per due anni frequentando l’università qui in America. Alì era delizioso, interessante, coltivato: parlavamo di Simone Signoret, Fellini, Proust e Dostoievski... Peccato che abbia smesso di parlarmi una volta in Afghanistan. Reimmerso nell’ambiente di famiglia, cambiò totalmente. Quanto a me, vissi segregata da quando all’aeroporto di Kabul mi confiscarono il passaporto. Ero praticamente agli arresti domiciliari, Ma anche in casa non potevo mai stare da sola, se volevo leggere o scrivere mi chiedevano perchè fossi così triste dal volerlo fare. Non esiste il concetto di privacy, da quelle parti. Ero prigioniera. Scoprii che il padre di Alì aveva tre mogli.
Dopo qualche mese di incubo riuscii a scappare e a tornare indietro. Baciai la terra quando atterrai all’aeroporto di New York. Ero incinta, ma se lo avessi detto a Kabul non mi avrebbero lasciata partire. Abortii».
Nulla è cambiato negli ultimi 44 anni, sostiene questa fondatrice del femminismo Usa: «Nell’Islam i matrimoni continuano a essere combinati, le donne vengono torturate, per le accusate di adulterio c’è la lapidazione. A scagliare la prima pietra sono il padre o il primogenito... E i maschi musulmani sono ancora affetti dalla sindrome di personalità multipla culturale, come il mio Alì: diversi quando sono in occidente, ritengono noi degli ingenui perchè di personalità tendiamo ad averne una sola... Di fronte a tutto questo, giustifico che gli Stati Uniti usino la propria potenza per sottrarre le donne islamiche al loro tremendo destino, e anche che facciano ricorso allo strumento militare come mezzo estremo».
Segue dibattito. Cagnara. Parlano alcune femministe di estrema sinistra, senza porre domande. Quando la Chesler interrompe i loro comizietti si mettono a urlare contro la censura, il fascismo e Bush. Unica obiezione sensata: le donne saudite stanno peggio delle irachene sotto Saddam, ma Riyad è alleata degli Usa. «Su questo mi trovo più a destra di Bush», risponde ironica Phyllis Chesler.
Mauro Suttora
Wednesday, October 05, 2005
George Clooney
CLOONEY MALATO
Oggi, 2 ottobre 2005
New York (Stati Uniti), ottobre
George Clooney è malato. Una malattia grave, anche se non mortale. Lo ha rivelato lui stesso alla giornalista americana Diane Sawyer, durante una trasmissione della rete Abc girata nella sua villa sul lago di Como. «A tutti, prima o poi, capita nella vita quell'anno in cui si invecchia dieci anni», ha confessato l'attore statunitense, «e a me è toccato un male raro e debilitante, con il fluido spinale che mi esce da naso. E pensare che all’inizio credevo fosse una semplice sinusite...».
Si tratta di una patologia collegata addirittura con il morbo della mucca pazza, perchè colpisce la «dura mater», ovvero la membrana che protegge il midollo spinale. Ma ne è una versione benigna, curabile se individuata in tempo, seppur dolorosa e fastidiosissima: «Praticamente quando starnutivo mi uscivano dei pezzi di testa dal naso», scherza oggi George, anche se all'inizio la sorpresa e la paura sono state grandi. «Dopotutto ho recitato per cinque anni in ER, quindi sono abbastanza abituato a situazioni del genere. Come quel malato che cominciò con un’emicrania, e finì con un tumore al cervello», dice l'attore 44enne, riferendosi al serial Tv che lo ha reso famoso, ambientato in un pronto soccorso (Emergency Room, appunto).
I sintomi del male sono forti mal di testa e perdite di memoria. La star, che negli ultimi tempi ha perso ben quattordici chili, li sta sconfiggendo poco a poco: «Ma sono sicuro che alla fine ce la farò, miglioro ogni giorno. Ho dovuto sottopormi a una quarantina di piccoli interventi chirurgici, mi hanno suturato e infilato tamponi nel naso. Però, tutto sommato, per me che faccio l’attore è stata un'esperienza interessante. Non ricordarsi le cose a breve termine ti colpisce proprio nell’attività professionale, si perde la fiducia in se stessi... Per esercitarmi ora mi tocca contare i gradini quando faccio le scale, e metto bigliettini dappertutto per non dimenticarmi le cose che devo fare».
E i mal di testa? «Ce li ho ancora, ogni giorno. Ma sempre meno, e più leggeri. Cerco anche di stare il più lontano possibile dai farmaci. Mia zia Rosemary Clooney, attrice di successo nei musical, si rovinò la vita e la carriera perchè usava tanti di quegli antidolorifici che ne divenne dipendente. Grazie a Dio io non ho avuto danni permanenti. Ma ogni giorno e ogni notte devo affrontare una piccola sfida. A volte mi sento come se dovessi respirare con una cannuccia stando sdraiato nel fondo di una piscina. E il disturbo peggiora con il passare delle ore che sto in piedi, perchè il peso del cervello spinge il fluido verso il basso e lo fa fuoriuscire... Comunque passare attraverso queste cose ti fa capire che ogni giorno è un regalo. E che non bisogna arrivare alla fine con dei rimpianti: “Ah, se avessi fatto questo, o quest’altro...»
E le donne, i bambini? Il nuovo Cary Grant, uomo desideratissimo dalle femmine dell’intero pianeta, non rimpiangerà un giorno di non aver avuto una moglie e dei figli? «Non prevedo di sposarmi nel prossimo futuro. Lo sono stato in passato, ma ora il matrimonio non rientra proprio fra le mie priorità. Non sto cercando nessuno. E non ho alcun desiderio di diventare padre. Lo so che può sembrare strano, ma non ho mai voluto avere figli. Anche perchè sarebbe una cosa che mi assorbirebbe molto, non prenderei certo una responsabilità simile alla leggera». Lo scapolo 44enne è stato nominato di recente «l'ultraquarantenne più sexy del mondo», ma lui scherza pure su questo: «Anche se avessero specificato “ultraquarantenne col cognome che inizia per C” avrei perso, perchè c'è già Sean Connery...»
Speranze svanite, quindi, per Gianna Elvira Cantatore, la 32enne pugliese che ultimamente era stata accreditata come nuova fiamma di Clooney. I due si erano conosciuti a una festa privata in una villa di Cernobbio, e in seguito ci sono state cene al ‘Gatto Nero’, ristorante a picco sul lago dei Como. Ma era stata lei a fargli la corte, spedendogli un mazzo di margherite nella villa di Laglio, e non viceversa. E, alla fine, anche questa volta lo splendido George ha liquidato la vogliosa candidata con un simpatico sorriso.
Ciò che gli sta veramente a cuore, in queste settimane, è il successo dell’ultimo film che ha diretto, Good Night and Good Luck. E’ la storia di un coraggioso giornalista televisivo americano che negli anni Cinquanta si oppose alla caccia alle streghe del senatore Joe McCarthy. Ma è anche un omaggio a suo padre, reporter tv. Ogni riferimento all’attuale situazione politica statunitense è assolutamente voluto.
Clooney non fa mistero di essere di sinistra: «La mia frase preferita nel film è: “Dobbiamo primeggiare grazie alle nostre idee, non con le bombe...” Mi piace perchè non è una frase che attacca questo o quello, che definisce il bene o il male, ma si limita a constatare che il nostro Paese può fare un sacco di cose positive e sorprendenti, per noi e per i nostri alleati. Quanto a mio padre, il momento più bello del film è stato la prima volta che gliel’ho fatto vedere, proprio qui nella villa mentre era in vacanza in Italia con mia madre. Alla fine si è alzato, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: ‘Tutto vero, bravo’. Per me è stato il massimo».
Il settimanale Newsweek ha già definito Good Night and Good Luck «il miglior film americano dell’anno». E ha tracciato un ritratto trionfale di quello che è non solo un attore, regista, produttore e sceneggiatore di successo, ma anche un uomo simpaticissimo, intelligente, di classe e impegnato. E’ un impegno politico gaudente, però, quello di Clooney. Ancora l’altra sera l’attore è andato a letto alle otto del mattino a Manhattan, dopo aver fatto bisboccia con gli amici alla festa d’apertura del festival del cinema di New York.
Quand’è nella sua villa italiana in vacanza, invece, i suoi orari sono più mattinieri: sveglia alle sette e mezzo, un’ora e mezzo per leggere i giornali, poi palestra, un giro in moto attorno al lago, ed è già l’ora di pranzo: «Alle due suona la campana e tutti, come una piccola mandria, arriviamo per mangiare. Ho sempre dai quindici ai venticinque ospiti. Sono stato molto fortunato con la mia carriera. Molte cose mi sono capitate per caso, ma sicuramente la svolta sono state le puntate di successo di ER, in tv ogni giovedì sera. Senza quel serial non avrei potuto permettermi questa villa».
In cucina ci sono ben quattro frigoriferi. «Una villa del diciottesimo secolo con dentro una superstar del ventunesimo», la definisce l’intervistatrice, con ammirazione per entrambe. «Sono stati questi suoi soffitti affrescati a conquistarmi», confessa Clooney, «ma nella camera matrimoniale non ci dormo, è troppo grande. Ha un bagno privato che da solo è più grosso del mio vecchio appartamento...»
E' la prima volta che i telespettatori americani possono vedere gli splendori di villa Oleandra, la magione con quindici camere da letto che Clooney possiede in riva al lago: «L'ho comprata dalla famiglia dei miliardari Heinz, e mi sento un po’ in colpa perchè sono un cattolico di origine irlandese: per molto tempo non ho avuto una lira. Ma tutto sommato è positivo avere complessi di colpa sui soldi, si possono utilizzare responsabilmente».
Ora Clooney vuole realizzare un altro sogno: aprire un casinò a Las Vegas. Lo farà in società con Rande Berger, marito di Cindy Crawford (ex top model e moglie di Richard Gere) e con gli inseparabili Brad Pitt e Matt Damon: «Ma sarà un casinò di classe, dove si entrerà solo se si è vestiti bene, e ci saranno feste danzanti... Come la prima volta che andai a Las Vegas con mia zia, e fui colpito dall’eleganza del posto». Insomma, la star di Ocean Eleven e Twelve vuole copiare le imprese di Frank Sinatra e Dean Martin non solo sullo schermo, ma anche nella realtà. Un quarto dei guadagni verrà però versato in beneficenza, promette Clooney.
E Brad Pitt? Sposerà la sua Angelina Jolie a villa Oleandra, come si sussurra? Clooney smentisce. Ma se non lo facesse, che matrimonio segreto sarebbe?
Mauro Suttora
Oggi, 2 ottobre 2005
New York (Stati Uniti), ottobre
George Clooney è malato. Una malattia grave, anche se non mortale. Lo ha rivelato lui stesso alla giornalista americana Diane Sawyer, durante una trasmissione della rete Abc girata nella sua villa sul lago di Como. «A tutti, prima o poi, capita nella vita quell'anno in cui si invecchia dieci anni», ha confessato l'attore statunitense, «e a me è toccato un male raro e debilitante, con il fluido spinale che mi esce da naso. E pensare che all’inizio credevo fosse una semplice sinusite...».
Si tratta di una patologia collegata addirittura con il morbo della mucca pazza, perchè colpisce la «dura mater», ovvero la membrana che protegge il midollo spinale. Ma ne è una versione benigna, curabile se individuata in tempo, seppur dolorosa e fastidiosissima: «Praticamente quando starnutivo mi uscivano dei pezzi di testa dal naso», scherza oggi George, anche se all'inizio la sorpresa e la paura sono state grandi. «Dopotutto ho recitato per cinque anni in ER, quindi sono abbastanza abituato a situazioni del genere. Come quel malato che cominciò con un’emicrania, e finì con un tumore al cervello», dice l'attore 44enne, riferendosi al serial Tv che lo ha reso famoso, ambientato in un pronto soccorso (Emergency Room, appunto).
I sintomi del male sono forti mal di testa e perdite di memoria. La star, che negli ultimi tempi ha perso ben quattordici chili, li sta sconfiggendo poco a poco: «Ma sono sicuro che alla fine ce la farò, miglioro ogni giorno. Ho dovuto sottopormi a una quarantina di piccoli interventi chirurgici, mi hanno suturato e infilato tamponi nel naso. Però, tutto sommato, per me che faccio l’attore è stata un'esperienza interessante. Non ricordarsi le cose a breve termine ti colpisce proprio nell’attività professionale, si perde la fiducia in se stessi... Per esercitarmi ora mi tocca contare i gradini quando faccio le scale, e metto bigliettini dappertutto per non dimenticarmi le cose che devo fare».
E i mal di testa? «Ce li ho ancora, ogni giorno. Ma sempre meno, e più leggeri. Cerco anche di stare il più lontano possibile dai farmaci. Mia zia Rosemary Clooney, attrice di successo nei musical, si rovinò la vita e la carriera perchè usava tanti di quegli antidolorifici che ne divenne dipendente. Grazie a Dio io non ho avuto danni permanenti. Ma ogni giorno e ogni notte devo affrontare una piccola sfida. A volte mi sento come se dovessi respirare con una cannuccia stando sdraiato nel fondo di una piscina. E il disturbo peggiora con il passare delle ore che sto in piedi, perchè il peso del cervello spinge il fluido verso il basso e lo fa fuoriuscire... Comunque passare attraverso queste cose ti fa capire che ogni giorno è un regalo. E che non bisogna arrivare alla fine con dei rimpianti: “Ah, se avessi fatto questo, o quest’altro...»
E le donne, i bambini? Il nuovo Cary Grant, uomo desideratissimo dalle femmine dell’intero pianeta, non rimpiangerà un giorno di non aver avuto una moglie e dei figli? «Non prevedo di sposarmi nel prossimo futuro. Lo sono stato in passato, ma ora il matrimonio non rientra proprio fra le mie priorità. Non sto cercando nessuno. E non ho alcun desiderio di diventare padre. Lo so che può sembrare strano, ma non ho mai voluto avere figli. Anche perchè sarebbe una cosa che mi assorbirebbe molto, non prenderei certo una responsabilità simile alla leggera». Lo scapolo 44enne è stato nominato di recente «l'ultraquarantenne più sexy del mondo», ma lui scherza pure su questo: «Anche se avessero specificato “ultraquarantenne col cognome che inizia per C” avrei perso, perchè c'è già Sean Connery...»
Speranze svanite, quindi, per Gianna Elvira Cantatore, la 32enne pugliese che ultimamente era stata accreditata come nuova fiamma di Clooney. I due si erano conosciuti a una festa privata in una villa di Cernobbio, e in seguito ci sono state cene al ‘Gatto Nero’, ristorante a picco sul lago dei Como. Ma era stata lei a fargli la corte, spedendogli un mazzo di margherite nella villa di Laglio, e non viceversa. E, alla fine, anche questa volta lo splendido George ha liquidato la vogliosa candidata con un simpatico sorriso.
Ciò che gli sta veramente a cuore, in queste settimane, è il successo dell’ultimo film che ha diretto, Good Night and Good Luck. E’ la storia di un coraggioso giornalista televisivo americano che negli anni Cinquanta si oppose alla caccia alle streghe del senatore Joe McCarthy. Ma è anche un omaggio a suo padre, reporter tv. Ogni riferimento all’attuale situazione politica statunitense è assolutamente voluto.
Clooney non fa mistero di essere di sinistra: «La mia frase preferita nel film è: “Dobbiamo primeggiare grazie alle nostre idee, non con le bombe...” Mi piace perchè non è una frase che attacca questo o quello, che definisce il bene o il male, ma si limita a constatare che il nostro Paese può fare un sacco di cose positive e sorprendenti, per noi e per i nostri alleati. Quanto a mio padre, il momento più bello del film è stato la prima volta che gliel’ho fatto vedere, proprio qui nella villa mentre era in vacanza in Italia con mia madre. Alla fine si è alzato, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: ‘Tutto vero, bravo’. Per me è stato il massimo».
Il settimanale Newsweek ha già definito Good Night and Good Luck «il miglior film americano dell’anno». E ha tracciato un ritratto trionfale di quello che è non solo un attore, regista, produttore e sceneggiatore di successo, ma anche un uomo simpaticissimo, intelligente, di classe e impegnato. E’ un impegno politico gaudente, però, quello di Clooney. Ancora l’altra sera l’attore è andato a letto alle otto del mattino a Manhattan, dopo aver fatto bisboccia con gli amici alla festa d’apertura del festival del cinema di New York.
Quand’è nella sua villa italiana in vacanza, invece, i suoi orari sono più mattinieri: sveglia alle sette e mezzo, un’ora e mezzo per leggere i giornali, poi palestra, un giro in moto attorno al lago, ed è già l’ora di pranzo: «Alle due suona la campana e tutti, come una piccola mandria, arriviamo per mangiare. Ho sempre dai quindici ai venticinque ospiti. Sono stato molto fortunato con la mia carriera. Molte cose mi sono capitate per caso, ma sicuramente la svolta sono state le puntate di successo di ER, in tv ogni giovedì sera. Senza quel serial non avrei potuto permettermi questa villa».
In cucina ci sono ben quattro frigoriferi. «Una villa del diciottesimo secolo con dentro una superstar del ventunesimo», la definisce l’intervistatrice, con ammirazione per entrambe. «Sono stati questi suoi soffitti affrescati a conquistarmi», confessa Clooney, «ma nella camera matrimoniale non ci dormo, è troppo grande. Ha un bagno privato che da solo è più grosso del mio vecchio appartamento...»
E' la prima volta che i telespettatori americani possono vedere gli splendori di villa Oleandra, la magione con quindici camere da letto che Clooney possiede in riva al lago: «L'ho comprata dalla famiglia dei miliardari Heinz, e mi sento un po’ in colpa perchè sono un cattolico di origine irlandese: per molto tempo non ho avuto una lira. Ma tutto sommato è positivo avere complessi di colpa sui soldi, si possono utilizzare responsabilmente».
Ora Clooney vuole realizzare un altro sogno: aprire un casinò a Las Vegas. Lo farà in società con Rande Berger, marito di Cindy Crawford (ex top model e moglie di Richard Gere) e con gli inseparabili Brad Pitt e Matt Damon: «Ma sarà un casinò di classe, dove si entrerà solo se si è vestiti bene, e ci saranno feste danzanti... Come la prima volta che andai a Las Vegas con mia zia, e fui colpito dall’eleganza del posto». Insomma, la star di Ocean Eleven e Twelve vuole copiare le imprese di Frank Sinatra e Dean Martin non solo sullo schermo, ma anche nella realtà. Un quarto dei guadagni verrà però versato in beneficenza, promette Clooney.
E Brad Pitt? Sposerà la sua Angelina Jolie a villa Oleandra, come si sussurra? Clooney smentisce. Ma se non lo facesse, che matrimonio segreto sarebbe?
Mauro Suttora
Subscribe to:
Posts (Atom)