A NEW ORLEANS SONO RIMASTI SOLAMENTE GLI ALLIGATORI
Oggi, 8 settembre 2005
dal nostro inviato Mauro Suttora
Le principali nemiche di Nancy Snyder ora sono le zanzare: «Guardi qua, mi hanno massacrato la schiena...» Però le zanzare c'erano anche prima. «Sì, ma mi sembra che dopo l'inondazione siano aumentate. O forse sono diventate più cattive. Il problema è che quando lavoravo, me ne stavo in un negozio con l'aria condizionata per sei giorni alla settimana e otto ore al giorno, e delle zanzare proprio non mi preoccupavo. Ora invece, con tutto questo tempo libero...»
La signora Snyder, cinquantenne, è l'ultima sopravvissuta di New Orleans. Ha aspettato l'ultimatum delle ore 18 di giovedì 8 settembre per andarsene. Poi, quando i soldati sono arrivati, non ha opposto resistenza. Ha obbedito all'ordine di evacuazione totale del sindaco, assieme al marito Mike Collins. L'unico suo rammarico: non poter portarsi appresso i due gatti. «Le gabbie le ho, ma mi hanno detto che non si può. Però in questi ultimi dieci giorni li ho ingrassati per benino. Gli ho dato così tanto da mangiare che ora sembrano due elefanti. E anche quegli altri due randagi che sfamavo, dall'altra parte della strada, sopravviveranno».
Fino all'ultimo Nancy è stata seduta, fumando una sigaretta dopo l'altra, sulla sedia a dondolo sotto il portico della sua casa a due piani di Magazine Street. Una bella via alberata proprio nel centro di New Orleans, con le villette di legno colorate in stile sudista. Radio sempre accesa con le notizie in diretta. La sua zona è stata risparmiata dall'acqua, ma non dal tornado: l'albero di fronte si è sradicato, rami pesanti sono caduti sul tetto, quello posteriore è crollato. Però la casa è rimasta in piedi. Così lei e il marito sposato tredici anni fa (raro caso di matrimonio interrazziale) sono rimasti, unici nell'isolato, e per dieci giorni si sono attrezzati contro la mancanza di elettricità: «Ventilatori a batteria, torce elettriche e candele per la sera. Con le scorte d'acqua potabile e cibo potremmo andare avanti un mese. Non chiamateci "rifugiati", siamo sopravvissuti, ecco quello che siamo. Dovrebbero dare a noi il premio da un milione di dollari del reality tv». «Se sono sopravvissuti gli indiani, perchè non dovremmo riuscirci noi?», aggiunge il marito, che non riesce a star fermo e si mette a potare la siepe.
E ora? «Non lo so», dice la signora Snyder. «Non so in quale città ci porteranno. Se avessimo un'auto potremmo scegliere noi, ma così decideranno loro. Se sarà per più di due settimane, mi troverò un lavoro nella nuova città. L'unica cosa che so è che ritorneremo».
Ritorneremo. E‚ questa la parola d'ordine dei sopravvissuti all'uragano Caterina, il più disastroso nella storia degli Stati Uniti. Un milione di «evacuati» (questa è la definizione ufficiale, in un Paese sensibilissimo ai nomi), decine di miliardi di danni, migliaia di morti. La cifra esatta si saprà soltanto quando l'ultimo cadavere verrà dissepolto dal fango. Ci vorrà parecchio tempo, perchè dopo aver riparato gli argini crollati occorrerà pompar via la montagna d'acqua che ha distrutto interi quartieri. A mezzo mese dal disastro, poche pompe funzionano: qualche decina su 150. Un'altra incredibile inefficienza della superpotenza più ricca del mondo, che ha conquistato la Luna e vorrebbe ricostruire intere nazioni come Iraq e Afghanistan, ma poi permette che una delle sue città più belle venga inghiottita da burocrazia e inefficienza, come l'ultimo Paese del Terzo mondo.
«Serpenti d'acqua e alligatori: questo si trova ora nell'acqua che ha invaso la città», dice la signora Snyder. «Una mia amica giura di aver visto addirittura un pescecane, ma probabilmente era solo un enorme pesce gatto». L'acqua circondava New Orleans già da prima. Per raggiungerla, infatti, superati i posti di blocco militari, attraversiamo un lungo viadotto sul «bayou», un misto palude-laguna. Sembra di arrivare a Venezia. Poi, però, c'è solo un impressionante deserto di case vuote. Per chilometri e chilometri, perchè le autorità hanno mandato via anche gli abitanti delle immense periferie residenziali rimaste asciutte. In giro ci sono soltanto i 63mila soldati inviati (troppi e troppo tardi) dal presidente George Bush junior. E' uno spettacolo impressionante e pauroso: tutte le strade sono state devastate prima dal vento dell'uragano, poi dal diluvio dell'acqua, infine dalle scorribande degli sciacalli.
Dormiamo in auto (non si trova una stanza d'albergo nel giro di 300 chilometri) nel centro della città. Di fronte c'è un lussuoso negozio di vestiti Brooks Brothers, la catena ormai di proprietà italiana. Le vetrine sono sfasciate, ma c'è dentro ancora parecchia preziosa mercanzia. Una giovane soldatessa della Guardia nazionale dell'Oklahoma e uno dei trecento poliziotti mandati da New York lo sorvegliano.
Tre isolati più in là, Bourbon Street. Un luogo di valore inestimabile. Qui è nata tutta la musica del Novecento: blues, jazz, rythm and blues. Grazie a Dio il quartiere francese (Nouvelle Orleans è rimasta sotto Parigi fino al 1803, quando Napoleone la vendette agli Usa) è salvo. Ma subito dopo comincia l'inferno: un avvallamento con le case ancora invase dall'acqua. Ci avventuriamo sul liquido puzzolente con un canotto, e scopriamo l'agghiacciante verità: il drenaggio dell'acqua dell'alluvione va a rilento anche perchè si teme che le pompe si intasino di resti umani. Intanto all'acqua di fogna si è aggiunto anche petrolio. I colibatteri fecali sono dieci volte più del consentito. Chi tocca muore: già cinque le vittime dell'infezione.
Per non vomitare torniamo sulla «terraferma». All'angolo di Canal Street un banco dell'Esercito della Salvezza offre vettovaglie e bevande. Ma ormai in città di sopravvissuti non ce ne sono più, quindi i soldati della Salvezza finiscono per sfamare i soldati veri. «Io sono dell'Alleanza delle chiese battiste del Sud», mi dice un tizio dietro al tavolo, allungandomi un tramezzino al prosciutto. Poi mi rifila anche un volantino di propaganda della sua chiesa, «per darmi speranza», dice. «Hope? In Italy we already got the Pope..», noi abbiamo già il Papa, gli rispondo in rima, snobbando il proselitismo.
Nessuno osa dirlo perchè non è politicamente corretto, ma certi ambienti non così isolati della destra religiosa americana considerano New Orleans, la «Big Easy» (Grande Facile), città piena di casini e casinò, sesso, soldi e musica, un posto vizioso e quindi degno di fare la fine di Sodoma e Gomorra. Come lo tsunami, che ha distrutto l'industria del porno turistico thailandese e delle perversioni pedofile in Sri Lanka.
Dietro l'angolo il cadavere gonfio di un uomo di colore giace sulla strada. Avvertiamo un poliziotto, ma il giorno dopo il corpo è ancora lì. «Dobbiamo occuparci prima dei vivi», si giustificano alla Protezione civile. Ma la temperatura supera di molto i trenta gradi, l'umidità è soffocante. I cadaveri si decompongono immediatamente, c'è un rischio colera.
La polemica sulle colpe continua, e andrà avanti per anni. Il sindaco e la governatrice della Louisiana, di sinistra (partito democratico), danno la colpa al governo di destra (repubblicano) di Bush e al suo capo della protezione Civile. I quali ribattono che spettava al sindaco sorvegliare gli argini crollati. Una cosa è certa: se quegli argini avessero protetto un quartiere di ricchi, sarebbero stati più alti. Parte dei soldi per la manutenzione sono stati stornati verso la guerra in Iraq. E un terzo della Guardia nazionale della Louisiana, invece di dedicarsi alla protezione civile, è finito a Bagdad. Ma anche le colpe locali sono molte: «I primi a entrare a rubare nel supermercato qui accanto sono stati i poliziotti di New Orleans», arriva addirittura ad accusare il signor Collins.
Quel che è certo, è che oggi New Orleans è la città più spettrale dai tempi di Hiroshima. Rinascerà? Può darsi, anche se alcuni (fra cui il capo dei deputati repubblicani) non vogliono ricostruire sotto il livello del mare. Seguendo questa logica, bisognerebbe allora sgomberare metà Olanda. Per ora hanno sgomberato un milione di persone. Nancy e Mike sono stati gli ultimi ad andarsene, ma vogliono essere i primi a tornare.
Mauro Suttora
Thursday, September 08, 2005
Monday, September 05, 2005
New Orleans/3
NEW ORLEANS
settimanale Visto, 5 settembre 2005
Warren Reckser, 60 anni, non vuole andarsene. La sua casa è allagata, cinque barche sono già passate per portarlo via. Ma lui, testardo portiere d’albergo, non intende abbandonare i suoi quattro cani: «Ho abbastanza cibo e acqua, datemi solo un po’ di pile nuove per la tv portatile. Questa è casa mia, ci rimarrò fino a quando potrò pulirla. Devo portar fuori i tappeti, sono bagnati...»
New Orleans, la settimana dopo l’uragano Katrina. Fa un caldo insopportabile, per la temperatura di 35 gradi ma soprattutto per l’umidità. I poveri, tutti di colore, che abitano il centro della città inondato, si difendevano con le pale che giravano sotto il soffitto, più che con i condizionatori. Ma ora l’elettricità non c’è più, non tornerà per settimane. Nelle zone asciutte le famiglie per stare al fresco si rifugiano nelle loro auto parcheggiate, accendono il motore e si godono l’aria condizionata. I primi giorni non si trovava la benzina, ora il problema è risolto. Ma al signor Dreckser non importa essere privo di auto, di elettricità e di fresco. Lui vuole solo starsene nella propria casa, e da quando i cellulari hanno ripreso a funzionare è tranquillo: ha parlato con sua moglie, lei sta bene, lui pure.
Così l’America dei vinti, i poveri della Louisiana e del Mississippi, comincia a vincere la sua guerra contro Katrina. Nonostante le migliaia di morti, la gente riprende a sorridere, si ritrova, si riabbraccia. Molti, 400mila su mezzo milione solo da New Orleans, hanno dovuto andarsene, rifugiarsi in Texas e anche più lontano. Ma vengono accolti in comunità, e i soccorsi che per giorni non arrivarono ora non mancano. Anche dall’estero: il Paese più ricco e potente del mondo ha dovuto chiedere aiuto all’Europa, e perfino dal Terzo mondo sta arrivando qualcosa. L’odiato Fidel Castro ha offerto 1.100 medici cubani: «Potrebbero arrivare in un’ora, con un aereo dall’Avana», ha detto. Ma gli Stati Uniti, che boicottano Cuba con l’embargo, non hanno neppure risposto.
Il 61enne Joe Shaheen non può più stare nella sua casa senza tetto del famoso quartiere francese, ma neppure lui vuole lasciare il suo cane, Dixie Lee: «Sull’elicottero non lo accettano, e io non posso abbandonarlo qui a morire di fame». I vigili del fuoco passano di casa in casa a controllare che non ci sia più nessuno. A volte trovano qualche sopravvissuto, a volte purtroppo qualche cadavere: «Dobbiamo spicciarci, perchè con questo caldo i corpi imputridiscono in fretta. Bisogna seppellirli subito», avverte Joe Pollard, ufficiale della polizia di New Orleans.
I poliziotti della capitale del jazz nei primi giorni si erano lasciati prendere dalla disperazione. Duecento di loro, sentendosi impotenti senza auto, e senza barche ed elicotteri per salvare i superstiti, avevano dato le dimissioni. Intanto per le strade bande di sciacalli saccheggiavano negozi e supermercati, rubando anche i fucili che negli Stati Uniti sono in libera vendita. Ora l’ordine sembra essere stato ripristinato, ma Cornelius Victor, 52 anni, tiene a precisare: «Si’, c’è stato qualche ladro, qualche violentatore e anche qualche assassino, ma dieci mele marce non possono rovinare la reputazione di mille cittadini onesti». Il signor Victor è stato appena salvato assieme ad altri 24 rifugiati in una scuola da un mezzo anfibio della Guardia nazionale (l’esercito che ciascuno dei cinquanta stati che compongono gli Usa ha in dotazione, con compiti di protezione civile e mantenimento dell’ordine pubblico al proprio interno, e di vero e proprio combattimento all’estero).
Più di un terzo dei 22mila volontari della Guardia nazionale della Louisiana si trova attualmente in Iraq. Ma la tragedia di New Orleans sta facendo chiedere a molti il rimpatrio dei soldati da Bagdad. «La spedizione in Iraq ci costa un miliardo di dollari alla settimana», ricorda il senatore Ted Kennedy, «soldi che il presidente George Bush dovrebbe spendere invece per la ricostruzione». «Abbiamo abbastanza risorse per entrambe le cose», ha risposto Bush. Dopo il ripristino degli argini, le pompe idrovore potranno entrare in funzione e la città si ripopolerà.
Mauro Suttora
settimanale Visto, 5 settembre 2005
Warren Reckser, 60 anni, non vuole andarsene. La sua casa è allagata, cinque barche sono già passate per portarlo via. Ma lui, testardo portiere d’albergo, non intende abbandonare i suoi quattro cani: «Ho abbastanza cibo e acqua, datemi solo un po’ di pile nuove per la tv portatile. Questa è casa mia, ci rimarrò fino a quando potrò pulirla. Devo portar fuori i tappeti, sono bagnati...»
New Orleans, la settimana dopo l’uragano Katrina. Fa un caldo insopportabile, per la temperatura di 35 gradi ma soprattutto per l’umidità. I poveri, tutti di colore, che abitano il centro della città inondato, si difendevano con le pale che giravano sotto il soffitto, più che con i condizionatori. Ma ora l’elettricità non c’è più, non tornerà per settimane. Nelle zone asciutte le famiglie per stare al fresco si rifugiano nelle loro auto parcheggiate, accendono il motore e si godono l’aria condizionata. I primi giorni non si trovava la benzina, ora il problema è risolto. Ma al signor Dreckser non importa essere privo di auto, di elettricità e di fresco. Lui vuole solo starsene nella propria casa, e da quando i cellulari hanno ripreso a funzionare è tranquillo: ha parlato con sua moglie, lei sta bene, lui pure.
Così l’America dei vinti, i poveri della Louisiana e del Mississippi, comincia a vincere la sua guerra contro Katrina. Nonostante le migliaia di morti, la gente riprende a sorridere, si ritrova, si riabbraccia. Molti, 400mila su mezzo milione solo da New Orleans, hanno dovuto andarsene, rifugiarsi in Texas e anche più lontano. Ma vengono accolti in comunità, e i soccorsi che per giorni non arrivarono ora non mancano. Anche dall’estero: il Paese più ricco e potente del mondo ha dovuto chiedere aiuto all’Europa, e perfino dal Terzo mondo sta arrivando qualcosa. L’odiato Fidel Castro ha offerto 1.100 medici cubani: «Potrebbero arrivare in un’ora, con un aereo dall’Avana», ha detto. Ma gli Stati Uniti, che boicottano Cuba con l’embargo, non hanno neppure risposto.
Il 61enne Joe Shaheen non può più stare nella sua casa senza tetto del famoso quartiere francese, ma neppure lui vuole lasciare il suo cane, Dixie Lee: «Sull’elicottero non lo accettano, e io non posso abbandonarlo qui a morire di fame». I vigili del fuoco passano di casa in casa a controllare che non ci sia più nessuno. A volte trovano qualche sopravvissuto, a volte purtroppo qualche cadavere: «Dobbiamo spicciarci, perchè con questo caldo i corpi imputridiscono in fretta. Bisogna seppellirli subito», avverte Joe Pollard, ufficiale della polizia di New Orleans.
I poliziotti della capitale del jazz nei primi giorni si erano lasciati prendere dalla disperazione. Duecento di loro, sentendosi impotenti senza auto, e senza barche ed elicotteri per salvare i superstiti, avevano dato le dimissioni. Intanto per le strade bande di sciacalli saccheggiavano negozi e supermercati, rubando anche i fucili che negli Stati Uniti sono in libera vendita. Ora l’ordine sembra essere stato ripristinato, ma Cornelius Victor, 52 anni, tiene a precisare: «Si’, c’è stato qualche ladro, qualche violentatore e anche qualche assassino, ma dieci mele marce non possono rovinare la reputazione di mille cittadini onesti». Il signor Victor è stato appena salvato assieme ad altri 24 rifugiati in una scuola da un mezzo anfibio della Guardia nazionale (l’esercito che ciascuno dei cinquanta stati che compongono gli Usa ha in dotazione, con compiti di protezione civile e mantenimento dell’ordine pubblico al proprio interno, e di vero e proprio combattimento all’estero).
Più di un terzo dei 22mila volontari della Guardia nazionale della Louisiana si trova attualmente in Iraq. Ma la tragedia di New Orleans sta facendo chiedere a molti il rimpatrio dei soldati da Bagdad. «La spedizione in Iraq ci costa un miliardo di dollari alla settimana», ricorda il senatore Ted Kennedy, «soldi che il presidente George Bush dovrebbe spendere invece per la ricostruzione». «Abbiamo abbastanza risorse per entrambe le cose», ha risposto Bush. Dopo il ripristino degli argini, le pompe idrovore potranno entrare in funzione e la città si ripopolerà.
Mauro Suttora
Thursday, September 01, 2005
New Orleans/2
LO TSUNAMI D'AMERICA
Oggi, 1 settembre 2005
Migliaia di morti e dispersi, violenze e saccheggi, rabbia e polemiche: dopo "Katrina" e' il caos
«Improvvisamente sono finita sott'acqua, completamente sommersa. Sentivo le urla disperate e poi sempre più soffocate dei vicini. Poi più nulla. Quando sono riemersa, non ero più dentro il mio appartamento. Non vedevo niente. Ma mi sembrava di nuotare in mare aperto. Ero terrorizzata, non riuscivo a capire dov'ero. A un certo punto mi sono accorta che intorno a noi galleggiavano automobili. Abbiamo dovuto scansarle per continuare a nuotare, trascinati dalla corrente».
Joy Schovest, 55 anni, parla con difficoltà, piange, singhiozza. Abitava negli appartamenti di Quiet Water Beach, sul lungomare di Biloxi, nello stato del Mississippi. Un nome ironico: «Spiaggia dell'acqua quieta». Invece è proprio qui che è passato l'occhio del ciclone, ed è qui che si è consumata (per quanto se ne sa finora) la strage peggiore di Katrina, lo tsunami d'America: una trentina di vittime, rimaste schiacciate, intrappolate, soffocate, annegate sotto le pareti di legno del condominio. «Il vento aumentava sempre più, il suo rumore era diventato fortissimo, terrificante», continua la signora Schovest. «Poi abbiamo capito che si stava alzando anche il mare, le onde si sono fatte sempre più grosse, ma era tutto il mare che ci veniva addosso. All'inizio speravamo che la casa tenesse, poi abbiamo capito che era impossibile, tutto si muoveva e tremava, come se fossimo in una scatola di cartone. Ormai era troppo tardi per uscire e scappare. Eravamo intrappolati. Le assi di compensato che alcuni avevano messo alle finestre per proteggere i vetri di sono trasformate nelle pareti delle loro bare. Non ci restava che pregare. Speravamo che prima o poi l'uragano finisse, passasse, o almeno diminuisse di forza. Invece aumentava sempre di più».
Uno dei pochi sopravvissuti di quella maledetta casa di Biloxi è il diciannovenne Landon Williams. E' riuscito a salvarsi, correndo fuori dall'appartamento e trascinandosi dietro la nonna e lo zio prima che il tetto crollasse. Anche loro hanno dovuto nuotare nell'acqua che formava dei mulinelli, facendosi largo fra i detriti: «Il vento era feroce, abbiamo visto la nostra casa che poco a poco si disintegrava. Sentivamo il rumore di grandi pareti di legno che si incrinavano e poi si spaccavano. Non riesco neanche a descrivere a parole quella situazione, avevo troppa paura, l'unico modo per capirla è starci dentro. Tutti i nostri vicini sono morti, hanno recuperato alcuni corpi che galleggiavano nell'acqua putrida. Li ho visti, ma dopo un po' ho dovuto smettere di guardare perchè mi veniva da vomitare. Non so come facciano a lavorare i pompieri che devono affrontare queste cose e portar via i cadaveri...»
Harvey Jackson è disperato. Ha perso la moglie Tonette dopo che l'acqua ha sommerso la sua casa: «Il mare cresceva, cresceva, così siamo saliti sul tetto in cerca dell'ultimo rifugio. Ci tenevamo per mano con il nostro nipotino, ma a un certo punto la marea ha spaccato in due la casa e il tetto. Non ce l'ho fatta più a tenere Tonette, le stringevo la mano fortissimo, più forte che potevo, ma lei veniva trascinata via. Dopo un po' lei stessa mi ha urlato 'Non puoi più tenermi, pensa al bimbo, salva lui!' E' sparita, non l'ho più trovata, neanche il suo corpo... Non so più dove andare, ho perso tutto, non abbiamo più niente, non sappiamo cosa fare».
Sembra di risentire le stesse scene infernali di appena otto mesi fa, quando lo tsunami dell'oceano Indiano spazzò centinaia di chilometri di coste. Ma allora furono colpite zone povere e lontanissime. Questa volta, invece, la furia della natura ha colpito il Paese più ricco e potente del mondo. New Orleans è (era) una delle città più belle e antiche degli Stati Uniti. Un centro turistico e industriale, la culla del jazz. Ma è incredibile come nel giro di poche ore anche zone avanzatissime e dotate di ogni comodità si possano trasformare, tornando all'età della pietra.
«Sembra di essere a Hiroshima», ha mormorato il governatore dello stato del Mississippi sorvolando le zone disastrate. Non funziona più nulla. Non c'è elettricità per milioni di persone, di notte cala un buio pesto. Sono saltate tutte le comunicazioni, telefoni, computer, tv. Anche i telefonini. Funzionano solo le radio, per coloro che hanno trovato ancora qualche pila ai piani alti. «Nessuno sa più nulla dei propri parenti e amici», spiega il sindaco di New Orleans, «la nostra città ha mezzo milione di abitanti, ma assieme ai sobborghi si arriva a parecchi milioni. Il giorno prima dell'uragano abbiamo dato l'ordine di evacuazione, però molti sono rimasti barricandosi in casa. E ora non possiamo raggiungerli, perchè tutte le strade sono allagate».
Improvvisamente sono mancate tutte le cose elementari per sopravvivere: acqua, cibo, un giaciglio per dormire, un riparo, vestiti asciutti. New Orleans si trovava sul delta del Mississippi ma sotto il livello del mare, protetta da argini. Che all'inizio avevano tenuto: per un giorno, anche dopo il passaggio dell'uragano. Poi però la pressione dell'acqua è stata troppo forte, e quasi tutta la città è stata invasa dall'acqua. «Un'acqua pericolosa», avvertono quelli della Protezione Civile statunitense, «perchè contiene le carcasse di animali morti, e putroppo non solo di animali».
Per salvare i suoi gattini Ann Griffin ha rischiato di morire: «Non li avrei mai lasciati da soli, così sono salita al secondo piano della mia casa e ho aspettato. Dopo molte ore è arrivata una barca guidata da un privato, il signor Rayes, che ha salvato me e il mio compagno James». Nei giorni successivi al disastro la situazione, invece che migliorare, è peggiorata. Il Genio dell'esercito non è riuscito a ricostruire gli argini artificiali con sacchi di terra, per cui le pompe idrovore non hanno potuto mettersi in azione. Molte macchine della polizia sono rimaste anch'esse bloccate nei loro parcheggi, galleggiando nell'acqua. Le fogne sono saltate, e un puzzo insopportabile ha avvolto la città. «Abbiamo avvisato i sopravvissuti di non avventurarsi in acqua neppure nuotando, perchè c'era il pericolo di imbattersi in un coccodrillo o in un serpente d'acqua velenoso», ha detto il capo dei pompieri di Gulfport Pat Sullivan.
Il peggior disastro naturale nella storia degli Stati Uniti dopo il terremoto di San Francisco del 1906 si è così dipanato per giorni e giorni sotto gli occhi impotenti delle telecamere tv sugli elicotteri, unici mezzi oltre alle barche per raggiungere decine di migliaia di superstiti. E poi si sono scatenati gli sciacalli. Perchè nel centro di New Orleans, così come in quasi tutti i centri storici delle città americane (tranne Manhattan), ormai sono rimasti ad abitare soltanto i più poveri. Le classi medie e alte sono andate quasi tutte nei verdi sobborghi. Ed è stata troppo forte la tentazione, per chi comunque non aveva già niente oppure aveva perso tutto, di andare a saccheggiare negozi, supermercati, appartamenti privati. «Sono dentro, con un cane feroce e armato di fucile», ha scritto un negoziante con lo spray fuori dal suo negozio. Ma per qualche giorno New Orleans, oltre che nel fango, è precipitata anche nel medioevo delle bande armate. «E' una tragedia enorme, ci vorranno anni per ricostruire», ha dovuto commentare sconsolato il presidente George Bush junior.
Mauro Suttora
Oggi, 1 settembre 2005
Migliaia di morti e dispersi, violenze e saccheggi, rabbia e polemiche: dopo "Katrina" e' il caos
«Improvvisamente sono finita sott'acqua, completamente sommersa. Sentivo le urla disperate e poi sempre più soffocate dei vicini. Poi più nulla. Quando sono riemersa, non ero più dentro il mio appartamento. Non vedevo niente. Ma mi sembrava di nuotare in mare aperto. Ero terrorizzata, non riuscivo a capire dov'ero. A un certo punto mi sono accorta che intorno a noi galleggiavano automobili. Abbiamo dovuto scansarle per continuare a nuotare, trascinati dalla corrente».
Joy Schovest, 55 anni, parla con difficoltà, piange, singhiozza. Abitava negli appartamenti di Quiet Water Beach, sul lungomare di Biloxi, nello stato del Mississippi. Un nome ironico: «Spiaggia dell'acqua quieta». Invece è proprio qui che è passato l'occhio del ciclone, ed è qui che si è consumata (per quanto se ne sa finora) la strage peggiore di Katrina, lo tsunami d'America: una trentina di vittime, rimaste schiacciate, intrappolate, soffocate, annegate sotto le pareti di legno del condominio. «Il vento aumentava sempre più, il suo rumore era diventato fortissimo, terrificante», continua la signora Schovest. «Poi abbiamo capito che si stava alzando anche il mare, le onde si sono fatte sempre più grosse, ma era tutto il mare che ci veniva addosso. All'inizio speravamo che la casa tenesse, poi abbiamo capito che era impossibile, tutto si muoveva e tremava, come se fossimo in una scatola di cartone. Ormai era troppo tardi per uscire e scappare. Eravamo intrappolati. Le assi di compensato che alcuni avevano messo alle finestre per proteggere i vetri di sono trasformate nelle pareti delle loro bare. Non ci restava che pregare. Speravamo che prima o poi l'uragano finisse, passasse, o almeno diminuisse di forza. Invece aumentava sempre di più».
Uno dei pochi sopravvissuti di quella maledetta casa di Biloxi è il diciannovenne Landon Williams. E' riuscito a salvarsi, correndo fuori dall'appartamento e trascinandosi dietro la nonna e lo zio prima che il tetto crollasse. Anche loro hanno dovuto nuotare nell'acqua che formava dei mulinelli, facendosi largo fra i detriti: «Il vento era feroce, abbiamo visto la nostra casa che poco a poco si disintegrava. Sentivamo il rumore di grandi pareti di legno che si incrinavano e poi si spaccavano. Non riesco neanche a descrivere a parole quella situazione, avevo troppa paura, l'unico modo per capirla è starci dentro. Tutti i nostri vicini sono morti, hanno recuperato alcuni corpi che galleggiavano nell'acqua putrida. Li ho visti, ma dopo un po' ho dovuto smettere di guardare perchè mi veniva da vomitare. Non so come facciano a lavorare i pompieri che devono affrontare queste cose e portar via i cadaveri...»
Harvey Jackson è disperato. Ha perso la moglie Tonette dopo che l'acqua ha sommerso la sua casa: «Il mare cresceva, cresceva, così siamo saliti sul tetto in cerca dell'ultimo rifugio. Ci tenevamo per mano con il nostro nipotino, ma a un certo punto la marea ha spaccato in due la casa e il tetto. Non ce l'ho fatta più a tenere Tonette, le stringevo la mano fortissimo, più forte che potevo, ma lei veniva trascinata via. Dopo un po' lei stessa mi ha urlato 'Non puoi più tenermi, pensa al bimbo, salva lui!' E' sparita, non l'ho più trovata, neanche il suo corpo... Non so più dove andare, ho perso tutto, non abbiamo più niente, non sappiamo cosa fare».
Sembra di risentire le stesse scene infernali di appena otto mesi fa, quando lo tsunami dell'oceano Indiano spazzò centinaia di chilometri di coste. Ma allora furono colpite zone povere e lontanissime. Questa volta, invece, la furia della natura ha colpito il Paese più ricco e potente del mondo. New Orleans è (era) una delle città più belle e antiche degli Stati Uniti. Un centro turistico e industriale, la culla del jazz. Ma è incredibile come nel giro di poche ore anche zone avanzatissime e dotate di ogni comodità si possano trasformare, tornando all'età della pietra.
«Sembra di essere a Hiroshima», ha mormorato il governatore dello stato del Mississippi sorvolando le zone disastrate. Non funziona più nulla. Non c'è elettricità per milioni di persone, di notte cala un buio pesto. Sono saltate tutte le comunicazioni, telefoni, computer, tv. Anche i telefonini. Funzionano solo le radio, per coloro che hanno trovato ancora qualche pila ai piani alti. «Nessuno sa più nulla dei propri parenti e amici», spiega il sindaco di New Orleans, «la nostra città ha mezzo milione di abitanti, ma assieme ai sobborghi si arriva a parecchi milioni. Il giorno prima dell'uragano abbiamo dato l'ordine di evacuazione, però molti sono rimasti barricandosi in casa. E ora non possiamo raggiungerli, perchè tutte le strade sono allagate».
Improvvisamente sono mancate tutte le cose elementari per sopravvivere: acqua, cibo, un giaciglio per dormire, un riparo, vestiti asciutti. New Orleans si trovava sul delta del Mississippi ma sotto il livello del mare, protetta da argini. Che all'inizio avevano tenuto: per un giorno, anche dopo il passaggio dell'uragano. Poi però la pressione dell'acqua è stata troppo forte, e quasi tutta la città è stata invasa dall'acqua. «Un'acqua pericolosa», avvertono quelli della Protezione Civile statunitense, «perchè contiene le carcasse di animali morti, e putroppo non solo di animali».
Per salvare i suoi gattini Ann Griffin ha rischiato di morire: «Non li avrei mai lasciati da soli, così sono salita al secondo piano della mia casa e ho aspettato. Dopo molte ore è arrivata una barca guidata da un privato, il signor Rayes, che ha salvato me e il mio compagno James». Nei giorni successivi al disastro la situazione, invece che migliorare, è peggiorata. Il Genio dell'esercito non è riuscito a ricostruire gli argini artificiali con sacchi di terra, per cui le pompe idrovore non hanno potuto mettersi in azione. Molte macchine della polizia sono rimaste anch'esse bloccate nei loro parcheggi, galleggiando nell'acqua. Le fogne sono saltate, e un puzzo insopportabile ha avvolto la città. «Abbiamo avvisato i sopravvissuti di non avventurarsi in acqua neppure nuotando, perchè c'era il pericolo di imbattersi in un coccodrillo o in un serpente d'acqua velenoso», ha detto il capo dei pompieri di Gulfport Pat Sullivan.
Il peggior disastro naturale nella storia degli Stati Uniti dopo il terremoto di San Francisco del 1906 si è così dipanato per giorni e giorni sotto gli occhi impotenti delle telecamere tv sugli elicotteri, unici mezzi oltre alle barche per raggiungere decine di migliaia di superstiti. E poi si sono scatenati gli sciacalli. Perchè nel centro di New Orleans, così come in quasi tutti i centri storici delle città americane (tranne Manhattan), ormai sono rimasti ad abitare soltanto i più poveri. Le classi medie e alte sono andate quasi tutte nei verdi sobborghi. Ed è stata troppo forte la tentazione, per chi comunque non aveva già niente oppure aveva perso tutto, di andare a saccheggiare negozi, supermercati, appartamenti privati. «Sono dentro, con un cane feroce e armato di fucile», ha scritto un negoziante con lo spray fuori dal suo negozio. Ma per qualche giorno New Orleans, oltre che nel fango, è precipitata anche nel medioevo delle bande armate. «E' una tragedia enorme, ci vorranno anni per ricostruire», ha dovuto commentare sconsolato il presidente George Bush junior.
Mauro Suttora
Wednesday, August 31, 2005
Clan Gotti, trionfo Usa
settimanale Visto, 26 agosto 2005
I MAFIOSI? IN AMERICA SONO GLI IDOLI DEI "REALITY"
Che importa se l'ennesimo Gotti è processato per tentato omicidio? La saga della famiglia continua.
Victoria, figlia del celebre "padrino", insegna ai figli "come stare al mondo". E suo fratello, John junior, se la ride delle accuse
New York. Buon sangue non mente. John Gotti junior, 41 anni, è in questi giorni sotto processo a New York per estorsione e tentato sequestro di persona. Rischia fino a trent'anni di carcere. Tre settimane fa suo zio, il 66enne Peter Gotti, è stato condannato a 25 anni per tentato omicidio. Già ne stava scontando nove per riciclaggio di denaro sporco e crimini di racket. I Gotti volevano far fuori il pentito Sammy Gravano, ex numero due della mafia a New York, perchè aveva tradito e spedito al fresco il capo dei capi: John Gotti senior, padre del junior, morto di cancro in galera tre anni fa.
Il processo di questi giorni attira l'attenzione dei media Usa perchè fa apparire inestirpabile il clan mafioso più potente d'America, quello che controlla la famiglia Gambino da dieci anni. Morto un Gotti se ne fa un altro, anche se sono padrini e non papi. Un destino che sembra ineluttabile: John senior aveva undici fratelli e sorelle, e tutti i maschi si sono dati al crimine. Ora è il turno della generazione dei quarantenni. Cosa Nostra negli Stati Uniti è più viva che mai, nonostante la concorrenza delle mafie russa, colombiana o cinese, e le periodiche retate della polizia. La quale più che infiltrare i clan, si fa infiltrare: sono infatti alla sbarra anche gli agenti Lou Eppolito e Steve Caracappa (accusati di undici omicidi come killer dei Gambino), che hanno fatto il doppio gioco per trent'anni.
Ma, quel che è peggio, oggi i mafiosi italoamericani sono diventati quasi oggetti di culto. Il fenomeno più incredibile, infatti, riguarda la sorella di John junior, la 42enne (finta) bionda platinata Victoria Gotti. La quale prima ha sposato un altro boss, Carmine Agnello. Poi ha chiesto il divorzio, quando nel 2000 le intercettazioni telefoniche hanno dimostrato non solo la colpevolezza criminale del marito, ma anche quella coniugale: lui la tradiva a tutto spiano. In seguito Victoria è riuscita a entrare nel mondo del glamour: Donald Trump la invita ai propri matrimoni, il quotidiano New York Post di Rupert Murdoch le affida una rubrica di gossip. Viene licenziata, ma trova subito rifugio sul settimanale scandalistico Star. Infine, un anno fa, l'incoronamento della marcia verso la rispettabilità di Victoria Gotti: il canale Tv AE (Arts&Entertainment) la fa diventare protagonista del reality show Growing up Gotti (Crescere Gotti). Nel quale si può ammirare la signora mentre cerca di educare (si fa per dire) i suoi tre figli Carmine, 19 anni, John, 18, e Frank, 15.
A Victoria, nonostante le traversie del marito, sono rimasti appiccicati addosso vari miliardi, e così lei alleva i suoi pargoli in un villone con sette camere da letto a Long Island, provvisto di parco, piscina e cavalli. I ragazzotti si comportano da bulli di periferia, non studiano, vagano in auto combinando guai ed esibendo già il cipiglio arrogante dei compari in erba. Mamma Gotti fa finta di preoccuparsi.
Prosegue così la spettacolarizzazione della mafia italoamericana, iniziata all'inizio del decennio con il serial Tv I Soprano. I crimini di questa famiglia mafiosa del New Jersey vengono seguiti con interesse da milioni di spettatori ogni settimana: sparare a freddo in bar a uno sconosciuto che non mostra «rispetto» e fare a pezzi il corpo di un «infame» diventano routine da psicanalizzare...
La trasmissione viene addirittura premiata con gli Oscar Tv, e a poco valgono le proteste della Niaf (National Italian American Foundation) contro la «stereotipizzazione» dei nostri connazionali come mafiosi. D'altronde, cosa fanno da trent'anni registi come Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, e attori come Robert De Niro, se non glorificare Padrini?
Ora Gotti junior è accusato - fra le altre cose - di aver tentato di rapire ed eliminare Curtis Sliwa, conduttore radiofonico e fondatore del gruppo di vigilanza civica «Guardian Angels», che nelle sue trasmissioni criticava aspramente suo padre, il patriarca mafioso. Ma gli spettatori dei Tg, distratti, confondono la realtà con il programma successivo, in cui la sorella dell'imputato redarguisce i suoi «bravi ragazzi» (Goodfellas) che imitano i modi spicci di Tony Soprano, ma allo stesso tempo si lamenta perchè «non si può giudicare la gente dal cognome»...
Mauro Suttora
I MAFIOSI? IN AMERICA SONO GLI IDOLI DEI "REALITY"
Che importa se l'ennesimo Gotti è processato per tentato omicidio? La saga della famiglia continua.
Victoria, figlia del celebre "padrino", insegna ai figli "come stare al mondo". E suo fratello, John junior, se la ride delle accuse
New York. Buon sangue non mente. John Gotti junior, 41 anni, è in questi giorni sotto processo a New York per estorsione e tentato sequestro di persona. Rischia fino a trent'anni di carcere. Tre settimane fa suo zio, il 66enne Peter Gotti, è stato condannato a 25 anni per tentato omicidio. Già ne stava scontando nove per riciclaggio di denaro sporco e crimini di racket. I Gotti volevano far fuori il pentito Sammy Gravano, ex numero due della mafia a New York, perchè aveva tradito e spedito al fresco il capo dei capi: John Gotti senior, padre del junior, morto di cancro in galera tre anni fa.
Il processo di questi giorni attira l'attenzione dei media Usa perchè fa apparire inestirpabile il clan mafioso più potente d'America, quello che controlla la famiglia Gambino da dieci anni. Morto un Gotti se ne fa un altro, anche se sono padrini e non papi. Un destino che sembra ineluttabile: John senior aveva undici fratelli e sorelle, e tutti i maschi si sono dati al crimine. Ora è il turno della generazione dei quarantenni. Cosa Nostra negli Stati Uniti è più viva che mai, nonostante la concorrenza delle mafie russa, colombiana o cinese, e le periodiche retate della polizia. La quale più che infiltrare i clan, si fa infiltrare: sono infatti alla sbarra anche gli agenti Lou Eppolito e Steve Caracappa (accusati di undici omicidi come killer dei Gambino), che hanno fatto il doppio gioco per trent'anni.
Ma, quel che è peggio, oggi i mafiosi italoamericani sono diventati quasi oggetti di culto. Il fenomeno più incredibile, infatti, riguarda la sorella di John junior, la 42enne (finta) bionda platinata Victoria Gotti. La quale prima ha sposato un altro boss, Carmine Agnello. Poi ha chiesto il divorzio, quando nel 2000 le intercettazioni telefoniche hanno dimostrato non solo la colpevolezza criminale del marito, ma anche quella coniugale: lui la tradiva a tutto spiano. In seguito Victoria è riuscita a entrare nel mondo del glamour: Donald Trump la invita ai propri matrimoni, il quotidiano New York Post di Rupert Murdoch le affida una rubrica di gossip. Viene licenziata, ma trova subito rifugio sul settimanale scandalistico Star. Infine, un anno fa, l'incoronamento della marcia verso la rispettabilità di Victoria Gotti: il canale Tv AE (Arts&Entertainment) la fa diventare protagonista del reality show Growing up Gotti (Crescere Gotti). Nel quale si può ammirare la signora mentre cerca di educare (si fa per dire) i suoi tre figli Carmine, 19 anni, John, 18, e Frank, 15.
A Victoria, nonostante le traversie del marito, sono rimasti appiccicati addosso vari miliardi, e così lei alleva i suoi pargoli in un villone con sette camere da letto a Long Island, provvisto di parco, piscina e cavalli. I ragazzotti si comportano da bulli di periferia, non studiano, vagano in auto combinando guai ed esibendo già il cipiglio arrogante dei compari in erba. Mamma Gotti fa finta di preoccuparsi.
Prosegue così la spettacolarizzazione della mafia italoamericana, iniziata all'inizio del decennio con il serial Tv I Soprano. I crimini di questa famiglia mafiosa del New Jersey vengono seguiti con interesse da milioni di spettatori ogni settimana: sparare a freddo in bar a uno sconosciuto che non mostra «rispetto» e fare a pezzi il corpo di un «infame» diventano routine da psicanalizzare...
La trasmissione viene addirittura premiata con gli Oscar Tv, e a poco valgono le proteste della Niaf (National Italian American Foundation) contro la «stereotipizzazione» dei nostri connazionali come mafiosi. D'altronde, cosa fanno da trent'anni registi come Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, e attori come Robert De Niro, se non glorificare Padrini?
Ora Gotti junior è accusato - fra le altre cose - di aver tentato di rapire ed eliminare Curtis Sliwa, conduttore radiofonico e fondatore del gruppo di vigilanza civica «Guardian Angels», che nelle sue trasmissioni criticava aspramente suo padre, il patriarca mafioso. Ma gli spettatori dei Tg, distratti, confondono la realtà con il programma successivo, in cui la sorella dell'imputato redarguisce i suoi «bravi ragazzi» (Goodfellas) che imitano i modi spicci di Tony Soprano, ma allo stesso tempo si lamenta perchè «non si può giudicare la gente dal cognome»...
Mauro Suttora
Monday, August 29, 2005
New Orleans/1
KATRINA
lunedi 29 agosto 2005
Diario
Immaginate che il povero Bruno Vespa, per dimostrare la propria virilità, ogni volta che a Trieste soffia la bora si precipiti a farsi filmare barcollante in cerata sotto il vento e la pioggia. Eppure è esattamente quello che succede negli Stati Uniti, dove ad ogni uragano si scatena, oltre alla furia degli elementi, anche la fiera delle vanità delle star tv. E’ con un particolare autocompiacimento masochistico, per esempio, che Anderson Cooper, il figlio della miliardaria Gloria Vanderbilt diventato colonna della Cnn, si è fatto quasi spazzare via dall’uragano Ivan in Florida l’anno scorso.
Fra le tante disgrazie provocate dalle tremende tempeste tropicali estive americane, inimmaginabili per noi fortunati abitanti del placido Mediterraneo, c’è anche il fardello di cronisti dementi che occupano gli schermi Usa per giorni e giorni. Un fenomeno così irritante che il perfido David Letterman, principe della satira tv statunitense, li ha messi alla berlina mostrandoli uno dopo l’altro in pose Ridolini-Blob. La speranza segreta del telespettatore americano, ovviamente, è quello che l’uragano si porti via pure il giornalista vociante: lui sta davanti allo schermo per vedere se quello prima o poi prende il volo. Inconfessabile. Un po’ come il tifo pro toro nella corrida.
Perchè alla fine, si sa, l’uragano perde. Com’è successo anche al tremendissimo Katrina, che appena toccata terra si è sgonfiato, è stato degradato a “tempesta tropicale”, e ha diminuito la velocità dei propri venti da 250 a 150 chilometri l’ora. Una miseria, quasi come la bora nostrana, appunto. Morti, grazie a Dio, relativamente pochi (nel 1969 Camille ne causò 250). Danni, tantissimi: un milione di sfollati (tutta New Orleans), quarantamila case allagate, 26 miliardi di dollari di rimborsi chiesti alle assicurazioni dopo i trenta dell’anno scorso in Florida per Ivan. Una cifra immensa, certo. Però è quello che il Pentagono spende in soli venti giorni.
Quando ancora gli esperti erano convinti che Katrina non si sarebbe diretto verso Louisiana, Mississippi e Alabama, ma avrebbe scaricato tutta la propria potenza sulla Florida, sembrava che anche la serata tv degli Mtv awards da Miami fosse in pericolo. Invece si è svolta regolarmente e i suoi trionfatori, i Green Day, sono riusciti a inventare una via patriottica all’antimilitarismo (o una via antimilitarista al patriottismo), con il loro slogan “Amiamo i nostri soldati, quindi facciamoli tornare presto dall’Iraq”.
Non per buttarla in politica, ma gli uragani servono a qualcosa anche in questo campo. Per tre motivi. Il primo è quello classico: “parlare del tempo” per non affrontare argomenti più seri. Capita sempre in ascensore, e va bene. Ma ora la metereologia, in questi Stati Uniti polarizzati come ai tempi del Vietnam, è uno svicolamento anche per non far naufragare cene familiari o fra amici, se in circolazione c’è un bushista. La seconda funzione sociale ricoperta dagli uragani, poi, è quella di “affidamento al politico”. Di fronte a disgrazie immani non resta che sperare nei risarcimenti procurati dai governatori degli stati, e Jeb Bush l’anno scorso fece vincere le elezioni al fratello in Florida grazie alla propria performance consolatoria e all’efficienza dei soccorsi. Ora in Louisiana potrebbe mettersi in luce la democratica Kathleen Bianco.
La terza grande ragion d’essere dei tifoni, infine, sta nella diffusione della paranoia. Perchè ormai sarebbe il caso di cominciare a chiamarla così, la paura del “terrorismo” in un Paese dove per quattro anni, dall’11 settembre 2001, non è scoppiato neanche un petardo. In mancanza di ulteriori gesta da parte di Osama, ci si consola con il terrore provocato dalla forza distruttrice più antica, potente e misteriosa del mondo: quella della natura. Uno “shock and awe” che Donald Rumsfeld se lo sogna.
Un canale intero della tv Usa, il Weather Channel, si dedica a coltivare l’insicurezza ossessiva provata del cittadino medio statunitense nei confronti dei fenomeni atmosferici. Egli crede alle previsioni del tempo quasi quanto si fida dei discorsi neocon del presidente sull’export della democrazia tramite guerra. La minaccia sorda e imprecisa dei tornadi serve a mantenere un clima di allarme permanente e impreciso nella psiche familiare di tutto il Sud statunitense.
Sociologia d’accatto? Ditelo a Richard Posner, massimo “catastrofologo” statunitense. Nel suo ultimo libro, “Catastrofi: rischio e risposta” pubblicato nove mesi fa, sostiene che gli americani spendono troppo poco per prevenire (e proteggersi da) gli eventi estremi. Intendiamoci, contro gli uragani non c’è nulla da fare. E’ vero solo, statistiche alla mano, che negli ultimi anni è finito il periodo di grazia cominciato negli anni Settanta, e che il numero di uragani e tempeste tropicali è raddoppiato: fino a undici l’anno per i primi, mentre di solito erano sei, e venti per le seconde, il doppio del normale. Dacci il nostro uragano bimestrale: quest’estate Dennis, Emily, Irene e poi Katrina, l’anno scorso Charley, Frances, Ivan e Jeanne... Un allarme continuo che diventa allarmismo, e si somma nel subconscio a quello delle allerte arancioni antiterrorismo.
Per quest’anno non illudiamoci che sia finita. Gli scienziati del Nooa (National Oceanic and Atmospheric Administration), che si sommano al Cpc (Climate Prediction Center), alla Hrd (Hurricane Research Division), e al Nhc (National Hurricane Center), in un trionfo burocratico di enti dalla competenze sovrapposte, hanno già battezzato gli uragani futuri. Ogni anno si ricomincia dalla lettera A, e per il 2005 finora l’elenco è questo: Arlene, Bret, Cindy, Dennis, Emily, Franklin, Gert, Harvey, Irene, Jose e Katrina. Seguiranno (si spera di no) Lee, Maria, Nate, Ophelia, Philippe, Rita, Stan, Tammy, Vince e Wilma.
“Le catastrofi non sarebbero tali se avessero un qualcosa di ragionevole”, scrive Posner, “eppure ci si può ragionevolmente preparare ad esse, che si tratti di uragani, tsunami, asteroidi che impattano sulla Terra o terremoti. Certo, farlo costa molto”. Negli anni Sessanta parecchie società d’assicurazioni smisero di operare nel campo degli allagamenti dopo una serie di enormi inondazioni in California. In seguito all’uragano Andrew del ‘92 (l’ultimo paragonabile a Katrina) i premi assicurativi aumentarono del 200 per cento. Dopo l’11 settembre 2001 è stato impossibile assicurarsi contro atti di terrorismo, finchè non è intervenuto il governo federale Usa. L’anno scorso, le assicurazioni contro i rischi edilizi per tornado in Florida sono di nuovo raddoppiate.
“Il mercato non ha cuore”, ha ammesso James Surowiecki sul settimanale New Yorker, “e da un punto di vista economico le devastazioni del Golfo del Messico la scorsa settimana sono state più gravi di quelle dello tsunami, che aveva colpito zone troppo povere per essere nevralgiche dal punto di vista del business. Ma nonostante l’uragano questa volta abbia distrutto zone ricche, la percentuale di proprietà assicurate è ancora insufficiente. Il problema è che è difficilissimo, per le compagnie assicurative, calcolare attuarialmente quale sia la percentuale di rischio di questi grossi eventi. Sia perchè accadono a intervalli imprevedibili, sia perchè basta una minuscola variazione della traiettoria dell’occhio del ciclone per provocare miliardi invece che milioni di danni, colpendo una metropoli come New Orleans e i terminali del petrolio. Uno dei pochi che non teme di affrontare questi rischi è Warren Buffett (il quarto uomo più ricco del mondo, ndr), che ha guadagnato parecchi soldi proprio assicurando le catastrofi, perchè sa che è nella natura di tale business sopportare annate dure. Ma pochi assicuratori e investitori sono forti abbastanza per accettare l’inevitabilità di perdite grosse in cambio della certezza di molti piccoli guadagni. Per questo assicurarsi contro gli ‘atti di Dio’ costa ancora molto di più di quanto la gente è disposta a sborsare”.
Questo per quanto riguarda il futuro economico degli uragani. Ma quello scientifico? In sostanza: come mai ce ne sono di più da dieci anni a questa parte? “La maggior parte degli uragani”, risponde Stanley Goldenberg del Noaa, “nasce al largo della costa occidentale dell’Africa e si sviluppa nella fascia tropicale caraibica fra il nono e il ventunesimo parallelo. Quasi mai superano il trentesimo pareallelo. Purtroppo, anche se le condizioni del loro sviluppo sono ben conosciute, troppo spesso esse dipendono da circostanze giornaliere invece che stagionali, e quindi risultano impossibili da prevedere a lungo termine. Tuttavia, con l’eccezione dei due anni di attività del Nino, il ‘97 e il 2002, il numero degli uragani è stato sempre il doppio rispetto alla media dei precedenti 25 anni. Ebbene, in mancanza di dati certi sull’effetto serra e sulla temperatura dell’oceano Atlantico, noi siamo in grado soltanto di predirre all’inizio di ogni stagione se si ripeteranno le condizioni di facilità per il formarsi di tempeste tropicali, e di sviluppo della loro forza”.
Una notevole dichiarazione d’impotenza, non c’è che dire. Intanto, il quartiere francese di New Orleans è finito sott’acqua con gli argini rotti. E l’allarme inondazione ha provocato uno degli esodi più immani nella storia degli Stati Uniti. Puzza invece di speculazione l’aumento di cinque dollari a barile (raggiunta quota 70, impensabile fino a pochi mesi fa) causato dalla chiusura dei pozzi petroliferi nel Golfo del Messico. In realtà gli Usa producono in loco soltanto un milione e mezzo di barili al giorno, contro i sei e mezzo provenienti dall’estero che vengono succhiati dai terminal di Lousiana e Texas. Ma queste cose i cronisti tv che urlano sotto la pioggia non le spiegano.
Mauro Suttora
lunedi 29 agosto 2005
Diario
Immaginate che il povero Bruno Vespa, per dimostrare la propria virilità, ogni volta che a Trieste soffia la bora si precipiti a farsi filmare barcollante in cerata sotto il vento e la pioggia. Eppure è esattamente quello che succede negli Stati Uniti, dove ad ogni uragano si scatena, oltre alla furia degli elementi, anche la fiera delle vanità delle star tv. E’ con un particolare autocompiacimento masochistico, per esempio, che Anderson Cooper, il figlio della miliardaria Gloria Vanderbilt diventato colonna della Cnn, si è fatto quasi spazzare via dall’uragano Ivan in Florida l’anno scorso.
Fra le tante disgrazie provocate dalle tremende tempeste tropicali estive americane, inimmaginabili per noi fortunati abitanti del placido Mediterraneo, c’è anche il fardello di cronisti dementi che occupano gli schermi Usa per giorni e giorni. Un fenomeno così irritante che il perfido David Letterman, principe della satira tv statunitense, li ha messi alla berlina mostrandoli uno dopo l’altro in pose Ridolini-Blob. La speranza segreta del telespettatore americano, ovviamente, è quello che l’uragano si porti via pure il giornalista vociante: lui sta davanti allo schermo per vedere se quello prima o poi prende il volo. Inconfessabile. Un po’ come il tifo pro toro nella corrida.
Perchè alla fine, si sa, l’uragano perde. Com’è successo anche al tremendissimo Katrina, che appena toccata terra si è sgonfiato, è stato degradato a “tempesta tropicale”, e ha diminuito la velocità dei propri venti da 250 a 150 chilometri l’ora. Una miseria, quasi come la bora nostrana, appunto. Morti, grazie a Dio, relativamente pochi (nel 1969 Camille ne causò 250). Danni, tantissimi: un milione di sfollati (tutta New Orleans), quarantamila case allagate, 26 miliardi di dollari di rimborsi chiesti alle assicurazioni dopo i trenta dell’anno scorso in Florida per Ivan. Una cifra immensa, certo. Però è quello che il Pentagono spende in soli venti giorni.
Quando ancora gli esperti erano convinti che Katrina non si sarebbe diretto verso Louisiana, Mississippi e Alabama, ma avrebbe scaricato tutta la propria potenza sulla Florida, sembrava che anche la serata tv degli Mtv awards da Miami fosse in pericolo. Invece si è svolta regolarmente e i suoi trionfatori, i Green Day, sono riusciti a inventare una via patriottica all’antimilitarismo (o una via antimilitarista al patriottismo), con il loro slogan “Amiamo i nostri soldati, quindi facciamoli tornare presto dall’Iraq”.
Non per buttarla in politica, ma gli uragani servono a qualcosa anche in questo campo. Per tre motivi. Il primo è quello classico: “parlare del tempo” per non affrontare argomenti più seri. Capita sempre in ascensore, e va bene. Ma ora la metereologia, in questi Stati Uniti polarizzati come ai tempi del Vietnam, è uno svicolamento anche per non far naufragare cene familiari o fra amici, se in circolazione c’è un bushista. La seconda funzione sociale ricoperta dagli uragani, poi, è quella di “affidamento al politico”. Di fronte a disgrazie immani non resta che sperare nei risarcimenti procurati dai governatori degli stati, e Jeb Bush l’anno scorso fece vincere le elezioni al fratello in Florida grazie alla propria performance consolatoria e all’efficienza dei soccorsi. Ora in Louisiana potrebbe mettersi in luce la democratica Kathleen Bianco.
La terza grande ragion d’essere dei tifoni, infine, sta nella diffusione della paranoia. Perchè ormai sarebbe il caso di cominciare a chiamarla così, la paura del “terrorismo” in un Paese dove per quattro anni, dall’11 settembre 2001, non è scoppiato neanche un petardo. In mancanza di ulteriori gesta da parte di Osama, ci si consola con il terrore provocato dalla forza distruttrice più antica, potente e misteriosa del mondo: quella della natura. Uno “shock and awe” che Donald Rumsfeld se lo sogna.
Un canale intero della tv Usa, il Weather Channel, si dedica a coltivare l’insicurezza ossessiva provata del cittadino medio statunitense nei confronti dei fenomeni atmosferici. Egli crede alle previsioni del tempo quasi quanto si fida dei discorsi neocon del presidente sull’export della democrazia tramite guerra. La minaccia sorda e imprecisa dei tornadi serve a mantenere un clima di allarme permanente e impreciso nella psiche familiare di tutto il Sud statunitense.
Sociologia d’accatto? Ditelo a Richard Posner, massimo “catastrofologo” statunitense. Nel suo ultimo libro, “Catastrofi: rischio e risposta” pubblicato nove mesi fa, sostiene che gli americani spendono troppo poco per prevenire (e proteggersi da) gli eventi estremi. Intendiamoci, contro gli uragani non c’è nulla da fare. E’ vero solo, statistiche alla mano, che negli ultimi anni è finito il periodo di grazia cominciato negli anni Settanta, e che il numero di uragani e tempeste tropicali è raddoppiato: fino a undici l’anno per i primi, mentre di solito erano sei, e venti per le seconde, il doppio del normale. Dacci il nostro uragano bimestrale: quest’estate Dennis, Emily, Irene e poi Katrina, l’anno scorso Charley, Frances, Ivan e Jeanne... Un allarme continuo che diventa allarmismo, e si somma nel subconscio a quello delle allerte arancioni antiterrorismo.
Per quest’anno non illudiamoci che sia finita. Gli scienziati del Nooa (National Oceanic and Atmospheric Administration), che si sommano al Cpc (Climate Prediction Center), alla Hrd (Hurricane Research Division), e al Nhc (National Hurricane Center), in un trionfo burocratico di enti dalla competenze sovrapposte, hanno già battezzato gli uragani futuri. Ogni anno si ricomincia dalla lettera A, e per il 2005 finora l’elenco è questo: Arlene, Bret, Cindy, Dennis, Emily, Franklin, Gert, Harvey, Irene, Jose e Katrina. Seguiranno (si spera di no) Lee, Maria, Nate, Ophelia, Philippe, Rita, Stan, Tammy, Vince e Wilma.
“Le catastrofi non sarebbero tali se avessero un qualcosa di ragionevole”, scrive Posner, “eppure ci si può ragionevolmente preparare ad esse, che si tratti di uragani, tsunami, asteroidi che impattano sulla Terra o terremoti. Certo, farlo costa molto”. Negli anni Sessanta parecchie società d’assicurazioni smisero di operare nel campo degli allagamenti dopo una serie di enormi inondazioni in California. In seguito all’uragano Andrew del ‘92 (l’ultimo paragonabile a Katrina) i premi assicurativi aumentarono del 200 per cento. Dopo l’11 settembre 2001 è stato impossibile assicurarsi contro atti di terrorismo, finchè non è intervenuto il governo federale Usa. L’anno scorso, le assicurazioni contro i rischi edilizi per tornado in Florida sono di nuovo raddoppiate.
“Il mercato non ha cuore”, ha ammesso James Surowiecki sul settimanale New Yorker, “e da un punto di vista economico le devastazioni del Golfo del Messico la scorsa settimana sono state più gravi di quelle dello tsunami, che aveva colpito zone troppo povere per essere nevralgiche dal punto di vista del business. Ma nonostante l’uragano questa volta abbia distrutto zone ricche, la percentuale di proprietà assicurate è ancora insufficiente. Il problema è che è difficilissimo, per le compagnie assicurative, calcolare attuarialmente quale sia la percentuale di rischio di questi grossi eventi. Sia perchè accadono a intervalli imprevedibili, sia perchè basta una minuscola variazione della traiettoria dell’occhio del ciclone per provocare miliardi invece che milioni di danni, colpendo una metropoli come New Orleans e i terminali del petrolio. Uno dei pochi che non teme di affrontare questi rischi è Warren Buffett (il quarto uomo più ricco del mondo, ndr), che ha guadagnato parecchi soldi proprio assicurando le catastrofi, perchè sa che è nella natura di tale business sopportare annate dure. Ma pochi assicuratori e investitori sono forti abbastanza per accettare l’inevitabilità di perdite grosse in cambio della certezza di molti piccoli guadagni. Per questo assicurarsi contro gli ‘atti di Dio’ costa ancora molto di più di quanto la gente è disposta a sborsare”.
Questo per quanto riguarda il futuro economico degli uragani. Ma quello scientifico? In sostanza: come mai ce ne sono di più da dieci anni a questa parte? “La maggior parte degli uragani”, risponde Stanley Goldenberg del Noaa, “nasce al largo della costa occidentale dell’Africa e si sviluppa nella fascia tropicale caraibica fra il nono e il ventunesimo parallelo. Quasi mai superano il trentesimo pareallelo. Purtroppo, anche se le condizioni del loro sviluppo sono ben conosciute, troppo spesso esse dipendono da circostanze giornaliere invece che stagionali, e quindi risultano impossibili da prevedere a lungo termine. Tuttavia, con l’eccezione dei due anni di attività del Nino, il ‘97 e il 2002, il numero degli uragani è stato sempre il doppio rispetto alla media dei precedenti 25 anni. Ebbene, in mancanza di dati certi sull’effetto serra e sulla temperatura dell’oceano Atlantico, noi siamo in grado soltanto di predirre all’inizio di ogni stagione se si ripeteranno le condizioni di facilità per il formarsi di tempeste tropicali, e di sviluppo della loro forza”.
Una notevole dichiarazione d’impotenza, non c’è che dire. Intanto, il quartiere francese di New Orleans è finito sott’acqua con gli argini rotti. E l’allarme inondazione ha provocato uno degli esodi più immani nella storia degli Stati Uniti. Puzza invece di speculazione l’aumento di cinque dollari a barile (raggiunta quota 70, impensabile fino a pochi mesi fa) causato dalla chiusura dei pozzi petroliferi nel Golfo del Messico. In realtà gli Usa producono in loco soltanto un milione e mezzo di barili al giorno, contro i sei e mezzo provenienti dall’estero che vengono succhiati dai terminal di Lousiana e Texas. Ma queste cose i cronisti tv che urlano sotto la pioggia non le spiegano.
Mauro Suttora
Wednesday, August 24, 2005
La mamma del soldato
Oggi, 24 agosto 2005
MIO FIGLIO E' MORTO PER TE: BUSH, SARO' LA TUA CROCE
La guerra di una madre-coraggio americana
Cindy Sheehan non ha piu' pace: suo figlio ha perso la vita in Iraq in un agguato. "La colpa e' del presidente che ha mandato a morire i nostri ragazzi in un conflitto insensato". E ora lo sfida: vuole diventare un incubo per lui. Finche' non ammettera' di avere sbagliato
Crawford (Stati Uniti), agosto
«Sono venuta a Crawford per mio figlio. Perchè finchè il presidente sta qui,
anche il mio posto è qui. E' lui che lo ha mandato a morire in una guerra
insensata. Sono arrivata un mese fa per una sola ragione: incontrare il presidente
e ottenere una sua risposta a questa semplice domanda: qual è la "nobile
causa" per la quale lui dice che mio figlio è morto? La risposta a questa domanda
non farà tornare indietro mio figlio. Ma potrebbe fermare altre morti senza
senso. Perchè ogni morte adesso non ha più senso. E la grande maggioranza del
nostro Paese lo sa. Quindi, perchè altri giovani devono morire? E perchè altri
parenti devono perdere i propri figli e passare il resto della vita con questo
lutto insopportabile?»
La signora Cindy Sheehan, 48 anni, non è una pacifista. Almeno non lo era
fino all'anno scorso, quando il suo figlio 24enne Casey è morto in Iraq. Ci era
arrivato da appena un mese, faceva il meccanico. Il 4 aprile 2004 si era spinto
in missione volontaria a Sadr City per salvare dei soldati feriti in
un'imboscata. Assieme a lui sono stati uccisi altri sei militari americani. Quel giorno
la signora Sheehan guardava la tv nella sua casa californiana: «Quando per
caso ho visto sulla Cnn un blindato che bruciava, ho capito d'istinto che Casey
era morto».
Anche la decisione di andare dalla California a Crawford (Texas) per chiedere
udienza al presidente George Bush junior in vacanza nel suo ranch l'ha presa
d'istinto. Lo aveva già incontrato due mesi dopo la morte di Casey, il
presidente. Ma in quell'occasione se ne era stata tranquilla. Bush ha concesso
udienza a 272 parenti dei duemila soldati statunitensi morti finora in Iraq e
Afghanistan. Per cui i suoi collaboratori hanno detto no a questa signora sconvolta
dal dolore: «Se stabiliamo il precedente che ciascun parente può essere
ricevuto più di una volta, il presidente rischia di dover passare gran parte del suo
tempo con i familiari delle vittime».
E' una decisione che qualcuno potrebbe rimpiangere. Perchè la signora Sheehan
si è intestardita, non è tornata a casa, ed è rimasta ad aspettare fuori dal
ranch per tutto l'agosto afoso del Texas: «Non me ne vado finchè non mi
riceve». Si è piazzata con una seggiolina pieghevole sulla strada, e col passare dei
giorni ha cominciato ad attrarre l'attenzione dei giornalisti. Forse perchè
d'estate non ci sono molte altre notizie, il suo caso è finito su tutte le
prime pagine. Contemporaneamente, i sondaggi per la prima volta hanno avvertito
che la maggioranza degli americani si sta stufando della guerra, e che non ha
più fiducia in Bush.
E' cominciata così una vera e propria sfida fra questa signora, impiegata in
una Usl vicino a San Francisco, e l'uomo più potente della Terra. Ormai è
diventata una questione di principio: se il presidente cede e la incontra, i
pacifisti la prenderebbero come una vittoria. Ma se non la vede potrebbe fare la
stessa fine di un altro presidente texano, Lyndon Johnson, che esattamente
quarant'anni fa, nell'estate '65, snobbò i manifestanti contro la guerra del
Vietnam davanti al suo ranch, ma tre anni dopo perse la Casa Bianca (e alla fine gli
Stati Uniti persero la guerra).
Attorno alla signora Sheehan si sono radunate prima centinaia, poi migliaia
di persone che stringono d'assedio il ranch. Sono arrivati personaggi famosi,
come la cantante antimilitarista Joan Baez che ha tenuto un concerto uguale a
quelli dei tempi del Vietnam. I consiglieri del presidente avevano respirato un
po' quando la Sheehan era dovuta tornare in California per assistere sua
madre che aveva avuto un infarto. Ma la tregua è durata soltanto qualche giorno.
Si sono mobilitati anche i sostenitori del presidente. Altre mamme di soldati
morti in Iraq si sono fatte intervistare, dicendosi favorevoli alla guerra.
Alcuni siti internet vicini al partito repubblicano si sono riempiti di veleni
contro la signora, definita «ex hippy fallita». In effetti la vita della
signora Sheehan dopo la morte del figlio non è più la stessa. La Usl l'ha
licenziata per troppe assenze. Il marito l'ha mollata in giugno perchè non ce la faceva
più a sopportare il dolore ossessivo della moglie: «Io per superare
l’angoscia ho bisogno di distrarmi», ha detto, si è comprato due maggiolini Volkswagen
(che colleziona) e se n'è andato. Gli altri due figli, la 24enne Carly e il
21enne Andy, la appoggiano, ma ora le chiedono di tornare a casa.
Tuttavia, la signora Sheehan sta scuotendo l'America come nessuno era
riuscito a fare nei quattro anni che sono passati dall'11 settembre 2001.
«La verità è che queste guerre stanno costandoci troppo», spiega Linda Bilmes,
professoressa dell’università di Harvard: «Duemila americani uccisi, quasi quindicimila
feriti e mutilati. Ma anche il prezzo economico è alto, nascosto agli occhi
del pubblico, e bisognerà pagarlo anche dopo la fine delle guerre. In totale
sono mille miliardi di dollari. Per 45 anni dovremo dare sette miliardi all’anno
in pensioni d’invalidità a tutti i menomati fra il mezzo milione di soldati
che ha finora servito in Iraq. E dall’inizio della guerra, nel marzo 2003, il
prezzo del petrolio è raddoppiato».
Ma la cosa più grave, che provoca frustrazione anche fra i favorevoli alla
guerra, è che non si intravede una via d’uscita. Ormai anche qualche senatore
repubblicano, temendo di non essere rieletto, chiede una «exit strategy»
dall’Iraq. Il presidente Bush ammonisce: «Se tornassimo subito mancheremmo di
rispetto proprio ai soldati come Casey Sheehan che hanno dato la loro vita per la
patria. E anche fissare una data per il nostro rientro sarebbe un regalo per i
terroristi, ai quali non resterebbe che aspettare. No, dobbiamo rimanere finchè
gli iracheni non potranno difendersi da soli con le nuove forze armate e di
polizia che stiamo addestrando».
Casey era molto religioso, aveva fatto il chierichetto e avrebbe voluto
diventare assistente di qualche cappellano militare. Poi è partito volontario, ma
non ha voluto fare l’amore con la sua fidanzata: «Sarebbe poco serio, prima del
mio rientro e del matrimonio». La signora Sheehan ricorda il suo imbarazzo:
«”Non potrò certo dire ai miei colleghi che sono ancora vergine...”, mi diceva».
A Genova per secoli c’è stata la figura della «pittima»: una persona che
seguiva costantemente ciascun debitore in ogni strada, ricordando ad alta voce i
suoi impegni non mantenuti. Oggi la signora Sheehan si è assunta questo ruolo
nei confronti del presidente: vuole imbarazzarlo fino a fargli ammettere che
andare in Iraq è stata una mossa sbagliata. Sicuramente non ci riuscirà, ma è
altrettanto sicuro che il prezzo che lei sta facendo pagare a George Bush junior
per la sua testardaggine cresce di giorno in giorno.
Mauro Suttora
MIO FIGLIO E' MORTO PER TE: BUSH, SARO' LA TUA CROCE
La guerra di una madre-coraggio americana
Cindy Sheehan non ha piu' pace: suo figlio ha perso la vita in Iraq in un agguato. "La colpa e' del presidente che ha mandato a morire i nostri ragazzi in un conflitto insensato". E ora lo sfida: vuole diventare un incubo per lui. Finche' non ammettera' di avere sbagliato
Crawford (Stati Uniti), agosto
«Sono venuta a Crawford per mio figlio. Perchè finchè il presidente sta qui,
anche il mio posto è qui. E' lui che lo ha mandato a morire in una guerra
insensata. Sono arrivata un mese fa per una sola ragione: incontrare il presidente
e ottenere una sua risposta a questa semplice domanda: qual è la "nobile
causa" per la quale lui dice che mio figlio è morto? La risposta a questa domanda
non farà tornare indietro mio figlio. Ma potrebbe fermare altre morti senza
senso. Perchè ogni morte adesso non ha più senso. E la grande maggioranza del
nostro Paese lo sa. Quindi, perchè altri giovani devono morire? E perchè altri
parenti devono perdere i propri figli e passare il resto della vita con questo
lutto insopportabile?»
La signora Cindy Sheehan, 48 anni, non è una pacifista. Almeno non lo era
fino all'anno scorso, quando il suo figlio 24enne Casey è morto in Iraq. Ci era
arrivato da appena un mese, faceva il meccanico. Il 4 aprile 2004 si era spinto
in missione volontaria a Sadr City per salvare dei soldati feriti in
un'imboscata. Assieme a lui sono stati uccisi altri sei militari americani. Quel giorno
la signora Sheehan guardava la tv nella sua casa californiana: «Quando per
caso ho visto sulla Cnn un blindato che bruciava, ho capito d'istinto che Casey
era morto».
Anche la decisione di andare dalla California a Crawford (Texas) per chiedere
udienza al presidente George Bush junior in vacanza nel suo ranch l'ha presa
d'istinto. Lo aveva già incontrato due mesi dopo la morte di Casey, il
presidente. Ma in quell'occasione se ne era stata tranquilla. Bush ha concesso
udienza a 272 parenti dei duemila soldati statunitensi morti finora in Iraq e
Afghanistan. Per cui i suoi collaboratori hanno detto no a questa signora sconvolta
dal dolore: «Se stabiliamo il precedente che ciascun parente può essere
ricevuto più di una volta, il presidente rischia di dover passare gran parte del suo
tempo con i familiari delle vittime».
E' una decisione che qualcuno potrebbe rimpiangere. Perchè la signora Sheehan
si è intestardita, non è tornata a casa, ed è rimasta ad aspettare fuori dal
ranch per tutto l'agosto afoso del Texas: «Non me ne vado finchè non mi
riceve». Si è piazzata con una seggiolina pieghevole sulla strada, e col passare dei
giorni ha cominciato ad attrarre l'attenzione dei giornalisti. Forse perchè
d'estate non ci sono molte altre notizie, il suo caso è finito su tutte le
prime pagine. Contemporaneamente, i sondaggi per la prima volta hanno avvertito
che la maggioranza degli americani si sta stufando della guerra, e che non ha
più fiducia in Bush.
E' cominciata così una vera e propria sfida fra questa signora, impiegata in
una Usl vicino a San Francisco, e l'uomo più potente della Terra. Ormai è
diventata una questione di principio: se il presidente cede e la incontra, i
pacifisti la prenderebbero come una vittoria. Ma se non la vede potrebbe fare la
stessa fine di un altro presidente texano, Lyndon Johnson, che esattamente
quarant'anni fa, nell'estate '65, snobbò i manifestanti contro la guerra del
Vietnam davanti al suo ranch, ma tre anni dopo perse la Casa Bianca (e alla fine gli
Stati Uniti persero la guerra).
Attorno alla signora Sheehan si sono radunate prima centinaia, poi migliaia
di persone che stringono d'assedio il ranch. Sono arrivati personaggi famosi,
come la cantante antimilitarista Joan Baez che ha tenuto un concerto uguale a
quelli dei tempi del Vietnam. I consiglieri del presidente avevano respirato un
po' quando la Sheehan era dovuta tornare in California per assistere sua
madre che aveva avuto un infarto. Ma la tregua è durata soltanto qualche giorno.
Si sono mobilitati anche i sostenitori del presidente. Altre mamme di soldati
morti in Iraq si sono fatte intervistare, dicendosi favorevoli alla guerra.
Alcuni siti internet vicini al partito repubblicano si sono riempiti di veleni
contro la signora, definita «ex hippy fallita». In effetti la vita della
signora Sheehan dopo la morte del figlio non è più la stessa. La Usl l'ha
licenziata per troppe assenze. Il marito l'ha mollata in giugno perchè non ce la faceva
più a sopportare il dolore ossessivo della moglie: «Io per superare
l’angoscia ho bisogno di distrarmi», ha detto, si è comprato due maggiolini Volkswagen
(che colleziona) e se n'è andato. Gli altri due figli, la 24enne Carly e il
21enne Andy, la appoggiano, ma ora le chiedono di tornare a casa.
Tuttavia, la signora Sheehan sta scuotendo l'America come nessuno era
riuscito a fare nei quattro anni che sono passati dall'11 settembre 2001.
«La verità è che queste guerre stanno costandoci troppo», spiega Linda Bilmes,
professoressa dell’università di Harvard: «Duemila americani uccisi, quasi quindicimila
feriti e mutilati. Ma anche il prezzo economico è alto, nascosto agli occhi
del pubblico, e bisognerà pagarlo anche dopo la fine delle guerre. In totale
sono mille miliardi di dollari. Per 45 anni dovremo dare sette miliardi all’anno
in pensioni d’invalidità a tutti i menomati fra il mezzo milione di soldati
che ha finora servito in Iraq. E dall’inizio della guerra, nel marzo 2003, il
prezzo del petrolio è raddoppiato».
Ma la cosa più grave, che provoca frustrazione anche fra i favorevoli alla
guerra, è che non si intravede una via d’uscita. Ormai anche qualche senatore
repubblicano, temendo di non essere rieletto, chiede una «exit strategy»
dall’Iraq. Il presidente Bush ammonisce: «Se tornassimo subito mancheremmo di
rispetto proprio ai soldati come Casey Sheehan che hanno dato la loro vita per la
patria. E anche fissare una data per il nostro rientro sarebbe un regalo per i
terroristi, ai quali non resterebbe che aspettare. No, dobbiamo rimanere finchè
gli iracheni non potranno difendersi da soli con le nuove forze armate e di
polizia che stiamo addestrando».
Casey era molto religioso, aveva fatto il chierichetto e avrebbe voluto
diventare assistente di qualche cappellano militare. Poi è partito volontario, ma
non ha voluto fare l’amore con la sua fidanzata: «Sarebbe poco serio, prima del
mio rientro e del matrimonio». La signora Sheehan ricorda il suo imbarazzo:
«”Non potrò certo dire ai miei colleghi che sono ancora vergine...”, mi diceva».
A Genova per secoli c’è stata la figura della «pittima»: una persona che
seguiva costantemente ciascun debitore in ogni strada, ricordando ad alta voce i
suoi impegni non mantenuti. Oggi la signora Sheehan si è assunta questo ruolo
nei confronti del presidente: vuole imbarazzarlo fino a fargli ammettere che
andare in Iraq è stata una mossa sbagliata. Sicuramente non ci riuscirà, ma è
altrettanto sicuro che il prezzo che lei sta facendo pagare a George Bush junior
per la sua testardaggine cresce di giorno in giorno.
Mauro Suttora
Monday, August 22, 2005
Ristoranti di New York
mensile Dove, agosto 2005
CENA IN PALCOSCENICO
La nuova hit parade gastronomica? Drink sui grattacieli, ristoranti nel quartiere dei macellai, cucina italiana in rialzo. Tutti gli indirizzi per mangiare bene e pagare il giusto. In posti scenografici
Sono oltre 15.000 i ristoranti di New York, industria fondamentale per una città che pranza poco a casa. Ogni anno ne aprono circa 300, e altrettanti chiudono i battenti. "A molti newyorkesi la buona cucina non basta", dice Ruth Reichl, direttore della rivista 'Gourmet', forse il critico gastronomico più famoso degli Usa. "Per loro, andare al ristorante è come andare a teatro, si aspettano un'intera serata di intrattenimento. e sono pronti a giurare amore eterno ai locali che sanno offrire qualità ed effervescenza continue". Dove spesso gli stranieri si divertono, sì, ma per la cucina preferiscono locali dove andare a colpo sicuro e che si sono fatti la reputazione di nuovi classici. Apprezzati da tempo, sono sempre alla moda e uniscono buona cucina, clientela à la page e prezzi corretti. Differenti dai classici-classici come Daniel o Alain Ducasse perchè più creativi e meno impegnativi. Alcuni poi sono di apertura recente, ma grazie alla fama dei cuochi vengono considerati già degli instant classic, destinati a caratterizzare la tavola di New York per il futuro.
Aperitivi con vista
Il vero new style? I tipici aperitivi e la cena con vista. Perchè New York va gustata dall'alto. Altrimenti, a che servono tutti i suoi grattacieli? Lo spettacolo mozzafiato del momento è quello di Central Park visto dal quarantesimo piano delle nuove torri Time Warner, a Columbus Circle. Per ammirarlo bisogna salire al bar di un albergo, il Mandarin Oriental (entrata dalla 60esima strada). La reception si trova al 35esimo piano, con la Lounge, il MObar e il ristorante giapponese Asiate. Per un assaggio di aperitivi basta la prima, accomodatevi il più vicino possibile alla vetrata. Evitate il secondo perchè non ha finestre.
Subito dopo, in un'ipotetica classifica delle viste più inebrianti di New York, c'è il Ge (General Electric) Building, il grattacielo più alto del Rockefeller Center. Si sale al sessantaseiesimo piano di questo gioiello degli anni Trenta, con l'ascensore express che arriva direttamente alla leggendaria Rainbow Room, senza mai fermarsi. Dal 1999 il locale, che occupa gli ultimi due piani del palazzo, è gestito dalla famiglia Cipriani. Il settantenne Arrigo e il figlio Giuseppe hanno trasferito in cima alla capitale del mondo la stessa raffinatezza ovattata dell'Harry's Bar di Venezia, con aperitivi famosi come il Bellini, piatti altrettanto noti come il carpaccio e le altre leccornie. Il massimo è arrivare a cavallo del tramonto, per ammirare la città nel passaggio fra il giorno e la notte. Non c'è bisogno di cenare, basta fermarsi a uno dei tavoli riservati all'aperitivo, o al bancone del bar. La vetrata dà a sud: di fronte svetta l'Empire, dietro in lontananza i grattacieli di Wall Street. Provate a curiosare anche sul lato nord, per vedere Central Park, o verso ovest sul fiume Hudson.
A cinque isolati dal Rockefeller Center, sulla 55esima Strada all'angolo con la Quinta Avenue, c'è poi l'hotel Peninsula, che proprio in questo 2005 festeggia cent'anni. Il suo Pen-Top Bar è molto più basso della Rainbow Room (sta al 23esimo piano), ma in compenso offre anche due terrazze all'aperto. E il colpo d'occhio sulla Fifth Avenue lascia senza respiro, con il palazzo Playboy a nord e i grattacieli Sony e Citicorp a est. Occhio ai prezzi: per un Apple Martini si pagano venti dollari, ma volendo se ne possono scialacquare 75 per un cocktail Dolce Far Niente. Dal piano terra si raggiunge l'ascensore alla fine di un corridoio sulla destra dell'albergo, con accesso anche diretto dalla strada.
Infine, provate i nuovi locali concentrati al quarto piano delle torri Time Warner. Non così in alto come il 35º del Mandarin Oriental, ma con vista egualmente piacevole. Uno accanto all'altro ci sono il bar Stone Rose, sempre pieno di attraenti fanciulle, il ristorante giapponese Masa, la V Steakhouse del celebre chef Jean-George Vongerichten (a New York i grandi cuochi sono star riverite) e il "fusion" Per Se di Thomas Keller.
Quello con il miglior rapporto qualità-prezzo è il Cafè Gray, che prende il nome dal cuoco Gray Kuntz. Il menù è «francese rustico», consigliabili il vitel tonnato e le costatine di manzo (short ribs) marinate in salsa dolce mango-tamarindo. Due consigli: per godere del panorama meglio andarci di giorno, perchè col buio la luce della cucina in vista si riflette sui vetri creando un effetto specchio; e prenotate in anticipo.
In fatto di di prenotazioni, i ristoranti newyorkesi possono causare dolori. Di venerdì e sabato è quasi impossibile trovar posto nei locali buoni o "trendy" (le due caratteristiche non coincidono, occhio alla mania americana per le "novità"). Fate quindi qualche telefonata qualche settimana prima di partire, se avete una meta irrinunciabile.
Italiani di successo e bistrot
Il New York Times Magazine ha pubblicato a maggio un articolo di due pagine sui trucchi per ottenere un tavolo da Babbo. Il suo chef e padrone, l'italoamericano Mario Batali, è stato consacrato quest'anno miglior cuoco degli Stati Uniti dalla Beard Foundation, l'accademia gastronomica più prestigiosa degli Usa: è quindi d'obbligo una visita nel suo locale, vicino a Washington Square, con un assaggio alle lingue di agnello in vinaigrette di tartufo nero, ai ravioli, alle crostate di pinoli e semifreddi di pistacchio e cioccolato. Aperto nel 1998, Babbo è ormai un classico, ma anche un posto alla moda. Bisogna prenotare un mese prima.
Più alla mano Beppe di Cesare Casella, nel raffinato quartiere di Gramercy Park. Gli antipasti di crostini, cozze o salsicce (da maiali allevati nella sua fattoria americana), le paste (pinci, norcino, pepolino), e poi branzini, quaglie, bistecche: tutto riporta alla ricchezza della trattoria toscana. Casella proprio il mese scorso ha aperto il ristorante Maremma, sulla Decima Strada West, che propone un mix di cucina toscana e texana.
Il Pastis resta il locale-principe del quartiere più "in" per le sere di Manhattan: il Meatpacking district. L'antesignano Keith McNally ebbe il coraggio di aprirlo quando la zona era ancora piena di macellerie all'ingrosso, depositi e magazzini. E questa brasserie francese è sempre affollata di belle donne furibonde perchè sono appena inciampate con i loro tacchi sul porfido irregolare della Nona Avenue. Non si va al Pastis per mangiare sopraffino, ma per godere dell'atmosfera, vedere e farsi vedere.
Stesso discorso per il ristorante-gemello Balthazar, a Soho: inossidabile dai tempi del boom della net-economy e di "Sex and the City", la dolce vita degli anni Zero la trovate qui. "E' il modo più veloce per andare a Parigi ora che non c'è più il Concorde", cameriere belle come attrici, qualcuna ce la fa.
Ma, tornando al quartiere Meatpacking, da raccomandare è Florent su Gansevoort Street, strada che conserva l'antico nome olandese: aperto 24 ore su 24 da un francese vero, ci trovate meno puzza sotto il naso e prezzi eccellenti. Atmosfera da bistrot più che da brasserie, menù franco-americano, artisti e intellettuali si mischiano a miliardari travestiti da barboni, e alle modelle che vi si rifugiano per un boccone alle quattro di notte dopo la discoteca. Hamburgers, minestre di cipolla, lumache, budini neri e insalate niçoise servite su tavoli di fòrmica.
Se invece ricercate lo chic asiatico fusion, due isolati più a nord c'è lo Spice Market, aperto nel 2004 da Vongerichten. E' uno spazio enorme, a due piani, simile alla fumeria d'oppio dove finì Robert De Niro in "C'era una volta in America". Involtini d'uovo ai funghi sgocciolanti salsa galangal, cozze dolci al vapore con basilico thailandese e succo di cocco, fino a temibili ali di pollo fritte con salsa di lime e pesce, più fette di mango: l'estremo oriente sarà vostro. Evitate il tonno con la tapioca, la pescatrice (monkfish) glassata con tamarindo ghiacciato e altre stranezze.
Per un più classico francovietnamita converrà dirigersi a NoHo (Nord di Houston Street), nel vecchio ma sempre valido Indochine. Qui il cuoco cambogiano Huy Chi Le vi servirà involtini primavera caldi e croccanti, con tutti gli ingredienti interni ben identificabili: funghi, pasta, carne di maiale, carote. Da provare anche la sogliola avvolta in una foglia di banano, con ricco curry al latte di cocco. E ci si può comunque sempre rifugiare in un filet mignon. Confini est-ovest infranti anche nella scelta dei dolci: si va dalla banana arrosto con riso alle torte francesi al limone. Un piccolo segreto: fino alle sette di sera menù pre-teatro a 25 dollari.
Pranzare al museo
Anche il coté culturale dei soggiorni newyorkesi va accompagnato da cibo di qualità. E se la "cafeteria" (mensa) sotterranea del Metropolitan Museum è trascurabile, interessante risulta invece l'offerta proposta dal MoMA riaperto otto mesi fa. Il museo ha ben tre ristoranti al proprio interno.
Al piano terra c'è il Modern, locale di lusso aperto anche a clienti che non visitano il museo, i quali hanno un ingresso separato direttamente dalla strada dopo l'orario di chiusura. Il giapponese Yoshio Taniguchi, progettista del nuovo MoMA, ha conservato la disposizione originale dall'architetto Philip Johnson nel '53: sono affascinanti le finestrone del ristorante a tutta altezza sul Giardino delle sculture con i Rodin e i Giacometti.
Il Cafe 2, al secondo piano, è una trattoria italiana: clima informale, prezzi più bassi, bar dove si può ordinare un veloce espresso al banco. Al quinto piano, infine, c'è la Terrace, caffè più intimo con selezione di dolci, cioccolato, sandwich e vino, cocktail, caffè e the.
Molti visitatori del MoMA escono dal retro, sulla 54esima Strada, per andare da Il Gattopardo di Gianfranco Sorrentino, che negli anni '90 gestiva il ristorante interno del museo, e per gustarne le polpette di carne, i carciofi alla parmigiana e la mozzarella affumicata.
Ottimo anche il Café Sabarsky ospitato all'interno della Neue Galerie, museo austro-tedesco situato proprio a metà strada fra il Guggenheim e il Met: un pezzo di Vienna sulla Quinta Avenue. Ma siamo in America, e allora fra i classici occorre inserire il tempio dell'hamburger (Corner Bistro, piccolo e buio locale del West Village che li serve su piatti di carta) e quello della bistecca: Maloney & Porcelli, enorme steakhouse su due piani dove, viste le dimensioni (e i prezzi) delle portate conviene arrivare con lo stomaco ben vuoto.
Pizze e celebrity spotting
Tutti ci vergogniamo ad ammetterlo, ma New York è il posto ideale per incontrare un vip che ci sta mangiando accanto. Ciò può avvenire in tutti i posti che vi abbiamo segnalato, ma per una chance in più provate al Bar Pitti, nel Village. Ai tavoli di legno apparecchiati da Giovanni siedono spesso attori, registi, musicisti. Se li riconoscete, però, siate newyorkesi fino in fondo: fate finta di niente, reprimete ogni richiesta di autografo o foto. E intanto, apprezzate le melanzane alla parmigiana e il resto del menù scritto sulle lavagne.
Gli altri classici del "celebrity spotting" sono la Mercer Kitchen e il Cipriani Downtown, entrambi a Soho. A qualsiasi ora del giorno a fino a tarda sera è possibile imbattersi in Nicole Kidman o in Jack Nicholson. Particolarmente ambiti, da Cipriani, i tavoli all'aperto durante la bella stagione.
A New York si possono mangiare buone pizze. Quelle di John's Pizzeria sono ormai un classico, specialmente nel ristorante di Bleecker Street (uno dei tre, a Manhattan). Numerose sono anche le location di Serafina. Quella all'angolo di Broadway con la 55esima Strada è la quinta, e l'ultima aperta. Appena sbarcata a New York è anche la catena delle pizzerie Piola, nate a Treviso nel 1987 e poi dilagate in tutta l'America Latina. Le pizze hanno i nomi delle città italiane, con innumerevoli combinazioni di ingredienti.
Uno dei riti iperclassici di New York è il brunch. Nell'Upper East Side andate all'Atlantic Grill, grossa sala sulla Terza avenue che offre pesce meravigliosamente fresco ma lunghe code per gli sventurati che nonprenotano. Grande qualità a prezzo fisso anche al ristorante Riingo.
Il segreto ovunque, per gli amanti del brunch improvvisato, è arrivare sul presto (verso le 11). Nell'Upper West Side c'è Barney Greengrass, un negozio di pesce e storione aperto 97 anni fa che si è ampliato in ristorante (ma non per cena). I tavoli di alluminio conferiscono al posto un delizioso squallore fané anni '50, da macchina del tempo. Però la qualità è buona.
Se fa bel tempo, poi, è consigliabile avventurarsi nella Boat House di Central park, all'estremità est del lago con le barche. Posto romantico, oltre alle tradizionali uova e bacon offre insalate, gazpacho di gamberi, toast di mirtilli e mascarpone, nonchè frittate con salmone affumicato, spinaci e feta. Chi si trova downtown, invece, vada alla Blue Ribbon Bakery del Greenwich Village: non si può prenotare se si è in meno di cinque, ma il pasticcio di gamberi e pancetta vale il rischio di un'attesa. E l'arredamento è di gran gusto.
Mauro Suttora
CENA IN PALCOSCENICO
La nuova hit parade gastronomica? Drink sui grattacieli, ristoranti nel quartiere dei macellai, cucina italiana in rialzo. Tutti gli indirizzi per mangiare bene e pagare il giusto. In posti scenografici
Sono oltre 15.000 i ristoranti di New York, industria fondamentale per una città che pranza poco a casa. Ogni anno ne aprono circa 300, e altrettanti chiudono i battenti. "A molti newyorkesi la buona cucina non basta", dice Ruth Reichl, direttore della rivista 'Gourmet', forse il critico gastronomico più famoso degli Usa. "Per loro, andare al ristorante è come andare a teatro, si aspettano un'intera serata di intrattenimento. e sono pronti a giurare amore eterno ai locali che sanno offrire qualità ed effervescenza continue". Dove spesso gli stranieri si divertono, sì, ma per la cucina preferiscono locali dove andare a colpo sicuro e che si sono fatti la reputazione di nuovi classici. Apprezzati da tempo, sono sempre alla moda e uniscono buona cucina, clientela à la page e prezzi corretti. Differenti dai classici-classici come Daniel o Alain Ducasse perchè più creativi e meno impegnativi. Alcuni poi sono di apertura recente, ma grazie alla fama dei cuochi vengono considerati già degli instant classic, destinati a caratterizzare la tavola di New York per il futuro.
Aperitivi con vista
Il vero new style? I tipici aperitivi e la cena con vista. Perchè New York va gustata dall'alto. Altrimenti, a che servono tutti i suoi grattacieli? Lo spettacolo mozzafiato del momento è quello di Central Park visto dal quarantesimo piano delle nuove torri Time Warner, a Columbus Circle. Per ammirarlo bisogna salire al bar di un albergo, il Mandarin Oriental (entrata dalla 60esima strada). La reception si trova al 35esimo piano, con la Lounge, il MObar e il ristorante giapponese Asiate. Per un assaggio di aperitivi basta la prima, accomodatevi il più vicino possibile alla vetrata. Evitate il secondo perchè non ha finestre.
Subito dopo, in un'ipotetica classifica delle viste più inebrianti di New York, c'è il Ge (General Electric) Building, il grattacielo più alto del Rockefeller Center. Si sale al sessantaseiesimo piano di questo gioiello degli anni Trenta, con l'ascensore express che arriva direttamente alla leggendaria Rainbow Room, senza mai fermarsi. Dal 1999 il locale, che occupa gli ultimi due piani del palazzo, è gestito dalla famiglia Cipriani. Il settantenne Arrigo e il figlio Giuseppe hanno trasferito in cima alla capitale del mondo la stessa raffinatezza ovattata dell'Harry's Bar di Venezia, con aperitivi famosi come il Bellini, piatti altrettanto noti come il carpaccio e le altre leccornie. Il massimo è arrivare a cavallo del tramonto, per ammirare la città nel passaggio fra il giorno e la notte. Non c'è bisogno di cenare, basta fermarsi a uno dei tavoli riservati all'aperitivo, o al bancone del bar. La vetrata dà a sud: di fronte svetta l'Empire, dietro in lontananza i grattacieli di Wall Street. Provate a curiosare anche sul lato nord, per vedere Central Park, o verso ovest sul fiume Hudson.
A cinque isolati dal Rockefeller Center, sulla 55esima Strada all'angolo con la Quinta Avenue, c'è poi l'hotel Peninsula, che proprio in questo 2005 festeggia cent'anni. Il suo Pen-Top Bar è molto più basso della Rainbow Room (sta al 23esimo piano), ma in compenso offre anche due terrazze all'aperto. E il colpo d'occhio sulla Fifth Avenue lascia senza respiro, con il palazzo Playboy a nord e i grattacieli Sony e Citicorp a est. Occhio ai prezzi: per un Apple Martini si pagano venti dollari, ma volendo se ne possono scialacquare 75 per un cocktail Dolce Far Niente. Dal piano terra si raggiunge l'ascensore alla fine di un corridoio sulla destra dell'albergo, con accesso anche diretto dalla strada.
Infine, provate i nuovi locali concentrati al quarto piano delle torri Time Warner. Non così in alto come il 35º del Mandarin Oriental, ma con vista egualmente piacevole. Uno accanto all'altro ci sono il bar Stone Rose, sempre pieno di attraenti fanciulle, il ristorante giapponese Masa, la V Steakhouse del celebre chef Jean-George Vongerichten (a New York i grandi cuochi sono star riverite) e il "fusion" Per Se di Thomas Keller.
Quello con il miglior rapporto qualità-prezzo è il Cafè Gray, che prende il nome dal cuoco Gray Kuntz. Il menù è «francese rustico», consigliabili il vitel tonnato e le costatine di manzo (short ribs) marinate in salsa dolce mango-tamarindo. Due consigli: per godere del panorama meglio andarci di giorno, perchè col buio la luce della cucina in vista si riflette sui vetri creando un effetto specchio; e prenotate in anticipo.
In fatto di di prenotazioni, i ristoranti newyorkesi possono causare dolori. Di venerdì e sabato è quasi impossibile trovar posto nei locali buoni o "trendy" (le due caratteristiche non coincidono, occhio alla mania americana per le "novità"). Fate quindi qualche telefonata qualche settimana prima di partire, se avete una meta irrinunciabile.
Italiani di successo e bistrot
Il New York Times Magazine ha pubblicato a maggio un articolo di due pagine sui trucchi per ottenere un tavolo da Babbo. Il suo chef e padrone, l'italoamericano Mario Batali, è stato consacrato quest'anno miglior cuoco degli Stati Uniti dalla Beard Foundation, l'accademia gastronomica più prestigiosa degli Usa: è quindi d'obbligo una visita nel suo locale, vicino a Washington Square, con un assaggio alle lingue di agnello in vinaigrette di tartufo nero, ai ravioli, alle crostate di pinoli e semifreddi di pistacchio e cioccolato. Aperto nel 1998, Babbo è ormai un classico, ma anche un posto alla moda. Bisogna prenotare un mese prima.
Più alla mano Beppe di Cesare Casella, nel raffinato quartiere di Gramercy Park. Gli antipasti di crostini, cozze o salsicce (da maiali allevati nella sua fattoria americana), le paste (pinci, norcino, pepolino), e poi branzini, quaglie, bistecche: tutto riporta alla ricchezza della trattoria toscana. Casella proprio il mese scorso ha aperto il ristorante Maremma, sulla Decima Strada West, che propone un mix di cucina toscana e texana.
Il Pastis resta il locale-principe del quartiere più "in" per le sere di Manhattan: il Meatpacking district. L'antesignano Keith McNally ebbe il coraggio di aprirlo quando la zona era ancora piena di macellerie all'ingrosso, depositi e magazzini. E questa brasserie francese è sempre affollata di belle donne furibonde perchè sono appena inciampate con i loro tacchi sul porfido irregolare della Nona Avenue. Non si va al Pastis per mangiare sopraffino, ma per godere dell'atmosfera, vedere e farsi vedere.
Stesso discorso per il ristorante-gemello Balthazar, a Soho: inossidabile dai tempi del boom della net-economy e di "Sex and the City", la dolce vita degli anni Zero la trovate qui. "E' il modo più veloce per andare a Parigi ora che non c'è più il Concorde", cameriere belle come attrici, qualcuna ce la fa.
Ma, tornando al quartiere Meatpacking, da raccomandare è Florent su Gansevoort Street, strada che conserva l'antico nome olandese: aperto 24 ore su 24 da un francese vero, ci trovate meno puzza sotto il naso e prezzi eccellenti. Atmosfera da bistrot più che da brasserie, menù franco-americano, artisti e intellettuali si mischiano a miliardari travestiti da barboni, e alle modelle che vi si rifugiano per un boccone alle quattro di notte dopo la discoteca. Hamburgers, minestre di cipolla, lumache, budini neri e insalate niçoise servite su tavoli di fòrmica.
Se invece ricercate lo chic asiatico fusion, due isolati più a nord c'è lo Spice Market, aperto nel 2004 da Vongerichten. E' uno spazio enorme, a due piani, simile alla fumeria d'oppio dove finì Robert De Niro in "C'era una volta in America". Involtini d'uovo ai funghi sgocciolanti salsa galangal, cozze dolci al vapore con basilico thailandese e succo di cocco, fino a temibili ali di pollo fritte con salsa di lime e pesce, più fette di mango: l'estremo oriente sarà vostro. Evitate il tonno con la tapioca, la pescatrice (monkfish) glassata con tamarindo ghiacciato e altre stranezze.
Per un più classico francovietnamita converrà dirigersi a NoHo (Nord di Houston Street), nel vecchio ma sempre valido Indochine. Qui il cuoco cambogiano Huy Chi Le vi servirà involtini primavera caldi e croccanti, con tutti gli ingredienti interni ben identificabili: funghi, pasta, carne di maiale, carote. Da provare anche la sogliola avvolta in una foglia di banano, con ricco curry al latte di cocco. E ci si può comunque sempre rifugiare in un filet mignon. Confini est-ovest infranti anche nella scelta dei dolci: si va dalla banana arrosto con riso alle torte francesi al limone. Un piccolo segreto: fino alle sette di sera menù pre-teatro a 25 dollari.
Pranzare al museo
Anche il coté culturale dei soggiorni newyorkesi va accompagnato da cibo di qualità. E se la "cafeteria" (mensa) sotterranea del Metropolitan Museum è trascurabile, interessante risulta invece l'offerta proposta dal MoMA riaperto otto mesi fa. Il museo ha ben tre ristoranti al proprio interno.
Al piano terra c'è il Modern, locale di lusso aperto anche a clienti che non visitano il museo, i quali hanno un ingresso separato direttamente dalla strada dopo l'orario di chiusura. Il giapponese Yoshio Taniguchi, progettista del nuovo MoMA, ha conservato la disposizione originale dall'architetto Philip Johnson nel '53: sono affascinanti le finestrone del ristorante a tutta altezza sul Giardino delle sculture con i Rodin e i Giacometti.
Il Cafe 2, al secondo piano, è una trattoria italiana: clima informale, prezzi più bassi, bar dove si può ordinare un veloce espresso al banco. Al quinto piano, infine, c'è la Terrace, caffè più intimo con selezione di dolci, cioccolato, sandwich e vino, cocktail, caffè e the.
Molti visitatori del MoMA escono dal retro, sulla 54esima Strada, per andare da Il Gattopardo di Gianfranco Sorrentino, che negli anni '90 gestiva il ristorante interno del museo, e per gustarne le polpette di carne, i carciofi alla parmigiana e la mozzarella affumicata.
Ottimo anche il Café Sabarsky ospitato all'interno della Neue Galerie, museo austro-tedesco situato proprio a metà strada fra il Guggenheim e il Met: un pezzo di Vienna sulla Quinta Avenue. Ma siamo in America, e allora fra i classici occorre inserire il tempio dell'hamburger (Corner Bistro, piccolo e buio locale del West Village che li serve su piatti di carta) e quello della bistecca: Maloney & Porcelli, enorme steakhouse su due piani dove, viste le dimensioni (e i prezzi) delle portate conviene arrivare con lo stomaco ben vuoto.
Pizze e celebrity spotting
Tutti ci vergogniamo ad ammetterlo, ma New York è il posto ideale per incontrare un vip che ci sta mangiando accanto. Ciò può avvenire in tutti i posti che vi abbiamo segnalato, ma per una chance in più provate al Bar Pitti, nel Village. Ai tavoli di legno apparecchiati da Giovanni siedono spesso attori, registi, musicisti. Se li riconoscete, però, siate newyorkesi fino in fondo: fate finta di niente, reprimete ogni richiesta di autografo o foto. E intanto, apprezzate le melanzane alla parmigiana e il resto del menù scritto sulle lavagne.
Gli altri classici del "celebrity spotting" sono la Mercer Kitchen e il Cipriani Downtown, entrambi a Soho. A qualsiasi ora del giorno a fino a tarda sera è possibile imbattersi in Nicole Kidman o in Jack Nicholson. Particolarmente ambiti, da Cipriani, i tavoli all'aperto durante la bella stagione.
A New York si possono mangiare buone pizze. Quelle di John's Pizzeria sono ormai un classico, specialmente nel ristorante di Bleecker Street (uno dei tre, a Manhattan). Numerose sono anche le location di Serafina. Quella all'angolo di Broadway con la 55esima Strada è la quinta, e l'ultima aperta. Appena sbarcata a New York è anche la catena delle pizzerie Piola, nate a Treviso nel 1987 e poi dilagate in tutta l'America Latina. Le pizze hanno i nomi delle città italiane, con innumerevoli combinazioni di ingredienti.
Uno dei riti iperclassici di New York è il brunch. Nell'Upper East Side andate all'Atlantic Grill, grossa sala sulla Terza avenue che offre pesce meravigliosamente fresco ma lunghe code per gli sventurati che nonprenotano. Grande qualità a prezzo fisso anche al ristorante Riingo.
Il segreto ovunque, per gli amanti del brunch improvvisato, è arrivare sul presto (verso le 11). Nell'Upper West Side c'è Barney Greengrass, un negozio di pesce e storione aperto 97 anni fa che si è ampliato in ristorante (ma non per cena). I tavoli di alluminio conferiscono al posto un delizioso squallore fané anni '50, da macchina del tempo. Però la qualità è buona.
Se fa bel tempo, poi, è consigliabile avventurarsi nella Boat House di Central park, all'estremità est del lago con le barche. Posto romantico, oltre alle tradizionali uova e bacon offre insalate, gazpacho di gamberi, toast di mirtilli e mascarpone, nonchè frittate con salmone affumicato, spinaci e feta. Chi si trova downtown, invece, vada alla Blue Ribbon Bakery del Greenwich Village: non si può prenotare se si è in meno di cinque, ma il pasticcio di gamberi e pancetta vale il rischio di un'attesa. E l'arredamento è di gran gusto.
Mauro Suttora
Labels:
balthazar,
bar pitti,
baraonda,
cafè gray,
cipriani,
dove,
florent,
gattopardo,
indochine,
mandarin oriental,
mauro suttora,
meatpacking,
mercer kitchen,
pastis,
peninsula,
ristoranti new york,
sabarsky,
serafina
Marilyn Monroe
Oggi, mercoledi' 24 agosto 2005
Davvero Marilyn Monroe, sex symbol per milioni di uomini, era bisessuale?
Le trascrizioni delle sue sedute dallo psicanalista, rese note dall'ex magistrato di Los Angeles John Miner, rivelano che l'attrice ebbe un'avventura lesbica con Joan Crawford. Possibile che preferisse le donne?
"No, Marilyn non preferiva le donne", risponde Miner. "Lo dimostra tutta la sua vita, i suoi numerosi mariti, i numerosi amanti. Ma l'avventura di una sola notte con Joan Crawford, che aveva quasi vent'anni più di lei, effettivamente ebbe luogo. Io, come pubblico ministero della contea di Los Angeles, ebbi il compito di indagare sulla sua morte misteriosa a 36 anni. La trovammo nuda, sul suo letto a testa in giù. Presenziai all'autopsia, e il risultato fu che a ucciderla era stata una fortissima dose di barbiturici.
Con l'avanzare delle indagini conobbi il dottor Ralph Greenson, lo psicanalista che aveva in cura Marilyn. E lui mi fece ascoltare le registrazioni di tutte le sedute di terapia cui l'attrice si era sottoposta, aprendo la propria anima come a nessun altro. Le trascrissi fedelmente, quasi parola per parola, a un'unica condizione: che avrei potuto rivelarne il contenuto soltanto dopo la morte del dottor Greenson, il quale altrimenti avrebbe violato il segreto professionale cui era obbligato.
Ascoltando quelle ore e ore di confessioni intime, ma soprattutto le registrazioni delle ultime sedute avvenute pochi giorni prima della morte, mi convinsi che Marilyn non poteva essersi suicidata: era troppa la voglia di vivere che traspariva ancora dalle sue parole. Voleva studiare Shakespeare e trasformare in film molte delle sue commedie e tragedie. Quanto alla notte d'amore con la Crawford, che era di notorie tendenze bisessuali, Marilyn ne fa un resoconto dettagliato al suo dottore. Dice che quando arrivo' all'orgasmo la Crawford fu come un vulcano, si mise a urlare dal piacere. E che perciò, incontrandola di nuovo, le chiese di ripetere la piacevolissima esperienza. Ma Marilyn rifiutò, le rispose che le donne non le piacevano molto, e la Crawford si indispettì.
Lo stesso episodio è stato riportato pure nella biografia della Monroe scritta da Matthew Smith due anni fa. Ma c'è un particolare curioso: anche Brigitte Bardot nella propria autobiografia scrive che nel '52 Marilyn la «sedusse» nel bagno delle donne dopo un ricevimento della regina Elisabetta.
Davvero Marilyn Monroe, sex symbol per milioni di uomini, era bisessuale?
Le trascrizioni delle sue sedute dallo psicanalista, rese note dall'ex magistrato di Los Angeles John Miner, rivelano che l'attrice ebbe un'avventura lesbica con Joan Crawford. Possibile che preferisse le donne?
"No, Marilyn non preferiva le donne", risponde Miner. "Lo dimostra tutta la sua vita, i suoi numerosi mariti, i numerosi amanti. Ma l'avventura di una sola notte con Joan Crawford, che aveva quasi vent'anni più di lei, effettivamente ebbe luogo. Io, come pubblico ministero della contea di Los Angeles, ebbi il compito di indagare sulla sua morte misteriosa a 36 anni. La trovammo nuda, sul suo letto a testa in giù. Presenziai all'autopsia, e il risultato fu che a ucciderla era stata una fortissima dose di barbiturici.
Con l'avanzare delle indagini conobbi il dottor Ralph Greenson, lo psicanalista che aveva in cura Marilyn. E lui mi fece ascoltare le registrazioni di tutte le sedute di terapia cui l'attrice si era sottoposta, aprendo la propria anima come a nessun altro. Le trascrissi fedelmente, quasi parola per parola, a un'unica condizione: che avrei potuto rivelarne il contenuto soltanto dopo la morte del dottor Greenson, il quale altrimenti avrebbe violato il segreto professionale cui era obbligato.
Ascoltando quelle ore e ore di confessioni intime, ma soprattutto le registrazioni delle ultime sedute avvenute pochi giorni prima della morte, mi convinsi che Marilyn non poteva essersi suicidata: era troppa la voglia di vivere che traspariva ancora dalle sue parole. Voleva studiare Shakespeare e trasformare in film molte delle sue commedie e tragedie. Quanto alla notte d'amore con la Crawford, che era di notorie tendenze bisessuali, Marilyn ne fa un resoconto dettagliato al suo dottore. Dice che quando arrivo' all'orgasmo la Crawford fu come un vulcano, si mise a urlare dal piacere. E che perciò, incontrandola di nuovo, le chiese di ripetere la piacevolissima esperienza. Ma Marilyn rifiutò, le rispose che le donne non le piacevano molto, e la Crawford si indispettì.
Lo stesso episodio è stato riportato pure nella biografia della Monroe scritta da Matthew Smith due anni fa. Ma c'è un particolare curioso: anche Brigitte Bardot nella propria autobiografia scrive che nel '52 Marilyn la «sedusse» nel bagno delle donne dopo un ricevimento della regina Elisabetta.
Monday, August 08, 2005
Nicole Kidman
Oggi, mercoledi 10 agosto 2005
Sopravvivere senza Cruise. La Kidman racconta la grande crisi
DOPO TOM VOLEVO SOLO IL PIGIAMA
Nel 2001 l'attore si separo' dalla splendida Nicole. E lei entro' nel tunnel della depressione: "Vivevo in vestaglia anche quando accompagnavo i figli a scuola". Poi s'è tuffata nel lavoro...
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti)
La donna più bella del mondo non trova un uomo, è sola e racconta la sua sofferenza. «Dopo la separazione con Tom Cruise nel 2001», confessa Nicole Kidman, «per mesi e mesi sono rimasta in pigiama. Vestita così accompagnavo in auto i miei figli a scuola e cucinavo a casa. Non avevo voglia di vestirmi, neanche di darmi una sistemata ai capelli e di truccarmi. Mi chiedevo: "A chi interessa?"
Negli ultimi quattro anni l'attrice è stata legata sentimentalmente al musicista di colore Lenny Kravitz e al miliardario Steve Bing (padre del figlio di Elizabeth Hurley). Ha avuto un'avventura con il cantante inglese Robbie Williams. Recentemente ha frequentato il magnate francese della moda François Pinault. Ma alla fine tutti questi rapporti non sono approdati a nulla: non era vero amore. Anche perchè Nicole sembra aver conferito ai suoi due figli adottivi, Isabella, 12, e Connor, 10, un diritto di veto su ogni proprio nuovo fidanzato: «Dico sempre che siamo in tre a decidere, lui deve piacere anche a loro». E per la verità non è finita qui: il povero aspirante signor Kidman, infatti, deve passare l'esame anche con padre, madre e sorella di Nicole, tutti preoccupati che dopo l'abbandono di Cruise lei non venga più ferita. «Lo so, sembra un po' stupido visto che ho 38 anni», ammette lei, «ma mio padre dice che non vuole più passare attraverso un periodo simile».
Insomma, con l'intera famiglia Kidman traumatizzata, è veramente difficile che la bionda diva possa lasciarsi andare con un uomo. E così si è tuffata nel lavoro. Negli ultimi due anni ha recitato in ben otto film, e altri quattro sono previsti per il 2005. In questi giorni è a New York, dove interpreta la fotografa Diane Arbus in Fur (Pelliccia). Dopo gli spot per Chanel, farà pubblicità agli orologi Omega. Ma tutta questa bulimia professionale non le ha ridotto lo stress: ha diminuito soltanto il tempo a disposizione per i figli. Perciò Nicole avverte che sta per mollare anche su questo fronte: «Presto sparirò, non mi vedrete per molto tempo. Mi prenderò uno, due anni di vacanza, non so: certo non darò il calendario ai giornalisti. Ma ce ne vorrà prima che torni sul set». Quindi, dopo le maternità di Julia Roberts e Gwyneth Paltrow, che le hanno fatte scomparire dallo schermo, anche l'altra superdiva contemporanea privilegierà la vita privata. Con la differenza che Julia e Gwyneth un marito ce l'hanno, mentre Nicole è sola come un cane.
Ormai alla fragile attrice australiana sembra stiano per saltare i nervi. Un mese fa si è ridotta a implorare, scherzando ma non troppo: «Alla persona che è destinata a venire a cercarmi e a trovarmi vorrei dire: fallo, ma fallo presto...» Non sono settimane facili, queste, per Nicole. Vede il suo ex Tom che dichiara entusiasta a mari e monti il proprio nuovo amore per l'attrice Katie Holmes, mentre lei è diventata sempre più sospettosa: «Ogni volta non riesco a non chiedermi quale sia il vero scopo degli uomini che mi corteggiano: vogliono solo possedermi, vogliono finire sui giornali? Ho bisogno di una persona normale, non interessata a queste cose».
Ora Nicole ha comprato una casa vicinissima a quella di Tom a Beverly Hills (Los Angeles): per il bene dei figli, i quali così non dovranno viaggiare per passare da una custodia all'altra. E' questo, forse, l'unico successo di questi anni: nonostante le ruggini del divorzio, la Kidman e Cruise hanno sempre messo i figli al primo posto, non facendo pagar loro il prezzo della propria separazione, o peggio, usandoli contro l'ex coniuge.
Mauro Suttora
Sopravvivere senza Cruise. La Kidman racconta la grande crisi
DOPO TOM VOLEVO SOLO IL PIGIAMA
Nel 2001 l'attore si separo' dalla splendida Nicole. E lei entro' nel tunnel della depressione: "Vivevo in vestaglia anche quando accompagnavo i figli a scuola". Poi s'è tuffata nel lavoro...
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti)
La donna più bella del mondo non trova un uomo, è sola e racconta la sua sofferenza. «Dopo la separazione con Tom Cruise nel 2001», confessa Nicole Kidman, «per mesi e mesi sono rimasta in pigiama. Vestita così accompagnavo in auto i miei figli a scuola e cucinavo a casa. Non avevo voglia di vestirmi, neanche di darmi una sistemata ai capelli e di truccarmi. Mi chiedevo: "A chi interessa?"
Negli ultimi quattro anni l'attrice è stata legata sentimentalmente al musicista di colore Lenny Kravitz e al miliardario Steve Bing (padre del figlio di Elizabeth Hurley). Ha avuto un'avventura con il cantante inglese Robbie Williams. Recentemente ha frequentato il magnate francese della moda François Pinault. Ma alla fine tutti questi rapporti non sono approdati a nulla: non era vero amore. Anche perchè Nicole sembra aver conferito ai suoi due figli adottivi, Isabella, 12, e Connor, 10, un diritto di veto su ogni proprio nuovo fidanzato: «Dico sempre che siamo in tre a decidere, lui deve piacere anche a loro». E per la verità non è finita qui: il povero aspirante signor Kidman, infatti, deve passare l'esame anche con padre, madre e sorella di Nicole, tutti preoccupati che dopo l'abbandono di Cruise lei non venga più ferita. «Lo so, sembra un po' stupido visto che ho 38 anni», ammette lei, «ma mio padre dice che non vuole più passare attraverso un periodo simile».
Insomma, con l'intera famiglia Kidman traumatizzata, è veramente difficile che la bionda diva possa lasciarsi andare con un uomo. E così si è tuffata nel lavoro. Negli ultimi due anni ha recitato in ben otto film, e altri quattro sono previsti per il 2005. In questi giorni è a New York, dove interpreta la fotografa Diane Arbus in Fur (Pelliccia). Dopo gli spot per Chanel, farà pubblicità agli orologi Omega. Ma tutta questa bulimia professionale non le ha ridotto lo stress: ha diminuito soltanto il tempo a disposizione per i figli. Perciò Nicole avverte che sta per mollare anche su questo fronte: «Presto sparirò, non mi vedrete per molto tempo. Mi prenderò uno, due anni di vacanza, non so: certo non darò il calendario ai giornalisti. Ma ce ne vorrà prima che torni sul set». Quindi, dopo le maternità di Julia Roberts e Gwyneth Paltrow, che le hanno fatte scomparire dallo schermo, anche l'altra superdiva contemporanea privilegierà la vita privata. Con la differenza che Julia e Gwyneth un marito ce l'hanno, mentre Nicole è sola come un cane.
Ormai alla fragile attrice australiana sembra stiano per saltare i nervi. Un mese fa si è ridotta a implorare, scherzando ma non troppo: «Alla persona che è destinata a venire a cercarmi e a trovarmi vorrei dire: fallo, ma fallo presto...» Non sono settimane facili, queste, per Nicole. Vede il suo ex Tom che dichiara entusiasta a mari e monti il proprio nuovo amore per l'attrice Katie Holmes, mentre lei è diventata sempre più sospettosa: «Ogni volta non riesco a non chiedermi quale sia il vero scopo degli uomini che mi corteggiano: vogliono solo possedermi, vogliono finire sui giornali? Ho bisogno di una persona normale, non interessata a queste cose».
Ora Nicole ha comprato una casa vicinissima a quella di Tom a Beverly Hills (Los Angeles): per il bene dei figli, i quali così non dovranno viaggiare per passare da una custodia all'altra. E' questo, forse, l'unico successo di questi anni: nonostante le ruggini del divorzio, la Kidman e Cruise hanno sempre messo i figli al primo posto, non facendo pagar loro il prezzo della propria separazione, o peggio, usandoli contro l'ex coniuge.
Mauro Suttora
Giuseppe Cipriani, successo a New York
Smentite e rivelazioni di Giuseppe Cipriani, il re della dolce vita newyorkese
IO E SIMONA VENTURA?
BUGIE, AMO UNA MODELLA DI 29 ANNI
"Simona è solo un'amica, ci siamo incontrati al mare, tutto qui". L'irresistibile ascesa dell'ex genero di Gardini, ora fidanzato con Carolina Parsons, socio di Briatore e proprietario dei ristoranti più alla moda di Manhattan
dal corrispondente a New York Mauro Suttora
Oggi, 10 agosto 2005
Anche Giuseppe, 40 anni, è scontroso. Non ama i giornalisti, custodisce con cura la propria vita privata. Figurarsi quindi dieci giorni fa, quando qualche rotocalco italiano lo ha spacciato come il nuovo uomo di Simona Ventura.
Non si è preoccupato neppure di smentire. Per lui lo fa la sua pierre di New York, Stefania Girombelli: «Bufala totale, Giuseppe è felicemente fidanzato da quattro anni con una modella cilena qui a New York».
Understatement: Carolina Parsons, 29 anni, è «la» modella del Cile, famosa nel suo Paese quanto Valeria Mazza lo è nella vicina Argentina. Amiche e vicine di casa, le due bellezze sudamericane, e ad ogni Capodanno ospiti della magione Cipriani a Punta Del Este, la Portofino dell'Uruguay.
Giuseppe Cipriani si muove con disinvoltura e familiarità nel jet set internazionale. Pochi mesi fa lui e Carolina erano invitati al matrimonio americano del secolo (per ora): quello di Donald Trump in Florida con la sua Melania Knauss, modella slovena pure lei amica di Carolina.
Ma è rimasto in ottimi rapporti anche con Ivana, ex di Trump, ed è gran compare dell'ex di Ivana, il principe Roffredo Gaetani Lovatelli d'Aragona, il quale a sua volta era l'uomo di fiducia di Gianni Agnelli a New York. E tutto questo giro vorticoso di uomini ricchissimi e donne bellissime si ritrova a ogni pranzo nel ristorante Cipriani sulla Quinta Avenue, davanti a Central Park, e ogni sera in quello di Soho, a West Broadway.
Lì si celebra il trionfo del Bellini, l'aperitivo prosecco/succo di pesca che è il simbolo dell'Harry's Bar di Venezia: inventato da nonno Giuseppe nel 1931, e assaporato da clienti come Ernest Hemingway, Truman Capote, Orson Welles e Peggy Guggenheim.
Oggi le celebrità ai tavoli newyorkesi si chiamano Roberto Cavalli e Naomi Campbell, Leonardo DiCaprio e Nicole Kidman: tutti sono ghiotti di carpaccio e tartare di tonno.
«Donne con scollature troppo basse e uomini col portafogli troppo grosso», brontola qualche vecchio americano bigotto dell'Upper East Side, di quelli che corrono a dormire alle dieci, insinuando che le prime siano quasi tutte prezzolate e che per i secondi si tratti di un infernale miscuglio fra protettori, spacciatori e mafiosi.
Ma ormai lo stile stigmatizzato come «eurotrash» (spazzatura europea) dalle mummie benpensanti ha avuto la meglio, e ha conquistato le nuove generazioni del glamour statunitense.
Un giorno sì e uno no «Page Six», la rubrica gossip più famosa d'America, pubblica l'elenco dei personaggi apparsi la sera prima da Cipriani Downtown.
Poi ci sono le altre gemme dell'impero di famiglia, che ormai fattura sui 150 milioni di euro all'anno. In primis la Rainbow Room, mitico ristorante con salone per feste al 65esimo piano del grattacielo più alto del Rockefeller Center, con la migliore vista a 360 gradi sui tramonti di Manhattan.
Costruita negli anni Trenta e incastonata da tempo in tutte le guide turistiche, la Rainbow Room è stata conquistata dai Cipriani nel '99. Anche qui, per vendicarsi, qualche geloso newyorkese dell'establishment Wasp (White Anglo Saxon Protestant) ha messo in giro la voce che, per piegare i potenti sindacati dei camerieri, Giuseppe avrebbe fatto intervenire addirittura Cosa Nostra.
Di che cosa può essere accusato un italiano di successo negli Stati Uniti, se non appunto di essere un novello Soprano, affiliato al clan Gotti?
La verità è che la corporazione dei camerieri in America è così esosa che quasi tutti i ristoranti che impiegavano iscritti al sindacato hanno dovuto chiudere (compreso il più famoso di tutti, "Le Cirque" del lucchese Sirio Maccioni).
Stesso destino ha rischiato il Cipriani della Quinta Avenue, salvato in extremis poche settimane fa da un accordo che ha abbassato il costo del lavoro. Ma ormai la maggioranza dei ristoranti newyorkesi (una vera e propria industria, la maggiore della città) per sopravvivere è costretta ad arruolare sudamericani clandestini e studenti che campano di sole mance.
«Altro che dolce vita, io lavoro dalle nove del mattino alle due di notte», risponde Giuseppe Cipriani a chi lo definisce un playboy. Eppure quegli abbracci e baci alla Supersimo nazionale a Porto Cervo sono stati fotografati, non può negarli.
«Solo amici», tronca lui. Che si trovava in Costa Smeralda per un buon motivo, d'altronde: da due anni la cucina del Billionaire di Flavio Briatore è assicurata da Cipriani. Solo luglio e agosto, toccata e fuga, prezzi a livelli newyorkesi: cento euro a testa per il menù fisso al grill della piscina, ancora di più nel ristorante.
Ma il successo maggiore, attualmente, è quello dell'altra recente joint-venture con Briatore: il ristorante di Londra, che sforna 400 coperti al giorno e che è stato così lodato dal critico del quotidiano Independent: «Dalla più antica città commerciale del mondo (Venezia) ci è giunto l'export che avevano sempre aspettato».
Meglio così. Perchè quando una rubrica gastronomica newyorkese aveva invece azzardato una stroncatura, i Cipriani hanno ribattuto: «La prossima volta quel giornalista si levi il preservativo dalla bocca...»
«Ma ormai gli orizzonti di Giuseppe si stanno ampliando oltre la ristorazione», spiega il suo amico Paolo Zampolli, che lavora per Trump, «e grazie al suo brillante marketing si espandono nel settore immobiliare».
Cipriani, alleato al potente gruppo ebraico Witkoff, costruirà sul fiume Hudson il salone per ricevimenti più grande di New York. E nella nuova sala di Wall Street (un'ex banca) ospita una serie di concerti privati di prestigio, da Rod Stewart a Stevie Wonder, da Sheryl Crow ad Alicia Keys. Prezzo per un tavolo: centomila dollari.
Giuseppe Cipriani ha due figli avuti dalla ex moglie Eleonora Gardini, figlia di Raul, il padrone del gruppo Ferruzzi-Montedison suicidatosi nel '93: Ignazio, 17 anni, e Maggio, 14.
Quel matrimonio è finito. Ma l'ambitissimo cuore di Giuseppe sembra ancora saldamente occupato dalla bella Carolina cilena. La caccia al misterioso nuovo amore americano di Simona Ventura (sempre che ce ne sia mai stato uno) può continuare.
Mauro Suttora
IO E SIMONA VENTURA?
BUGIE, AMO UNA MODELLA DI 29 ANNI
"Simona è solo un'amica, ci siamo incontrati al mare, tutto qui". L'irresistibile ascesa dell'ex genero di Gardini, ora fidanzato con Carolina Parsons, socio di Briatore e proprietario dei ristoranti più alla moda di Manhattan
dal corrispondente a New York Mauro Suttora
Oggi, 10 agosto 2005
Essere figli di un padre famoso è sempre un problema. Che raddoppia quando si sceglie il suo stesso lavoro. E triplica quando si eredita la sua azienda. A meno che non si riesca a superarlo.
Giuseppe Cipriani ci sta riuscendo. Il figlio del mitico Arrigo, proprietario dell'Harry's Bar di Venezia sbarcato vent'anni fa a New York, è diventato il re delle notti di Manhattan grazie ai ben otto ristoranti e sale di gala aperti negli ultimi anni.
E' stato addirittura coniato un nuovo aggettivo, «ciprianesque», con cui gli americani invidiosi definiscono l'atmosfera di elegante dolce vita che si respira nei suoi locali.
«Ormai posso stare tranquillo, qui negli Stati Uniti c'è Giuseppe», sorride soddisfatto papà Arrigo, 72 anni, carattere non facile.
Anche Giuseppe, 40 anni, è scontroso. Non ama i giornalisti, custodisce con cura la propria vita privata. Figurarsi quindi dieci giorni fa, quando qualche rotocalco italiano lo ha spacciato come il nuovo uomo di Simona Ventura.
Non si è preoccupato neppure di smentire. Per lui lo fa la sua pierre di New York, Stefania Girombelli: «Bufala totale, Giuseppe è felicemente fidanzato da quattro anni con una modella cilena qui a New York».
Understatement: Carolina Parsons, 29 anni, è «la» modella del Cile, famosa nel suo Paese quanto Valeria Mazza lo è nella vicina Argentina. Amiche e vicine di casa, le due bellezze sudamericane, e ad ogni Capodanno ospiti della magione Cipriani a Punta Del Este, la Portofino dell'Uruguay.
Giuseppe Cipriani si muove con disinvoltura e familiarità nel jet set internazionale. Pochi mesi fa lui e Carolina erano invitati al matrimonio americano del secolo (per ora): quello di Donald Trump in Florida con la sua Melania Knauss, modella slovena pure lei amica di Carolina.
Ma è rimasto in ottimi rapporti anche con Ivana, ex di Trump, ed è gran compare dell'ex di Ivana, il principe Roffredo Gaetani Lovatelli d'Aragona, il quale a sua volta era l'uomo di fiducia di Gianni Agnelli a New York. E tutto questo giro vorticoso di uomini ricchissimi e donne bellissime si ritrova a ogni pranzo nel ristorante Cipriani sulla Quinta Avenue, davanti a Central Park, e ogni sera in quello di Soho, a West Broadway.
Lì si celebra il trionfo del Bellini, l'aperitivo prosecco/succo di pesca che è il simbolo dell'Harry's Bar di Venezia: inventato da nonno Giuseppe nel 1931, e assaporato da clienti come Ernest Hemingway, Truman Capote, Orson Welles e Peggy Guggenheim.
Oggi le celebrità ai tavoli newyorkesi si chiamano Roberto Cavalli e Naomi Campbell, Leonardo DiCaprio e Nicole Kidman: tutti sono ghiotti di carpaccio e tartare di tonno.
«Donne con scollature troppo basse e uomini col portafogli troppo grosso», brontola qualche vecchio americano bigotto dell'Upper East Side, di quelli che corrono a dormire alle dieci, insinuando che le prime siano quasi tutte prezzolate e che per i secondi si tratti di un infernale miscuglio fra protettori, spacciatori e mafiosi.
Ma ormai lo stile stigmatizzato come «eurotrash» (spazzatura europea) dalle mummie benpensanti ha avuto la meglio, e ha conquistato le nuove generazioni del glamour statunitense.
Un giorno sì e uno no «Page Six», la rubrica gossip più famosa d'America, pubblica l'elenco dei personaggi apparsi la sera prima da Cipriani Downtown.
Poi ci sono le altre gemme dell'impero di famiglia, che ormai fattura sui 150 milioni di euro all'anno. In primis la Rainbow Room, mitico ristorante con salone per feste al 65esimo piano del grattacielo più alto del Rockefeller Center, con la migliore vista a 360 gradi sui tramonti di Manhattan.
Costruita negli anni Trenta e incastonata da tempo in tutte le guide turistiche, la Rainbow Room è stata conquistata dai Cipriani nel '99. Anche qui, per vendicarsi, qualche geloso newyorkese dell'establishment Wasp (White Anglo Saxon Protestant) ha messo in giro la voce che, per piegare i potenti sindacati dei camerieri, Giuseppe avrebbe fatto intervenire addirittura Cosa Nostra.
Di che cosa può essere accusato un italiano di successo negli Stati Uniti, se non appunto di essere un novello Soprano, affiliato al clan Gotti?
La verità è che la corporazione dei camerieri in America è così esosa che quasi tutti i ristoranti che impiegavano iscritti al sindacato hanno dovuto chiudere (compreso il più famoso di tutti, "Le Cirque" del lucchese Sirio Maccioni).
Stesso destino ha rischiato il Cipriani della Quinta Avenue, salvato in extremis poche settimane fa da un accordo che ha abbassato il costo del lavoro. Ma ormai la maggioranza dei ristoranti newyorkesi (una vera e propria industria, la maggiore della città) per sopravvivere è costretta ad arruolare sudamericani clandestini e studenti che campano di sole mance.
«Altro che dolce vita, io lavoro dalle nove del mattino alle due di notte», risponde Giuseppe Cipriani a chi lo definisce un playboy. Eppure quegli abbracci e baci alla Supersimo nazionale a Porto Cervo sono stati fotografati, non può negarli.
«Solo amici», tronca lui. Che si trovava in Costa Smeralda per un buon motivo, d'altronde: da due anni la cucina del Billionaire di Flavio Briatore è assicurata da Cipriani. Solo luglio e agosto, toccata e fuga, prezzi a livelli newyorkesi: cento euro a testa per il menù fisso al grill della piscina, ancora di più nel ristorante.
Ma il successo maggiore, attualmente, è quello dell'altra recente joint-venture con Briatore: il ristorante di Londra, che sforna 400 coperti al giorno e che è stato così lodato dal critico del quotidiano Independent: «Dalla più antica città commerciale del mondo (Venezia) ci è giunto l'export che avevano sempre aspettato».
Meglio così. Perchè quando una rubrica gastronomica newyorkese aveva invece azzardato una stroncatura, i Cipriani hanno ribattuto: «La prossima volta quel giornalista si levi il preservativo dalla bocca...»
«Ma ormai gli orizzonti di Giuseppe si stanno ampliando oltre la ristorazione», spiega il suo amico Paolo Zampolli, che lavora per Trump, «e grazie al suo brillante marketing si espandono nel settore immobiliare».
Cipriani, alleato al potente gruppo ebraico Witkoff, costruirà sul fiume Hudson il salone per ricevimenti più grande di New York. E nella nuova sala di Wall Street (un'ex banca) ospita una serie di concerti privati di prestigio, da Rod Stewart a Stevie Wonder, da Sheryl Crow ad Alicia Keys. Prezzo per un tavolo: centomila dollari.
Giuseppe Cipriani ha due figli avuti dalla ex moglie Eleonora Gardini, figlia di Raul, il padrone del gruppo Ferruzzi-Montedison suicidatosi nel '93: Ignazio, 17 anni, e Maggio, 14.
Quel matrimonio è finito. Ma l'ambitissimo cuore di Giuseppe sembra ancora saldamente occupato dalla bella Carolina cilena. La caccia al misterioso nuovo amore americano di Simona Ventura (sempre che ce ne sia mai stato uno) può continuare.
Mauro Suttora
Wednesday, August 03, 2005
Marchio "America"
mercoledi 3 agosto 2005
IL MARCHIO "AMERICA"
Stati Uniti in ribasso nella classifica dei "brand nazionali". Consigli per la scalata: tre parole e un manuale
New York. Non ha fatto notizia, perchè su di lei il consenso è stato unanime. Karen Hughes, la collaboratrice più fidata di George W. Bush dopo Karl Rove, ha ricevuto la settimana scorsa il via libera del Senato all'incarico di sottosegretario di stato per la “diplomazia pubblica”. Un posto delicato e importante: toccherà a lei promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, e combattere quella “battaglia delle idee” che appare sempre più cruciale per sconfiggere i terroristi islamici. Tutti d’accordo quindi sul nome di questa ex giornalista texana, alla quale è stato risparmiato il calvario di John Bolton e quello annunciato per John Roberts, nominato giudice supremo.
Quanto sia impegnativo l’incarico della Hughes lo conferma il risultato appena annunciato del secondo rapporto Anholt-Gmi sul valore dei “marchi nazionali”. Il “brand America” scivola dal quarto all’undicesimo posto nella percezione dei diecimila sondaggiati nei dieci Paesi più ricchi del mondo (lusinghiero sesto posto per l’Italia dopo Australia, Canada, Svizzera, Gran Bretagna e Svezia). Gli Usa primeggiano ancora nell’economia: qualità dei prodotti, investimenti. Risultati misti nel parametro “people”: quinti come “hireability” (americani sempre assai richiesti nelle assunzioni), ma tredicesimi nell’ospitalità: si pagano il giro di vite sui visti e le code per i nuovi controlli alle frontiere. E quando al campione internazionale è stato chiesto qual è il grado di fiducia nei governi sulla politica estera, gli Stati Uniti sono finiti in coda a tutte le nazioni occidentali: diciannovesimi, solo un po’ meglio di Cina e Russia.
“L’impopolarita’ della politica estera americana non è certo un fenomeno nuovo”, spiega il sondaggista Simon Anholt, “basti pensare a Corea e Vietnam. Ora occorre vedere se l’Iraq avrà un effetto cumulativo rispetto alle ‘antipatie’ consolidate nel passato, o se rientra nei ricorrenti alti e bassi dell’antiamericanismo. Perchè i ‘marchi nazionali’ funzionano esattamente come quelli commerciali: sono il portato di opinioni che si stratificano negli anni e addirittura nei decenni. E per cambiare queste percezioni occorrono tempi lunghi”.
“How to outrecruit Osama?” (Come reclutare meglio di Osama?), è la domanda provocatoria con cui commenta questi risultati Keith Reinhard, presidente di Bda (Business for democratic action), organismo bipartisan di cui fanno parte dirigenti di giganti pubblicitari come Tbwa e Bbdo, di multinazionali come McDonald’s, e studiosi di destra come Helle Dale (Heritage Foundation) e di sinistra come Joseph Nye (Harvard, autore di “Soft Power”) o Anne-Marie Slaughter (Princeton). “L’aumento dell’antiamericanismo”, dice Reinhard, “ci deve allarmare non solo per i nostri business e prodotti esportati all’estero, ma anche per il futuro delle nuove generazioni di americani. Il risentimento nei nostri confronti è alimentato dalla percezione che siamo arroganti come popolo, e che la nostra cultura - cinema, musica, tv - sia diventata troppo pervasiva. Nelle risposte al sondaggio, per esempio, spesso gli stranieri ci dipingono come ‘ambiziosi’. Il che a noi sembra un complimento, mentre in molte culture ha una connotazione negativa”.
“Il mio consiglio a Karen Hughes”, dice Anholt, “è quello di aggiungere ogni volta tre magiche paroline alle dichiarazioni degli uomini di governo americani: ‘If you like’, se volete. Perchè oggi la brand America ha bisogno di essere rebranded, ma questa non può essere un’operazione cosmetica: l’intero ‘prodotto’ necessita di una messa a punto. Quindi: vorremmo promuovere la democrazia in Medio Oriente, se volete...»
"Non esprimete giudizi perentori"
Poichè la praticità e’ un’altra caratteristica americana, il Bda ha pubblicato un libretto quasi commovente, destinato ai due milioni di statunitensi impiegati all’estero, ai sei milioni che ci vanno ogni anno per turismo, e ai 200 mila studenti americani in giro per il mondo. Vuole insegnare agli americani come rendersi simpatici, per tornare a farsi amare: “Prima di partire studiate la storia, la lingua, la cultura locale. Quando siete arrivati ascoltate, odorate, guardate, gustate, toccate... Non esprimete giudizi perentori, non date tutto per scontato... Prendete appunti, ricordatevi sempre che su cento persone al mondo solo cinque sono americani. Non paragonate sempre tutto agli Stati Uniti: non siete più nel Kansas... Se entrate in un negozio e nessuno si avvicina subito per chiedervi di cosa avete bisogno, non consideratela una maleducazione...” Normali consigli da guida turistica. Ma anche un’arma per Karen Hughes.
Mauro Suttora
IL MARCHIO "AMERICA"
Stati Uniti in ribasso nella classifica dei "brand nazionali". Consigli per la scalata: tre parole e un manuale
New York. Non ha fatto notizia, perchè su di lei il consenso è stato unanime. Karen Hughes, la collaboratrice più fidata di George W. Bush dopo Karl Rove, ha ricevuto la settimana scorsa il via libera del Senato all'incarico di sottosegretario di stato per la “diplomazia pubblica”. Un posto delicato e importante: toccherà a lei promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, e combattere quella “battaglia delle idee” che appare sempre più cruciale per sconfiggere i terroristi islamici. Tutti d’accordo quindi sul nome di questa ex giornalista texana, alla quale è stato risparmiato il calvario di John Bolton e quello annunciato per John Roberts, nominato giudice supremo.
Quanto sia impegnativo l’incarico della Hughes lo conferma il risultato appena annunciato del secondo rapporto Anholt-Gmi sul valore dei “marchi nazionali”. Il “brand America” scivola dal quarto all’undicesimo posto nella percezione dei diecimila sondaggiati nei dieci Paesi più ricchi del mondo (lusinghiero sesto posto per l’Italia dopo Australia, Canada, Svizzera, Gran Bretagna e Svezia). Gli Usa primeggiano ancora nell’economia: qualità dei prodotti, investimenti. Risultati misti nel parametro “people”: quinti come “hireability” (americani sempre assai richiesti nelle assunzioni), ma tredicesimi nell’ospitalità: si pagano il giro di vite sui visti e le code per i nuovi controlli alle frontiere. E quando al campione internazionale è stato chiesto qual è il grado di fiducia nei governi sulla politica estera, gli Stati Uniti sono finiti in coda a tutte le nazioni occidentali: diciannovesimi, solo un po’ meglio di Cina e Russia.
“L’impopolarita’ della politica estera americana non è certo un fenomeno nuovo”, spiega il sondaggista Simon Anholt, “basti pensare a Corea e Vietnam. Ora occorre vedere se l’Iraq avrà un effetto cumulativo rispetto alle ‘antipatie’ consolidate nel passato, o se rientra nei ricorrenti alti e bassi dell’antiamericanismo. Perchè i ‘marchi nazionali’ funzionano esattamente come quelli commerciali: sono il portato di opinioni che si stratificano negli anni e addirittura nei decenni. E per cambiare queste percezioni occorrono tempi lunghi”.
“How to outrecruit Osama?” (Come reclutare meglio di Osama?), è la domanda provocatoria con cui commenta questi risultati Keith Reinhard, presidente di Bda (Business for democratic action), organismo bipartisan di cui fanno parte dirigenti di giganti pubblicitari come Tbwa e Bbdo, di multinazionali come McDonald’s, e studiosi di destra come Helle Dale (Heritage Foundation) e di sinistra come Joseph Nye (Harvard, autore di “Soft Power”) o Anne-Marie Slaughter (Princeton). “L’aumento dell’antiamericanismo”, dice Reinhard, “ci deve allarmare non solo per i nostri business e prodotti esportati all’estero, ma anche per il futuro delle nuove generazioni di americani. Il risentimento nei nostri confronti è alimentato dalla percezione che siamo arroganti come popolo, e che la nostra cultura - cinema, musica, tv - sia diventata troppo pervasiva. Nelle risposte al sondaggio, per esempio, spesso gli stranieri ci dipingono come ‘ambiziosi’. Il che a noi sembra un complimento, mentre in molte culture ha una connotazione negativa”.
“Il mio consiglio a Karen Hughes”, dice Anholt, “è quello di aggiungere ogni volta tre magiche paroline alle dichiarazioni degli uomini di governo americani: ‘If you like’, se volete. Perchè oggi la brand America ha bisogno di essere rebranded, ma questa non può essere un’operazione cosmetica: l’intero ‘prodotto’ necessita di una messa a punto. Quindi: vorremmo promuovere la democrazia in Medio Oriente, se volete...»
"Non esprimete giudizi perentori"
Poichè la praticità e’ un’altra caratteristica americana, il Bda ha pubblicato un libretto quasi commovente, destinato ai due milioni di statunitensi impiegati all’estero, ai sei milioni che ci vanno ogni anno per turismo, e ai 200 mila studenti americani in giro per il mondo. Vuole insegnare agli americani come rendersi simpatici, per tornare a farsi amare: “Prima di partire studiate la storia, la lingua, la cultura locale. Quando siete arrivati ascoltate, odorate, guardate, gustate, toccate... Non esprimete giudizi perentori, non date tutto per scontato... Prendete appunti, ricordatevi sempre che su cento persone al mondo solo cinque sono americani. Non paragonate sempre tutto agli Stati Uniti: non siete più nel Kansas... Se entrate in un negozio e nessuno si avvicina subito per chiedervi di cosa avete bisogno, non consideratela una maleducazione...” Normali consigli da guida turistica. Ma anche un’arma per Karen Hughes.
Mauro Suttora
Wednesday, May 04, 2005
Brooke Shields, depressa post parto
CONFESSIONE CHOC: "STRINGERE IL MIO TESORO ERA DIVENTATO UN INCUBO"
"Volevo buttarmi dalla finestra. Provavo tristezza, senso di vuoto. Mi sentivo una fallita", svela l'attrice. Dopo la nascita di Rowan, era stata colpita dalla depressione che affligge una puerpera su dieci. Per guarire? Farmaci, psicoterapia e affetto
dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora
Oggi, 4 maggio 2005
Dopo essere diventata mamma, due anni fa, Brooke Shields non ha cantato ninne nanne alla sua piccola Rowan con la voce dolce che mandava in estasi Broadway. «Guardavo le finestre del mio appartamento di New York», confessa l’attrice, «e mi veniva voglia di buttarmi giù. Non volevo più vivere. Mi ha salvato solo il pensiero che, stando al terzo piano, non sarei neppure riuscita a morire. Un mucchio di ossa rotte, e sarebbe stato ancora peggio...»
L’agghiacciante rivelazione è contenuta nell’autobiografia che la mamma quasi quarantenne (compleanno il 31 maggio) ha scritto con sincerità totale, terapeutica, come per levarsi di dosso un peso. E per condividere la propria pena estrema con le donne (una su dieci) che soffrono di depressione post-parto.
Perchè apparentemente l’ex modella di Calvin Klein aveva tutto: una splendida carriera cominciata ancora in fasce, quando fu scelta per reclamizzare un sapone dei neonati; un matrimonio finalmente felice con il produttore Tv Chris Henchy, dopo l’unione annullata dalla Sacra Rota con il tennista Andre Agassi e avventure sbagliate con Alberto di Monaco, Michael Jackson e George Michael; una laurea in letteratura francese nella prestigiosa università di Princeton, conquistata per dimostrare che dietro alla bellezza fisica c’è anche un cervello; battaglie vinte contro l’alcolismo e una temuta sterilità.
Ma per Brooke la conquista faticosa della gravidanza e lo scivolare improvviso nella depressione dopo i dolori del parto si sono rivelati il periodo più tumultuoso e imprevisto della vita. «Chris mi diceva: “Ehi, la bimba sta piangendo”. E io mi limitavo a rispondere immobile: “Sì, sta piangendo. Chissà cosa vuole...” Era come se uno spirito esterno si fosse impadronito del mio corpo e io rispondessi a ogni domanda con il contrario di quello che volevo».
Vergogna, segretezza, impotenza, disperazione: la ex Pretty Baby è passata attraverso tutti i sintomi della depressione post-parto. «Ma provavo anche tristezze infinite, senso di vuoto, sentivo lontanissimi famiglia e amici. Ero convinta di essere una fallita, e pensai al suicidio quando quelli che mi circondavano non davano peso alle mie parole: mi assicuravano che si trattava soltanto di normali malinconie passeggere». E invece, se non curata, la spossatezza del dopo gravidanza può trasformarsi in crisi cronica e durare anche un anno.
Oggi, quando Rowan piange, mamma Brooke si vanta di riuscire a capire immediatamente, anche da lontano, se la bimba ha fame o paura, se è arrabbiata o stanca o triste, oppure se sta semplicemente cercando Darla, il bulldog di sette anni: «Si tratta di quel tipo di istinto materno innato di cui avevo tanto sentito parlare, e che mi illudevo di possedere fin dal primo giorno», spiega. «Nulla di tutto questo, invece. Solo un gran disinteresse, da parte mia, e di conseguenza un senso di colpa così grande da non riuscire a confessarlo a nessuno. Così mi ritrovavo a piangere più di Rowan in certi giorni vuoti e interminabili. Mi venne un attacco di panico quando feci il primo provino dopo la gravidanza per lo spot di un prodotto per neonati. Avevo anche visioni terrificanti di mia figlia che volava in aria, colpiva un muro e poi scivolava giù, anche se grazie a Dio non ero io quella che la lanciava».
All’inizio la parola «depressione post-parto» non le diceva nulla. Fu un lontano conoscente, «anzi, praticamente uno sconosciuto», a farle aprire gli occhi sui sintomi che provava. Non si sa quali madri siano portate più di altre alla depressione, ma nel caso della Shields si sono manifestati alcuni chiari fattori di rischio: parto complicato e difficile, taglio cesareo con il cordone ombelicale annodato attorno al collo di Rowan, utero erniato durante l’operazione, con tale perdita di sangue che i dottori avevano quasi dovuto praticare un’isterectomia (rimozione dell’utero) per bloccarla.
Un altro fattore di rischio è una disgrazia improvvisa, come la morte di un parente. Il padre di Brooke era scomparso tre settimane prima della nascita di Rowan per un cancro alla prostata. C’era lo stress dovuto a vari tentativi falliti di fertilizzazione in vitro, e le iniezioni di ormoni cui doveva sottoporsi per stimulare le ovaie a produrre ovuli. La coppia viveva nella paura costante di essere accusata di drogarsi, viste le siringhe che doveva portarsi dietro nei viaggi. E poi il divorzio difficile da Agassi, un aborto, una tradizione di depressioni in famiglia, niente balia... insomma, la Shields era proprio la candidata ideale.
«Eppure per me fu una sorpresa. Non volevo crederci, mi vergognavo ad ammettere che avevo la depressione post-parto. Cercavo una giustificazione per tutto». Brooke Shields ignorava che la sua malattia viene curata in maniera assai efficace, con una combinazione di medicinali e terapie psicologiche, più tanto riposo e aiuto da amici e parenti: «Senza le medicine non sarei stata abbastanza lucida, ma senza lo psicologo non sarei riuscita a capire quel che mi stava succedendo. Per me poi è stato molto importante allattare: che mi piacesse o no, il contatto fisico con Rowan era quello di cui avevo veramente bisogno. Alla fine sono stata fortunata, con una diagnosi abbastanza rapida e un aiuto efficace».
Anche adesso le tocca alzarsi per accudire Rowan: «La scorsa notte ho dovuto farlo all’una, alle tre e alle cinque. Ma ora ho capito che con la maternità la mia vita è cambiata per sempre, e che questa nuova fase è migliore perchè arricchisce di più. Ho quasi abbandonato tutte le medicine, e stiamo pensando all’eventualità di un’altra gravidanza».
Le madri che hanno sofferto di depressione hanno un 50% di probabilità in più di ricaderci dopo il parto successivo: «Lo so, ma voglio un secondo figlio. E anche se sono una perfetta candidata, almeno questa volta so che cosa mi aspetta. Chissà, magari sarà peggio, oppure non succederà nulla. Ma sarò preparata. Dovrò ricorrere di nuovo alla fecondazione assistita, ma si spera che questa volta un mio genitore non muoia proprio prima del parto».
Mauro Suttora
"Volevo buttarmi dalla finestra. Provavo tristezza, senso di vuoto. Mi sentivo una fallita", svela l'attrice. Dopo la nascita di Rowan, era stata colpita dalla depressione che affligge una puerpera su dieci. Per guarire? Farmaci, psicoterapia e affetto
dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora
Oggi, 4 maggio 2005
Dopo essere diventata mamma, due anni fa, Brooke Shields non ha cantato ninne nanne alla sua piccola Rowan con la voce dolce che mandava in estasi Broadway. «Guardavo le finestre del mio appartamento di New York», confessa l’attrice, «e mi veniva voglia di buttarmi giù. Non volevo più vivere. Mi ha salvato solo il pensiero che, stando al terzo piano, non sarei neppure riuscita a morire. Un mucchio di ossa rotte, e sarebbe stato ancora peggio...»
L’agghiacciante rivelazione è contenuta nell’autobiografia che la mamma quasi quarantenne (compleanno il 31 maggio) ha scritto con sincerità totale, terapeutica, come per levarsi di dosso un peso. E per condividere la propria pena estrema con le donne (una su dieci) che soffrono di depressione post-parto.
Perchè apparentemente l’ex modella di Calvin Klein aveva tutto: una splendida carriera cominciata ancora in fasce, quando fu scelta per reclamizzare un sapone dei neonati; un matrimonio finalmente felice con il produttore Tv Chris Henchy, dopo l’unione annullata dalla Sacra Rota con il tennista Andre Agassi e avventure sbagliate con Alberto di Monaco, Michael Jackson e George Michael; una laurea in letteratura francese nella prestigiosa università di Princeton, conquistata per dimostrare che dietro alla bellezza fisica c’è anche un cervello; battaglie vinte contro l’alcolismo e una temuta sterilità.
Ma per Brooke la conquista faticosa della gravidanza e lo scivolare improvviso nella depressione dopo i dolori del parto si sono rivelati il periodo più tumultuoso e imprevisto della vita. «Chris mi diceva: “Ehi, la bimba sta piangendo”. E io mi limitavo a rispondere immobile: “Sì, sta piangendo. Chissà cosa vuole...” Era come se uno spirito esterno si fosse impadronito del mio corpo e io rispondessi a ogni domanda con il contrario di quello che volevo».
Vergogna, segretezza, impotenza, disperazione: la ex Pretty Baby è passata attraverso tutti i sintomi della depressione post-parto. «Ma provavo anche tristezze infinite, senso di vuoto, sentivo lontanissimi famiglia e amici. Ero convinta di essere una fallita, e pensai al suicidio quando quelli che mi circondavano non davano peso alle mie parole: mi assicuravano che si trattava soltanto di normali malinconie passeggere». E invece, se non curata, la spossatezza del dopo gravidanza può trasformarsi in crisi cronica e durare anche un anno.
Oggi, quando Rowan piange, mamma Brooke si vanta di riuscire a capire immediatamente, anche da lontano, se la bimba ha fame o paura, se è arrabbiata o stanca o triste, oppure se sta semplicemente cercando Darla, il bulldog di sette anni: «Si tratta di quel tipo di istinto materno innato di cui avevo tanto sentito parlare, e che mi illudevo di possedere fin dal primo giorno», spiega. «Nulla di tutto questo, invece. Solo un gran disinteresse, da parte mia, e di conseguenza un senso di colpa così grande da non riuscire a confessarlo a nessuno. Così mi ritrovavo a piangere più di Rowan in certi giorni vuoti e interminabili. Mi venne un attacco di panico quando feci il primo provino dopo la gravidanza per lo spot di un prodotto per neonati. Avevo anche visioni terrificanti di mia figlia che volava in aria, colpiva un muro e poi scivolava giù, anche se grazie a Dio non ero io quella che la lanciava».
All’inizio la parola «depressione post-parto» non le diceva nulla. Fu un lontano conoscente, «anzi, praticamente uno sconosciuto», a farle aprire gli occhi sui sintomi che provava. Non si sa quali madri siano portate più di altre alla depressione, ma nel caso della Shields si sono manifestati alcuni chiari fattori di rischio: parto complicato e difficile, taglio cesareo con il cordone ombelicale annodato attorno al collo di Rowan, utero erniato durante l’operazione, con tale perdita di sangue che i dottori avevano quasi dovuto praticare un’isterectomia (rimozione dell’utero) per bloccarla.
Un altro fattore di rischio è una disgrazia improvvisa, come la morte di un parente. Il padre di Brooke era scomparso tre settimane prima della nascita di Rowan per un cancro alla prostata. C’era lo stress dovuto a vari tentativi falliti di fertilizzazione in vitro, e le iniezioni di ormoni cui doveva sottoporsi per stimulare le ovaie a produrre ovuli. La coppia viveva nella paura costante di essere accusata di drogarsi, viste le siringhe che doveva portarsi dietro nei viaggi. E poi il divorzio difficile da Agassi, un aborto, una tradizione di depressioni in famiglia, niente balia... insomma, la Shields era proprio la candidata ideale.
«Eppure per me fu una sorpresa. Non volevo crederci, mi vergognavo ad ammettere che avevo la depressione post-parto. Cercavo una giustificazione per tutto». Brooke Shields ignorava che la sua malattia viene curata in maniera assai efficace, con una combinazione di medicinali e terapie psicologiche, più tanto riposo e aiuto da amici e parenti: «Senza le medicine non sarei stata abbastanza lucida, ma senza lo psicologo non sarei riuscita a capire quel che mi stava succedendo. Per me poi è stato molto importante allattare: che mi piacesse o no, il contatto fisico con Rowan era quello di cui avevo veramente bisogno. Alla fine sono stata fortunata, con una diagnosi abbastanza rapida e un aiuto efficace».
Anche adesso le tocca alzarsi per accudire Rowan: «La scorsa notte ho dovuto farlo all’una, alle tre e alle cinque. Ma ora ho capito che con la maternità la mia vita è cambiata per sempre, e che questa nuova fase è migliore perchè arricchisce di più. Ho quasi abbandonato tutte le medicine, e stiamo pensando all’eventualità di un’altra gravidanza».
Le madri che hanno sofferto di depressione hanno un 50% di probabilità in più di ricaderci dopo il parto successivo: «Lo so, ma voglio un secondo figlio. E anche se sono una perfetta candidata, almeno questa volta so che cosa mi aspetta. Chissà, magari sarà peggio, oppure non succederà nulla. Ma sarò preparata. Dovrò ricorrere di nuovo alla fecondazione assistita, ma si spera che questa volta un mio genitore non muoia proprio prima del parto».
Mauro Suttora
Monday, April 11, 2005
Complete catalogue of Manhattan asses
The New York Observer
Mauro Suttora
April 11, 2005
“Hey, Marsha, read this: The Italian Supreme Court has given 14 months to a guy who bottom-pinched a young woman while she was calling from a phone booth in the Friuli region!”
My Upper East Side girlfriend raises her left eyebrow without smiling: “No wonder …. You come from there, don’t you?”
“Well, it’s a civilized region, no Mafia, hard workers. But this is an incredibly harsh sentence, it’s the first time that some jerks equate ass-touching to violence. It’s a total novelty for us! I guess the impact of this decision will be felt by buttocks all over our sunny peninsula …. "
“Don’t be sarcastic, I bet the pig totally deserved it.”
“Well, it’s a real revolution for Italy. The first one since Benito Mussolini invented fascism after First World War.”
I swear: I never pinch unknowns, nor I get pinched. I dread physical contact of any kind between strangers, unless they are adults, willing, introduced. And protected. That’s how germs travel. But these judges drive me crazy.
“So, Marsha, tell me: How many years of prison should we give rapists, if we are punishing aggressive caressing with more than one year? How much worse is rape than pinching? One hundred times?”
“Yes …. “
“So are Italian judges giving life sentences to rapists? No way. They keep giving 10 or 20 years. There’s no proportion!”
Bottom-pinching has suddenly turned into the least cost-effective way to get pleasure for a man (or a woman) in Italy. Imagine: one year and two months behind bars for just one second of a mere tactile passing satisfaction, involving only the fingertips of one hand.
Of course, we all know there are many different ways of going into it. I ignore the details of the historical and hysterical Friuli ruling, but I hope at least that the judges’ draconian severity was justified by the length of the contact. Or maybe by the use of both hands simultaneously: That would have made a spectacular grip.
I am sure our bon vivant premier Silvio Berlusconi would have been much more lenient with the unlucky pervert. First of all because, like half Italians, should he be forced into groping, he’d certainly prefer other body parts. He would go straight for the breast, the California governor’s way, more than for the back.
His three television channels have been advocating big tits in the past quarter century, totally subverting the previous 20 years of anorexic fad, and recuperating the healthy tradition established by Sophia Loren and la Lollobrigida in the roaring 50’s.
Notwithstanding his TV brainwashing, our country remains evenly divided between bosom and bottom lovers. Our current main movie star, Monica Bellucci, climbed to fame thanks to a memorable mute scene of her promenading her legendary behind in Giuseppe Tornatore’s movie Malena. No words were needed for her presence on the screen.
Another recent movie which tackled the problem of sexual harassment in contemporary Italy is Under the Tuscan Sun. Diane Lane, starring in it, gets overwhelmed by Italian men as soon as she arrives in Rome. Now, I have to warn American tourists that reality in our streets is much duller. As a matter of fact, although Mrs. Lane would have deserved some punishment for cheating on husband Richard Gere in her previous movie Unfaithful, she gets less action in Trastevere than in Soho.
So, it’s all clichés? I’d say so. The only escape for today’s groper is doing it in an environment so crowded to reduce risks to the minimum. Subways and buses at peak time, for example, deploying what we call mano morta (“wandering hand”), which can always be excused as an involuntary contact. Although being restrained by education or fear doesn’t mean that my countrymen have canceled their centuries-old fetish for the lower back.
Fame, in any case, travels: “But I thought you were Italian … ,” whispered to me once a disappointed American woman (not Marsha, I swear) after we kissed standing, without my gentleman’s hands touching her where she was hoping. “You were supposed to sweep me away!” Go tell those Italian judges, lady. They are becoming so P.C. they might be American.
Italian philosopher Massimo Fini, in his Erotic Di(ction)ary, has listed more than a dozen different types of bottoms. According to him, “we can detect someone’s personality just by looking at his/her gluteus.”
But he goes more deeply than that. He turns anthropological: “Men, as we all know, are divided in two categories: the ones who love the breast (bosomen) and the ones who prefer the ass (bottomen). The first ones generally belong to coarse cultures, not so shrewd, childishly pragmatic, primitive, matriarchal, strongly tied to the woman-mother image and in any case too young for having had the time to develop adequate speculative skills. Bosomen are, for example, the Americans. Europe, the cradle of civilization, is on the contrary bottoman. Venus, the goddess of love and beauty, was surnamed ‘Callipygian’ from the Greek kallopygos (kallos, beautiful + pyge, buttock), and was born together with philosophy and mathematics. For a reason: because the ass is in the first place a metaphysical category. It possesses the geometrical perfection of abstract figures. Its form is similar to the sphere, which is the perfect geometrical concept. But it surpasses it, because it has something that the sphere lacks: symmetry. Like the sphere, it’s an object at the same time finite and infinite. And, because it is curved, the ass is very near to the essence of the truth (‘Every truth is curved,’ said Friedrich Nietzsche).”
This precious Massimo Fini’s book was written in 2000: well before the manifesto of the Bush-era intelligentsia, Of Paradise and Power, the neocon Bible in which Robert Kagan confirms that Europeans are from Venus and Americans from some other unfortunate cold, reddish and ass-less planet.
Mr. Fini goes on explaining: “Encapsulated in the ass, there lies the enigma of the relationship finite/infinite, space/time, which after all is the enigma of the whole universe. It’s no coincidence that Salvador Dali, when asked how he imagined the universe, replied: ‘As a four buttocks continuum.’ How this worrying apothegm, so charged with symbolic meanings, was dropped to the end of men’s back and, even worse, women’s, is a mystery. But here comes again the great ambiguity of the ass: being not human for the perfection of its proportions, it is at the same time very human. Because perfection is inherently blank, inexpressive, while the bottom is the body’s most eloquent part. The ass signals not only somebody’s character, but also his/her belonging to a particular class of people.”
So, with the help of my friend Massimo Fini, I have been trying to come up with a Manhattan ass map. We have, first of all, the typical Upper East Side ass, which I know all too well (it’s Marsha’s): cautious and stingy, with narrow apples, like usually in Italy the Tuscans have.
The East Village behind on the contrary is trustworthy and hopeful: round, fat and with slightly open buttocks. The midtown is an aggressive one: firm and massive like a mountain range. Around Murray Hill, Beekman Place and Tudor City you find the volitive ass, small and muscular: And it doesn’t belong only to U.N. functionaries, diplomats and their spouses.
The Upper West Side is of course the conversational ass: elastic and malleable. Carnegie Hill can boast the noble one: high, long and with a small relief. Working-class asses (low and large) are unfortunately rare in Manhattan, but a few survive in the Lower East Side. The City Hall behind is unavoidably bureaucratic: fat and shapeless.
Around Washington Heights the proletarian ass is large and high, while in Park Avenue you sometimes get the military one: narrow and muscular. Wall Street offers petty and fearful asses, which are skinny without being bony; from Hell’s Kitchen up to Columbus Circle and Lincoln Center you get the indifferent ass, small and curled up; the Village’s ass is usually laughing (large and flat); but the West Village one comes rather naughty: round, with a step and quivering.
And in the end we have the submissive ass, which I couldn’t find any particular geographical liaison to. It’s the one which shows two tender folds between the buttocks and the thighs, and is round without being excessive. This is the real ass. The ass of asses. Because it possesses at the maximum level the two main features which are typical of each and every ass: defenselessness and ridicule (“The cheerful impotence of the bum,” described it Jean-Paul Sartre, another philosopher in the field).
Yes, the ass is helpless, because it can’t see: It can only be seen. It is harmless because it doesn’t have corners. It is defenseless because it doesn’t have brawn: Anybody can outrage it. It is naked and exposed because it’s hairless. And above all it is funny, like all things big but clumsily coward, maintains Massimo Fini, the maximum ass expert on our planet (neocons are from Mars).
Due to this marriage of powerlessness and foolishness, our behinds are the body part most relished by sadists. Nothing gets beaten up as much as the ass. Or at least pinched. But we have to say that it almost always does things to deserve it. It provokes: “Sometimes it shows up with an air of false innocence, some other time with impertinence, often times with arrogance, and a few times it even isolates itself, it doesn’t let on, pretending to ignore being an ass,” complains Massimo (whom at this point we can nickname ‘”My-ass-imo”).
All these attitudes draw an adequate punishment. Which the ass, after a first token resistance, seems to accept eagerly, as it bends, protrudes, opens, offers itself. Let’s confess: The ass is deeply, intimately masochist.
But the real reason behind the Italian behind-pinching penchant is that in the ass we find the ultimate element attracting the sadist: perfection. It is perfection which triggers the desire for profanation. Only things perfect merit to get damaged, violated, reviled (“A**hole!”) in order to downgrade them into imperfect ones. This is, also, the utmost demonstration of the enormous superiority of the ass on the breast. Breasts get caressed, fondled, pampered; at the worst you kindly nibble a nipple. Only a pervert would pinch them less than gently. But this is just to console them for their insignificance, for their being only breasts. While in the perfection of the ass lies a devilish pride which has to be brought down.
The ass has become so omnipotent that in the U.S. it is nowadays widely and wildly used as a comprehensive synonym for pleasure: It stands for words such as sex, action, excitement, girls, boys, fun, quick love, cheap romance. “Let’s grab some ass tonight” is the most common single sentence used in contemporary American campuses. I learned this while reading I Am Charlotte Simmons by Tom Wolfe, the one and only novel I understand President George Bush junior has been enjoying recently.
So we can jail all ass-grabbers of the world as much as we want, and give them disproportionate penalties, but we’ll never be able to kill the will to touch down there. The maximum we can achieve is to inhibit it: for our behinds are too precious and glamorous not to be pinched, after all.
Mauro Suttora
Subscribe to:
Posts (Atom)