mercoledi 3 agosto 2005
IL MARCHIO "AMERICA"
Stati Uniti in ribasso nella classifica dei "brand nazionali". Consigli per la scalata: tre parole e un manuale
New York. Non ha fatto notizia, perchè su di lei il consenso è stato unanime. Karen Hughes, la collaboratrice più fidata di George W. Bush dopo Karl Rove, ha ricevuto la settimana scorsa il via libera del Senato all'incarico di sottosegretario di stato per la “diplomazia pubblica”. Un posto delicato e importante: toccherà a lei promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, e combattere quella “battaglia delle idee” che appare sempre più cruciale per sconfiggere i terroristi islamici. Tutti d’accordo quindi sul nome di questa ex giornalista texana, alla quale è stato risparmiato il calvario di John Bolton e quello annunciato per John Roberts, nominato giudice supremo.
Quanto sia impegnativo l’incarico della Hughes lo conferma il risultato appena annunciato del secondo rapporto Anholt-Gmi sul valore dei “marchi nazionali”. Il “brand America” scivola dal quarto all’undicesimo posto nella percezione dei diecimila sondaggiati nei dieci Paesi più ricchi del mondo (lusinghiero sesto posto per l’Italia dopo Australia, Canada, Svizzera, Gran Bretagna e Svezia). Gli Usa primeggiano ancora nell’economia: qualità dei prodotti, investimenti. Risultati misti nel parametro “people”: quinti come “hireability” (americani sempre assai richiesti nelle assunzioni), ma tredicesimi nell’ospitalità: si pagano il giro di vite sui visti e le code per i nuovi controlli alle frontiere. E quando al campione internazionale è stato chiesto qual è il grado di fiducia nei governi sulla politica estera, gli Stati Uniti sono finiti in coda a tutte le nazioni occidentali: diciannovesimi, solo un po’ meglio di Cina e Russia.
“L’impopolarita’ della politica estera americana non è certo un fenomeno nuovo”, spiega il sondaggista Simon Anholt, “basti pensare a Corea e Vietnam. Ora occorre vedere se l’Iraq avrà un effetto cumulativo rispetto alle ‘antipatie’ consolidate nel passato, o se rientra nei ricorrenti alti e bassi dell’antiamericanismo. Perchè i ‘marchi nazionali’ funzionano esattamente come quelli commerciali: sono il portato di opinioni che si stratificano negli anni e addirittura nei decenni. E per cambiare queste percezioni occorrono tempi lunghi”.
“How to outrecruit Osama?” (Come reclutare meglio di Osama?), è la domanda provocatoria con cui commenta questi risultati Keith Reinhard, presidente di Bda (Business for democratic action), organismo bipartisan di cui fanno parte dirigenti di giganti pubblicitari come Tbwa e Bbdo, di multinazionali come McDonald’s, e studiosi di destra come Helle Dale (Heritage Foundation) e di sinistra come Joseph Nye (Harvard, autore di “Soft Power”) o Anne-Marie Slaughter (Princeton). “L’aumento dell’antiamericanismo”, dice Reinhard, “ci deve allarmare non solo per i nostri business e prodotti esportati all’estero, ma anche per il futuro delle nuove generazioni di americani. Il risentimento nei nostri confronti è alimentato dalla percezione che siamo arroganti come popolo, e che la nostra cultura - cinema, musica, tv - sia diventata troppo pervasiva. Nelle risposte al sondaggio, per esempio, spesso gli stranieri ci dipingono come ‘ambiziosi’. Il che a noi sembra un complimento, mentre in molte culture ha una connotazione negativa”.
“Il mio consiglio a Karen Hughes”, dice Anholt, “è quello di aggiungere ogni volta tre magiche paroline alle dichiarazioni degli uomini di governo americani: ‘If you like’, se volete. Perchè oggi la brand America ha bisogno di essere rebranded, ma questa non può essere un’operazione cosmetica: l’intero ‘prodotto’ necessita di una messa a punto. Quindi: vorremmo promuovere la democrazia in Medio Oriente, se volete...»
"Non esprimete giudizi perentori"
Poichè la praticità e’ un’altra caratteristica americana, il Bda ha pubblicato un libretto quasi commovente, destinato ai due milioni di statunitensi impiegati all’estero, ai sei milioni che ci vanno ogni anno per turismo, e ai 200 mila studenti americani in giro per il mondo. Vuole insegnare agli americani come rendersi simpatici, per tornare a farsi amare: “Prima di partire studiate la storia, la lingua, la cultura locale. Quando siete arrivati ascoltate, odorate, guardate, gustate, toccate... Non esprimete giudizi perentori, non date tutto per scontato... Prendete appunti, ricordatevi sempre che su cento persone al mondo solo cinque sono americani. Non paragonate sempre tutto agli Stati Uniti: non siete più nel Kansas... Se entrate in un negozio e nessuno si avvicina subito per chiedervi di cosa avete bisogno, non consideratela una maleducazione...” Normali consigli da guida turistica. Ma anche un’arma per Karen Hughes.
Mauro Suttora
1 comment:
interessante
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