Monday, November 21, 2005

Kristol/Fukuyama al Cfr

Al Council on Foreign Relations incontro sulle prospettive della destra statunitense in Iraq. Kristol a confronto con Fukuyama

UNA SERATA TRA CONSERVATORI CHE CHIEDONO A BUSH PIU' DECISIONE

Il Foglio, 23 novembre 2005

di Mauro Suttora

New York. "Sull'Iraq sono moderatamente ottimista. Abbiamo risolto un problema - Saddam - e sono convinto che alla fine vinceremo. Non vedo perchè dovremmo fare autocritica. E se dovessi muoverne una al presidente George Bush, è quella semmai di non essere abbastanza ambizioso: sulla democratizzazione dovremmo essere più pressanti, sia con i nostri alleati Egitto e Arabia Saudita, sia con la Siria". William Kristol, direttore del settimanale di Rupert Murdoch Weekly Standard e leader neocon, era tranquillissimo l'altra sera al Council on Foreign Relations. Anche perchè una volta tanto giocava in casa: il titolo del dibattito infatti era "Guerra in Iraq: le prospettive dalla destra". I suoi interlocutori: Gary Rosen, vicedirettore del mensile Commentary fondato da Norman Podhoretz, e Francis Fukuyama, professore di economia politica alla Johns Hopkins University. Perfino il moderatore non era neutrale: Roger Hertog, finanziere di Wall Street e finanziatore della stampa conservatrice.

E' stato Fukuyama, quindici anni fa avventato teorico della "fine della storia" (dopo il crollo dell'Urss), a fare il controcanto ai neocon: "Ora mi considerano quasi un apostata, ma mi stupisce che proprio loro, avversari ideologici di un qualsiasi progetto di ingegneria sociale in politica interna, per quella estera propugnino invece il progetto più straordinariamente ambizioso di questo tipo: democratizzare il Medio Oriente. Impresa nobile e auspicabile, ma la cui fattibilità è ancora tutta da dimostrare."

A Kristol le attuali polemiche sulla presenza o meno di armi di distruzione di massa in Iraq e i fallimenti dell'intelligence importano poco: "Bush non si è certo svegliato una mattina dicendo 'Hey, andiamo a farci questa bella avventura in Iraq'. Non era neanche inevitabile andarci. Secondo gli europei, per esempio, abbiamo fatto una cosa terribile. Ma anche rispettati conservatori americani come Brent Scowcroft dopo l'11 settembre continuavano a ragionare con la mentalità del containement, che bene o male ci ha assicurato mezzo secolo di pace. A tutti costoro però dobbiamo chiedere: qual era l'alternativa alla rimozione di Saddam? Avremmo dovuto tenere le nostre truppe sul suolo sacro dell'Arabia Saudita per continuare a proteggerla dal dittatore. Le sanzioni all'Iraq stavano per essere tolte..."

"I realisti, anche repubblicani, erano disposti a trovare un accordo con un altro dirigente baathista dopo la caduta di Saddam", aggiunge Rosen, "ma sarebbe stato questo un risultato decente? E, parlando di alternative: senza guerra oggi Saddam sarebbe ancora lì. Ma è provato che con uno come lui nè la deterrenza nè il containement funzionavano. Oggi ci confronteremmo con l'incubo non solo delle armi atomiche, chimiche e biologiche irachene, ma anche con il pericolo che Saddam le dia aa Al Qaeda".

A Fukuyama che teme una "metastasi terrorista" dopo l'attentato in Giordania Kristol risponde che non vede questo pericolo: "Ora non è peggio di tre anni fa. Abbiamo seri problemi in Iraq, ma nel resto del mondo gli attentati non sono aumentati. Quanto ai vari sondaggi secondo i quali l'antiamericanismo sarebbe aumentato a causa del nostro intervento, domando: ma 30/40 anni fa, quando certi satrapi mediorientali berciavano contro di noi e volevano espropriarci, le cose andavano meglio? Né oggi mi risulta che improvvisamente i giovani arabi o islamici non vogliano piu venire a studiare negli Stati Uniti. Quanto agli iracheni, l'80 per cento vogliono che restiamo. E allora perchè dovremmo indicare stupidamente una data per il nostro ritiro? Quello sì che sarebbe un disastro, se fosse precipitoso. Sarebbe una tragedia anche se perdessimo l'appoggio degli sciiti: allora sì che dovremmo andarcene. E dove, poi? In una base in Kuwait, per poi tornare se scoppia la guerra civile? Uno scenario da incubo. Tutto questo ci costa 80 morti al mese? Sì, ed è tremendo. Ma se fosse vero che la maggioranza degli iracheni non ci vuole, altro che 80 morti... Non mi preoccuperei neppure eccessivamente per l'aumento dell'isolazionismo qui da noi: una leadership forte riesce a far comprendere al Paese che dopo l'11 settembre è necessario un nostro livello di coinvolgimento più alto all'estero".

Mauro Suttora

Friday, November 18, 2005

Bob Tisch

PORTACHIAVI, ALBERGHI, FOOTBALL. COSI' BOB TISCH DIVENTO' L'ANTI TRUMP

di Mauro Suttora

Il Foglio, 18 novembre 2005

Addio allo zio Paperone piu' simpatico d'America

New York. La sua famiglia traslocava ogni tre anni. Così, ogni volta risparmiava tre mesi d'affitto: lo sconto iniziale offerto dai proprietari per attirare nuovi inquilini. Non che i genitori di Bob Tisch fossero poveri. Suo padre, emigrato dalla Russia, era piccolo imprenditore nel ramo vestiti, e poi si è dato alla pallacanestro. Ma la depressione degli anni '30 costringeva anche la classe media a risparmiare su tutto.

Gli inflissero un nome impressionante, quando nacque nel 1926: Preston Robert. Mai usato. Bob scorrazza per Bensonhurst, il quartiere di Brooklyn dove ebrei e italiani convivono nei termini di una perenne tregua armata. Il "C'era una volta in America" del ragazzo Tisch si dipana poi (causa i traslochi triennali) nel Bronx, e quindi di nuovo a Brooklyn, dove prende il diploma liceale. Tutte le estati nel campeggio gestito dalla mamma, piccolo investimento familiare. Infine la guerra, e nel '44 l'università. Lì lo incontra Joan, mentre lui vende portachiavi di fronte allo stadio di football: uno per dieci cents, due per quindici. Si sposano nel '48.

Bob è ancora studente di legge ad Harvard quando consiglia a suo padre di comprare un vecchio albergo del New Jersey per 175mila dollari. Lo rimettono a posto, aggiungono una piscina e inventano "promozioni" bizzarre, come le tre renne fatte venire apposta dalla Finlandia per trascinare una slitta invernale. Successone. Iniziano gli anni '50: la famiglia Tisch ha tanti di quei soldi che si mette a giocare a Monopoli con terreni, case e hotel ad Atlantic City. Il fratello di Bob, Larry, fiuta gli affari e compra alberghi decrepiti, anche a Manhattan, per pochi dollari. Poi arriva Bob che li restaura, aumenta le tariffe e li gestisce. Controlla tutto: vuole assumere di persona perfino i fattorini.

Nel 1956, quando costruisce il suo primo grande albergo in Florida, paga sull'unghia 17 milioni di dollari. Nienti prestiti, il contrario di Donald Trump. Il primo anno ha già fatturato 12 milioni. Il segreto: le convenzioni aziendali. Nel 1960 l'antitrust costringe il colosso del cinema Loews a dividersi in due: da una parte la produzione dei film, dall'altra le sale. I fratelli Tisch comprano queste ultime con 65 milioni. Poi ne demoliscono alcune per costruirci alberghi, come il Summit da 800 camere a Lexington Avenue, primo nuovo hotel a Manhattan dai tempi della Depressione. E l'Americana con duemila stanze è l'albergo più alto del mondo (cinquanta piani) quando apre nel '62.

Bob e Larry non sanno più dove mettere i soldi. Differenziano gli investimenti, e nasce un "conglomerato": comprano società di tabacco (Lorillard), assicurative (Cna), di orologi (Bulova). Mentre il fratello coltiva la passione della tv (presidente Cbs per nove anni) e il figlio Steve quella cinematografica (produttore di "Forrest Gump"), Bob si dà al servizio civico. Negli anni '70 inventa i "power breakfast", i leggendari "breakfast da Ti...sch" che tiene ogni mattina nel suo hotel Regency di Park Avenue, e ai quali partecipano Henry Kissinger, l'allora sindaco di New York David Dinkins, e politici, finanzieri, industrali, attori. Si mangia, si chiacchiera e si fanno affari.

Bob Tisch ha una simpatia straordinaria ("larger than life") e contagiosa. S'impegna per tirar fuori la Grande Mela dalla crisi finanziaria del '76: viene nominato "ambasciatore di New York a Washington" dal sindaco, e conserva questa carica informale e gratuita fino al '93. Coagula gli investimenti per il centro congressi Javits. Nel '76 e '80 è presidente organizzativo delle convention democratiche, ma il suo impegno è bipartisan. Nell'86 Ronald Reagan lo nomina a capo delle Poste Usa, che subiscono la concorrenza dei corrieri privati.

A Bob piace lavorare anche di domenica, e quindi fino a 35 anni non vede neanche una partita di football. Ma a 65 anni vuole togliersi un altro sfizio, e compra la metà della squadra dei New York Giants. Rischia di passare alla storia soprattutto per questo, a giudicare dai necrologi di ieri. Coincidenze: l'altro proprietario, Wellington Mara, è morto tre settimane fa a 89 anni, di tumore. Il fratello Larry, dopo aver finanziato la costruzione di metà New York University (compreso il restauro della stupenda villa Acton, campus fiorentino), è scomparso due anni fa. Oggi l'impero Tisch vale 74 miliardi di dollari. Un anno fa a Bob è stato diagnosticato un tumore al cervello. Lui ha continuato a far colazione al Regency e a regalare centinaia di milioni per costruire palestre nelle scuole. Il Paperone simpatico è morto il 15 novembre a 79 anni nella sua casa di Manhattan.

Internet resta agli Usa

MA COSI’ HA VINTO LA LIBERTA’

quotidiano PuntoCom
venerdi’ 18 novembre 2005

Ci si comincia a dividere già sul nome del vertice: Smsi (Sommet Mondial sur la Societé de l’Information), alla francese, o Wsis (World Summit on the Information Society), all’inglese? I 17 mila delegati provenienti da tutto il mondo che ieri hanno aperto a Tunisi la megaconferenza dell’Onu vorrebbero, nella grande maggioranza, togliere agli Stati Uniti il controllo sull’ente che gestisce Internet, l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers).
Si tratta di una società privata della California senza scopo di lucro che dagli anni ‘90 regola la concessione degli indirizzi web e risolve le dispute. La sua sede è a Marina del Rey (Los Angeles). In teoria dipende dal ministero del Commercio statunitense, ma nella pratica non ha mai subìto interferenze, né ne ha imposte alla rete. Una gestione notarile, abbastanza libertaria, che si è limitata ad assecondare la spontaneità del mercato. Aggiungendo per esempio i nuovi suffissi tematici .biz (per le utenze d’affari), .info (per i media), .coop (cooperative), .name (per i privati), o quello geopolitico .eu (Europa).

«Ma chi ci garantisce che in futuro gli Usa continuino con l’attuale laissez-faire, soprattutto in caso di emergenze terroristiche?», si chiede il quotidiano francese di sinistra Libération. La risposta, probabilmente, ha il nome di un giornalista proprio di Libération, Christophe Boltanski, picchiato e accoltellato il 12 novembre da una squadraccia paragovernativa tunisina. Boltanski aveva osato scrivere articoli su sette dissidenti tunisini incarcerati, e sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Tunisia, Paese considerato “moderato”. E’ subito tornato in Francia, sconvolto. Ma quello tunisino è solo uno dei tanti regimi repressivi che amerebbero controllare direttamente i server internet per poterli censurare più agevolmente. Il sito del partito radicale italiano, per esempio, che appoggia i dissidenti, in questi giorni è stato oscurato in Tunisia.

Non a caso i principali avversari dell’attuale monopolio Usa su Internet sono Paesi autoritari o dittatoriali come Cina e Iran. Per loro è essenziale controllare il traffico sulla rete, e quindi limitare l’odierna condizione di sostanziale festosa anarchia autogestita. Anche perchè, appena in un Paese il potere comincia a vacillare, si assiste immediatamente a un’esplosione di blog politici, come nelle ultime settimane in Siria. Ma, ovviamente, i regimi polizieschi si nascondono dietro all’antiamericanismo per coagulare consenso sull’ipotesi di un passaggio di poteri dall’Icann americano all’Onu: «Basta con il controllo unilaterale degli Usa» è il loro slogan.

Fra un’Icann americana e un’Onu condizionata dalle dittature, la soluzione potrebbe stare nel mezzo: un’agenzia tecnica come la Uit (Unione internazionale delle telecomunicazioni), che da Ginevra coordina da sempre i traffici e le frequenze di radio, tv e telefoni. Ma mentre sotto l’amministrazione Clinton gli Usa sembravano orientati ad accettare una rapida internazionalizzazione dell’Icann, lo scorso giugno l’amministrazione Bush ha dichiarato che intende mantenerne il controllo per un tempo indefinito. E questa posizione nazionalista ha aizzato reazioni simmetriche di segno opposto. Ormai il conflitto si è totalmente politicizzato, è diventato una questione di principio.

Fra i venti membri del consiglio d’amministrazione dell’Icann c’è un italiano, Roberto Gaetano, che da trent’anni lavora per agenzie dell’Onu fra Vienna e Ginevra. Presidente dell’Icann fino al dicembre 2007 è Vinton Cerf, al quale proprio la scorsa settimana il presidente Usa George Bush junior ha conferito la massima onoreficenza civile statunitense, la Medaglia della Libertà. Cerf può essere considerato il papà di Internet: ne ha inventato lui il software fondamentale, il TCP/IP.

A finanziare fino agli anni Settanta il progetto Arpanet, predecessore di Internet, fu il Pentagono. Ma, paradossalmente, proprio la principale caratteristica tecnica richiesta dai militari statunitensi, e cioè la flessibilità del sistema di comunicazione, con il massimo decentramento per consentirgli di funzionare anche dopo un attacco che ne mettesse fuori uso alcune parti, è oggi l’ostacolo più grosso per i “normalizzatori”: «Controllare il flusso della rete è impossibile», avverte Leonard Kleinrock, scienziato dell’Ucla (University California Los Angeles), «sarebbe come pretendere di controllare il flusso degli oceani».

Per una volta, quindi, i libertari, i giovani, gli hackers, i noglobal abitualmente schierati contro gli Stati Uniti in quasi tutti i campi, si ritrovano involontariamente ma inevitabilmente schierati al fianco dell’America: a chi ha a cuore la libertà del web conviene l’attuale approccio non burocratico dell’Icann. Il che non vuol dire che anche dentro agli Stati Uniti non esistano forti spinte per una maggiore intrusione poliziesca in Internet: l’emergenza terrorismo spinge automaticamente le autorità a chiedere barriere, controlli, divieti. Ma finora i libertari hanno avuto la meglio.

Friday, October 28, 2005

Lapo Elkann Agnelli

ECCO COME SI DISINTOSSICA IN ARIZONA

Oggi, mercoledi 26 ottobre 2005

Wickenburg (Stati Uniti), ottobre
Sarà un ex colonnello pilota militare dell'Air Force, l'aeronautica americana, a tirar fuori Lapo Elkann dalla droga? Pat Mellody, 72 anni, è un personaggio qui a Wickenburg. Siamo nel deserto dell'Arizona, cento chilometri a nord-ovest e un'ora di auto da Phoenix. Ma ai vip con l'aereo privato questo paesino di seimila abitanti offre anche un aeroporto. Vegetazione principale: i saguari, gli alti cactus a ipsilon tipici dei film sul Far West e dei cartoni animati di Gatto Silvestro. Dopo il paese, si imbocca la statale 93 fino ad arrivare in un posto incantevole, con vista mozzafiato sulla valle del fiume indiano Hassayampa e i monti Bradshaw.

Qui c'è il centro di recupero The Meadows (I Prati), fondato da Mellody 27 anni fa. Era un ranch, lo Slash Bar K, dove i turisti giocavano a fare i cowboy con i cavalli e il lazo. «Ma oggi Mellody è diventato il terzo datore di lavoro a Wickenburg», dicono in paese. Al primo posto c'è un'altra comunità, il Remuda Ranch, riservato ad anoressiche e bulimiche. Al secondo c'è la scuola. E al terzo ecco il rehab (centro di riabilitazione) più famoso del mondo, a causa dei famosi che ci arrivano da ogni parte del globo. L'ultima, la modella cocainomane inglese Kate Moss, sta per uscire dai Meadows. C'è arrivata alla fine di settembre, e sta completando i 35 giorni del programma. Stessa sorte attenderebbe Lapo.

Negli Stati Uniti i tossicodipendenti non restano in comunità per anni, come in Italia. I percorsi di riabilitazione sono molto più veloci e costosi. Quello dei Meadows viene mille dollari al giorno, più annessi e connessi (spese alberghiere, farmaci, eventuali cure supplementari). Il totale giornaliero raggiunge a volte anche i 3.000 dollari. I posti sono solo settanta, ci sono piscina e campi da tennis. Viene trattato ogni tipo di dipendenza: non solo da cocaina ed eroina, ma anche da alcol, sesso, gioco d'azzardo. Multi-disorder facility, la chiamano: struttura per vari disordini.

Massimo riserbo, ovviamente, sui clienti. No comment totale su nomi, arrivi, partenze. Ma di se stesso Mellody racconta qualcosa: «Sono cresciuto ad Akron, nell'Ohio, proprio la città dov'è nata la Alcolisti Anonimi. Mio padre partecipò a uno dei primi programmi». Poi, durante la guerra del Vietnam, l'incarico di curare i soldati reduci dalla jungla che si aggrappavano a sostanze di ogni tipo. Infine, l'arrivo in Arizona per gestire Meadows. Ne prende presto il controllo con i suoi programmi che sono un misto di saggezza Zen, New Age e buon senso californiano. Incontra la moglie Pia, infermiera, ex alcolista pure lei, e autrice di quattro libri sul loro metodo in dodici stadi per affrontare le varie dipendenze.

Ogni anno quasi duemila tossici vengono curati a Wickenburg dentro a cinque centri. In paese non sono granché fieri di questo record, preferiscono parlare invece dei 22 mila turisti che nel 2004 hanno visitato i sette ranch dei cowboy sopravvissuti. Ma il calcolo della convenienza è presto fatto: i turisti pagano 100-200 dollari al giorno, i tossici dieci volte tanto. Ormai l'economia del paese è stata essa stessa drogata da questo viavai di celeb rehab. Non molto lontano da Wickenburg c'è Sedona, un'altra piccola «capitale mondiale» dell'anti-vizio e famoso centro del New Age dove ex hippies sono in perenne ricerca di «energie positive».

Lapo è solo l'ultimo dei vip segnalati qui per i motivi più diversi. Nei Meadows, per esempio, è venuta l'anno scorso la modella Elle Macpherson a curare la depressione post-parto che l'ha fatta divorziare dal marito. L'ex marito di Halle Berry, Eric Benet, ha affrontato la sua mania per il sesso e l'incapacità di restare fedele. E poi AJ McLean, uno dei Backstreet Boys, la moglie del senatore George McCain, il figlio del cantante Rod Stewart, il calciatore Paul Gascoigne, una cantante delle Atomic Kitten. Schiava della polvere bianca era pure Whitney Houston, mentre il chitarrista dei Rolling Stones, Ron Wood, si è asciugato dalla bottiglia.

Dentro, perfino una droga blandissima come il caffè è vietata. Qui Lapo Elkann non potrà telefonare, né fumare. Mangerà cibi senza zucchero, e tante fibre. La sua sveglia suonerà alle sei del mattino, andrà a nanna entro le dieci. E dovrà rifarsi il letto. Non riceverà le visite di amici né di parenti strettissimi. Saranno ammesse solo alla domenica verso la fine delle cinque settimane. La sua terapia prevede anche sessioni di gruppo «per condividere e smaltire il dolore» e pittura per rilassarsi (consigliati gli autoritratti, per riacquistare stima in se stessi). Non mancano agopuntura, yoga, t'ai chi, stretching. Una squadra multidisciplinare di psichiatri, psicologi e infermiere segue costantemente ogni malato, uno per uno. Se fanno i bravi, i pazienti vengono ricompensati con una notte nel deserto assieme a un indiano Navajo, il quale a un certo punto agita una penna bianca in aria per simboleggiare l'espulsione del «bagaglio emozionale».

Con le dimissioni dalla clinica la cura non finisce. Come nelle università, infatti, i «laureati» di Meadows vengono caldamente sollecitati a rimanere «alunni», ex allievi in contatto fra loro nelle città di origine. Un po' per non ricaderci, un po' per offrire reti di protezione ai nuovi arrivati. Il motto di Meadows è: «Where recovery becomes reality», dove il recupero diventa realtà. Non ci resta che augurare anche a Lapo che la guarigione diventi realtà.

Mauro Suttora

Friday, October 21, 2005

La famiglia con 16 figli

... e tutti iniziano per J...

Oggi, 20 ottobre 2005

Springdale (Stati Uniti)
Quando Jim Duggar, agente immobiliare dell'Arkansas (lo stesso stato dell'ex presidente Bill Clinton), sposò Michelle nel 1984, l'idea era di avere due figli. Ma con calma, perchè lei era appena diciottenne. Il primo, Joshua, nacque nel 1987. «Subito dopo rimasi di nuovo incinta», racconta Michelle, «nonostante prendessi la pillola. Ma ebbi un aborto spontaneo. Noi siamo molto religiosi, e leggemmo sulla Bibbia che i bambini sono un regalo di Dio. Però, usando gli anticoncezionali, ci sembrava di rifiutarli. Così gliene chiedemmo altri, e iniziai subito la gravidanza di due gemelli, Jana e John-David, che oggi hanno 15 anni. Da allora non abbiamo più smesso: ho avuto quasi un figlio ogni anno».
L'ultima, Johannah, è arrivata due settimane fa. In mezzo: Jill, Jessa, Jinger, Joseph, Josiah, Joy-Anna, i gemelli Jedidiah e Jeremiah, Jason, James, Justin e Jackson, di un anno e mezzo. Tredici parti naturali, tre cesarei. Dieci maschi, sei femmine: totale, sedici. Record mondiale? Chissà, forse in Africa... Quel che è certo, è che tutti i loro nomi iniziano per J. Perchè? «Non c'è un motivo particolare, abbiamo cominciato da mio marito Jim», spiega la supermamma Michelle, «e poi abbiamo continuato così per non far sentire nessuno escluso».

Ma come si svolge la vita in una famiglia con sedici figli? «Col tempo abbiamo sviluppato una strategia giornaliera per assicurare un ordinato andamento delle cose. La nostra casa ha 240 metri quadri con quattro camere da letto, e molti letti a castello. Jim ed io ci alziamo alle sei, i ragazzi alle sette. Ognuno si lava, si veste, si pettina, e i più grandi ne hanno uno o due da accudire. Alle otto ci sediamo per fare colazione. Abbiamo calcolato che ogni settimana consumiamo un'ottantina di litri di latte, quindici forme di pane, sei chili di burro. E poi 35 chili di mele, trenta di patate, 24 di gelato, venti di riso, una quindicina di mais e di frutta surgelata, cinque di carne di pollo... Dimentico qualcosa? Ah, sì, 140 banane. La nostra spesa settimanale per il cibo è sui 500 dollari.

«A colazione leggiamo qualcosa dal libro dei Proverbi, poi ognuno pulisce una parte della casa. I grandi hanno dei compiti fissi, una specie di 'giurisdizione', e si possono far aiutare dai più piccoli a loro affidati. Durante il giorno stiamo attenti a non lasciare le cose in giro e a buttare ogni cartaccia e residuo, ma il disordine si crea comunque. Alle nove comincia la scuola. I nostri figli studiano tutti a casa, abbiamo deciso così dopo aver visto gli eccellenti risultati di altri ragazzi educati in questo modo. In questo modo si crea anche più unità in famiglia. E poi, studiare assieme è più divertente. Io ho cominciato a insegnare a Joshua quando ha compiuto quattro anni. Anche qui, i più grandi insegnano lettura, scrittura e matematica ai più piccoli, e poi si dedicano ai propri compiti individuali. Tutti imparano a suonare il violino e il pianoforte.

«A mezzogiorno interrompiamo per pranzare. Jill, che ha 14 anni, è quella che più spesso mi aiuta a preparare da mangiare. Dopo puliamo i piatti, riordiniamo, e all'una e mezzo quelli che hanno meno di quattro anni vanno a fare il riposino. Con i più grandi, invece, nel pomeriggio io stessa affronto le materie più impegnative: scienza, storia, legge, medicina. Impariamo a memoria molte poesie e anche inni religiosi, per esercitare il cervello. Alle quattro finiscono le lezioni collettive e fino alle cinque tutti studiano per conto proprio. A cena tocca a Jana, la nostra primogenita femmina, aiutarmi a far da mangiare. Alle sette tempo libero per tutti, anche se visto che abbiamo un solo pianoforte da dividere in undici dobbiamo fare i turni fino a sera. I più piccoli si preparano ad andare a letto, e uno dopo l'altro tutti fanno la doccia o il bagno e si lavano i denti.

«Alle nove di sera arriva quello che è forse il momento pìu bello della giornata. Papà, che è tornato dal lavoro, ci legge dei brani della Bibbia e poi ne discutiamo assieme. I più piccoli si addormentano sul divano, e comunque andiamo tutti a letto alle dieci. Intanto la lavatrice è sempre in funzione: facciamo sette bucati al giorno, mettiamo tutto nell'asciugatrice e poi qualcuno mi aiuta a piegare e riporre negli armadi. Una stanza intera l'abbiamo dovuta convertire in armadio per i vestiti da appendere. Calze, mutande e magliette di ciascuno stanno in grandi scatole col nome del proprietario. Le femmine portano calze bianche, i maschi nere, così possiamo fare lavatrici uniformi. A ogni cambio di stagione mettiamo i vestiti che non usiamo più in grossi scatoloni che etichettiamo e portiamo in cantina, per liberare gli armadi.

«Avere tanti figli può sembrare faticoso, ma non è così, perchè tutti aiutano. Lavoriamo in squadra, al muro della sala da pranzo c'è appesa la lista dei compiti di ciascuno. Abbiamo anche delle pagelle mensili, con i voti che ciascuno prende in quattro campi: studio, lavori domestici, musica e igiene personale. Così i bambini si responsabilizzano e imparano a essere premiati o puniti. In casa ci sono sette computer, tutti col filtro per internet, ma niente tv.

«Andiamo a fare la spesa nel minivan con 15 posti, oppure nel bus con 21 posti se dobbiamo comprare parecchia roba. Di solito riempiamo dai cinque ai sette carrelli. Non riceviamo alcun aiuto finanziario esterno, lo stipendio di Jim (dai 50 ai 70 mila dollari annui) ci basta, ma stiamo molto attenti ad approfittare di ogni offerta speciale, e a risparmiare. Compriamo molti vestiti e giocattoli usati... Ogni tanto facciamo una scampagnata col nostro bus. Ho calcolato di aver avuto doglie per un totale di 127 ore, ma se Dio ci benedirà con altri figli li accoglieremo con gioia. So che posso sembrare una pazza a dirlo, ma ce la faremo comunque. Ora stiamo comprando una nuova casa da 700 metri quadri con due grandi dormitori per i maschi e le femmine. Non vediamo l'ora di traslocare, ma siamo comunque una famiglia unita e felice».

Mauro Suttora

Thursday, October 20, 2005

Socialisti Usa e radicali

DIASPORE SOCIALISTE USA (E CONTORNO DI RADICALI)

Il Foglio, 20 ottobre 2005

di Mauro Suttora

E' morto Kemble, neocon dal volto umano e capo dei Social democrats, con il pallino della democrazia

New York. E' morto Penn Kemble. Leader socialdemocratico americano, era dirigente della Freedom House, del Consiglio delle Democrazie, e negli otto anni di Bill Clinton era stato vicedirettore dell'Usia (United States Information Agency). Intellettuale stimato e bipartisan, nel 2002 anche l'amministrazione Bush gli aveva dato un incarico, in una commissione sul Sudan. Nello stesso anno ha firmato un appello per la protezione della libertà a Hong Kong del Pnac (Project for a New American Century), il cuore dell'iniziativa politica neocon. E l'anno scorso è stato tra i promotori dell'appello bipartisan del Foglio per l'invio di soldati Nato in Iraq, firmato fra gli altri da Gianfranco Fini, Umberto Ranieri, Franco Marini e Piero Ostellino.

Strani tipi, i socialdemocratici statunitensi. Nella gioventù socialista Usa, fra gli anni Sessanta e Settanta, sono passati personaggi poi famosi come Jeane Kirkpatrick (ambasciatrice di Ronald Reagan all'Onu) e Paul Wolfowitz. Dirigente dell'organizzazione, con Kemble, è stato Joshua Muravchik, oggi colonna dell'Aei (American Enterprise Institute), il think tank neocon. Del gruppo fa parte anche il quotato saggista Paul Berman, che ha appoggiato la guerra in Iraq ma l'anno scorso ha votato John Kerry. Il socialdemocratico con la posizione di governo più importante, anch'egli impermeabile ai cambi di amministrazione, è Carl Gershman, presidente da ben 21 anni del Ned (National Endowment for Democracy), voluto da Ronald Reagan per combattere l’Impero del Male (l’Urss), e oggi impegnato ad assistere finanziariamente i Paesi in transizione verso la democrazia (all'attivo le rivoluzioni nonviolente in Serbia, Georgia e Ucraina).

La lotta per la democrazia. Questa è la principale mission che si sono dati i Social democrats statunitensi. E non da ieri: il congresso della diaspora socialista Usa risale infatti al 1972, un terzo di secolo fa. Allora l'onusto Socialist Party of America si spaccò in tre proprio perchè all'ex trotszkysta Max Shachtman non andava giù la tolleranza per l'Unione Sovietica. La sua corrente vinse il congresso, e gli "equivalentisti" (quelli che mettevano Usa e Urss sullo stesso livello) se ne andarono. Quei "compagni" esistono ancora, anche se ridotti a poche centinaia: stanno nel Socialist Party Usa e nei Democratic socialists. L'Internazionale socialista riconosce come propri membri americani solo questi ultimi, oltre ai Social democrats.

Il legame con i radicali italiani

Contrariamente all'Italia, non c'è alcuna possibilità di riunificazione fra i socialisti e socialdemocratici statunitensi. I Democratic socialists, infatti, sono il classico partitino la cui settarietà e faziosità è inversamente proporzionale alla propria dimensione. Si accontentano di essere una piccola corrente all'interno del partito democratici. I Social democrats, al contrario, hanno da tempo abbandonato la forma partito e operano esclusivamente come club di liberi pensatori. Sulla politica interna ed economica ci sarebbero diversi punti di contatto, ma la politica estera li divide irrimediabilmente: si accusano reciprocamente di essere falchi e molli pacifisti.

Curiosamente, anche negli Usa come in Italia nelle vicende socialiste appaiono i radicali di Marco Pannella. Un pannelliano fiorentino di 30 anni, Matteo Mecacci, rappresentante del partito all'Onu, ha avuto infatti l'onore due settimane fa di essere invitato a parlare dal palco del Ned nello stesso giorno del presidente degli Stati Uniti. Al mattino George Bush ha tenuto un importante discorso nella sede del Ned di Washington, e nel pomeriggio Mecacci ha dibattuto gli stessi temi a New York con il numero due dell’Onu, Mark Malloch Brown, potente capo di gabinetto del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan.

Mecacci è stato presentato con parole lusinghiere da Gershman, il presidente socialdemocratico del Ned, all’auditorium del palazzo McGraw-Hill del Rockefeller Center, di fronte a una qualificata platea di ambasciatori ed esperti di politica estera: «Il partito radicale transnazionale di Emma Bonino si batte per una riforma dell’Onu, in cui le democrazie contino di più e non vengano ostacolate dalle dittature, che sono ormai soltanto una minoranza fra gli stati rappresentati al Palazzo di vetro». Mecacci ha scritto anche vari editoriali con il segretario radicale Daniele Capezzone sul Washington Times, il quotidiano legato al Pentagono. Destra, sinistra, nonviolenza, guerra? Socialdemocratici americani e radicali italiani non vedono contraddizioni e spargono il loro verbo democratizzatore ovunque.

Mauro Suttora

Wednesday, October 19, 2005

Angela Merkel

Oggi, 12 ottobre 2005

«Chi ha qualcosa da dire non ha bisogno di trucco»: così Angela Merkel, 51 anni, la nuova cancelliera tedesca, risponde ai consulenti «per l'immagine» del partito democristiano tedesco, quando la implorano di tenersi un po' più su, di mettersi un bel rossetto, di passare più spesso dal parrucchiere. Niente da fare. Lei, tetra e tetragona come la teutonica prof di chimica che è, per tutta la campagna elettorale non si è curata della forma, andando dritta alla sostanza. Ha promesso ai suoi compatrioti meno assistenza, meno sussidi, più competizione, più libero mercato. E alla fine ha vinto.

Sarà la prima donna a guidare la Germania dopo mille anni: dai tempi delle imperatrici Teofania di Bisanzio e di sua suocera Santa Adelaide, che dal 983 al 995 fecero da reggenti al minorenne Ottone III. Adolf Hitler si rivolta nella tomba, di fronte a questa signora così poco marziale che si è impadronita del Reich. Ma sotto l'apparenza dimessa e pacioccona, e nonostante il nome, Angela ha un'anima di ferro. Altro che «Angie», come hanno cercato di soprannominarla quelli delle pubbliche relazioni: a ogni suo comizio trasmettevano l'omonima, romantica canzone dei Rolling Stones per ingentilirla. Missione impossibile: come si fa ad addolcire la figlia di un severo pastore luterano cresciuta per 35 anni sotto la dittatura comunista della Germania Est, e sopravvissuta per i successivi quindici alle trappole degli squali della politica, «amici» e nemici uniti nell'invidia della sua rapida ascesa?

Angela Merkel è la più giovane cancelliera del dopoguerra (meglio non risalire fino a Hitler, nominato a 44 anni). E' anche la prima che viene dall'Est, e la prima democristiana divorziata e risposata. Suo padre, oggi quasi ottantenne, continua a vivere nel paesino a nord di Berlino in cui la portò quand'era ancora in fasce. Da Amburgo dov'era nata, infatti, la famigliola nel '54 si trasferisce all'Est, perchè a padre Horst Kasner la chiesa ordina di coprire una parrocchia rimasta senza pastore. «Solo due tipi di persone lasciano la Germania occidentale per quella orientale: i comunisti e gli idioti», commenta il traslocatore. Alla mamma il regime impedisce l'insegnamento: troppo pericoloso mettere in cattedra una che viene dall'Ovest, potrebbe essere una spia.

Angela e i fratellini (un maschio e una femmina) crescono nel clima di sospetto e terrore instillato dalla polizia segreta Stasi. La chiesa viene tollerata, ma suo padre subisce le angherie dei gerarchi: solo negli anni '70 gli concederanno il permesso per viaggiare un po' in Italia e in Gran Bretagna. Ma senza famiglia. «Eravamo i figli di un pastore», ricorda lei, «e dovevamo primeggiare in tutto per sopravvivere». Volontà d'acciaio: a otto anni rimane tre quarti d'ora sul bordo della piscina per trovare il coraggio di tuffarsi la prima volta. Dissimulazione: mai esprimere i propri pensieri, chiunque può fare una spiata. A 14 anni Angela simpatizza per i ragazzi della Primavera di Praga, ma guai a dirlo. Vuole fare la traduttrice, impara perfettamente il russo e l'inglese. Nel 1970 viene premiata dalla scuola con un viaggio all'estero: a Mosca. «Comprai lì, al mercato nero, il mio primo disco dei Beatles: Yellow Submarine».

Ma suo padre commette un'imprudenza: durante qualche riunione privata in parrocchia commenta gli scritti di Andrei Sacharov. Viene etichettato come dissidente, e ad Angela viene impedito di fare l'interprete (mestiere riservato ai fedeli alla linea). Così la ragazza si iscrive a chimica all'università di Lipsia. A 23 anni si sposa con un compagno di studi, dopo soli quattro anni divorzia, ma ne conserva il cognome: Merkel. Pare per non dover tornare al cognome del padre, col quale è in rotta. Tuttora i loro rapporti non sono buoni. Negli anni '80 Angela si specializza in fisica a Berlino, ed entra nella prestigiosa Accademia delle Scienze. Lì conosce Joachim Sauer, il suo secondo marito, più anziano di cinque anni. Figlio di un pasticciere, anche lui divorziato, è un'autorità mondiale nella fisica quantistica. Ma non può partecipare a congressi all'estero perchè rifiuta di iscriversi al partito comunista.

Angela invece naviga meglio, assume qualche incarico nella gioventù del partito che però non le verrà rinfacciato in seguito. I due convivono per tredici anni senza sposarsi. Lo faranno solo negli anni '90, quando lei è un pezzo grosso dc e un vescovo protesta pubblicamente. Ma ancor oggi il marito fa vita riservatissima, non si fa mai vedere assieme a lei in pubblico. La accompagna solo una volta all'anno al festival di Wagner a Bayreuth, ma anche lì rifiuta sempre di parlare ai giornalisti. I quali si vendicano chiamandolo «fantasma dell'opera».

Arriva la data fatidica: 9 novembre 1989. Quella sera crollano il Muro di Berlino e il comunismo. Ma Angela Merkel sembra un personaggio di Milan Kundera: manca l'appuntamento con la storia. Il suo appuntamento è con un'amica per andare in sauna, come ogni settimana. E non vuole mancare l'impegno. Fa la sua prima passeggiata a Berlino Ovest soltanto il giorno dopo. Con calma. L'entusiasmo le arriva qualche settimana dopo, quando si butta in politica per aiutare un partitino messo in piedi dai dissidenti protestanti che aveva conosciuto in famiglia. Poi arriva la riunificazione, e lei finisce nella Cdu nazionale. Anche perchè vari membri del suo ex partito vengono smascherati come collaborazionisti dei servizi segreti.

Inizia la seconda navigazione nella vita di Angela. Che lascia la carriera di scienziata e sceglie la politica a tempo pieno. Il cancelliere Helmut Kohl la nota, la prende sotto la sua ala e la valorizza. Prima la fa eleggere al Parlamento, poi la nomina ministro. C'è bisogno di volti nuovi dell'Est, in più lei è donna e quarantenne. La circospezione e la tenacia appresi dietro la cortina di ferro le tornano utili: «Mio padre mi ha insegnato a non fidarsi mai», confessa. Diventa ministro dell'Ambiente e si scontra con Gerhard Schroeder, allora presidente socialista della Bassa Sassonia. Il quale la umilia su una disputa di centrali nucleari. Lei gli promette vendetta. Ma la vera battaglia Angela la deve sostenere all'interno del proprio partito. La «cocca di Kohl» finisce pure lei all'opposizione quando nel '98 Schroeder vince le elezioni. I democristiani perdono il potere, si scatena la lotta per la successione.

Lei stessa, afferrato il pugnale di Bruto, uccide politicamente il suo padrino: è l'unica ad avere il coraggio di invitare pubblicamente Kohl, colpito dagli scandali, a farsi da parte. Poi però deve soccombere, lei protestante, ai potenti dc cattolici bavaresi, che rifiutano di candidarla al voto del 2002. Ma lei continua imperterrita a macinare politica sedici ore al giorno, non ha figli, si concede poche distrazioni (la lirica, i film di Dustin Hoffman). Un mastino. Edmund Stoiber e Wolfgang Schauble, i suoi rivali all'interno del partito, alla fine devono farle strada: sarà lei a sfidare Schroeder nel settembre 2005. L'attacco più cattivo glielo lancia la giovane e bella moglie del cancelliere socialista: «Non è una donna come le altre», alludendo alla sua scarsa avvenenza e alla mancata maternità. Il voto finisce in parità. Ma lei tiene duro, e alla fine si allea proprio con i socialisti. Senza Schroeder, però: c'era quel vecchio conticino da regolare...

Mauro Suttora

Musulmane

Una serata con Phyllis Chesler, la femminista che difende le donne islamiche dalle donne di sinistra

Il Foglio, 19 ottobre 2005

di Mauro Suttora

New York. Il femminismo è morto? Sì, se non sceglie come priorità il dramma delle donne islamiche. Lo sostiene Phyllis Chesler, 65 anni, dall’alto dei due milioni e mezzo di copie vendute di “Le donne e la pazzia”, caposaldo della letteratura femminista negli anni Settanta. Il sottotitolo del suo nuovo libro-choc (“The Death of Feminism”, che segue “Donna contro donna”, tradotto in Italia nel 2003 da Mondadori) fa imbestialire varie ex compagne: “What’s Next in the Struggle for Women’s Freedom”. Cioè: di cosa dobbiamo occuparci ora, per fa avanzare la libertà delle donne? Per Chesler la risposta è chiara: «L’apartheid schiavista subito dal mondo femminile nell’Islam. Se non capiamo il pericolo per i nostri valori - e per le nostre vite - rappresentato dal razzismo e dal sessismo dei reazionari musulmani, siamo morte: uccise dal virus della passività provocata dalla correttezza politica».

Venerdì sera, Quinta avenue di Manhattan, di fronte all’Empire State Building. La pioggia torrenziale non deterre decine di donne dall’affollare il salone dei dibattiti della Cuny (City University di New York), l’ateneo pubblico che fece aspettare 22 anni anche la Chesler prima di concederle la cattedra di ruolo in Psicologia. Ora però il suo avversario non è più l’establishment accademico maschile, ma il femminismo di sinistra. Incrostatosi esso stesso come nuovo potere, in una palude conformista dove per ogni docente repubblicano ce ne sono sette democratici (proporzione raddoppiata rispetto a trent’anni fa), e in cui i contributi pro-Kerry ad Harvard e negli atenei pubblici californiani (Berkeley, Ucla) hanno superato l’anno scorso di 19 volte quelli pro-Bush.

In questo ambientino, automatiche le proteste contro le organizzatrici del Now (National Organization of Women) e della Cuny appena annunciata la Chesler come protagonista della conferenza. «Davanti a un clima d’intimidazione degno dell’era McCarthy, ringrazio le dirigenti per aver difeso il primo emendamento alla costituzione, proteggendo la mia libertà di parola», esordisce la “traditrice”. Che difende tuttora l’intervento in Iraq, ma che già poche settimane dopo l’11 settembre 2001 suscitò clamore appoggiando l’attacco all’Afghanistan sul New York Times. E non ha migliorato il proprio status di pecora nera pubblicando due anni fa, lei ebrea di Brooklyn, una requisitoria contro “Il nuovo Antisemitismo”.

Il marito di Kabul

In questa sua ultima polemica contro il maschilismo islamico Phyllis Chesler parte da lontano, ma anche da molto vicino: «Nell’estate ‘61 mi trasferii a Kabul, dopo aver sposato il mio fidanzato Alì. Lui proveniva da una potente famiglia afghana, eravamo stati assieme per due anni frequentando l’università qui in America. Alì era delizioso, interessante, coltivato: parlavamo di Simone Signoret, Fellini, Proust e Dostoievski... Peccato che abbia smesso di parlarmi una volta in Afghanistan. Reimmerso nell’ambiente di famiglia, cambiò totalmente. Quanto a me, vissi segregata da quando all’aeroporto di Kabul mi confiscarono il passaporto. Ero praticamente agli arresti domiciliari, Ma anche in casa non potevo mai stare da sola, se volevo leggere o scrivere mi chiedevano perchè fossi così triste dal volerlo fare. Non esiste il concetto di privacy, da quelle parti. Ero prigioniera. Scoprii che il padre di Alì aveva tre mogli.
Dopo qualche mese di incubo riuscii a scappare e a tornare indietro. Baciai la terra quando atterrai all’aeroporto di New York. Ero incinta, ma se lo avessi detto a Kabul non mi avrebbero lasciata partire. Abortii».

Nulla è cambiato negli ultimi 44 anni, sostiene questa fondatrice del femminismo Usa: «Nell’Islam i matrimoni continuano a essere combinati, le donne vengono torturate, per le accusate di adulterio c’è la lapidazione. A scagliare la prima pietra sono il padre o il primogenito... E i maschi musulmani sono ancora affetti dalla sindrome di personalità multipla culturale, come il mio Alì: diversi quando sono in occidente, ritengono noi degli ingenui perchè di personalità tendiamo ad averne una sola... Di fronte a tutto questo, giustifico che gli Stati Uniti usino la propria potenza per sottrarre le donne islamiche al loro tremendo destino, e anche che facciano ricorso allo strumento militare come mezzo estremo».

Segue dibattito. Cagnara. Parlano alcune femministe di estrema sinistra, senza porre domande. Quando la Chesler interrompe i loro comizietti si mettono a urlare contro la censura, il fascismo e Bush. Unica obiezione sensata: le donne saudite stanno peggio delle irachene sotto Saddam, ma Riyad è alleata degli Usa. «Su questo mi trovo più a destra di Bush», risponde ironica Phyllis Chesler.

Mauro Suttora

Wednesday, October 05, 2005

George Clooney

CLOONEY MALATO

Oggi, 2 ottobre 2005

New York (Stati Uniti), ottobre

George Clooney è malato. Una malattia grave, anche se non mortale. Lo ha rivelato lui stesso alla giornalista americana Diane Sawyer, durante una trasmissione della rete Abc girata nella sua villa sul lago di Como. «A tutti, prima o poi, capita nella vita quell'anno in cui si invecchia dieci anni», ha confessato l'attore statunitense, «e a me è toccato un male raro e debilitante, con il fluido spinale che mi esce da naso. E pensare che all’inizio credevo fosse una semplice sinusite...».

Si tratta di una patologia collegata addirittura con il morbo della mucca pazza, perchè colpisce la «dura mater», ovvero la membrana che protegge il midollo spinale. Ma ne è una versione benigna, curabile se individuata in tempo, seppur dolorosa e fastidiosissima: «Praticamente quando starnutivo mi uscivano dei pezzi di testa dal naso», scherza oggi George, anche se all'inizio la sorpresa e la paura sono state grandi. «Dopotutto ho recitato per cinque anni in ER, quindi sono abbastanza abituato a situazioni del genere. Come quel malato che cominciò con un’emicrania, e finì con un tumore al cervello», dice l'attore 44enne, riferendosi al serial Tv che lo ha reso famoso, ambientato in un pronto soccorso (Emergency Room, appunto).

I sintomi del male sono forti mal di testa e perdite di memoria. La star, che negli ultimi tempi ha perso ben quattordici chili, li sta sconfiggendo poco a poco: «Ma sono sicuro che alla fine ce la farò, miglioro ogni giorno. Ho dovuto sottopormi a una quarantina di piccoli interventi chirurgici, mi hanno suturato e infilato tamponi nel naso. Però, tutto sommato, per me che faccio l’attore è stata un'esperienza interessante. Non ricordarsi le cose a breve termine ti colpisce proprio nell’attività professionale, si perde la fiducia in se stessi... Per esercitarmi ora mi tocca contare i gradini quando faccio le scale, e metto bigliettini dappertutto per non dimenticarmi le cose che devo fare».

E i mal di testa? «Ce li ho ancora, ogni giorno. Ma sempre meno, e più leggeri. Cerco anche di stare il più lontano possibile dai farmaci. Mia zia Rosemary Clooney, attrice di successo nei musical, si rovinò la vita e la carriera perchè usava tanti di quegli antidolorifici che ne divenne dipendente. Grazie a Dio io non ho avuto danni permanenti. Ma ogni giorno e ogni notte devo affrontare una piccola sfida. A volte mi sento come se dovessi respirare con una cannuccia stando sdraiato nel fondo di una piscina. E il disturbo peggiora con il passare delle ore che sto in piedi, perchè il peso del cervello spinge il fluido verso il basso e lo fa fuoriuscire... Comunque passare attraverso queste cose ti fa capire che ogni giorno è un regalo. E che non bisogna arrivare alla fine con dei rimpianti: “Ah, se avessi fatto questo, o quest’altro...»

E le donne, i bambini? Il nuovo Cary Grant, uomo desideratissimo dalle femmine dell’intero pianeta, non rimpiangerà un giorno di non aver avuto una moglie e dei figli? «Non prevedo di sposarmi nel prossimo futuro. Lo sono stato in passato, ma ora il matrimonio non rientra proprio fra le mie priorità. Non sto cercando nessuno. E non ho alcun desiderio di diventare padre. Lo so che può sembrare strano, ma non ho mai voluto avere figli. Anche perchè sarebbe una cosa che mi assorbirebbe molto, non prenderei certo una responsabilità simile alla leggera». Lo scapolo 44enne è stato nominato di recente «l'ultraquarantenne più sexy del mondo», ma lui scherza pure su questo: «Anche se avessero specificato “ultraquarantenne col cognome che inizia per C” avrei perso, perchè c'è già Sean Connery...»

Speranze svanite, quindi, per Gianna Elvira Cantatore, la 32enne pugliese che ultimamente era stata accreditata come nuova fiamma di Clooney. I due si erano conosciuti a una festa privata in una villa di Cernobbio, e in seguito ci sono state cene al ‘Gatto Nero’, ristorante a picco sul lago dei Como. Ma era stata lei a fargli la corte, spedendogli un mazzo di margherite nella villa di Laglio, e non viceversa. E, alla fine, anche questa volta lo splendido George ha liquidato la vogliosa candidata con un simpatico sorriso.

Ciò che gli sta veramente a cuore, in queste settimane, è il successo dell’ultimo film che ha diretto, Good Night and Good Luck. E’ la storia di un coraggioso giornalista televisivo americano che negli anni Cinquanta si oppose alla caccia alle streghe del senatore Joe McCarthy. Ma è anche un omaggio a suo padre, reporter tv. Ogni riferimento all’attuale situazione politica statunitense è assolutamente voluto.

Clooney non fa mistero di essere di sinistra: «La mia frase preferita nel film è: “Dobbiamo primeggiare grazie alle nostre idee, non con le bombe...” Mi piace perchè non è una frase che attacca questo o quello, che definisce il bene o il male, ma si limita a constatare che il nostro Paese può fare un sacco di cose positive e sorprendenti, per noi e per i nostri alleati. Quanto a mio padre, il momento più bello del film è stato la prima volta che gliel’ho fatto vedere, proprio qui nella villa mentre era in vacanza in Italia con mia madre. Alla fine si è alzato, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: ‘Tutto vero, bravo’. Per me è stato il massimo».

Il settimanale Newsweek ha già definito Good Night and Good Luck «il miglior film americano dell’anno». E ha tracciato un ritratto trionfale di quello che è non solo un attore, regista, produttore e sceneggiatore di successo, ma anche un uomo simpaticissimo, intelligente, di classe e impegnato. E’ un impegno politico gaudente, però, quello di Clooney. Ancora l’altra sera l’attore è andato a letto alle otto del mattino a Manhattan, dopo aver fatto bisboccia con gli amici alla festa d’apertura del festival del cinema di New York.

Quand’è nella sua villa italiana in vacanza, invece, i suoi orari sono più mattinieri: sveglia alle sette e mezzo, un’ora e mezzo per leggere i giornali, poi palestra, un giro in moto attorno al lago, ed è già l’ora di pranzo: «Alle due suona la campana e tutti, come una piccola mandria, arriviamo per mangiare. Ho sempre dai quindici ai venticinque ospiti. Sono stato molto fortunato con la mia carriera. Molte cose mi sono capitate per caso, ma sicuramente la svolta sono state le puntate di successo di ER, in tv ogni giovedì sera. Senza quel serial non avrei potuto permettermi questa villa».

In cucina ci sono ben quattro frigoriferi. «Una villa del diciottesimo secolo con dentro una superstar del ventunesimo», la definisce l’intervistatrice, con ammirazione per entrambe. «Sono stati questi suoi soffitti affrescati a conquistarmi», confessa Clooney, «ma nella camera matrimoniale non ci dormo, è troppo grande. Ha un bagno privato che da solo è più grosso del mio vecchio appartamento...»

E' la prima volta che i telespettatori americani possono vedere gli splendori di villa Oleandra, la magione con quindici camere da letto che Clooney possiede in riva al lago: «L'ho comprata dalla famiglia dei miliardari Heinz, e mi sento un po’ in colpa perchè sono un cattolico di origine irlandese: per molto tempo non ho avuto una lira. Ma tutto sommato è positivo avere complessi di colpa sui soldi, si possono utilizzare responsabilmente».

Ora Clooney vuole realizzare un altro sogno: aprire un casinò a Las Vegas. Lo farà in società con Rande Berger, marito di Cindy Crawford (ex top model e moglie di Richard Gere) e con gli inseparabili Brad Pitt e Matt Damon: «Ma sarà un casinò di classe, dove si entrerà solo se si è vestiti bene, e ci saranno feste danzanti... Come la prima volta che andai a Las Vegas con mia zia, e fui colpito dall’eleganza del posto». Insomma, la star di Ocean Eleven e Twelve vuole copiare le imprese di Frank Sinatra e Dean Martin non solo sullo schermo, ma anche nella realtà. Un quarto dei guadagni verrà però versato in beneficenza, promette Clooney.

E Brad Pitt? Sposerà la sua Angelina Jolie a villa Oleandra, come si sussurra? Clooney smentisce. Ma se non lo facesse, che matrimonio segreto sarebbe?

Mauro Suttora

Monday, September 26, 2005

TiVo

Arriverà mai in Italia il telecomando che elimina gli spot pubblicitari?

Oggi, 28 settembre 2005

risponde Mauro Suttora, corrispondente da New York

Forse. La società TiVo, fondata in California nel 1997 e quotata in Borsa, vende al costo di 50 dollari, più 13 di affitto mensile, un apparecchio che permette di registrare digitalmente, su hard disk, tutti i programmi televisivi. Ormai sono quasi quattro milioni i clienti negli Stati Uniti, i quali possono saltare gli spot azionando il tasto fast forward. La differenza con i normali videoregistratori a cassetta è che i comandi sono istantanei, e si possono applicare a programmi ancora in onda. Se, per esempio, un film è iniziato da un'ora, si può già cominciare a vederlo «purgandolo» della pubblicità. L'unica cosa che non si può fare, ovviamente, è precedere la visione prima dell'effettiva messa in onda.

TiVo ha avuto un tale successo che la parola è diventata un verbo, sinonimo di registrare ("Ti tivo la partita"). Però la questione della pubblicità è assai delicata, e TiVo si è inimicata parecchi settori: pubblicitari, inserzionisti, e anche le reti tv che trasmettono spot. Così, anche se eliminare la réclame è il secondo motivo per l'acquisto di Tivo, dopo quello ufficiale di vedere i programmi all'ora che si vuole, la società non parla mai di questa caratteristica. E in Gran Bretagna, unico Paese europeo dove era sbarcata, ha dovuto fare marcia indietro: non vende più nuovi apparecchi, si limita a gestire quelli già in circolazione.

Stan Lee

I MIEI SUPEREROI? FANTASTICI E FRAGILI

Oggi, 28 settembre 2005

Dietro il film del momento c'e' Stan Lee, che a 82 si diverte ancora a creare personaggi: "Il prossimo si ispira a Ringo Starr", anticipa. E, mentre si gode il trionfo de "I Fantastici Quattro", svela: "I miei beniamini sono amati perche' non sono invincibili"

Los Angeles (Stati Uniti)

Uomo Ragno, X-Men, Hulk, I Fantastici Quattro, Thor, Devil, Silver Surfer, Punisher, Elektra, Capitan America: tolti Batman e Superman, è lui il padre di tutti i super-eroi più famosi dei fumetti e del cinema. Stan Lee, 82 anni, guida dagli uffici di Los Angeles della sua società Pow Entertainment un impero plurimiliardario (in dollari) secondo soltanto a quello della Walt Disney, che fa divertire e sognare i ragazzini (e non solo) del mondo intero.
Da qualche giorno sono arrivate sugli schermi italiani le sue ultime creature, I Fantastici Quattro: un film che ha già sbancato il botteghino negli Stati Uniti e negli altri Paesi in cui è uscito. Ne parliamo con lui (vero nome Stanley Lieber, figlio di immigrati ebrei a Brooklyn) in questa intervista esclusiva.

Mister Lee, lei negli ultimi anni ha battuto ogni record di Hollywood: Uomo Ragno (Spiderman) è fra i dieci film che hanno incassato di più nella storia del cinema, anche gli X-Men sono stati un incredibile blockbuster, e ogni sequel ha tanto successo che subito se ne mette in cantiere un altro. Non è che anche lei si è trasformato segretamente in un super-eroe, o per lo meno in una miniera d'oro?

«Beh, il successo dei miei personaggi continua a stupire anche me. C'è da dire però che non li ho inventati tutti di recente: sono il prodotto di una vita intera di lavoro. Più che il padre, quindi, mi sento ormai il loro nonno... I Fantastici Quattro, per esempio, li ho concepiti ben 44 anni fa, nel 1961».

E perchè sono approdati sullo schermo così tardi, quasi trent'anni dopo il primo Superman, per esempio, e facendosi precedere anche da Batman?

«Per questioni legali con la Marvel, la società per cui ho lavorato per mezzo secolo, e della quale oggi sono ancora presidente emerito. Ci sono voluti dieci anni per definire il progetto, trovare la giusta sceneggiatura, gli attori e così via. Ma forse è un bene che sia così, perchè le tecnologie digitali con cui sono stati filmati gli effetti speciali sono le più avanzate: ancora un anno fa non esistevano».

Lei ha inventato la figura del super-eroe moderno, facendo rivivere un'industria - quella del fumetto - che alla fine degli anni Cinquanta era in declino, e creando una vera e propria mitologia seguita settimana dopo settimana da milioni di giovani in tutto il mondo, lettori affezionati fino al fanatismo. Come ha partorito i suoi supermen?

«Facendoli simili alla vita reale, senza identità segrete. I miei personaggi, a differenza di altri, hanno i loro problemi personali. Non sono affatto invincibili. O, per lo meno, i lettori e gli spettatori non sono sempre sicuri che alla fine possano veramente vincere».

Le è rimasto qualche super-eroe nel cassetto?

«Oh, molti. La mia società ha in cantiere parecchi progetti, con personaggi vecchi e nuovi. Faremo film per lo schermo, film per dvd, serie tv, videogiochi. Uno dei prossimi personaggi si ispirerà a Ringo Starr, il batterista dei Beatles. Un altro verrà dal mondo del rap, dell'hip-hop, sarà un eroe urbano. E Pamela Anderson potrebbe essere Stripperella, spogliarellista dotata di poteri sovrumani».

Lei, come il regista Alfred Hitchcock, figura spesso in piccole apparizioni-cameo nei suoi film. La vediamo anche nei Fantastici Quattro?

«Certo. Sono Willie Lumpkin, il postino, e per la prima volta parlo. Ma sono molto fiero anche di essere stato un venditore di hot dog in X-Men, un commerciante in Spiderman, un passante che attraversa la strada in Daredevil, un guardiano in Hulk...»

Partecipa anche alla scrittura di sceneggiatura e dialoghi?

«No. Per quello ci sono dei bravissimi professionisti, e io stesso mi stupisco ogni volta per la loro capacità».

Qual è il suo eroe preferito?

«Non ne ho. Sono come un padre, amo tutti i miei figli in modo eguale».

Ma quello che le ha dato più soddisfazioni?

«Beh, l'Uomo Ragno è sicuramente il più famoso, e infatti Spiderman è il film che ha ottenuto il successo maggiore».

Lei porta benissimo i suoi 82 anni. Qual è il suo segreto per mantenersi in forma?

«Nessuno. Non penso mai alla mia età, e adoro il mio lavoro. Per me è come giocare, mi diverto. Non
faccio jogging o altre attività fisiche, ma cammino molto. Ogni volta che ne ho occasione, nel mio tempo libero. Penso di essere l'unica persona che ogni tanto va a piedi a Los Angeles...»

Qual è stato il momento più difficile della sua vita, quello in cui avrebbe desiderato il pronto intervento di un super-eroe?

«Quasi cinquant'anni fa alla Marvel dovetti licenziare tutti, perchè gli affari non andavano bene e l'editore decise di chiudere la società. Ero disperato, perchè eravamo quasi tutti amici, oltre che colleghi. Fortunatamente, dopo qualche mese fui in grado di riassumerli».

Nel mondo c'è bisogno di super-eroi?

«Certamente. Ma esistono già: molte persone normali, quando ne hanno l'occasione, si comportano in modo eroico. Penso ai pompieri, a certi poliziotti».

E quali degli eroi moderni somogliano ai suoi?

«Qualcuno ha trovato delle analogie fra l'agente Nick Fury e l'attore John Wayne».

Ogni super-eroe ha una caratteristica, dei poteri speciali, un costume che lo definisce. Lei si è ispirato a qualcuno conosciuto nella realtà? Chi sono i «veri» Mister Fantastic, Torcia Umana, Donna Invisibile...?

«Ogni cosa che ho visto, sentito o letto è entrata nel mio subconscio, e prima o poi è tornata alla luce nella mia fantasia. Ma non ne sono conscio, non so perchè. Non mi sono mai ispirato ad alcuna persona in particolare. Solo dopo, qualcuno viene a dirmi "Ma sai, quello assomiglia a..."»

I costumi: a parte la formidabile arte dei suoi disegnatori, c'è qualcuno che l'ha ispirata? Magari qualche star di Hollywood?

«No, non ho molto a che fare neanche con i costumi. Ma i miei disegnatori sono dei geni: io spiego loro quel che ho in mente, e loro lo realizzano cento volte meglio».

La Cosa e Hulk sono due aberrazioni della natura. Pensa che ognuno di noi abbia dentro quella parte inespressa e mostruosa?

«Tutti abbiamo un carattere, più o meno buono, più o meno forte. E quando perdiamo le staffe, alcuni di noi possono provocare danni, anche gravi. Esattamente come i miei personaggi, anche se magari in scala minore...»

Lei è religioso? Crede in Dio? E i suoi personaggi?

«No, assolutamente. Non credo in Dio, e non mi piace alcuna religione. Le religioni hanno provocato più male che bene, nella storia: molte guerre, troppi morti. L'unico principio in cui credo è: "Non fare agli altri quello che non vorresti gli altri facciano a te". Basta questo: se ci limitassimo a seguire una regola così, non ci sarebbero più furti, omicidi, cattiverie. Detto questo, non posso neanche affermare che Dio non esiste. Anzi, speriamo che esista. Sicuramente c'è una forza potentissima, da qualche parte, che ha creato le meraviglie che ci circondano, e che noi con la nostra intelligenza non riusciamo neppure a immaginare».

Mauro Suttora

Sunday, September 25, 2005

Saud al Faisal

INTERVISTA AL PRINCIPE SAUD AL FAISAL, MINISTRO DEGLI ESTERI DELL'ARABIA SAUDITA

mercoledi 21 settembre 2005

Il Foglio

New York. "Americani e inglesi stanno consegnando l'Iraq all'Iran. Nel sud del Paese, che è in larga parte pacificato, emissari iraniani installano i loro uomini a capo delle amministrazioni locali, e organizzano milizie private. Come potete permetterlo? Nel 1991, dopo aver combattuto assieme, rinunciammo a marciare su Bagdad proprio per evitare un risultato simile".

Il principe Saud Al Faisal, 65 anni, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita ininterrottamente dal '75 (record mondiale), lancia questo monito al Council on Foreign Relations. "Non darei alcun consiglio sull'Iraq al presidente Bush in pubblico, ma sarebbe bene che gli Stati Uniti individuassero con precisione l'obiettivo da ottenere, e che poi facessero seguire i fatti alle parole, invece di farsi trainare dai fatti. Non è un problema di elezioni o di costituzione. Si parla di sciiti e sunniti come se fossero due entità separate, ma sono tutti arabi. Le differenze religiose percorrono ogni tribù. E i sunniti non sono i 'cattivi'".

Il direttore di Newsweek Fareed Zakaria chiede al principe: "Cosa pensa dei discorsi di Bush all'American Enterprise Institute e per l'inaugurazione del secondo mandato, in cui ha identificato la principale causa del terrorismo nei regimi tirannici?" "Il terrorismo purtroppo esiste anche nelle democrazie - risponde Saud - e viceversa una dittatura come l'Urss non ha prodotto terroristi durante la Guerra fredda. Quindi non sono d'accordo". Il principe, laureato a Princeton nel '64, indossa giacca e cravatta e fa parte dell'ala occidentalista della famiglia reale saudita. Così come il nuovo ambasciatore negli Usa, Turki Al Faisal, studi a Georgetown prima dei flirt pericolosi con Osama Bin Laden. Ma l'estremismo wahabita è attizzato da molti predicatori in Arabia Saudita. "Abbiamo dichiarato guerra agli estremisti - assicura Saud - e introdotto il reato di istigazione al terrorismo. Siamo stati colpiti duramente anche noi da quei fanatici, ma siamo riusciti a sventare 55 attentati. Il terrorismo è un problema mondiale, ha bisogno di una cooperazione globale. Soprattutto fra gli Stati Uniti, unica superpotenza, e il nostro Paese, culla dell'Islam".

Come definirebbe il terrorismo islamico? "Uso le parole pronunciate dal giudice John Roberts durante le audizioni al Senato quando gli hanno chiesto di definire la pornografia: 'So cos'è quando la vedo'. E' inutile perdere tempo a cercare di definire il terrorismo, è necessario piuttosto individuarne le cause. Il che è importante quanto combattere i terroristi, come ha concluso la conferenza antiterrorismo tenuta a Riyadh lo scorso febbraio con 60 Paesi". E qui il principe si lancia nell'abituale requisitoria contro Israele. Con toni moderati, tuttavia, stando attento a bilanciare le "sofferenze" patite dal popolo palestinese con quelle del popolo israeliano.

Per l'Arabia Saudita la soluzione al problema palestinese resta quella presentata da re Abdullah al summit della Lega Araba a Beirut: riconoscimento immediato di Israele da parte di tutti gli stati arabi in cambio della rinuncia totale ai Territori. "Il ritiro da Gaza è un barlume di speranza - dice Saud - ma le recenti dichiarazioni di Ariel Sharon all'Onu, su Gerusalemme sotto controllo totale di Israele e sul muro di separazione, non sono i segnali giusti da dare in questo momento cruciale." Quanto alla modernizzazione del regime saudita, "la nostra non sarà una democrazia nell'accezione occidentale, ma stiamo ampliando la partecipazione dei cittadini con le elezioni".

Mauro Suttora

Friday, September 16, 2005

Hitchens vs Galloway

HITCHENS VS GALLOWAY

Il Foglio, venerdi 16 settembre 2005

Duello a New York tra due inglesi tanto diversi. L'unica cosa che non hanno fatto è stato picchiarsi

Non si sono picchiati. Ma è l'unico scambio che è mancato, l'altra sera al Baruch College di New York, fra due corpulenti e sanguigni cittadini britannici. Totalmente privi di flemma, Christopher Hitchens e George Galloway hanno cominciato a darsele già da prima che iniziasse il dibattito, nella sala stracolma di tifosi paganti 12 dollari. Tema: "La guerra in Iraq". Hitchens, uomo di estrema sinistra, leggendario fustigatore di Henry Kissinger, ma oggi convinto sostenitore della della guerra, distribuiva un volantino con le ultime frasi-shock pronunciate da Galloway, deputato alla Camera dei Comuni, il più feroce oppositore alla guerra che si trovi al mondo. "Mai nel Senato degli Stati Uniti sono state pronunciate parole talmente antiamericane", commentò Wolf Blitzer della Cnn lo scorso maggio, quando Galloway riuscì a trasformare un suo interrogatorio sui coupon incassati per Oil-for-food in un comizio anti-Bush.

Quando sono saliti sul ring, scintille fin dalla prima frase di Hitchens: "Chiedo un momento di silenzio per le 160 persone che sono state sadicamente assassinate stamane a Bagdad mentre andavano a lavorare o a registrarsi per le prossime elezioni..." "Volgare demagogia", ha ribattuto Galloway, "perchè non chiedi lo stesso silenzio anche per le migliaia di vittime dei soldati americani a Falluja o l'altro ieri a Tal Afar?"

"Se negli ultimi 15 anni avessimo seguiti i consigli dei pacifisti", argomenta Hitchens, "oggi avremmo un Kuwait annesso all'Iraq, Slobodan Milosevic al potere in Serbia con il Kosovo ripulito etnicamente, i talebani che opprimono l'Afghanistan ospitando i terroristi di Al Qaeda, e Saddam Hussein padrone di quel campo di concentramento in superficie con fosse comuni sottoterra che era il suo Iraq. Non siamo quindi noi favorevoli alla guerra a dover dare spiegazioni, visto che il diritto internazionale la permette se uno stato ne aggredisce un altro, se viola ripetutamente il Trattato di non proliferazione nucleare, se non rispetta la convenzione contro il genocidio o se ospita bande di criminali internazionali. Tutte condizioni presenti nel caso di Saddam, la cui tirannia avrebbe prima o poi fatto implodere l'Iraq, con la Turchia a invaderne il nord, l'Iran che interviene per proteggere gli sciiti e l'Arabia Saudita che avrebbe fatto altrettanto in difesa dei suoi sunniti salafisti wahabiti. Invece, grazie a quella nobile impresa che è stata la liberazione di Bagdad, e nonostante le straordinarie difficoltà che sta incontrando, sono stati raggiunti i seguenti risultati: l'uomo che ha pianificato e ordinato vari genocidi è oggi in carcere, e seguirà Milosevic e Augusto Pinochet nel buio; è in corso un libero dibattito sulla costituzione in un Paese dove fino a due anni fa c'era la morte per chi avesse osato parlare di costituzione; i curdi, la più grande minoranza senza stato, sono liberi e quello straordinario personaggio che è Jalal Talabani è il presidente liberamente eletto dell'Iraq; la Libia ha confessato di essere cliente di quel supermercato delle bombe atomiche che era l'organizzazione pakistana di Qadeer Khan, e ha disarmato."

"Caro Christopher", ribatte Galloway, "ricordi quel discorso che facesti 25 anni fa nella mia Scozia, lodando la città di Dundee che si era gemellata con Nablus in Palestina? Non era facile avere certe idee allora, e parteggiare per il Fronte di liberazione della Palestina che aveva inaugurato il terrorismo di massa con la strage di Monaco... Ringrazio egualmente Hitchens per la sua coraggiosa opposizione alla guerra contro l’Iraq nel ‘91. Era molto difficile essere contro quell'invasione, dopotutto l'Iraq era governato da uno che si chiamava Saddam Hussein ed erano passati appena tre anni dal massacro di Halabja, effettuato con quelle armi chimiche di cui tu affermi sentire ancora l’odore quando vai in Curdistan... Coraggiosamente, fanaticamente potreste dire, Hitchens si oppose all’invasione del presidente George Bush. Cosicchè quella cui oggi assistiamo è la prima metamorfosi al contrario, da farfalla a baco, e uso apposta questo termine, perchè i bachi lasciano dietro di sè una scia di bava disgustosa."

"Sei tu ad avere posizioni repellenti", replica Hitchens, "e dopo aver leccato il culo per anni a Saddam il 30 luglio sei andato a Damasco rendendo omaggio al macellaio Assad, che scatena le sue squadre della morte in Libano... La Siria è l'unico Paese ancora guidato dal partito Baath, e tu ti sei trovato un nuovo padrone. Oggi la sinistra laica irachena sta combattendo contro la violenza fascista, e tutti in Medio oriente, da Saad Ibrahim, il Nelson Mandela d'Egitto, al leader socialista libanese Walid Jumblatt, riconoscono che la liberazione dell'Iraq è stata per loro come la caduta del Muro di Berlino..."

Pubblico diviso, applausi a entrambi.

Thursday, September 15, 2005

No Sex in the City/9

New York Observer, September 19, 2005, page 2

MAURO OF MANHATTAN
 
“I’ve been Norman Mailered …. ”
 
The words of a 1966 Simon & Garfunkel song surfaced in my sleepy mind at 5 a.m. two weeks ago, when a costume designer at the Waldorf-Astoria told me: “You’ll be Norman Mailer, so you’ll wear a raincoat.”
 
I had arrived at the hotel one hour before, in order to perform as an extra for the day in a new Richard Gere’s movie, The Hoax. “Upscale people needed for Richard Geere’s The Hawks,” had e-mailed me a spelling-challenged casting-agent friend.
 
Why not?
 
“Do you want to extra for a gala at the Waldorf?” I asked Barbara, my Italian lady friend. She declined immediately, having been an actress herself in Italy: “I still remember the boredom you’ve got to endure while shooting.”
 
Nor did the words “Richard Gere, gala, Waldorf” resonate with her. To my surprise, she wasn’t impressed at all: “I’d rather meet him in a real gala …. ”
 
I had gone to the casting in a dirty Tribeca loft carrying my own tuxedo. It was one of the hottest days in the summer. I found myself emerging from the subway in the middle of nowhere, surrounded by the Canal Street traffic. I began to suspect Barbara was right. After a one-hour wait I had to change in a rundown toilet, before passing the test.
 
I received a phone call from the casting agency on Saturday in the Hamptons villa of the Califanos, a really nice couple (she is a journalist for the main Italian daily, Corriere della Sera, he a scientist professor at Columbia): “Please be at the Waldorf at 4 a.m. on Monday morning.”
 
“Well, you know, I have to do a movie with Richard Gere,” I boasted. The rest of the weekend I was joked around about my “new film career.” I have to confess this was not my first contact with the movie business on the other side of the camera: Besides interviewing stars in America for the largest Italian weekly magazine, I had already been an extra last year in The Interpreter, with Nicole Kidman and Sean Penn (and Catherine Keener, a secret passion of mine).
 
Having forgotten the pain of that experience, here I was again trying to please my mom, who loves to see me onscreen. On that weekend, I forced Barbara to skip the Southampton Madame Tong's after-midnight dancing: “I have to prepare myself for the early-morning wake-up …. ” I set up the alarm at 3 a.m., the time we usually come back from parties. I slept only two hours. While getting up I awoke Barbara, who nastily mumbled: “Yeah, the great actor …. At best, they’re going to make you play the double for Richard’s dick …. ”
 
As I entered the Waldorf, a group of stunning beauties was flocking out of the Park Avenue door in loafers and rollers. They headed to a van parked in front of the Café St. Bart’s, which was distributing breakfast for the “talent.” It looked like some crazy scene from La Dolce Vita: For a moment, I was proud to be part of the ordeal. The Empire Room was filled with 150 chairs and a dozen makeup armchairs in front of the wall mirrors. While queuing up to fill a voucher, I was befriended by a retired fireman from Brooklyn. Another veteran 60-years-old extra was sitting right behind me, already dressed up in his tux. He was telling the story of his life to his neighbor: “ … And this morning I took the bus from Asbury Park, N.J., at 12:45 a.m., arrived at Port Authority, slept there a while and then walked to the Waldorf …. ”
 
It’s incredible how talkative some people can be with strangers so early in the morning. Knowing that 70 percent of the extras’ time on set consists in waiting, I had brought with me I Am Charlotte Simmons, the Tom Wolfe novel so long that I am always some hundreds pages short of finishing. I was about the only one with a book in the room. We got live music all along, though, a wonderful string quartet rehearsing joyfully since 4:30 a.m.
 
Shooting started only at 9. I knew that, and I was confirmed in my suspicion when, around 5, a wardrobe man whispered to a colleague: “Slow down, we still have four hours.” But during this time I witnessed the incredible transformation that many ordinary women went through, thanks to their 60’s makeup, hairdo and dress. It’s out of question: that was the decade of Beauty. Everybody looked so wonderfully upgraded, scores of Sophia Lorens and Brigitte Bardots by 7 a.m.
 
That was also the time when I suddenly got de-Mailered: “He’s too tall to be Norman Mailer, and doesn’t have curly hair,” the costume director sentenced, downgrading me from “celebrity” to regular extra. From Norman to normal.
 
So, I had to leave the V.I.P. section, where sat the impersonators of Frank Sinatra and Mia Farrow (married at the time), Lee Radziwill and others. The gala to be shot was a re-enactment of the legendary Black-and-White Ball which Truman Capote organized at the Plaza 40 years ago. During which Norman Mailer kept his raincoat on the tux. In the morning we shot the cocktail scene, with the arrivals and Mr. Gere fending the crowd. He plays Clifford Irving, the man who went to prison for selling a bogus Howard Hughes’ biography. He wore a mask, like everybody else. He looked rather small to me, despite the two inches gained thanks to shoes with inside and outside heels. Italian premier Silvio Berlusconi uses the same trick to enhance his not so statesmanlike stature.
 
In the afternoon we transferred to the Hilton Room, with the gala tables and the dancing scenes. We were given cigarettes to smoke (“It was the 60’s, folks!”), which the vast majority of extras refused with disgust. I was placed at the table with Truman Capote and Mia Farrow: “Massage Mia’s shoulders, you are supposed to be her manager.” Which I did, after watching over my shoulders the jealous Frankie’s whereabouts. An assistant director warned us: “Do not talk to Richard in between the scenes. He won’t remember you from Unfaithful, anyway. And don’t keep looking at him, he was a nobody in that party.”
 
We are all nobodies in this party, I was reminded at 7 p.m., when I signed the payment form and finally went home. As a non-union extra, I earned $75 for a day’s work. Because the working hours were more than 12, the amount was raised to $85. Minus 10 percent for the casting agent, minus the 8 percent FICA (Federal Insurance Contributions Act). Which sounds funny in Italian: FICA is the name for the female sex. First time in my life I had to pay for it.

Mauro Suttora


traduzione:

MAURO OF MANHATTAN

"Sono stato Norman Mailerizzato...": queste parole di una canzone di Simon e Garfunkel del 1966 ("A Simple Desultory Philippic") mi sono tornate in mente alle cinque del mattino di due settimane fa, quando nell'hotel Waldorf-Astoria di New York un costumista mi ha annunciato: "Lei sara' lo scrittore Norman Mailer, quindi dovra' indossare un impermeabile".

Ero arrivato all'albergo un'ora prima, per fare la comparsa nel nuovo film di Richard Gere "The Hoax" (La Truffa). "Cercasi gente elegante per 'The Hawks' (I Falchi, ma in inglese si pronuncia uguale) di Richard Geere", mi aveva avvisato tramite e-mail un'amica agente di casting, assai debole nello spelling.

Perchè no? "Vuoi fare la comparsa in un ricevimento di gala al Waldorf?", ho proposto a Barbara, la mia compagna italiana. Lei ha declinato immediatamente, perchè ha già fatto l'attrice in Italia: "Mi ricordo ancora la noia durante le riprese, le attese interminabili fra una scena e l'altra". Né si è fatta impressionare dalle parole "Richard Gere" e "Waldorf". Sorprendentemente, mi ha risposto: "Preferirei incontrarlo a un gala vero..."

Sono andato alla selezione del casting in un loft sporco di Tribeca, portando il mio smoking. Era uno dei giorni più afosi della tremenda estate newyorkese. Mi sono trovato a emergere dalla metropolitana in mezzo al nulla, circondato dal traffico di Canal Street. Ho cominciato a sospettare che Barbara avesse ragione. Dopo aver aspettato un'ora ho dovuto cambiarmi in uno squallido gabinetto, prima di passare l'esame.

La telefonata dell'agenzia di casting è arrivata sabato, mentre ero ospite nella villa agli Hamptons dei Califano, una coppia elegante (lei, Simona Vigna, fa la giornalista per il Magazine del Corsera, lui è uno scienziato che insegna alla Columbia University): "Presentarsi al Waldorf lunedì alle quattro del mattino".

"Ragazzi, devo fare un film con Richard Gere", ho cercato di vantarmi. Ma per il resto del week-end tutti hanno preso in giro la mia nuova "carriera cinematografica". Devo confessare che questo non è stato il mio primo contatto col cinema dall'altra parte della cinepresa: oltre a intervistare le star di Hollywood per il settimanale Oggi, sono già apparso un anno fa ne "L'Interprete", con Nicole Kidman e Sean Penn (e Catherine Keener, una mia passione segreta).

Avendo dimenticato quella dolorosa esperienza, eccomi di nuovo a fare il clown per la mia mamma, cui piace (intra)vedermi sullo schermo. Quel week-end ho obbligato Barbara a rinunciare alle feste danzanti nel locale Madame Tong di Southampton, che cominciano dopo mezzanotte: "Devo andare a letto presto, per prepararmi alla levataccia di lunedì mattina..." Ho messo la sveglia alle tre, l'ora in cui di solito torniamo da parties. Ho dormito solo due ore. Alzandomi ho svegliato Barbara, che ha mormorato sarcastica: "Si', il grande attore... Al massimo ti fanno fare la controfigura dell'uccello di Richard..."

Mentre entravo al Waldorf, un gruppo di belle ragazze stava uscendo in bigodini e pantofole su Park Avenue. Si sono indirizzate verso un furgone parcheggiato lì di fronte, che distribuiva la colazione agli artisti. Mi è sembrata una scena folle della "Dolce Vita": per un momento, ero quasi contento di essere lì. La sala Empire al piano terra del Waldorf era stata riempita con 150 sedie per noi comparse, e una dozzina di poltrone riservate al trucco davanti agli specchi delle pareti. Mentre facevo la fila per riempire un modulo, un pompiere in pensione di Brooklyn ha attaccato bottone. Un altro sessantenne, comparsa veterana, era seduto proprio dietro di me, già tutto in tiro nel suo smoking. Stava terminando di raccontare la storia della propria vita al vicino: "... E questa notte ho preso la corriera da Asbury Park nel New Jersey all'una meno un quarto, sono arrivato alla stazione dei pullman Port Authority di Manhattan, ho dormito un po' li', e poi mi sono incamminato verso il Waldorf..."

E' incredibile come certe persone riescano a essere così chiacchierone con dei perfetti sconosciuti così presto al mattino. Sapevo che il 70 per cento del tempo le comparse sul set lo passano ad aspettare. Quindi mi ero portato "I am Charlotte Simmons", l'ultimo romanzo di Tom Wolfe, così lungo che mi manca sempre qualche centinaio di pagine per finirlo. Ma ero l'unico con un libro in tutta la sala. E alla fine confesso che ho finito pure io ad ammazzare il tempo con i sudoku. Alle quattro e mezzo ha cominciato a suonare uno stupendo quartetto d'archi, che provava le musiche per il gala.

Le riprese sono cominciate soltanto alle nove. Lo sapevo. Il mio sospetto ha trovato conferma verso le cinque, quando ho sentito un costumista mormorare a un collega: "Tranquillo, tanto abbiamo ancora quattro ore". Ma in questo lasso di tempo sono stato testimone di un'incredibile trasformazione: quella di cui hanno beneficiato molte comparse donne non particolarmente avvenenti, grazie al trucco, ai capelli e ai vestiti anni Sessanta. E' proprio vero, quello fu il decennio della Bellezza. Tutte mi sono apparse improvvisamente migliorate: verso le sette la sala era piena di tante Sophie Loren e Brigitte Bardot.

Quella è stata anche l'ora in cui improvvisamente mi hanno de-Mailerizzato: "E' troppo alto per fare Norman Mailer, e poi non ha i capelli ricci", ha deciso il direttore dei costumi, retrocedendomi così da "celebrità" a comparsa normale. Da Norman a normal.

Così ho dovuto spostarmi dall'area Vip, dove sedevano i sosia di Frank Sinatra e Mia Farrow (allora sposati), Lee Radziwill (sorella di Jacqueline Kennedy) e altri. Il Gala in questione, infatti, era una ricostruzione della leggendaria Festa mascherata che lo scrittore Truman Capote organizzo' all'hotel Plaza (oggi chiuso) quarant'anni fa. Durante il quale Norman Mailer tenne sempre l'impermeabile sopra lo smoking. Durante il mattino abbiamo girato la scena degli aperitivi, con gli arrivi degli ospiti e Richard Gere che fende la folla. Nel film lui fa la parte di Clifford Irving, un tizio che finì in prigione per aver venduto una biografia falsa di Howard Hughes. Gere indossava una maschera, come tutti. Mi è sembrato piuttosto basso, nonostante i cinque centimetri guadagnati grazie a scarpe con tacchi interni ed esterni. Il premier italiano Silvio Berlusconi usa lo stesso trucco per aumentare la sua statura, non esattamente da statista.

Nel pomeriggio ci siamo trasferiti nell'adiacente salone Hilton, fra i tavoli della cena di gala, per le scene di danza. Ci hanno dato sigarette da fumare ("Erano gli anni Sessanta, ragazzi!"), che però la grande maggioranza delle comparse ha rifiutato con disgusto. Mi hanno messo al tavolo con Truman Capote e Mia Farrow: "Massaggia le spalle di Mia, tu ora fai la parte del suo manager". Ordine eseguito, non prima di aver controllato alle mie spalle dove fosse il gelosissimo Frankie Sinatra. Un aiuto regista ci ha intimato: "Non rivolgete la parola a Richard fra una scena e l'altra. Non si ricorda di voi, in ogni caso, anche se avete fatto le comparse nel suo precedente film 'Amore infedele'. E non continuate a guardarlo durante le riprese, lui era uno sconosciuto a quel party".

Siamo tutti sconosciuti in questo party: me ne sono reso conto alle sette di sera, quando finalmente ho firmato il modulo di pagamento e me ne sono tornato a casa. Come comparsa non sindacalizzata, ho guadagnato 75 dollari lordi per un giorno di lavoro. Poichè abbiamo lavorato per più di dodici ore, la cifra è stata aumentata a 85 dollari. Meno il dieci per cento per l'agente di casting, e detratto anche l'8 per cento dei contributi FICA (Federal Insurance Contributions Act), Il che suona buffo in italiano: fica e' il nome del sesso femminile. Prima volta in vita mia che ho dovuto pagarla.

Freedom House

giovedì 15 settembre 2005, pag. II

GIRO DEL MONDO CON FREEDOM HOUSE. GIUDIZIO SEVERO SULLA RUSSIA, UNA PICCOLA SGRIDATA PER L'IRAQ

New York. Mai nella storia tanti presidenti, premier e re hanno partecipato a un'Assemblea generale dell'Onu. Peccato che la maggioranza di loro occupi abusivamente la propria poltrona. Nel senso che guida un Paese non libero. Sono 89, secondo Freedom House, i Paesi "liberi" oggi nel mondo. Una minoranza, rispetto ai 54 solo "parzialmente liberi" e alle 49 dittature. La grande novità (negativa), nel rapporto 2005 dell'istituto universalmente apprezzato che misura minuziosamente il grado di libertà nel mondo, è la scivolata della Russia fra le nazioni non libere. E' la prima volta che accade dalla scomparsa dell'Urss. Ai Paesi liberi viene assegnato un punteggio da 1 (il massimo) a 2,5. Le dittature vanno da 5,5 a 7. In mezzo stanno i "quasi liberi".

Abitanti. Sono 2,8 miliardi (il 44% della popolazione mondiale di 6,4 miliardi) i fortunati che vivono in Paesi liberi. Quasi 1,2 miliardi risiedono in quelli "quasi liberi", mentre 2,4 miliardi sono oppressi da dittatori. Il miglioramento, comunque, è costante: nel 1974 i Paesi liberi erano soltanto 41, aumentati dieci anni dopo a 53. Nel '94, grazie al crollo del comunismo, i "liberi" sono diventati 76 (con 1,1 miliardi di abitanti). Il grande salto nel numero delle persone libere è avvenuto nel '98, quando l'India è stata promossa con il suo miliardo di abitanti.

Aung San Suu Kyi. La Nobel per la pace da 15 anni agli arresti in Birmania dopo aver vinto le elezioni non ha di che gioire. I suoi 50 milioni di connazionali sono oppressi da uno dei peggiori regimi del mondo. Freedom House registra le purghe interne alla giunta dei generali che detiene il potere dal 1962, la caduta del premier Khin Nyunt considerato troppo morbido, e il fallimento dei negoziati promossi troppo timidamente dall'Onu. La Cina continua a sostenere la dittatura birmana.

Cina. Freedom House infligge un severo 6,5 a quella che, nonostante gli exploit economici, continua a essere una feroce dittatura: "Il controllo del partito comunista è completo. Proibita qualsiasi elezione al di sopra del livello dei villaggi, enorme corruzione fra i funzionari di partito, il governo possiede tutte le tv e radio, e quasi tutti i giornali, i quali comunque non possono criticare i leader del partito. Trentamila agenti controllano le comunicazioni internet. I sindacati sono illegali, i gruppi di meditazione come Falun Gong vengono repressi severamente". Nei campi di concentramento lavorano 250mila prigionieri, molti dei quali politici e senza processo.

Cuba. Il dittatore Fidel Castro è il più longevo della Terra: 78 anni, da 45 al potere. La timida apertura economica del '93 non ha portato frutti politici. Nonostante il petrolio regalato dal Venezuela cento fabbriche hanno dovuto chiudere, e le maggiori fonti di reddito sono turismo e rimesse degli emigrati. Il progetto Varela è finito nel nulla, nelle carceri languono trecento dissidenti. Uno di loro, un bibliotecario, è stato condannato per avere "offeso le autorità": aveva gridato "Abbasso Fidel!". L'Avana non permette l'accesso della Croce Rossa e di qualsiasi altro organismo umanitario alle sue prigioni.

Disastro Medio Oriente. In quest'area l'unico Paese libero è Israele. Quattro lo sono solo parzialmente: Giordania, Bahrein, Kuwait, Yemen. L'Egitto, nonostante il voto, non ha raggiunto ancora la libertà, anche se in miglioramento: dal 6 dell'anno scorso a 5,5. Anche altri otto stati a maggioranza islamica hanno fatto progressi: Afghanistan, Comore, Giordania, Malesia, Marocco, Niger, Qatar, Turchia. Viceversa, ben cinque fra le otto peggiori dittature del mondo (voto 7) sono islamiche: Arabia Saudita, Libia, Siria, Sudan e Turkmenistan (gli altri "pessimi" sono Birmania, Cuba e Corea del Nord.

Giappone. Vuole entrare nel Consiglio di sicurezza Onu come membro permanente, ma intanto incassa un imbarazzante 2 per le libertà civili. La colpa è dei tre milioni di burakumin, discendenti degli intoccabili dell'era feudale, e della minoranza Ainu, che soffrono di discriminazioni de facto. Ma tutti gli stranieri in genere, e in particolare i coreani, non hanno vita facile nell'altrimenti civilissimo impero.

Grecia. E' l'unico Paese Ue a non ottenere il massimo dei voti. Le viene inflitto un 1,5 per le vessazioni a una radio privata che trasmetteva in lingua slavo-macedone (proibita), per il divieto di proselitismo religioso (mormoni e testimoni di Geova arrestati), per le vessazioni contro gli zingari e per l'illegalità dell'uso della parola "turco" nel nome di una qualsiasi associazione. Il servizio civile di 36 mesi è considerato troppo lungo e quindi punitivo rispetto alla naja obbligatoria di 18 mesi.

India. La democrazia più popolosa del mondo viene ampiamente promossa (voto 2,5), anche se bacchettata per i suoi politici, eletti con voto trasparente ma mascalzoni: cento dei 545 deputati sono sotto processo penale. La corruzione è tremenda: l'India risulta al 90esimo posto nella classifica di Trasparency International. Il terrorismo di 40 gruppi tribali in sette stati mette a dura prova lo stato di diritto, e naturalmente sopravvive la discriminazione delle caste in teoria proibita dalla costituzione. Ma insomma...

Iran. Voto 6, e "peggioramento accelerato nell'ultimo anno, con l'ala dura del potere clericale che si è impadronita del controllo del Parlamento grazie a elezioni farsa". Ma gli incassi record del petrolio e l'apatia generale permettono agli ayatollah di imporre la propria autorità senza provocare grandi proteste. "Il regime teocratico è però completamente fuori sintonia rispetto all'opinione pubblica", nota speranzosamente Freedom House, "e alcuni iraniani rimangono cautamente ottimisti sul lungo termine". Migliaia di persone sono arrestate arbitrariamente, la tortura è in teoria proibita ma un prigioniero ha avuto le mani amputate dopo essere stato appeso troppo a lungo con i polsi legati.

Iraq. Considerato ancora "non libero", nonostante le elezioni e la sufficienza (5) nel campo "libertà civili". Freedom House giustifica così il severo giudizio: "Nonostante i significativi progressi, la campagna di violenza estremista rallenta molto la ricostruzione e provoca brutali massacri". Il che sarebbe come imputare le Br al governo italiano o l'Ira a quello britannico. Il rapporto comunque ammette: "Gli iracheni non soffrono più limitazioni nel campo delle libertà civili".

Israele. Ottiene 2, una media fra l'1 per i diritti politici e il 3 delle libertà civili. Viene citato il caso di Mordechai Vanunu, cittadino israeliano liberato dopo 18 anni di carcere per spionaggio sulle attività nucleari, ma che non può nè emigrare nè concedere interviste: un giornalista inglese che lo ha fatto è stato arrestato. I matrimoni civili sono proibiti, gli ebrei che sposano non-ebrei devono andare all'estero.

Italia. Ha il massimo dei voti come tutti i Paesi della Ue, tranne la Grecia. Vengono registrate asetticamente le critiche dell'opposizione (comprese le dimissioni di Lucia Annunziata e della "star television broadcaster Lili Gruber") alla legge Gasparri e alla presenza dei tremila soldati in Iraq. Anche la legge sul conflitto d'interessi viene semplicemente definita "controversa". "Rimane un problema la corruzione politica", nota Freedom House, "ci sono state accuse di uso eccessivo della forza da parte della polizia, con rinvii a giudizio per le proteste di Genova nel 2001, e le carceri continuano ad essere sovraffollate e antiquate".

Monaco. Il minuscolo stato non ottiene il voto massimo perchè il principe Alberto è troppo potente: solo lui, infatti, può cambiare il governo (il premier dev'essere un francese proposto dal governo di Parigi) e proporre nuove leggi al Parlamento di 24 membri. E Freedom House lancia un'altra frecciata "In mancanza di informazioni finanziarie, il livello di corruzione è difficile da misurare". Un paradiso, insomma. Fiscale.

Russia. Perchè quest'anno Freedom House boccia Vladimir Putin e getta i 144 milioni di russi fra i "non liberi"? Il verdetto è drastico: "Ha eliminato tutti i maggiori partiti di opposizione, e con il pretesto della strage di Beslan ha concentrato ulteriormente il potere nelle sue mani". Le tv sono ormai sotto controllo governativo, e il processo al miliardario Michail Khodorkovsky è solo uno dei tanti che ha attirato la riprovazione internazionale. I gruppi per i diritti umani hanno protestato in particolare per la condanna a 15 anni dell'accademico Igor Sutyagin, e per i 14 anni di Siberia inflitti al fisico Valentin Danilov (accusati entrambi di spionaggio).

Mauro Suttora

Friday, September 09, 2005

Ivana Trump

Oggi, 14 settembre 2005

NELLA GUERRA DEI GRATTACIELI IVANA VOLA PIU' IN ALTO DI DONALD

L'ex signora Trump costruira' a Las Vegas una megatorre per vip

Con ottanta piani sara' il palazzo dei record nella capitale americana del gioco, e superera' anche la Trump International Tower dell'ex marito. Pronto nel 2008, avra' 943 appartamenti extralusso

Il bidet c’è soltanto nelle suites più spaziose: Nizza, Positano e Amalfi. Perchè nei Paesi anglosassoni non si usa, è considerato un’eccentricità un po’ ambigua e decadente dell’Europa continentale. Quindi anche nel nuovo grattacielo Trump a Las Vegas, che sarà pronto alla fine del 2008, la maggior parte dei bagni ne sarà sprovvista. Per il resto, però, gli ottanta piani di quello che si annuncia come il palazzo più alto nella capitale del gioco statunitense verranno arredati lussuosamente: rubinetti dorati, vetrate con viste mozzafiato, rifiniture in legno pregiato. Com’è tipico dello stile Trump, rutilante fino all’eccesso.

Solo che questa volta a costruirlo non sarà il miliardario Donald Trump. E’ infatti scesa in campo Ivana, la sua ex moglie cecoslovacca 56enne, che debutta firmando il suo primo grattacielo. I 943 appartamenti sono già in vendita, sotto lo slogan ambivalente “Size matters” (“La misura conta”). Faranno concorrenza ai 64 piani di un’altra torre, la Trump International Tower, questa tirata su dal Donald originale. Il quale non è per nulla contento dello scherzetto giocatogli dalla sua ex: un po’ perchè ha invaso il suo campo di specializzazione, ma soprattutto per lo schiaffo dei sedici piani in più.

«Sono due progetti diversi, non paragonabili», attacca lui. «Il mio è in centro, proprio nel cuore di Las Vegas, vicino al nuovissimo casinò appena aperto da Steve Wynn. Ho già venduto in anticipo tutti i miei 1.268 appartamenti, con anticipi del dieci per cento sui prezzi, che vanno dagli 800 mila agli otto milioni di dollari l’uno. Il palazzo di Ivana invece è troppo a nord, alla fine della Strip, in quello che una volta era il centro di Vegas, ma che ora è diventato periferia».

Anche Ivana, però, sembra avere successo. Il suo socio Victor Altomare assicura di avere già venduto la metà degli appartamenti, che hanno un ventaglio più ampio di prezzi: dal mezzo milione di dollari per i monolocali, ai 35 milioni del superattico. E la pubblicità è appena iniziata. Come anticipo, tuttavia, lei si accontenta di appena diecimila dollari per unità. In ogni caso, sarà un progetto colossale: i soli costi di costruzione si aggirano intorno ai 500 milioni di dollari. A quanto ammonta la quota di Ivana, non è dato sapere. Ma quel che conta è che sul grattacielo ci sia la sua firma, con la sottolineatura in color rosa rossetto che è il simbolo degli altri suoi prodotti: profumi, vestiti, accessori.

Ivana conservò il diritto all’uso del cognome Trump quando si separò nel 1992, dopo quindici anni di matrimonio e tre figli. Si fece liquidare con 25 milioni di dollari: allora fu il divorzio più costoso della storia, dopo quello di
Steven Spielberg. Per questo oggi la bionda signora può tranquillamente rispondere, all’ex marito il quale insinua il sospetto che Ivana si faccia usare dai costruttori per il suo cognome: «Sono contenta che Donald si preoccupi per me, ma non sono proprio il tipo di persona che si fa usare...»

Ivana divide il proprio tempo fra le magioni a New York, Londra e Saint Tropez e il suo yacht. E’ attratta dagli uomini italiani: tutti i partner con cui si è accompagnata dopo il divorzio sono nostri connazionali. Prima Riccardo
Mazzucchelli, sposato in un albergo di New York alla fine del ‘95 e lasciato ventidue mesi dopo. Poi il principe Roffredo Gaetani di Laurenzana dell’Aquila Lovatelli d’Aragona, concessionario Ferrari a New York incontrato al ballo della Croce Rossa a Montecarlo. Infine, da tre anni e mezzo, il trentenne romano Rossano Rubicondi.

Nel frattempo, l’ex signora Trump si è costruita un proprio piccolo impero economico, Ivana Inc., che fattura 50 milioni di dollari l’anno e vende vestiti col marchio House of Ivana. Approdata a Capri, si è fatta conquistare dai
cameo dell’antica ditta Scognamiglio di Torre del Greco e ora li vende sul suo sito internet. Con l’aiuto di un ghost writer ha scritto tre libri: due romanzi e la guida per le prime mogli The Best Has Yet To Come (Il Meglio deve Ancora Venire), con il sottotitolo Come affrontare il divorzio e godersi di nuovo la vita. Tiene conferenze per signore separate in tutti gli Stati Uniti, è in prima fila alle sfilate di moda a Parigi e New York, risponde ai lettori di un settimanale di gossip, frequenta il festival di Cannes e ora - dopo il mattone - vuole sfidare l’ex marito anche in campo televisivo: è pronto per lei l’ennesimo reality show, Ivana Young Man.

Donald Trump ha avuto un grande successo nelle ultime due stagioni con il reality L’Apprendista, in cui ogni settimana elimina senza pietà un giovane aspirante businessman: «You are fired!», sei licenziato, è lo slogan ormai trasformatosi in tormentone, che Donald ha perfino appeso su un lenzuolo appeso alla facciata del suo grattacielo più famoso, la Trump Tower della Quinta Avenue a Manhattan. Dopo aver divorziato dalla seconda moglie Marla Maples a gennaio si è sposato per la terza volta, con la modella slovena Melania Knauss.

«Le donne sono come le bustine di the», recita una delle frasi preferite di Ivana, «non ti accorgi mai di quanto sono forti finchè non entrano nell’acqua bollente». Per lei ora la sfida è rappresentata da quel grattacielo di Las
Vegas, la città che si sta espandendo più velocemente negli Stati Uniti assieme a Phoenix in Arizona e a Naples in Florida, anch’esse nella «cintura del sole» che attrae i ricchi pensionati. «Ivana manhattanizzerà Las Vegas», urlano i titoli dei giornali, riferendosi all’altezza del suo palazzo. Sarà in buona compagnia: sono addirittura un centinaio i grattacieli attualmente in progetto nella capitale del poker, con seimila appartamenti già in vendita e prenotazioni
per altri dodicimila. Finora lei aveva pubblicizzato un resort di lusso in Australia e il condominio Bentley Bay Miami, ma non si era mai spinta fino a battezzare con il proprio nome un intero palazzo.

L’abbiamo incontrata al Fizz di New York, il club privato più chic del momento dove ha dato il via alla campagna marketing per il suo grattacielo grigio-rosa. «Parecchi italiani hanno già prenotato», dice sorridendo, a noi e alla folla di fotografi che ci assedia. I suoi tre figli ormai sono grandi, Ivanka è anch’essa entrata nel jet set dei «figli di», come l’ereditiera Paris Hilton, «famosi solo per essere famosi».

Lei, emigrata prima in Canada e poi negli Usa dai poveri monti Tatra boemi, si è arrampicata e ce l’ha fatta, prima grazie a quel cognome, poi per merito della propria intraprendenza. E ora la sfida passa nel campo del cemento armato. «Voglio bene a Donald, lo considero ancora parte della mia famiglia», giura lei. Le crediamo, anche perchè in tanti anni assieme sicuramente si è rinforzata anche con qualche tondino d’acciaio. Lui l’aveva messa a capo del leggendario hotel Plaza subito dopo averlo acquistato. E lei ha imparato (troppo bene) la lezione.

Mauro Suttora