Tuesday, November 27, 2007

lib magazine intervista suttora

Mauro Suttora risponde

Mauro Suttora è un privilegiato. Già. Leggi il suo libro, "No Sex in the city" (Cairo edizioni, 2006) e lo invidi ogni pagina. Sempre di più. Per studiare l'antropologia del popolo americano, sceglie autonomamente di partire dalle donne e di studiarne ogni loro antro. Giornalista della Rizzoli Corriere della Sera (scrive su Oggi, che lui definisce "fantastico settimanale pop"), vive tra Roma e Manhattan. E' columnist di Newsweek e del New York Observer. In Italia, di tanto in tanto, i suoi articoli vengono pubblicati sul Foglio. Noi di LibMagazine, siccome siamo fortunati, lo abbiamo avvicinato. Piacevolissimo!

LibMagazine: l'America è la più grande democrazia del mondo. Alla base della democrazia il pluralismo: politico, culturale. La cosa che più mi ha colpito del suo libro "No Sex in the city" è invece il modo semplicistico con cui gli Americani, le Americane si accostino alle problematiche. Ragionamenti semplici, poca analisi, il tutto all'interno di un perimetro di valori e di regole di vita elementari e che non lasciano spazio per flessibilità. Il tempo è denaro, come si direbbe, e quello che conta è il fare. E' tutto proprio cosi?

Mauro Suttora: Sì, ed è per questo che amo gli americani. Perché, come diceva Giolitti - che ho scoperto qui a Roma pensano sia un gelataio - quando hanno finito di dire quel che devono dire, hanno finito anche di parlare. Insomma, sono l'esatto contrario di Pannella. Ieri sera ho assistito alla presentazione romana di "Piena disoccupazione", l'ultimo libro di Massimo Gaggi, corrispondente da New York del Corsera. Enrico Letta, che anche se fa il giovanilista è nato che era già molto vecchio, invece di dire "Non sono d'accordo su questa parte del libro", è riuscito a pronunciare queste parole: "Mi pongo in rapporto dialettico con questa parte del libro". Sono rabbrividito: mi è sembrato di ripiombare in una sezione del Pci degli anni '70, dove i giovani Veltroni strologavano in sociologhese. Un americano non riuscirebbe mai a dire "mi pongo in rapporto dialettico" neanche sotto tortura. Comunque, lei ha ragione: non confondiamo semplicità con semplicismo.

LibMagazine: Alla domanda precedente mentivo. La cosa che mi ha colpito di più del suo libro è stata l'onda verde in Taxi. Arrapante!

Mauro Suttora: Beh, allora deve spiegare di che si tratta. A Manhattan, grazie ai semafori intelligenti e al fatto che tutte le avenues tranne la Park sono a senso unico, se in auto si imbrocca un verde e si mantiene una velocità di crociera media, si riescono a superare senza fermarsi tutti gli incroci, per chilometri. I tassisti sono abilissimi in questo. E io ho avuto una fidanzata americana che quand'era un po' brilla, tornando a casa in taxi la notte da un ristorante o un club, si eccitava, alzava la gonna e mi montava addosso. La prima volta mi imbarazzai perché temevo che il tassista ci spiasse dallo specchietto, nonostante i vetri divisori dei taxi di New York. Poi invece scoprii che tutti erano indifferenti, anche quelli delle auto vicine che davano una sbirciatina quando ci fermavamo per un rosso. Però capitava raramente, perché c'era appunto l'onda verde che manteneva il taxi in continuo movimento, senza rallentamenti agli incroci.

LibMagazine: torno serio. Si dice spesso che l'Italia è il paese dei furbi. La struttura della cosa pubblica è tale che per dimenarsi occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se anche nell'America che si è fatta da sé; l'America in cui si partì tutti uguali correndo lungo praterie per conquistarsi il proprio pezzo di terra occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se è un paese in cui il "non furbo" può sopravvivere.

Mauro Suttora: Un conto è essere furbi, un altro "sapersi muovere". Lì devi essere sempre "aggressive". Per noi questo è un aggettivo deteriore, per loro invece una qualità indispensabile e ammirata. Non solo nel business, anche nei rapporti umani. Per evitare il peggiorativo, tradurrei con "determinato". Diciamo che mentre in Italia si fa carriera al 70% per parentela e raccomandazioni e al 30 per merito, lì le percentuali sono invertite.
Io ho cominciato come columnist a Newsweek semplicemente andando per caso a pranzo con un caporedattore che, interessato da quello che gli dicevo sull'Onu, mi ha chiesto: perché non lo scrivi? E quattro giorni dopo il mio articolo era in pagina. Mentre in Italia per diventare opinionista di Panorama o Espresso devi avere almeno 50 anni, scrivere da 20, stare nel partito giusto e frequentare qualche combriccola...
A New York invece vai a un aperitivo, a una festa, a una riunione, ovunque, e tutti fanno "social networking". Cioè ti abbordano, ti domandano chi sei e che fai, ti valutano in pochissimi minuti di conversazione cordiale, e se fai colpo o se pensano che gli servi, che si possono fare affari o sesso assieme, ti danno il loro biglietto da visita e pretendono il tuo. Sono curiosissimi, sempre pronti al nuovo. Cioè l'esatto contrario delle feste o incontri in Italia, dove tutti se ne restano barricati nel gruppo dei propri amici e se vedono uno nuovo lo guatano in tralice... Mi viene in mente una bellissima canzone degli Eagles del '76, nel disco 'Hotel California': “New Kid in Town”. Ecco, il nuovo ragazzo che arriva in città ha più possibilità negli Usa che in Italia.

LibMagazine: un mercato così libero, come è quello Americano, è trasportabile in Europa?

Mauro Suttora: Penso di sì, col tempo. In Inghilterra e Irlanda è già così. Ma non è vero che negli Usa il mercato sia così selvaggio. Si perde il lavoro anche senza giusta causa con un preavviso di due settimane, ma lo si trova alla stessa velocità. E c'è il sussidio di disoccupazione per sei mesi. Lì è tutto un turbinio di cambiamenti. Se non ti piace una cosa - un lavoro, una moglie - invece di lamentarti cambi. Ma anche in Italia i giovani hanno contratti a termine, il posto fisso è diventato raro. Solo che qui la parola "precario" è negativa, mentre negli Usa tutto è sempre precario. Anche il capo della banca più potente rischia di essere licenziato dall'oggi al domani. Se penso a certe cariatidi italiane...

LibMagazine: ma per tutti questi appartenenti ai ceti benestanti, che Lei ha avuto modo di frequentare durante la sua permanenza a New York, quanto conta la religione? La sua osservanza?

Mauro Suttora: E' un fatto privatissimo. Molti fanno donazioni, anche perché sono deducibili dalle tasse, e non esiste alcun finanziamento pubblico alle chiese. Quando spiego l'8 per mille o il referendum sulla fecondazione assistita, mi guardano come se venissi da un Paese sottosviluppato. Ma anche gli Usa hanno le loro aree di sottosviluppo, con i pastori evangelici e televisivi nel Texas e nel sud. Sono micidiali, buffissimi.

LibMagazine: Ho letto con gusto il suo "catalogo dei culi di Manhattan". Innanzitutto mi dica:"Ma che rapporto ha lei con il suo culo?"

Mauro Suttora: Copione, è la stessa domanda che ho fatto intervistando Jennifer Lopez. Vent'anni fa il mio attraeva pederasti di ogni nazionalità, ma rimasi vergine (a proposito: mi piace la parola "pederasta", è scorretta quanto "invertito", nessuno la usa più da decenni). Comunque il vero genio in questo campo è Massimo Fini, con il suo sublime "Di(zion)ario erotico", edizioni Marsilio 2001. Io ho solo affibbiato le dieci diverse tipologie di culo da lui individuate a ciascun quartiere di Manhattan.

LibMagazine: la prego, sia indulgente, insisto sul lato B. Per Libmagazine, se la sente di catalogare queste coppie: Bush jr. e Al Gore - Obama e Mrs.Clinton - Berlusconi e Veltroni?

Mauro Suttora: Immagino uguali i sederi di Hillary e Walter: sono quelli flaccidi e colloquiali. Bush e Berlusconi probabilmente hanno quello militare: piccolo, duro e antipatico. Quello di Al Gore non m'interessa, basta la faccia: che cazzo ha fatto per l'ecologia negli otto anni in cui è stato al governo? Quanto a Obama, deve possedere chiappe diffidenti e avare, come quelle dei toscani...

LibMagazine: ma è proprio vero che con i democratici al governo non si sarebbe fatta una politica estera così "espansiva" ? LibMagazine teme di no!

Mauro Suttora: LibMagazine ha ragione nel ritenere i democratici Usa militaristi quasi quanto i repubblicani, e la riprova arriverà fra un anno con la presidente Clinton. Infatti suo marito negli anni '90 non abbassò le spese militari: si limitò a non alzarle, nonostante la scomparsa della minaccia sovietica. Però cagate come le invasioni di Afghanistan e Iraq poteva farle solo Bush.
La frase più memorabile la ricordo pronunciata da un neocon al Council on Foreign Relations, un club di Manhattan dove politici, miliardari e accademici si illudono di governare il mondo. Questo tale Max Boot (nomen omen: Massimo Stivale) nel 2003 sostenne che gli Usa avrebbero portato la democrazia a Kabul e Bagdad così come fecero con Roma, Berlino e Tokio. Come se noi prima del loro arrivo fossimo stati abitati da tribù di allevatori di capre... Comunque, visto che arriccia il naso, le comunico che essere antimilitaristi è di destra, perché i liberali sono per lo stato leggero, mentre non c'è niente di più pesante delle forze armate.

LibMagazine: vino preferito? Glielo chiedo perché vorrei capire quanto è vera l'America dipinta da Sideways, quel film in cui un gruppo di amici viaggia in California lungo itinerari enogastronomici, improbabili e non sempre super-pregiati (enologicamente).

Mauro Suttora: Veramente quelli di Sideways sono due sfigati che la metà basta. Gli statunitensi non capiscono nulla di vini. Qualsiasi nostro beone della Carnia è più ferrato di loro. Nel mio libro racconto che i newyorkesi accettano di pagare somme spropositate nei bar, anche 15 dollari, per qualsiasi bicchiere di vini imprecisati. Ti chiedono soltanto: "Red or white?", senza specificare altro. Ma è molto trendy atteggiarsi a esperti enologi. Anch'io, che di vini mi importa nulla, lo faccio a volte per darmi un tono. E il bello è che mi prendono sul serio. Sono un neocon dei vini.

LibMagazine: l'America consuma ciò che viene prodotto in Cina e India. Imperversa la serializzazione e la parcellizzazione del lavoro. La verticalità nella specializzazione alla orizzontalità. Valore educativo e formativo fondamentale e del quale si è occupato recentemente, in una lectio Magistralis, George Steiner. Ma che tipo di scuola forma gli Americani? Dove nasce questo patriottismo, questo forte attaccamento alla famiglia, alla comunità?

Mauro Suttora: Madonna come parla difficile. Io sono solo un umile cronista, come dice Bordin di Radio radicale. E poi lei usa parole inquietanti come patriottismo e famiglia. Fronterré, non è che sotto l'aspetto liberale in lei batte un cuore un po' fascistone, come Capezzone? Ho fatto l'anno 1976/77 in un liceo di Madison (Connecticut) con una borsa di studio Afs/Intercultura, ho preso il diploma e avevo A, cioè il voto massimo, in tutte le materie. E questo dice tutto sul livello dei loro licei. I primi quattro anni delle loro università, gli "undergraduate", equivalgono a un nostro buon liceo. Poi cominciano a fare sul serio. E in campo scientifico sono imbattibili: in un solo isolato della Columbia University a New York insegnano e sperimentano più premi Nobel che in tutta Europa.
Quanto allo spirito civico, è vero: ne hanno molto più di noi. Ma è semplicemente un retaggio della civiltà nordeuropea, degli emigrati anglosassoni e poi tedeschi e scandinavi. Per loro "community" significa veramente comunità. E questo a livello locale è magico. Sul patriottismo, invece, io sto con Dürrennmatt, che disse: "Quando lo stato si prepara ad ammazzare, si fa chiamare patria". Ho visitato il cimitero militare di Arlington, mi sono commosso davanti alle tombe dei Kennedy, ma vedendo tutte quelle croci di giovanissimi soldati le ho subito associate alle facce grasse e rubizze di certi grandi azionisti di industrie belliche come Boeing o General Electric o Northrop - tanto per non far nomi - diventati miliardari mandandoli a farsi ammazzare. Ma mi scusi, scivoliamo sempre in politica. Comunque grazie per l'accenno a Steiner, mi è piaciuto il suo Correttore di Bozze. Mi riprometto di leggere anche Lectio Magistralis, così mi solleverò dai livelli di Bordin.

LibMagazine: Dove andiamo? Dinamismo Atlantico. Già. Pensa che le donne italiane ci metteranno tanto a diventare così nomadi con le domande?

Mauro Suttora: Ah, sì, la frase preferita della mia ex fidanzata americana Marsha quando improvvisamente diventava seria e voleva fare il punto della situazione fra noi (traduzione: sposarsi) era: "Mauro, dove stiamo andando?". Io di solito le rispondevo: "Ma perché bisogna andare da qualche parte? Non si può restare qui, fermarsi? Non va bene così?". E lei si imbestialiva. Giustamente. Perché il motto dell'America è: "On the road". Sempre in movimento, Kerouak. E' per questo che gli Stati Uniti ci affascinano. Tutti alla costante ricerca di nuove avventure. Senza scoraggiarsi mai. Provando e riprovando. Come cantava Janis Joplin: "Try, just a little bit harder". Provaci, con un po' piu' d'impegno. In Italia invece siamo depressi perché ci rassegnamo troppo presto. In questo potrebbe avere ragione perfino Bush: a forza di rimanere in Iraq, magari alla fine vince veramente lui.
Anche la mia Marsha era testardissima, ci dava dentro finché non otteneva quel che voleva. In ogni campo: lavoro, amore. Dolcemente aggressiva, determinata. E se alla fine andava a sbattere, almeno non si trascinava dietro i rimpianti di noi europei decadenti. "A bad day is when you think about things that might have been", un giorno brutto è quando pensi a come le cose avrebbero potuto essere, sostiene nella sua 'Slip sliding Away' il mio filosofo preferito, Paul Simon (senza Garfunkel). Il peggio è Magris, con le sue troiate sulla Mitteleuropa. Ragazzi, so di che parlo, sono figlio di profughi dalla splendida isola di Lussino, ho fatto l'università a Trieste, adoro esteticamente il Caffè degli Specchi, ma di fronte a certe seghe passatiste non posso che ribattere all'americana: "Move on", andiamo avanti, procediamo. Quasi rivaluto i marinettiani.

LibMagazine: Cosa salva noi Europei? Cosa ci difende dalla subliminale e markettara capacità di persuasione d'oltreoceano?

Mauro Suttora: Nulla. Ci siamo fatti persuadere da Stalin, Hitler, Mussolini, e poi per passare dai giganti ai nani da Fanfani, Craxi, e oggi Berlusconi, Veltroni, Prodi. Prodi, ma ci rendiamo conto? Uno che appena apre bocca sembra un mongoloide. Pardon, diversamente dotato. "Verbally challenged", sfidato verbalmente, lo definivano gli inglesi quand'era presidente Ue a Bruxelles.

LibMagazine: Negli anni 90 si parlava del primato della economia sulla politica. Oggi diremmo che all'interno della economia vige il primato del marchio sul prodotto. La promozione, la comunicazione alla manifattura. Lo spopolamento delle fabbriche, la loro chiusura ha rotto quel meccanismo secondo il quale il produttore diventava anche consumatore dei beni che aveva contribuito a produrre. Nike, Shell sono simboli di una economia che veicola valori, idee, ma non produce nulla. Sono scoppiati scandali per lo sfruttamento dei lavoratori, ma il dato più preoccupante a mio avviso è l'interruzione di un certo ricambio generazionale di competenze, di saper fare. Cosa ne pensa?

Mauro Suttora: Fronterré, le ribadisco che lei parla troppo complicato. Intuisco animalescamente qualcosa di quello che mi dice e penso di concordare su quasi tutto, perché sono un figlio della controcultura anni '60 e quindi anch'io mi sono abbeverato a Marcuse e Pasolini. Posso solo risponderle che vesto Oviesse a dei marchi mi frega un cazzo, però anche questo è pericoloso perché a forza di sentirmi dire "fregauncazzo" la povera Marsha pensava che fosse un sinonimo di "fa niente", "non importa". Così quando un barista in Italia le ha chiesto se voleva acqua liscia o frizzante, lei ha risposto "fregauncazzo".
Sì, sono totalmente anticonsumista. Però rispetto al "ricambio generazionale di competenze" che si sarebbe interrotto, dipende quali. Mio padre è competente in marketing, ma se fosse stato operaio alla Breda per me sarebbe stato lo stesso, sono indifferente ai suoi "saperi" in quel campo. Invece mio nonno insegnava greco e latino, e io mi sento un suo seppure indegno discendente. Ecco, se nelle loro high school imparassero il greco e il latino forse gli americani sarebbero perfetti.

LibMagazine: lei giustamente fa notare che l'America fa molto la guerra perché fa poco l'amore. LibMagazine la ringrazia per aver cercato di invertire la rotta. Nel suo piccolo si intende!

Mauro Suttora: veramente ho ipotizzato l'esatto contrario: che in Usa oggi si faccia poco l'amore perché si fa molto la guerra. Nel senso dell'ideologia che permea il tutto, ovviamente. Non so, vediamo se riesco a contraddirmi popperianamente: negli anni '60 si faceva la guerra (in Vietnam) ma si faceva molto anche l'amore. La differenza è che allora i giovani erano 'obbligati' tutti a fare la guerra, mentre ora a morire ci vanno solo i volontari: o i fanatici, o i poveracci con nulla di meglio da fare.

LibMagazine: ha Lei una domanda per LibMagazine?

Mauro Suttora: Perché sono sempre più belle le cose fatte gratis, come questa intervista, invece di quelle a pagamento? Forse bisognerebbe abolire i soldi, come dice ogni tanto Beppe Grillo ricordando quel genio del professor Giacinto Auriti.

Michele Fronterre'

Monday, November 26, 2007

Newsweek: Italy loves America

THE ITALIAN LOVE AFFAIR

The country appreciates everything about America: its cities, its celebrities and even its cowboy culture.

by Mauro Suttora

NEWSWEEK

Link all'articolo originale su Newsweek

November 26, 2007

This might come as a belated consolation to poor Karen Hughes, who is leaving her post as the U.S. head of public diplomacy after struggling for two years to advocate American ideas around the world: although Italians dislike aggression (81 percent opposed the Iraq War), Italy just loves the United States. In 2003, 30 percent of Italians had a positive image of the country, a 60-year low. But now, according to a Pew Research poll, America's image is positive among 53 percent and negative for 38. Italy beat everybody in the European Union but Poland: in Britain, 51 percent love the United States; in France, 39 percent; and in Germany, only 30 percent are pro-American, with 66 percent against.

Italians like America so much, they want to see the real thing. Due in part to the strong euro, more than 1 million Italian tourists headed to the United States this year, breaking the old record. In August, Italians defy the humidity and head to Florida, and while cheap fares to Britain still make London the most favored destination for Italian travelers, this year New York surpassed Paris for the No. 2 spot. A new Italian airline, Eurofly, now connects even minor cities like Bologna and Palermo to New York.

Among the visitors: Italian politicians, who come for art and fashion shows financed by Italian institutions, and to meet and greet with Italian-Americans who, since 2006, may vote in Italian elections if they still have their Italian passport. Former prime minister and now opposition leader Silvio Berlusconi just bought a house for his youngest daughter to attend university in New York City. And indeed Italians of every political stripe love U.S. politicians. John F. Kennedy and Bill Clinton inspire the left. Ronald Reagan is a mythic figure for the right. Walter Veltroni - Rome's mayor, and possibly Italy's next prime minister - says his political idols are Kennedy and Martin Luther King Jr. His new party: the "Democrats."

But let alone politics. Fashion designers Valentino, Cavalli, Prada and Armani all own homes and spend time in New York City. Donatella Versace and her daughter live there. Other positive indicators of pro-Americanism: nine out of the top 10 movies at the Italian box office in October were from the United States. In France, ticket proceeds from domestic films equal that of American movies. But in Italy, Hollywood films outgross Italian movies by a margin of 38 percent.
At the recent Rome Film Festival even American B-listers received celebrity treatment. George Clooney is a fixture, as well, in his villa on Lake Como, and Italians are proud that Tom Cruise got married here, that Brad and Angelina began loving each other while shooting in Amalfi and that Reese Witherspoon and Jake Gyllenhaal rekindled their romance in Rome. Eighty percent of the television series broadcast in Italy are also made in the U.S.A. "House" is the most successful series in a decade, with 22 percent of prime-time audience share. Music? Zucchero, Italy's biggest star, considers himself a Louisiana bluesman. Art? Larry Gagosian, the American dealer, will soon open his first continental gallery in Rome. Invitations to the opening are the hottest tickets in town.

Italians have adored America for 60 years, ever grateful for liberation from the Nazis and for introducing them to rock and roll, disco, "Sex and the City" and the iPod. Rome was once the world's capital, but Italians are happy to acknowledge that the power has shifted to America. "America is a big place where people like to chew problems and projects," says Beppe Severgnini, author of "La Bella Figura: A Guide to the Italian Mind." "Italy is a smaller country obsessed with people and with the past. To look at, read about, dream and talk of America is like taking a mental holiday for many of us."

This month, the most comprehensive exhibition of 19th-century American art will open in Brescia, near Milan. Works will come from Washington's National Gallery and lesser-known spots like the Buffalo Bill Historical Center in Cody, Wyoming. That museum also contributed to "The Mythology of the American West," an exhibition that opened in September in France. Yes, it seems all of Europe is back to admiring the cowboys. But, remember, the Italians were first.

Suttora is a senior editor at Oggi, Italy’s largest weekly magazine, and the author of “No Sex in the City: Adventures of an Italian Man in New York”

©2007 Newsweek, Inc.

Letters to the Editor


Newsweek, 26 novembre 2007

Storia d’amore italiana

All’Italia piace tutto dell’America: le città, le celebrità, e perfino la sua cultura cowboy.

di Mauro Suttora

Può consolarsi in extremis la povera Karen Hughes, che lascia la guida della ‘diplomazia pubblica’ statunitense dopo avere lottato due anni per propagandare gli ideali americani nel mondo: anche se agli italiani non piacciono le aggressioni (l’81 per cento era contro la guerra in Iraq), l’Italia ama gli Stati Uniti.

Nel 2003 solo trenta italiani su cento avevano un’idea positiva degli Usa, il risultato peggiore in 60 anni. Ma ora, secondo un sondaggio Pew Research, l’immagine dell’America è positiva per il 53 per cento, e negativa per il 38. L’Italia batte tutti nell’Unione Europea, tranne la Polonia: in Gran Bretagna infatti i filoamericani sono 51 su cento, in Francia 39 e in Germania solo 30, con il 66 per cento contro.

Gli italiani amano l’America, e vogliono andare a vederla di persona. Anche grazie all’euro forte, quest’anno più di un milione di italiani hanno visitato gli Usa, battendo ogni record. Perfino in agosto gli italiani sfidano l’umidità e vanno in Florida. Anche se grazie ai voli low-cost Londra è sempre la meta preferita dai viaggiatori italiani, quest’anno New York ha conquistato il secondo posto scavalcando Parigi. Una nuova compagnia italiana, Eurofly, ora collega direttamente a New York anche città minori come Bologna e Palermo.

Fra i visitatori più assidui: i politici italiani, che arrivano per eventi artistici e modaioli tutti finanziati da enti pubblici italiani, e anche per coltivare gli italoamericani che dal 2006 possono votare alle elezioni se conservano ancora il passaporto tricolore.
Silvio Berlusconi, ex premier e ora capo dell’opposizione, ha appena comprato una casa per la figlia più giovane che frequenta l’università a New York. Ma ogni fede politica ha la sua passione americana. John Kennedy e Bill Clinton ispirano la sinistra. Ronald Reagan è un mito per la destra. Walter Veltroni - sindaco di Roma e prossimo possibile premier - dice che i propri idoli sono Kennedy e Martin Luther King. Il suo nuovo partito: i “Democratici”.

Ma lasciamo la politica. Gli stilisti Valentino, Cavalli, Prada e Armani hanno tutti casa a New York, e ci stanno parecchio tempo. Donatella Versace ci abita con la figlia. Altri indicatori di filoamericanismo: nove fra i dieci film che hanno incassato di più in Italia in ottobre erano statunitensi. In Francia i film francesi sono visti quanto quelli americani. In Italia invece Hollywood batte il cinema italiano con un margine del 38 per cento. Alla recente Festa del cinema di Roma anche artisti americani di serie B hanno ricevuto un’accoglienza da star. George Clooney è ormai una presenza familiare nella sua villa sul lago di Como. Gli italiani sono orgogliosi che Tom Cruise si sia sposato qui, che Brad e Angelina abbiano cominciato ad amarsi mentre giravano un film ad Amalfi, e che Reese Witherspoon e Jake Gyllenhaal abbiano riannodato la loro love story proprio a Roma.

Anche l’ottanta per cento dei serial tv trasmessi in Italia sono made in Usa. “Dr. House” è la serie di maggiore successo da dieci anni, con uno share del 22 per cento in prima serata. Musica? Zucchero, il cantante più celebre d’Italia, si considera un bluesman della Louisiana. Arte? Larry Gagosian, il potente commerciante d’arte contemporanea americano, sta per aprire a Roma la sua prima galleria nell’Europa continentale. Gli inviti all’inaugurazione sono i più ambiti in città.

Gli italiani adorano l’America da 60 anni, eternamente grati per la liberazione dai nazisti - e per averli iniziati al rock and roll, la disco, “Sex and the City” e l’iPod. Roma fu un tempo la capitale del mondo, ma gli italiani sono felici di ammettere che oggi quel potere è passato agli Stati Uniti.
“L’America è un posto enorme dove alla gente piace masticare problemi e progetti”, dice Beppe Severgnini, autore del libro ‘La Bella Figura: Guida alla mente italiana’. “L’Italia è un Paese più piccolo, ossessionato dai personaggi e dal passato. Guardare, leggere, sognare e parlare dell’America per molti di noi è come prendersi una vacanza mentale”.

Questo mese apre a Brescia, vicino a Milano, la mostra più completa sull’arte americana del diciannovesimo secolo. Sono in arrivo quadri dalla National Gallery di Washington e da posti meno conosciuti come il Buffalo Bill Historical Center di Cody (Wyoming). Questo museo contribuisce anche alla “Mitologia del West americano”, mostra in corso da settembre in Francia. Sì, pare proprio che tutta l’Europa ami di nuovo i cowboys. Ma ricordatevi: gli italiani sono stati i primi.

© Newsweek

Wednesday, November 21, 2007

Lo studente genio suicida

ISCHIA: PARLA LA MAMMA

di Mauro Suttora

Lacco Ameno (Napoli), 21 novembre 2007

«No mamma, non ti preoccupare. Ci penso io, risolvo io la questione». Pomeriggio di martedì 30 ottobre. Diego è tornato a casa da scuola, arrabbiato. Vive con la mamma e la nonna in una delle case più belle di Ischia: vista su Lacco Ameno, il mare, l’isola di Procida, il Vesuvio. Un paradiso, quando splende il sole: il panorama si spinge fino a Gaeta. «Ma quel giorno era grigio, pioveva», ci racconta Mira Mancioli, la mamma di Diego, «e non c’è un detto tedesco che dice “Quando gli angeli partono, il cielo piange”?».

Diego ha deciso di partire molto in anticipo, una settimana prima di compiere 15 anni. Si è tolto la vita andando a impiccarsi al ramo di un albero del suo giardino. La mamma e la nonna Palmira, 77 anni, hanno trovato il suo corpo di mezzo bambino e mezzo uomo la sera, preoccupate perché non era più tornato a casa.

«Diego era deluso, proprio quel giorno c’erano state le elezioni a scuola», ricorda lamamma. «Votavano per i rappresentanti di classe, lui si era candidato. A pranzo mi ha raccontato che aveva fatto un discorso, voleva rappresentare quella parte della classe stufa di subire le angherie di altri compagni. “Se ci uniamo resisteremo meglio”, aveva detto. Ma nessuno ha avuto il coraggio di votarlo. Il suo nome è apparso su una sola scheda, accompagnato dalla scritta “a morte”».

La signora Mancioli, seppure annichilita dalla perdita dell’unico figlio, si guarda bene dall’accusare i compagni di scuola. Certo, nel Codice penale esiste il reato di “istigazione al suicidio”. «Ma sarei una matta se me la prendessi con dei ragazzi, loro a quell’età non hanno colpa. Il bullismo, gli scherzi, le prese in giro, gli insulti e anche qualche litigata manesca possono starci, sono sempre esistiti a scuola. L’importante è che non si superino certi limiti. E questa è responsabilità degli adulti: genitori e insegnanti. Sono loro che devono vigilare, e accorgersi se i limiti vengono superati».

La signora Mancioli aveva segnalato già l’anno scorso ai professori della quarta ginnasio che, da quel che le raccontava Diego, c’era stato qualche spintone di troppo e si era instaurato un clima di intimidazione per colpa di qualcuno. Quest’anno nel liceo classico di Ischia è arrivato un nuovo preside. Ma la musica in quella classe non era cambiata. E Diego ormai riluttava a confidarsi con la mamma: non voleva passare per un mammone bisognoso di farsi difendere da lei. «Così anche quel pomeriggio mi aveva chiesto di non andare a parlare con i professori. Ci avrebbe pensato lui a risolvere tutto, disse».

Purtroppo però una miscela di rabbia, delusione e tristezza è esplosa all’improvviso nella mente del ragazzo, spingendolo a un gesto senza ritorno. «No, non c’erano state avvisaglie, non era depresso né disperato», assicura la mamma. «Per il ponte dei Santi ci preparavamo a fare una gita in aliscafo a Napoli, e per festeggiare il compleanno aveva due mete: il bowling e la libreria Feltrinelli».

Sì, perché Diego era un genio. Aveva la media del nove e mezzo. Era l’orgoglio di tutto il liceo, gli avevano detto alla fine dell’anno scolastico lo scorso giugno. «Ma non era un secchione, non è che studiasse tantissimo», dice la mamma, «in quarta ginnasio aveva preso anche 4 in una versione dal greco. Semplicemente, gli piacevano le materie. Era appassionato, si divertiva studiando, non gli pesava. Leggeva parecchi libri. Ultimamente Il falò delle vanità di Tom Wolfe, Il matematico impertinente di Odifreddi, Fahrenheit 451 di Bradbury... Quest’ultimo lo aveva scelto per recensirlo, come compito di italiano».

Kalòs kai agathòs, dicevano gli antichi greci dei ragazzi come Diego: bello e buono. E bravo. E gentile. E simpatico. Troppe virtù, per non suscitare le invidie di qualche compagno. Ora sono indagati in tre, non per istigazione al suicidio ma per molestie. Sembrava addirittura che fosse stata ordinata una perizia calligrafica per scoprire chi ha scritto «a morte» sulla scheda, ma il magistrato ha smentito. Nella scuola la Provincia ha mandato uno psicologo di sostegno per i ragazzi.

«Non voglio parlare di fatti precisi che pure sono successi, né faccio nomi», dice la mamma. «Però domando: i genitori che affidano i figli alla scuola possono stare tranquilli? O si devono preoccupare, visto che in quello stesso liceo, che conosco bene perché ci abbiamo studiato sia io sia mia madre, negli ultimi anni si sono suicidati quattro studenti? Essere bravi a scuola è diventata una colpa?».

A Diego non interessavano magliette firmate e motorini. Aveva preso il patentino, ma aveva solo la bici. Salire a casa dalla piazza di Lacco Ameno era faticoso. Così al mattino lo portava in auto la mamma alla fermata del bus per Ischia, a pranzo saliva lui a piedi. «Ho dovuto insistere per dargli il cellulare: “Voglio rintracciarti”, gli ho detto».

Diego era appassionato di fumetti. Tex soprattutto. Con gli amici giocava a calcio. «Hanno rotto tutti i vetri e i lampioni qui attorno con il pallone», racconta la nonna, «e ultimamente avevamo scoperto che giocavano a poker con le fiches». Per gli scacchi invece non aveva trovato nessun coetaneo con cui giocare, doveva andare fino a Forìo.

«Gli piacevano i film in Tv», ricorda la mamma, «per ultimo Guerra e pace. Mi ha chiesto: “Perché Natasha ogni tanto parla in francese?”. Gli ho detto che era normale, fra i nobili russi. E lui: “Ma allora nella traduzione francese che lingua usano?”».

Diego non c’è più. Sono rimasti tutti i libri nella biblioteca della nonna. «Chi legge troppo si rovina la vita, perché diventa troppo sensibile», dice lei, amara. Per ricordarlo, ora la mamma vuole istituire una borsa di studio: «Un premio per i ragazzi come lui».

Mauro Suttora

Monday, November 12, 2007

intervista a Cristiana Capotondi

LA CAPOTONDI SUPERA DUE ESAMI

Deve il successo alla «Notte prima degli esami». Ora l’attrice è promossa con «I viceré» e «Come tu mi vuoi». E si conferma il volto nuovo del cinema. Con un difetto: «Sono una secchiona»

Roma, 1 novembre 2007

di Mauro Suttora

Non c’è niente di peggio a Roma che arrivare in anticipo a un appuntamento. Così aspetto cinque minuti fuori dall’ufficio di Enrico Lucherini, il press-agent di Cristiana Capotondi. Nella viuzza dei Parioli a un certo punto arriva in scooterone lei, la giovane attrice più veltroniana d’Italia: bella ma non sguaiata, elegante ma non appariscente. E anche qualcos’altro, scopriremo.

«Sono il suo intervistatore», mi presento sul marciapiede mentre Cristiana si toglie il casco. Lei mi sorride: lo farà raramente durante il nostro colloquio, non so se per timidezza o serietà o estrema compitezza. 'La notte prima degli esami', si chiamava il film che un anno e mezzo fa le ha regalato la fama. Ma parlandole si ha l’impressione che per lei gli esami non finiscano mai.

Venerdì 9 novembre escono due film in cui è protagonista: 'Come tu mi vuoi' dell’esordiente Volfango De Biasi e 'I Vicerè' di Roberto Faenza. Non potrebbero essere più distanti: una commedia giovane alla Bridget Jones il primo, un voluminoso affresco storico alla Gattopardo il secondo.
«Li amo entrambi», dice, «perché sono film “utili”, che parlano dei valori veri della vita. In positivo o in negativo, ma è un cinema che ti fa uscire dalla sala carico di energia».

'Come tu mi vuoi' era un dramma scritto settant’anni fa da Pirandello. Quello odierno, alleggerito, affronta lo stesso dilemma: quanto si può cambiare per inserirsi nella società, compiacere gli amici, piacere a un ragazzo?
«La patogenesi che ha scelto il regista...»

Prego?
«Dicevo, l’ambiente sociale...»

Ah, ecco, meglio così. Non usi parole difficili, che né io né i lettori capiamo. Anzi, riassumo per loro in due parole il film: Cristiana interpreta una universitaria intelligente e studiosissima, ma brutta e complessata, che si trasforma in cigno grazie all’incontro con Nicolas Vaporidis, figlio di papà fannullone che preferisce discoteche e cocaina a libri ed esami.

Coincidenza: la Capotondi si è laureata due anni fa in Scienza delle comunicazioni, lo stesso corso frequentato dai personaggi del film. Conosce perfettamente non solo l’ambiente universitario romano, ma anche le materie di cui si discetta in molte scene. E che sono poi l’essenza della storia: come «comunicare» con i coetanei, quale «immagine» scegliere per proporsi... Insomma: essere o apparire?
«Il mio personaggio all’inizio vive di assoluti. È critica verso la pressione sociale che obbliga a vestirsi e a comportarsi in un certo modo. Poi, attraverso un percorso di dialettica esterna...»

Alt.
«Sì, insomma i due protagonisti, conoscendosi e innamorandosi, anche se provengono da stereotipi sociali opposti, cambiano entrambi».

È capitato anche a lei? Ha mai incontrato un prof universitario come quello del film, il bavoso che promuove assistenti le ragazze facili che si porta a letto?
«Beh, no, anche perché quel personaggio è un po’ romanzato. In questo film c’è molta cura per alcune figure che, pur non essendo protagoniste, interpretano ruoli brillanti come nelle migliori commedie all’americana. Spesso sono proprio le loro battute quelle che rimangono più impresse. Io, per esempio, ancora mi ricordo di certe frasi di Spike, l’amico di Hugh Grant in 'Notting Hill'».

In 'Come tu mi vuoi' è interessante la ragazza che la «restaura».
«Sì, Fiamma è quella che mi porta a piazza di Spagna a comprarmi vestiti, che mi fa truccare da un amico, che mi rende attraente per il mio ragazzo. Ma anche lei è annoiata, arrabbiata».

Ma sul serio le discoteche oggi sono così decadenti e piene di cocaina come quella del film? «Onestamente, non lo so. Non frequento quell’ambiente».

E chi frequenta?
«Quando lavoro, nessuno. Mi immergo totalmente nella mia parte, leggo il copione quindici volte, evito di andare al cinema per non lasciarmi influenzare da altri personaggi».

Addirittura.
«Sì. E non affronto neppure libri impegnativi, da quando mi sono accorta che mentre ne leggevo ero stonata, facevo fatica a recitare».

Oddio, e che libro era, per suscitarle un tale trambusto?
«'Con le peggiori intenzioni' di Alessandro Piperno. Ma è naturale che capiti, perché con la lettura si scatena la fantasia, l’immedesimazione...»

Si immedesimeranno in molti, nel suo personaggio di 'Come tu mi vuoi'?
«Penso proprio di sì. Io stessa l’ho amata, sia quando è brutta e non si cura dell’apparire, sia quando sente la necessità di rapportarsi al sociale...»

E dagli. Io sarei più crudo. Diciamo che alla fine diventa una conformista come tutte.
«Ma no, non vende l’anima al diavolo. Ha solo trovato un baricentro più basso. Prima viveva di assoluti, e faceva violenza a se stessa. I valori assoluti portano sempre alla violenza».

Be’, i monaci birmani non violenti che si sono fatti massacrare dai generali devono averlo fatto in nome di valori assoluti.
«Dipende se si sono sentiti obbligati a farlo. Io non concordo con il “dovere sociale” di Kant...»

E ridagli. Stop. Tornando al film, mi pare ovvio che il suo personaggio ha semplicemente perso la testa per un fighetto.
«No. Ha solo perso la necessità di aggrapparsi a tesi assolute, ed è arrivata finalmente al dubbio. Anch’io vivo nel dubbio. Anzi, coltivo il dubbio metodico».

A questo punto, anch’io dubito. Ho di fronte un’attrice o una filosofa? Vediamo. Quanto ha preso alla laurea?
«Centodieci e lode».

Come ha fatto a studiare? È da dieci anni, dai tempi dello spot del gelato Maxibon con Stefano Accorsi, che lavora quasi a tempo pieno, fra Tv (la serie di Orgoglio) e cinema (Volevo solo dormirle addosso).
«Per cinque anni ho lavorato e studiato. Ho sottolineato il testo di psicologia sociale andando a Ponza in aliscafo a Ferragosto».

(Poveri fidanzati: dicono le biografie che la Capotondi ne ha avuto uno dai 12 ai 22 anni, e poi solo storie con attori. Amore e lavoro: sintomo di scarsità di tempo libero, se si mescolano. Consuetudine rischiosa nel ristretto mondo del cinema italiano, dove sempre pochi nomi ricorrono. Cosicché Cristiana ha dovuto recitare gli ultimi film con due suoi ex: Vaporidis e Primo Reggiani).

Visto il livello che ha raggiunto l’intervista non oso scivolare nel gossip, cosicché mi limito a chiederle: adesso è fidanzata?
«No, sono single. Sto bene così»
.
Mi ha colpito una dichiarazione: «A volte ceno da sola al ristorante». Io non ci riuscirei mai.
«Mah, capita durante le riprese. Non ho voglia di stare sempre con la troupe, e allora magari mangio e ne approfitto per telefonare, o leggere un giornale».

Non si giustifichi: anzi, la ammiro perché è raro non soffrire di solitudine. Altri hobby?
«La musica. Mi piace il gruppo underground romano Zephiro di Emanuele Mancini, mio compagno di banco alla media e al liceo».

Era anche il suo fidanzato?
«No».

Una volta ha detto: «Il corteggiamento è sciocco. Perché resistere a un ragazzo, se ti piace?».
«Confermo. Non vuol dire che sia una facile».

Non ne dubitavo. (Lo dimostra la rapidità con cui mostra il seno a Vaporidis in 'Notte prima degli esami' e in 'Come tu mi vuoi': determinata, ma solo con chi le piace).
«Il fatto è che se c’è una roba vera, odio un certo vezzo femmineo di resistere. È una questione di cinesi prossemica».

Senta Capotondi, o la smette di fare la difficile con le parole, o l’intervista finisce qui.
«Come tu mi vuoi».

Mauro Suttora

Tuesday, October 30, 2007

Abbiamo gli stipendi più bassi d'Europa

Solo spagnoli, greci e portoghesi guadagnano meno degli italiani

di Mauro Suttora

Roma, 24 ottobre 2007

C’è un malessere generale in Italia. Molti, moltissimi, hanno la sensazione che il loro lavoro non venga compensato adeguatamente. La scorsa estate un’indagine della Od&m su 5.600 dipendenti ha rivelato che l’80 per cento ritiene troppo basso il proprio stipendio rispetto al ruolo e all’esperienza accumulata.

Ancora peggio la valutazione rispetto all’impegno profuso: l’87 per cento si dichiara insoddisfatto. E non sono le solite lamentele, perché la rabbia aumenta guardando ai risultati delle aziende in cui si lavora: quasi tutte hanno ottenuto ottimi risultati, accumulando decine di milioni di profitti per gli azionisti. Insomma, l’economia va a gonfie vele, ma il ricco bottino non viene diviso equamente.

«È una situazione insostenibile», dichiara a Oggi Raffaele Bonanni, segretario Cisl, «che rischia di rompere il patto sociale di equità previsto dalla nostra Costituzione. Per questo il sindacato a metà novembre adotterà un’iniziativa molto forte». Scioperi? Rivendicazioni salariali? Richieste d’aumento ai padroni? No, precisa Bonanni: «Dobbiamo convincere il governo ad abbassare le aliquote dei lavoratori. In Italia sul lavoro dipendente pesa l’80 per cento dell’intero carico fiscale. Si tratterà di una vera e propria battaglia per l’equità».

Insomma, inutile chiedere aumenti se poi, ogni cento euro ottenuti, oltre la metà se ne va fra Irpef (che ora si chiama Ire, Imposta sul reddito) e contributi pensionistici, i quali però servono a pagare le pensioni di oggi: poco viene accantonato per quelle di domani. E non è finita qui, perché sui 40-50 euro rimanenti dobbiamo pagare un’Iva media del venti per cento ogni volta che compriamo qualcosa: le imposte sui consumi variano infatti dal quattro per cento su generi agevolati come alimentari e giornali, all’incredibile 65% della benzina (cominciò Mussolini a tassarla nel 1935, con la scusa che bisognava finanziare la guerra d’Etiopia).

Stretta nella tenaglia fra stipendi troppo bassi e tasse troppo alte, la classe media sta scomparendo. «Oggi in Italia, sempre di più, o si è ricchi o si è poveri», ha sintetizzato l’ultimo rapporto Censis. La fine del ceto medio: il titolo del libro scritto due anni fa da Massimo Gaggi ed Edoardo Narduzzi si è rivelato profetico. Guardate la tabella che pubblichiamo (qui accanto): professioni che fino a 20-30 anni fa garantivano una buona posizione sociale (professori, impiegati, bancari) sono pian piano scivolate in fondo alla classifica.

«Il malcontento che si registra tra i lavoratori dipendenti deriva dagli aumenti vertiginosi di prezzi al consumo e delle tariffe», spiega Bonanni, «con ricadute pesantissime sui bilanci familiari. Ma nessuno ha avuto la forza di contrastare i monopoli. Per questo vogliamo sgravi già in questa finanziaria per tutti i lavoratori dipendenti».

E pensare che molti lavoratori autonomi e tutti quelli precari invidiano chi ha comunque un posto fisso. Che vuol dire tranquillità psicologica, possibilità di programmare le spese, imposte e contributi Inps pagati dal datore di lavoro. Niente rischi, insomma, e lo stipendio garantito a fine mese.

«Ma ormai le buste paga sono ridotte a una miseria», denuncia Elio Lannutti dell’associazione consumatori Adusbef, «dopo la crisi innescata dall’euro. In questi sei anni, dal 2001 a oggi, si è verificata una speculazione senza precedenti da parte di chi ha potuto alzare indisturbato i prezzi, ai danni dei percettori di reddito fisso. Che quasi non se ne sono accorti, perché i commercianti hanno ottenuto di eliminare quasi subito i doppi prezzi in lire ed euro. Abbiamo calcolato in settanta miliardi di euro il trasferimento di ricchezza forzoso da questi ultimi ai primi».

È uno stillicidio che prosegue anche in queste settimane. Chiunque di noi, andando a fare la spesa, si accorge dei nuovi aumenti. Che ci costerano in media 700 euro all’anno, hanno calcolato le associazioni dei consumatori: dai venti euro in più per la revisione obbligatoria dell’auto (passata da 40 a 60 euro), all’aumento del bollo anche per auto piccole come la Panda (15 euro), fino al raddoppio per la pasta. «Le speculazioni più odiose avvengono nella filiera agroalimentare e nelle banche», avverte Lannutti. «Le intermediazioni di trasportatori e grossisti, per esempio, fanno aumentare l’uva da tavola pugliese dai 35 centesimi al chilo pagati ai produttori ai due euro dei nostri negozi. Quanto alle banche, basta osservare i loro utili record per accorgersi di quanti soldi prelevano dai nostri conti correnti e mutui».

Che fare, allora? «Il governo Prodi deve abbassare le aliquote Irpef», dicono sia Bonanni che Lannutti, «e non limitarsi a diminuire il prelievo sulle imprese». Particolarmente odiosa risulta l’aliquota minima del 23 per cento, che colpisce quei due italiani su tre che guadagnano meno di 1.300 euro al mese, e perfino i pensionati da poche centinaia di euro al mese. Poi, non deve più allargarsi la disparità fra gli stipendi: come si legge nella tabella, oggi gli impiegati in media quadagnano un quarto rispetto ai dirigenti. Ma fino a sei anni fa la differenza era di un terzo: si è quindi verificato un crollo dei redditi più bassi.

«Ho avvertito i rappresentanti delle banche: “Vi correranno dietro con i forconi”», minaccia Lannutti, «quando scopriranno che nei vostri forzieri conservate decine di miliardi di euro di fondi dormienti. Sta aumentando l’insofferenza contro la casta, non solo dei politici, ma anche di banche, assicurazioni e aziende che ottengono dal governo gli sgravi fiscali su Ires e Irap negati ai comuni cittadini».

Le detrazioni previste dalla Finanziaria, infatti, sono minime. Per esempio, quelle tanto sbandierate per i ventenni che affittano una casa (i «bamboccioni» derisi dal ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa) si riducono a 40-80 euro al mese, a fronte di monolocali affittati a 500 euro e più al mese nelle grandi città. Giovani e studenti, come tutti, si aspettano misure più consistenti.

Mauro Suttora

Wednesday, October 17, 2007

Walter Veltroni

Una giornata con il nuovo segretario del Partito democratico

di Mauro Suttora

Roma, 10 ottobre 2007

Mattiniero com’è, li stende tutti. Il sindaco di Roma Walter Veltroni si alza presto per i ritmi romani. È ancora un po’ buio quando esce dall’appartamento al primo piano dietro piazza Fiume dove vive con la moglie Flavia (figlia di un’ex senatrice del Pci) e le due figlie teenager Vittoria e Martina. Passa a prenderlo l’auto del Comune, e a quell’ora non c’è bisogno di sirene per farsi largo nel traffico.

Come Giulio Andreotti, ha il vezzo di dare appuntamenti anche prima delle otto a chi gli chiede udienza. «Ora poi il lavoro è raddoppiato: oltre che sindaco è anche candidato segretario del partito democratico», spiega un suo stretto collaboratore, «quindi non c’è altro modo per sbrigare tutti gli impegni».

Sperimentiamo anche noi un’alba frizzantina veltroniana quando, dopo aver chiesto di seguirlo per una giornata-tipo, ci propongono di trovarci alle otto sotto il Vittoriano. L’appuntamento sarebbe per le nove all’università Tor Vergata. Ma l’ufficio stampa offre ai giornalisti una navetta dal centro, perché il campus è all’estrema periferia sud, oltre il raccordo anulare, e il traffico è tremendo.

Quando arriviamo Veltroni è già lì, di fronte a un immenso buco fra i prati. «Qui fra due anni sorgerà la Città dello sport progettata dall’architetto Santiago Calatrava, con un nuovo palasport e lo stadio del nuoto per i mondiali del 2009», dice raggiante. «L’arco di Calatrava si vedrà dalle autostrade, sarà più alto del Colosseo, diventerà un nuovo simbolo di Roma. È l’intervento urbanistico più importante dai tempi dell’Eur».

Arriva trafelato in ritardo Giovanni Malagò, capo del comitato organizzatore dei mondiali (più famoso come padre delle figlie di Lucrezia Lante della Rovere): non ce l’ha fatta a rispettare il ritmo mattiniero di SuperWalter.

Più che una conferenza stampa è una chiacchierata fra amici, Veltroni distribuisce sorrisi e pacche sulle spalle a tutti. Nessun politico in Italia ha un rapporto migliore con i media, anche perché Walter ha una lunga dimestichezza personale con i giornalisti: nel 1984 divenne capo dell’ufficio stampa del Pci, e poi per quattro anni diresse il quotidiano del partito, L’Unità.

Ma si può dire che Veltroni sia nato in Rai, perché suo padre fu nel ’55 il primo direttore del Tg (una curiosità: nel ’38 curò la radiocronaca della visita di Hitler a Roma, quella del film Una giornata particolare con Sophia Loren e Marcello Mastroianni).

Purtroppo Vittorio Veltroni lascia orfano Walter ad appena un anno. La madre Ivanka, che era figlia dell’ambasciatore jugoslavo presso il Vaticano, divenne pure lei funzionaria Rai. E fu Walter, vent’anni fa, ad aprire la Rai al Pci, con l’assegnazione ai comunisti di Raitre, in cambio del via libera definitivo ai tre canali di Silvio Berlusconi patrocinati da Bettino Craxi.

Dopo la Città dello sport di Tor Vergata, che costerà 300 milioni, una puntatina nella vicina Tor Spaccata, dove il sindaco inaugura una casa per malati in «stato vegetativo persistente» (ovvero in coma), che grazie ad alcuni benefattori privati non costa nulla. E qui Veltroni, che ha scelto come motto l’I care (mi prendo a cuore) di don Milani, che va ogni anno a portare aiuti all’Africa (anzi, per la verità aveva improvvidamente annunciato che si sarebbe trasferito come volontario in quel continente dopo il mandato da sindaco), che ha fatto della solidarietà il suo distintivo e della mitezza il suo stile, si trova a suo agio fra la folla festante: «È importante che questo tipo di malati non debbano stare in ospedale, ma in una struttura dove possano essere accuditi dalle famiglie», dice.

Torniamo in Campidoglio, nel palazzo del Comune. Che si trova in posizione splendida, e infatti tutti gli ospiti internazionali di Veltroni spalancano gli occhi davanti alla vista del Foro Romano e del Colosseo.

Saliamo i gradini che portano alla piazza progettata da Michelangelo, passiamo davanti alla statua dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio, pensiamo che questo era il colle più sacro della città più carica di storia della Terra, e capiamo perché il sindaco di Roma non possa che aspirare a cariche più alte.

Come quella di segretario del Partito democratico, fusione di Ds e Margherita, che contenderà a Forza Italia di Berlusconi la palma di primo partito italiano. Domenica 14 ottobre si svolgono le primarie, e tutti i sondaggi danno certa l’elezione di Veltroni. Le uniche due incognite sono il numero dei votanti (due anni fa Romano Prodi fu plebiscitato da quattro milioni di ulivisti, ora i democratici si accontenterebbero di un milione) e la percentuale che otterrà Walter (attorno al 70 per cento, si prevede). Tra gli altri candidati, i maggiori contendenti sono accreditati del 15 per cento (Rosy Bindi) e dell’8 per cento (Enrico Letta, nipote di Gianni).

Ma SuperWalter alle maggioranze assolute è abituato: nel 2001 fu eletto sindaco con il 53 per cento, l’anno scorso è stato confermato con il 61. Per lui ha votato un vastissimo arco di forze, dagli estremisti di sinistra dei centri sociali ai moderatissimi cattolici di Alberto Michelini.

Pochi ricordano che il termine «buonismo» è stato inventato da Ernesto Galli della Loggia, ma tutti oggi associano questa filosofia a Veltroni. Che vorrebbe andare sempre d’accordo con tutti: era comunista ma gli piacevano i Kennedy, e ora è di sinistra ma si fonde con i democristiani, avversari per mezzo secolo. Unica resistenza, la vita privata. «Per favore lasciate fuori la mia famiglia», ci prega. Sta andando a pranzo al ristorante con una figlia, ma non ci concede neanche una foto di famiglia.

Nel pomeriggio Walter abbandona la casacca da sindaco e va nel Nord Italia per un comizio come candidato democratico. Prende la macchina, ci invita con lui. Decliniamo: sappiamo che passa i viaggi in auto ininterrottamente al telefono. Perché SuperWalter arriva dappertutto, di persona o con uno squillo. Presenzialista sempre.

Mauro Suttora

Tuesday, October 16, 2007

SuperWalter

Veltroni: venti libri, quattro film

Il primo libro risale a trent’anni fa. Titolo: 1977, il Pci e la questione giovanile. Allora Veltroni aveva 22 anni, era appena stato eletto consigliere comunale a Roma, ma era iscritto ai giovani del Pci già dal ’70, si era messo con l’attuale compagna Flavia già da tre anni, era gà diventato segretario provinciale dei giovani comunisti sotto Massimo D’Alema, che era segretario nazionale.

Romanzi e saggi.
Dopo il primo, sono seguiti altri 19 titoli, fra saggi e romanzi. Ora quattro di loro diventano film. È appena uscito Piano, Solo con Kim Rossi Stuart, Jasmine Trinca, Michele Placido e Paola Cortellesi. Poi Gianni Amelio porterà nelle sale Senza Patricio, scritto da Veltroni dopo un viaggio in America Latina. Seguiranno Forse Dio è malato, diario di un viaggio in Africa, e La scoperta dell’alba, che Walter ha dedicato alla madre Ivanka.

Lo sport.
Il futuro segretario Pd un anno fa è stato eletto anche presidente della Lega basket.

Wednesday, October 10, 2007

Aung San Suu Kyi

CHI E' LA DONNA CHE FA TREMARE I GENERALI BIRMANI

di Mauro Suttora

Rangoon (Birmania), 10 ottobre 2007

Il fratello di suo bisnonno capeggiò gli oppositori degli inglesi, che nel 1886 annessero la Birmania al loro impero. Suo padre Aung San è il padre della Birmania libera: combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947.

Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, se non altro perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.
Se la parola «eroe» si potesse pronunciare al femminile senza diventare diminutivamente «eroina», la si potrebbe chiamare così. Dimenticando che quella parola è anche il nome del prodotto più contrabbandato dai generali birmani che opprimono il Paese.

La signora Suu Kyi è viva. Questa è l’unica buona notizia arrivata dalla Birmania nell’ultima settimana. L’ha incontrata l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari. Da anni soltanto lui può vederla. La signora è infatti in prigione o agli arresti domiciliari dal 1990, quando vinse le elezioni con l’82 per cento dei voti. L’ultima volta si erano incontrati a casa della Suu Kyi nel novembre 2006. Non si sa cosa si siano detti: il segreto è una delle condizioni che i dittatori impongono per autorizzare questi colloqui.

Nessuno saprà mai neanche quanti siano i morti della rivolta nonviolenta in corso in Birmania. Poche decine, come afferma la giunta militare? O centinaia, come dicono i dissidenti? L’ultima volta che i birmani si ribellarono ai propri soldati furono tremila. Per scendere in strada avevano scelto una data che pensavano beneaugurante: l’8/8/88. Invece quell’8 agosto fu un bagno di sangue. Come ora. Eppure anche allora si presentarono a mani nude di fronte ai fucili.

La signora Suu Kyi era appena tornata dall’autoesilio di 26 anni che si era inflitta dopo che i generali avevano imposto la dittatura nel 1962. Ed era tornata a Rangoon soltanto perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader, perché in Birmania la signora ha lo stesso prestigio che potrebbe avere in Italia una figlia di Garibaldi.
Aung San Suu Kyi si può veramente definire, assieme a pochissimi altri personaggi viventi, un eroe del mondo moderno. Nelson Mandela in Sudafrica, Vaclav Havel in Cecoslovacchia... Anche il polacco Lech Walesa e il russo Michail Gorbaciov hanno vinto il premio Nobel per la Pace - come la Suu Kyi nel ’91 - per avere acceso rivoluzioni nonviolente, ma sui loro nomi già si accende qualche discussione. Sulla signora birmana, invece, regna l’unanimità: è considerata un’apostola della libertà.

Ce la farà, o dovrà arrivare ai 26 anni di carcere di Mandela? Ce la faranno i ragazzi e i monaci di Rangoon, oppure finiranno come i giovani di piazza Tien An Men, falciati dai gerarchi comunisti cinesi nel 1989? Anche oggi la Cina c’entra, e molto, con la repressione orrenda degli inermi. La dittatura birmana infatti sta in piedi soltanto grazie all’appoggio di Pechino, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si oppone a sanzioni economiche dell’Onu, e perfino la democratica India ha appena firmato un accordo commerciale con Than Shwe, il 69enne capo dei generali birmani.

Aung San Suu Kyi da 18 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca durante le rare interviste che ha potuto concedere. «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello. Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che il 9 giugno 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.

Allora si era temuto il peggio.

Come nel ’99, quando Suu Kyi perse l’amato marito inglese Michael Aris: si era ammalato di cancro alla prostata tre anni prima, ma i militari non gli avevano mai dato il permesso di visitare per l’ultima volta sua moglie. Lei avrebbe potuto raggiungerlo a Londra, ma sapeva che se avesse lasciato la Birmania non avrebbe più potuto tornare. E fra l’amore per il proprio Paese e quello per il marito morente ha scelto il primo.

Si erano conosciuti all’università di Oxford nel ’67, l’allora 22enne bellissima Suu Kyi e Michael, studente buddhista di Storia asiatica. Era l’epoca dei Beatles e il buddhismo andava di moda, ma per lui era una cosa seria. Divenne professore delle stesse materie, e andò in Bhutan come istitutore del figlio del re. La sua giovane moglie fu felice di seguirlo, così come era stata felice di seguire la madre nel ’60 quando venne nominata ambasciatrice in India.

Speravano che prima o poi le cose in Birmania sarebbero migliorate, che la libertà sarebbe tornata e quindi anche loro sarebbero tornati. Invece niente. Così Suu Kyi tornò mestamente a Oxford con Michael, si sposarono nel ’72, ebbero due figli (Alexander, oggi 34 anni, e Kim, 30). Lei per due anni andò a lavorare all’Onu a New York. Poi tornò a Londra, una vita tranquilla con l’unico stipendio da professore del marito.

Insomma, come spesso accade, gli eroi diventano tali controvoglia. Non c’era e non c’è nulla nella signora Suu Kyi che possa infiammare gli animi. Nei suoi discorsi in pubblico non ha mai alzato la voce. Ha sempre predicato l’amore, la legalità, il rispetto. Una rivoluzionaria tranquilla.

Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone "Walk On" (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco ("For the Lady"), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting.

Speriamo che la Lady prima o poi ce la faccia. Dolce e paziente, è il simbolo di tutte le donne della Terra. E i monaci e gli studenti che s’immolano per lei ci appaiono più forti e coraggiosi dei coetanei soldati che li uccidono tremando.

Mauro Suttora

Mostra di Gauguin a Roma

UN MILIARDARIO CALIFORNIANO ESPONE I GIOIELLI DELLA SUA COLLEZIONE

Santa Monica (Stati Uniti), 10 ottobre 2007

Il miliardario Richard Kelton guarda l’Oceano Pacifico dalla vetrata di casa sua, sul lungomare californiano di Santa Monica. «La vede quella barca attraccata laggiù? È la mia. Con lei ho attraversato questo oceano due volte, e l’Atlantico una dozzina. In tutto, negli ultimi vent’anni, ho navigato per settantamila miglia. E grazie a questa barca mi sono innamorato di Paul Gauguin».

Kelton, 77 anni, è il magnate di una delle maggiori imprese di costruzione d’America: la Bollenbacher & Kelton, fondata da suo padre nel 1937. «Avremo costruito 15 mila fra case e appartamenti, e decine di centri commerciali», racconta.

Negli anni Ottanta ha deciso di mollare un po’ gli affari, lasciandoli al figlio, per dedicarsi al suo hobby: la barca a vela. Regate, ma anche viaggi interminabili in mari perigliosi. «Abbiamo raggiunto isole remote della Polinesia, atolli dove gli aerei non possono atterrare, arcipelaghi come quelli della Società e delle isole Marchesi. Durante una di queste spedizioni, mentre passeggiavo per una strada vicina al porto di Papeete, sono entrato in un negozio di antiquariato. C’era una statua che mi piaceva, l’ho comprata per poche centinaia di dollari. Solo dopo qualche anno e parecchi studi sono giunto alla conclusione che è un lavoro di Gauguin».

A quell’acquisto fortuito ne sono seguiti molti altri. Oggi la Fondazione Kelton possiede la più grande collezione di arte aborigena australiana negli Stati Uniti. Ma, accanto a questa predilezione, Richard Kelton ne ha pure coltivata un’altra: quella per Gauguin, il genio che con Van Gogh e Cézanne traghettò la pittura dal XIX al XX secolo, dall’impressionismo alla modernità. «Ora ho una cinquantina di lavori di Gauguin. Quello che preferisco? Difficile dirlo». Kelton medita a lungo, come se gli avessimo chiesto quale dei suoi figli predilige. Poi si decide: «Le oche in stile giapponese del 1889, un olio su tela. È quello che attualmente campeggia qui, in mezzo alla mia sala».

Non più. Almeno fino al prossimo 3 febbraio. Kelton, infatti, ha deciso di concedere una trentina delle opere del pittore francese in suo possesso alla grande mostra che si apre a Roma sabato 6 ottobre, nelle sale del Vittoriano: Paul Gauguin. Artista di mito e sogno (150 tra oli, disegni, sculture e ceramiche, catalogo Skira). L’aveva fatto solo un’altra volta, due anni fa, prestando alcune opere a un museo danese: «Ma erano solo cinque», precisa. Questa volta, invece, è il meglio dell’intera collezione Kelton a varcare l’Atlantico.

È arrivato anche lui a Roma: ha voluto seguire personalmente il disimballaggio dei preziosi manufatti: quadri, ma anche statue e oggetti, come il Sarcofago della Resurrezione, una cassapanca di mezzo metro intagliata in legno dall’artista nell’inverno 1884, che trascorse a Copenaghen assieme alla moglie danese Mette.

Kelton non è un semplice collezionista. È anche un appassionato d’arte: negli anni ha studiato molto, tanto che ora può permettersi perfino di scrivere saggi su Gauguin. E di recensire quelli dei massimi esperti dell’artista, come The symbolism of Paul Gauguin: Erotica and Exotica di Henri Dorra, pubblicato quest’anno dalla University of California Press. Alcuni li loda, come quello dello svizzero Dario Gamboni che insegna a Ginevra («Il suo Ambiguity and Indeterminacy in Modern Art del 2004 è eccezionale, offre interpretazioni profonde di opere che ci sono familiari»). Altri li castiga: Nancy Mathews, che nel 2001 osò scrivere che Gauguin era violento e picchiava moglie e figli («Scrive per partito preso e senza prove»).

Per il catalogo della mostra (che presenta anche opere di prestigiosi musei come l’Ermitage e la National Gallery), Kelton ha preparato un corposo saggio su Gauguin. La sua tesi è che «ogni minimo particolare della sua opera rifletteva lo stato d’animo del momento.

«Tutto aveva un significato, tanto che in ogni suo lavoro si possono rintracciare simboli che ci fanno risalire ad aspetti della sua vita in quel periodo». E poiché la vita di Gauguin fu turbolenta e infelice, questa interpretazione cozza contro il luogo comune che vede, soprattutto nei dipinti strabordanti di colori del periodo tahitiano, un’immagine di fiabesca e lussuriosa tranquillità esotica.

«Tutt’altro», s’infervora Kelton. «Per esempio, il piccolo sarcofago realizzato per la moglie Mette appartiene a una delle fasi più disperate della sua vita. Il crollo della Borsa di Parigi del 1882 aveva scaraventato il 34enne agente di cambio Gauguin sul lastrico. Improvvisamente, dopo una vita agiata con moglie e cinque figli, perde il lavoro. Cerca di fare di necessità virtù dedicandosi a tempo pieno alla sua vera vocazione, la pittura, ma non riesce a vendere un quadro. La moglie non sopporta le ristrettezze e torna a casa dei suoi in Danimarca. Alla fine, anche lui deve seguirli, sperando di mantenersi a Copenaghen come agente di una ditta parigina, oppure insegnando francese come la moglie, o vendendo i suoi quadri.

«Niente di tutto ciò accade, e anzi l’alta società frequentata da Mette disprezza i suoi modi e vestiti da bohémien. Lei arriva a nasconderlo in soffitta, tanto che Paul si lamenta scrivendo all’amico Camille Pissarro: “Ho esaurito ogni risorsa di coraggio. Solo la pittura mi trattiene dall’impiccarmi”. Ma mentre intaglia il sarcofago il cupo inverno nordico finisce, e così lui associa simbolicamente la resurrezione con il rinnovamento primaverile. Su un fianco riproduce una ballerina di Degas, si ispira al Seneca di Delacroix per la figura all’interno, e la Maria Maddalena, peccatrice perdonata, è il simbolo delle ballerine di Parigi, a quell’epoca considerate più o meno come simpatiche prostitute. Ma in tutta l’opera di Gauguin abbondano i simboli religiosi, retaggio dei suoi cinque anni in seminario a Orléans, prima di imbarcarsi diciassettenne come marinaio».

Potrebbe andare avanti per ore a raccontare minuziosamente la vita del genio Gauguin, dalle sei mostre collettive con gli impressionisti negli anni Ottanta dell’Ottocento, all’amicizia e le liti con Van Gogh, questo miliardario appassionato delle opere che compra. Le isole Marchesi, dove l’artista morì 55enne nel 1903, lui le conosce bene. E ha ripercorso palmo a palmo tutte le vicende dell’autoesilio finale a Tahiti, navigando sulla propria barca. Un gauguiniano perfetto, insomma.

Mauro Suttora

Monday, September 24, 2007

Gli amici di Beppe Grillo a Roma

«Grillini»: così si fanno chiamare i simpatizzanti del comico genovese. E dopo il successo del Vaffa day fanno paura ai politici di professione. Ma chi sono ? Cosa vogliono ? Scopriamo le loro facce, le loro idee e i loro piani

Oggi, 22 settembre 2007

di Mauro Suttora



Chi l’avrebbe detto che bisogna andare fino a New York, al numero 632 di Broadway nel centro di Manhattan, per trovare il cuore del fenomeno di Beppe Grillo? La rete dei 50 mila «Amici di Grillo» sparsi in 250 città e paesi italiani (più una trentina all’estero) con i 350 gruppi che hanno organizzato il «Vaffa Day» dell’8 settembre, sconvolgendo la politica italiana, parte da qui. Dal server di Meetup.com, uno dei siti Internet più potenti della Terra, tipo My Space o You Tube

Quello di Grillo è solo uno dei 33 mila gruppi (in tutto il mondo e di ogni tipo: sportivi, culturali, politici, professionali, di semplici amici) che si fanno ospitare da questa rete globale.

Se quelli di Grillo si presentassero alle elezioni diventerebbero subito il secondo o terzo partito italiano: 17 per cento dei voti, con un 33 di simpatizzanti che «non lo esclude». Questo dicono i sondaggi. Praticamente, una mezza rivoluzione esplosa nel giro di due settimane. Perfino Tangentopoli, quindici anni fa, ci aveva messo più tempo per nascere.

«Ma noi non siamo nati ieri, siete voi giornalisti che non ve ne siete accorti fino al 7 settembre», dice a Oggi Serenetta Monti, 36 anni, custode di museo e coordinatrice di uno dei quattro gruppi degli amici di Grillo a Roma. Il più grande: 1.625 iscritti. Registrarsi su Internet non costa nulla, e ora gli aderenti aumentano al ritmo di venti al giorno. «Perché non viene a vederci, al nostro prossimo Meet up?», ci propone.

Accettiamo l’invito. Perché se fino a ieri i «grilli» (così si autodefiniscono quelli romani, e non grillini, grillisti o grillanti) erano solo la massa anonima degli spettatori di Grillo, ora che hanno fatto irruzione sulla scena politica siamo curiosi di vedere che facce hanno. E quali idee, quali proposte.

Scopriamo subito che la loro parola magica non è «Vaffa...», ma «Mitàp»: italianizzazione di «meet up», appunto, cioè incontrarsi. Perché è vero che i Grilli sono il primo movimento politico virtuale, nato su Internet appena due anni fa (ma subito esploso: il settimanale americano Time all’inizio del 2006 ha inserito il blog di Grillo fra i dieci più importanti del mondo). Però, per riuscire a raccogliere 350 mila firme in un solo giorno sulle loro tre proposte di legge (parlamentari incensurati, che tornino a casa dopo due mandati e che vengano scelti davvero, con preferenze o primarie), sono scesi nelle piazze in carne ed ossa. E hanno dovuto organizzare tutto, da volontari inesperti: chiedere permessi in questura, affittare impianti di amplificazione, procurarsi i tavolini dove si firmava...

«Il 16 agosto, quando ci siamo incontrati per organizzare il V-day romano a piazza San Paolo, eravamo in quattro gatti e avevamo paura di non farcela», confessa Stefano Franco, 42 anni, sposato, due figli, impiegato di una società informatica. Lui è uno dei quattordici «assistenti» che Serenetta, organizer eletta per sei mesi («A rotazione: pratichiamo quel che predichiamo»), si è scelta lo scorso giugno. «Invece alla fine è andato tutto bene, e solo a Roma abbiamo raccolto 40 mila firme. Dall’una del pomeriggio all’una del mattino in piazza sono passate 70 mila persone».

Così, per il primo «Mitap» dopo l’exploit, fissato per la sera di venerdì 21 settembre, addio cene in trattoria in dieci o venti. Sul sito piovono iscrizioni a valanga, e quindi Dario Tamburrano, 38 anni, dentista («Zazzaro» è il suo soprannome in rete) deve affittare una sala da 250 posti vicino a casa sua, nel quartiere Nomentano. Per pagarla, due euro a testa fra i partecipanti. Per arrivarci, istruzioni dettagliate on line con mappe, indicazione di parcheggio gratuito adiacente, mezzi pubblici e servizio di car-pooling (unica auto per quelli che arrivano dallo stesso quartiere).

Inizia l’assemblea. Presiede Serenetta, che ha esperienza di riunioni pubbliche come sindacalista («Ma di base, sono contraria a Cgil, Cisl e Uil»). Pochi preamboli, liquida la questione delle liste civiche in due parole: «Troppo presto per parlarne». E si tuffa subito, invece, a illustrare le attività pratiche portate avanti dal gruppo. Tutte nella scia delle idee che Beppe Grillo propaganda da quasi vent’anni nei palasport d’Italia. I Gas, per esempio: Gruppi di acquisto solidale. Li organizza la 35enne Lidia Gandellini, alias «Zampidia», terapista dell’arte (cura i disagi psichici e sociali con musica, pittura, danza): «Il nostro obiettivo è “accorciare la filiera” fra produttore e consumatore. Quindi acquistiamo in gruppo olio, carne biologica o detersivi da aziende di fiducia, che ci garantiscono qualità e prezzi più bassi». All’ultima riunione aveva portato taniche di olio dalla Sabina.

Lidia frequenta i Grilli romani da pochi mesi, dopo aver visto uno spettacolo di Grillo a Roma in febbraio. Da quasi due anni invece è impegnato Dario, il dentista così appassionato di ecologia che si è appena reiscritto all’università (facoltà di agraria con specializzazione ambientale a Roma): «Ma ora, con l’esplosione di Grillo, non so se avrò tempo per tutto. Io appartengo a una generazione cresciuta con lui, il programma Te la do io l’America era il nostro mito. All’inizio partecipare al suo blog era una valvola di sfogo: non pensavo che potesse arrivare ad avere un riscontro reale nella vita di tutti i giorni. Non mi sono mai occupato di politica. Ho votato a sinistra, tranne una volta per la Mussolini alla regione Lazio in segno di protesta contro gli scandali. Ma anche a destra ci sono persone stimabili, come la Prestigiacomo».

Per lui, Stefano e molti altri la passione principale è l’ecologia, e in particolare la spazzatura: «La raccolta differenziata è la chiave di tutto», spiega Stefano, «perché applicandola si può fare a meno degli inceneritori che contestiamo». Ma allora perché non siete andati nel Wwf, o in Greenpeace, o nei Verdi? «Perché Grillo ci ha messo a disposizione uno strumento più aperto».

Roberta Lombardi, 34 anni, laureata in legge, lavora in una società internazionale di arredamento: «Non mi sono mai occupata di politica, per snobismo, perché associavo questa parola ai partiti. Gli unici cortei cui ho partecipato sono stati quelli per Falcone e Borsellino, tanti anni fa. Mi interessa molto la proposta di Grillo di introdurre anche in Italia, come negli Stati Uniti, le class action, cioè le cause di risarcimento per danni di gruppo».

Dilettanti allo sbaraglio o rivoluzionari nonviolenti? Per ora fra i Grilli c’è tanto entusiasmo. L’impatto con i professionisti della politica, le loro manovre e i loro trucchi, sarà duro. Vedremo.

Mauro Suttora

Dalila Di Lazzaro e Ornella Muti

GUARDATECI, NUDE A 50 ANNI: PREFERITE ANCORA LE VELINE?

Milano, 23 settembre 2007

Volete vedere Ornella Muti e Dalila Di Lazzaro nude? Passate in corso Vittorio Emanuele a Milano dal 19 settembre al 14 ottobre. Le due attrici (52 anni la prima, 54 la seconda) esibiscono le proprie mature ma sempre affascinanti grazie in una mostra, con tanto di gigantografie senza veli. Assieme ad altre otto donne (l’attrice Anna Orso, una preside, un’agente immobiliare, una direttrice del personale e altre cinquantenni, professioniste in carriera o mamme) hanno accettato di spogliarsi per il fotografo Gianmarco Chieregato.

Vogliono lanciare un messaggio non solo alle coetanee, ma anche alle donne più giovani: la bellezza del corpo femminile nasce dall’orgoglio di mostrarsi come si è. Intense, profonde, uniche. Oltre alle signore italiane, sono esibiti i ritratti della fotografa più famosa del mondo: l’americana Annie Leibovitz, che riesce a valorizzare cinquantenni normalissime: una pasticcera, una fisioterapista.

La mostra, organizzata dal Fondo Dove per l’autostima, s’intitola «Pro-age, perché la bellezza non ha età», e contesta l’idea che l’avanzare dell’età sia considerato come un «difetto» da correggere, in nome di un’illusoria eterna giovinezza propagandata dai media e dalla pubblicità, a beneficio di chirurghi plastici e venditori di botulino e silicone.

«Ovviamente la bellezza ha avuto un posto predominante nella mia vita», ci dice la Di Lazzaro, «perché sono stata un’attrice, un volto noto del cinema. Quand’ero più giovane essere e sentirmi bella era una componente essenziale di me stessa. Poi sono accadute tante cose: ho sofferto e accettato di dover lottare ogni giorno anche per compiere le azioni più semplici».

Due gravi incidenti che l’hanno costretta immobile per anni a letto, la perdita dell’unico figlio: di fronte a queste prove la bellezza è passata in secondo piano? «No», risponde decisa l’indimenticabile Serafina del film di Lattuada con Renato Pozzetto del ’76, «perché oggi, come vent’anni fa, mi piace sentirmi bella e prendermi cura di me. Amo il mio corpo esattamente come allora, e vivo i suoi cambiamenti come un mutare della mia bellezza, non come un appassire. Sono certa che finché il mio corpo rifletterà la mia forza interiore e le mie conquiste, non smetterà mai di essere bello».

Ora Dalila, abbandonato il set, fa la scrittrice: dopo l’autobiografia Il mio cielo dell’anno scorso, nel 2008 uscirà il suo nuovo libro, Piccoli miracoli intorno a me. E il miracolo che la mantiene così bella, qual è? «Mai ritoccata, mai andata in palestra, mai diete, mangio quel che voglio, sono una forchettona. Faccio solo passeggiate in città e nuotate d’estate al mare. E massaggi tre volte la settimana per i problemi a collo e schiena. Linfodrenaggi per la circolazione, la riflessologia plantare ai piedi mi rilassa molto... Ammetto di avere avuto un regalo dal cielo, e mi basta mantenermi. Ho posato nuda solo un’altra volta in vita mia, per Playmen quando avevo 26 anni. E per la vecchiaia i miei modelli sono Brigitte Bardot, Jane Birkin, Charlotte Rampling e Katharine Hepburn, che non hanno ceduto alla tentazione del bisturi».

«La bellezza nasce da come si è», spiega Ornella Muti. «perché non è solo l’estetica a essere importante: a renderci belli è l’armonia tra corpo, anima e mente. Un’armonia che si trasmette all’esterno come un’energia contagiosa, che nulla a che vedere con l’età. Un esempio di bellezza, come la intendo io, è Anna Orso, che emana un’incredibile energia. La vedi e subito ti colpisce il suo sguardo profondo, limpido, chiaro. A quel punto non ti chiedi nulla di lei, perché pensi che lei è semplicemente se stessa: bellissima e trasparente. Il suo è un vero dono, e il fatto che non nasca solo da caratteristiche estetiche, ma dalla sua energia, è la dimostrazione del fatto che la bellezza non ha età».

La giornalista Barbara Palombelli non si spoglia, però partecipa a un tavola rotonda in Galleria il 19 settembre alle 18: «Noi over 50 apparteniamo a una generazione unica. Siamo state le prime a vivere l’emancipazione femminile e a conquistare un ruolo sociale attivo e riconosciuto. Dobbiamo esserne fiere, e trasmettere la nostra fierezza alle generazioni che verranno. Per riuscirci abbiamo alleati preziosi: una pienezza di vita e di interessi, e anche una bellezza intesa nel senso più ampio del termine, che le nostre madri non avevano».

L’orgoglio delle pantere grigie (molto pantere e pochissimo grigie) si accende sentendo i risultati di un sondaggio di Renato Mannheimer commissionato da Dove: anche i maschi vogliono vedere rappresentate donne reali, e non amano le finzioni della pubblicità che impone modelli irraggiungibili. Per i mille intervistati una donna è bella innanzitutto se «ha una sua personalità, un suo stile unico», se «è simpatica», e soprattutto se è «consapevole del proprio fascino». Solo dopo arrivano qualità come l’«aspetto fisico attraente» e la gioventù.

Tutti, poi, condividono queste affermazioni:
1) la bellezza non ha una data di scadenza, una donna può essere bella a qualsiasi età.
2) a 50 anni una donna può essere più interessante che a 30.
3) oggi una donna a 50 anni può essere molto più attraente che in passato.
4) una ruga rende la donna più interessante.

Grande consenso anche per queste critiche alla pubblicità:
1) le donne belle non sono solo veline o miss, bisogna contrastare questa immagine distorta.
2) i pubblicitari non hanno capito che le donne sono cambiate, e anche dopo i 50 anni sono apprezzate dalla società.
3) la maggioranza delle donne dopo i 50 anni è orgogliosa di quello che è, non rincorre i modelli della pubblicità.
4) le donne over 50 che dimostrano la loro età non si vedono mai negli spot.

«Insomma, pubblicità e media una volta tanto non sembrano essere più avanti rispetto alla società», commenta Mannheimer, «perché restano ancorati a stereotipi ormai obsoleti, forse per paura di osare il nuovo». E Lucia Rappazzo, direttrice del mensile Psycologies, alza il tiro: «Si può essere belle senza nascondere la propria età anche a 60 anni, e a 70». Le splendide settuagenarie Anna Orso, Virna Lisi, Jane Fonda o Sophia Loren sono lì a dimostrarlo.

Mauro Suttora

intervista a Ken Follett

Lo scrittore presenta il suo 17esimo romanzo: 'Mondo senza fine'

Roma, hotel Hassler, 19 settembre 2007

di Mauro Suttora

Posso protestare? Mi permette?
«Prego».

Questo suo ultimo libro è troppo lungo.
«The longer the better: più sono lunghi, meglio è. I miei lettori adorano i libri infiniti».

Anche se hanno 1.366 pagine?
«Tanti lettori di I pilastri della terra mi hanno scritto: “Lo volevamo ancora più lungo”...».

Ken Follett ha venduto cento milioni di copie dei suoi sedici romanzi. Il bestseller personale rimane 'I pilastri della terra' del 1989: undici milioni di copie (uno e mezzo solo in Italia). L’unico ambientato nel Medioevo. Da allora i suoi lettori (che lui coltiva, leggendo le loro lettere ed e-mail e firmando amabile e instancabile migliaia di copie in giro per il mondo) lo implorano: «Dacci una seconda puntata». Fatto. È appena uscito 'Mondo senza fine' (Mondadori), che si svolge nello stesso villaggio inglese immaginario (Kingsbridge), ma nel XIV secolo, 200 anni dopo il romanzo precedente.
Storie di abati corrotti, suore lussuriose, vescovi che pretendono lo ius primae noctis, medici che rischiano il rogo per stregoneria solo perché vogliono curare la peste...

Follett, confessi. Lei ce l’ha con i cattolici?
«Assolutamente no. Il conflitto che descrivo nel libro è tutto interno alla Chiesa, fra una parte di religiosi che si fida e affida alla scienza, e un’altra che ne diffida. Ma ci sono anche figure assai positive: la protagonista Caris, per esempio, è una suora».

Beh, almeno Umberto Eco nel 'Nome della rosa' aveva diviso equamente i monaci fra buoni e cattivi. Qui invece la grande maggioranza delle figure ecclesiali è negativa.
«Dice? Mi faccia pensare... Forse il problema è che in quell’epoca la Chiesa rappresentava tutto il potere, anche quello terreno. Ed è fatale che fra le figure di potere ce ne siano molte negative».

Comunque, lei fra scienza e religione sceglie la prima.
«Certo. La Chiesa ha sempre avuto torto quando ha perseguitato gli scienziati. Il Papa ha dovuto chiedere scusa a Galileo 400 anni dopo. Per un motivo molto semplice: la Chiesa non sa nulla di scienza, quindi non può che sbagliare».

Ma i suoi genitori non erano religiosissimi?
«E molto severi: fino a 16 anni mi vietavano il cinema. E in casa non c’era la tv».

Così nasce uno scrittore?
«Mi sfogavo leggendo libri. Lì non mi proibivano nulla, e così a dodici anni ero pazzo di James Bond: sognavo la sua vita peccaminosa piena di cocktail, sigarette, auto e donne sexy. Risultato: a 15 anni mi sono ribellato alla religione».

Ed è passato ai Beatles.
«Sì, la loro canzone che preferisco è Good Day Sunshine».

Perché?
«Perché le canzoni che ci piacciono a 17 anni ci accompagnano per il resto della vita. Perché sta in Revolver, uno dei loro dischi più belli. E anche perché avevo soprannominato Sunshine il mio primo figlio, nato quando avevo solo 19 anni ed ero all’università».

La musica è importante per lei?
«Molto. Suono il basso in un complesso di rock-blues. Spesso ci esibiamo in pubblico nella zona dove abito, in campagna, vicino a Londra».

Ho letto che un’altra canzone che predilige è My Cherie Amour di Steve Wonder.
«Sì, chiamavo così mia figlia quand’era piccola. Lei camminò su quel disco e lo ruppe».

È anche molto impegnato politicamente.
«Da tre mesi la mia seconda moglie Barbara Broer, che conobbi negli anni Ottanta quando facevo l’attivista nella sezione laburista di cui lei era segretaria, è diventata ministro».

Ah! E di che?
«Pari opportunità, nel nuovo governo laburista di Gordon Brown. Vuole unificare tutte le leggi che proteggono donne, gay, handicappati e minoranze razziali, per diminuire la burocrazia e semplificare la vita ai datori di lavoro».

Lei detestava Tony Blair, e invece adora Brown. Perché non è inglese, come lei?
«Ahahah! Io sono gallese e Brown scozzese, è vero, ma non l’ammiro per ragioni etniche. Credo veramente che sia più onesto e sincero di Blair».

Che pensa della conversione di Blair al cattolicesimo?
«È un uomo alla ricerca di una fede. C’è un po’ di vuoto nel suo cuore e nella sua anima, e lui avverte il bisogno di riempirlo. Con qualsiasi cosa: avrebbe potuto farlo anche con il buddhismo».

È molto duro con Blair. Ma pure lei all’inizio era favorevole alla guerra in Iraq.
«Ora abbiamo tutti capito che è stato un errore tremendo. Sì, quattro anni fa mia moglie, allora deputata, votò a favore della guerra dopo che assieme ci pensammo per giorni e giorni. Credevo fosse una buona idea eliminare un dittatore che aveva fatto fuori centomila dei suoi sudditi. Ma abbiamo sottovalutato la complessità della situazione irachena».

Torniamo alla scrittura. Quante pagine riesce a scrivere ogni giorno?
«In media quattro. Comincio presto, alle sette del mattino: appena sveglio mi vengono un sacco di idee, sono creativo. E vado avanti fino a metà pomeriggio. Poi mi riposo».

Mauro Suttora

Thursday, September 13, 2007

11 settembre, sei anni fa

E TUTTO CROLLO'

di Mauro Suttora

New York, 11 settembre 2007

Un anniversario in tono minore: così si ricorda, quest’anno, la data dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Sarà perché sei anni non è un numero tondo come cinque o dieci, sarà per l’impantanamento dell’esercito americano nelle guerre d’Afghanistan e Iraq, ma le cerimonie si svolgono in modo più sommesso degli anni scorsi. Meno spazio sui media, anche perché l’attenzione è rivolta al rapporto del generale David Petraeus sulla vera situazione militare a Baghdad, e sulle prospettive di una liberazione che si è trasformata in occupazione, e che con il passare del tempo è diventata per gli Usa l’incubo di un nuovo Vietnam. Eppure quei quasi tremila civili morti nel crollo delle Torri gemelle a New York, il «buco» nel Pentagono e l’aereo caduto in Pennsylvania rimangono nella memoria di tutti noi.

Non c’è stato alcun soccorso da prestare alle vittime dell’11 settembre: tutti coloro che si trovavano dentro le Torri al momento del crollo sono morti. Nessun ferito. «La cosa più brutta è stato vedere gli ospedali vuoti», ha detto l’allora sindaco di New York, Rudy Giuliani, «perché significava che erano tutti andati».
Oltre a coloro che si trovavano nei piani superiori a quelli degli impatti dei due aerei, e che non sono potuti scendere perché erano bloccati dall’incendio e dal fumo, sono stati travolti dal crollo inaspettato della prima torre tutti i poliziotti e vigili del fuoco che stavano cercando di spegnere l’incendio. Quelli della seconda torre hanno avuto pochi minuti per precipitarsi al piano terra, ma anche molti di loro non ce l’hanno fatta. Le autorità avevano proclamato che le Torri sarebbero state ricostruite, ma finora pochissimi si sono azzardati a prenotare uffici in quel luogo maledetto. Così i lavori vanno a rilento.

Poco dopo l’attacco alle due Torri di New York, i terroristi islamici scagliano un aereo civile dirottato, pieno di passeggeri innocenti, anche sul Pentagono di Washington, sede del ministero della Difesa statunitense. L’impatto su una facciata dell’edificio provoca circa 200 morti e un incendio. Ma soprattutto, in questi sei anni, ha alimentato polemiche a non finire su ciò che realmente accadde. Questo perché, per malintese esigenze di sicurezza militare, le autorità hanno sempre rifiutato di mostrare la quasi totalità delle immagini raccolte, comprese quelle provenienti dalle telecamere fisse nascoste nelle adiacenze del palazzo.

Così si è alimentato lo scetticismo di molti, i quali si sono domandati se veramente un aereo fosse piombato sul Pentagono. Sono state formulate le ipotesi più varie, compreso l’attacco di un missile Cruise, o di un altro missile terra-terra. Queste foto non porranno fine alle speculazioni, ma almeno forniranno qualche prova ufficiale in più contro i «negazionisti» più fantasiosi. Come quelli che ipotizzano addirittura un auto-attacco da parte del presidente George Bush per giustificare la guerra all’Afghanistan.

Le tesi opposte in due nuovi libri

Smontare un smontatura: questo è l’obiettivo che si è dato il giornalista Massimo Polidoro, che ha curato l’antologia "11/9. La cospirazione impossibile", edita da Piemme. Il libro cerca di smentire, punto per punto, tutti gli argomenti contenuti in un altro libro appena uscito, e curiosamente pubblicato dallo stesso editore: "Zero".
Quest’ultima è un’altra antologia, curata dall’eurodeputato Giulietto Chiesa, che definisce «montatura di Bush» l’attacco dell’11 settembre. I quindici autori, fra i quali il filosofo Gianni Vattimo, lo storico Franco Cardini e la scrittrice Lidia Ravera, non arrivano fino a incolpare il presidente degli Stati Uniti per la strage delle Torri Gemelle. Però lo accusano di avere ignorato gli avvertimenti dei servizi segreti statunitensi su un imminente attacco di Al Qaeda. Questo perché, a loro avviso, il «complesso militare-industriale» americano voleva trovare una scusa per fare una guerra, aumentare le spese militari e quindi guadagnare ancora di più grazie alle commesse belliche. I sostenitori di questa teoria del complotto mettono in luce anche tutte le incongruenze delle versioni ufficiali sul disastro. Non credono, per esempio, che le Torri siano crollate da sole, ma che siano state abbattute da cariche esplosive già contenute nell’edificio. E accusano l’Air Force di avere abbattuto il quarto aereo dirottato, che si dirigeva verso la Casa Bianca.

Tutte queste tesi vengono confutate nell’altro libro, che si avvale fra gli altri dei contributi di Umberto Eco, del matematico Piergiorgio Odifreddi e di Andrea Ferrero, ingegnere dell’Alenia. Questo libro costa 16,50 euro, l’altro 17,50. L’unico felice, in ogni caso, è l’editore Piemme, che prova a fare guadagni su entrambe le tesi.

E Bin Laden resta un fantasma

Queste immagini toccanti ci ricordano i tanti modi con cui sono state onorate le vittime dell’11 settembre 2001. Ma dopo sei anni dobbiamo anche ammettere che finora il loro assassino non è stato punito. Infatti Osama Bin Laden, mandante confesso dei 19 terroristi dirottatori, è ancora libero. Così come il suo compare, il mullah Omar capo dei talebani che lo ospitavano in Afghanistan.

Le due guerre scatenate dal presidente americano Bush, contro l’Afghanistan nel 2001 e contro l’Iraq due anni dopo, non sono valse a catturarli. E hanno provocato altre vittime: si stimano attorno ai centomila i civili iracheni e afghani morti, più 3.600 soldati americani uccisi e parecchie migliaia di mutilati. «L’Iraq rischia di essere un altro Vietnam», ha dovuto ammettere lo stesso Bush. Unica nota positiva: negli Stati Uniti non ci sono stati altri attentati.

Wednesday, September 12, 2007

Alitalia lascia Malpensa

Non si uccide cosi' un aeroporto?

Roma, 12 settembre

Quel che la Lega Nord non era riuscita a fare in vent’anni, lo sta combinando ora l’Alitalia: mettere l’uno contro l’altro gli aeroporti di Malpensa e Fiumicino, Milano e Roma, Sud e Nord. Di fronte alla voragine delle proprie perdite (più di due milioni di euro al giorno), la nostra compagnia di bandiera ha infatti annunciato che taglierà parecchi voli dallo scalo lombardo, ripristinando Fiumicino come propria base. Si sono scatenate subito le proteste del governatore della Lombardia Roberto Formigoni e della sindachessa di Milano Letizia Moratti. Il presidente di Malpensa vuole addirittura far causa per danni all’Alitalia.

Cosa sta succedendo, in realtà? Per vederci chiaro, abbiamo posto dieci domande a due esperti indipendenti di trasporto aereo: il consulente Nick Brough, amministratore delegato della società Interazione, e Dario Balotta, segretario lombardo della Cisl trasporti.

1) Cominciamo dall’inizio: perché Alitalia è in crisi?
«Ingerenze politiche», risponde Brough. «L’azionista pubblico ha imposto all’Alitalia troppi obiettivi in conflitto fra loro. L’unica soluzione era operare in perdita e ricevere sovvenzioni statali. Ma ora il mercato libero europeo, per impedire la concorrenza sleale, vieta le sovvenzioni».

Spiega Balotta: «Alitalia non ha più nulla: per ripianare i buchi ha venduto gli aerei prendendoli in leasing. Ma ormai la flotta è vecchia, un centinaio di Md80 vanno cambiati. Neanche la sede romana della Magliana è più sua. L’unica vera ricchezza che le rimane sono i diritti di traffico. Ma ora rinuncia pure a quelli, per esempio sulle rotte per l’Estremo oriente. Le garanzie monopoliste non ci sono più, però i politici non hanno rinunciato a controllarla. Per esempio, ogni ministro degli Esteri ha deciso quali aerei comprare: Boeing, McDonnell, Airbus, Fokker, Atr. Così c’è una flotta arlecchino con costi moltiplicati: i piloti devono saperli guidare tutti, oppure non c’è flessibilità. Idem per la manutenzione. Ryanair, invece, ha solo Boeing 737, con pezzi di ricambio che vanno bene per tutti».

2) Perché le altre compagnie aeree invece vanno bene?
Brough: «Quelle statali e inefficienti si sono trasformate negli ultimi 10-20 anni. Oppure sono fallite, come la belga Sabena e la Swissair. Solo in Italia abbiamo rinviato scelte difficili». Aggiunge Balotta: «Tutte le compagnie privatizzate hanno rinunciato ai privilegi clientelari di partiti e sindacati. Alitalia invece ha il rapporto dipendenti/passeggeri più alto d’Europa, ed è l’unica in crisi oltre alla greca Olympic».

3) L'asta per vendere Alitalia è andata deserta. Perché nessuno la vuole?
Balotta: «Perché il bando prevedeva vincoli impossibili: se si vende una casa non si può imporre all’acquirente di tenersi i mobili vecchi per cinque anni, oppure vietargli di revisionare l’ascensore».
Brough: «Il nuovo proprietario non avrebbe dovuto tagliare né rotte in perdite né personale. Una parte del governo sperava che comprasse Air One, ricreando così il monopolio sulla ricchissima rotta Roma-Milano e quindi aumentando i prezzi e ricavando utili grazie alla sospensione della concorrenza. Ma non si facevano i conti con l’antitrust».

4) C'è qualche acquirente preferibile ad altri?
Brough: «Deve avere la spalle robuste e credere nel progetto, senza comprare per smantellare. Deve voler sviluppare un network intercontinentale in ragione del potenziale di un mercato grande quanto Italia».
Balotta: «Siamo già nell’alleanza Skyteam con Air France, Klm, Korean, le americane Continental e Delta. Perché cambiare?»

5) Tutti gli stati hanno una compagnia di bandiera. Ci perderebbe l'Italia a non averla?
Qui i nostri esperti non concordano. Secondo Balotta, infatti, «così come la British ha comprato l’Iberia con l’11 per cento e la Swiss è in mano a Lufthansa», anche l’Italia può rinunciare a un vettore statale: «Meglio che i soldi pubblici finanzino pensioni, sanità e scuola».
Brough invece sostiene che «non esiste un paese sviluppato con 60 milioni di abitanti senza una compagnia di proprietà locale o che è di base nel paese. Se non ci fosse una compagnia Italiana avremmo comunque tanti voli e prezzi buoni, ma l’economia perderebbe: non ci sarebbe più una sede direzionale, forse non ci sarebbero più grandi centri di manutenzione e di formazione. La “cultura aeronautica” nazionale sarebbe indebolita. C’è anche il rischio che in momenti di grave difficoltà nazionale, a causa di terrorismo o epidemie, le compagnie straniere abbandonino il Paese. È importante quindi risanare Alitalia».

6) È possibile risanare l'Alitalia mantenendola pubblica?
Brough: «Il risanamento è possibile, e Alitalia ha manager all’altezza: basta lasciarli liberi. Ma finché comanda il governo sarà improbabile riuscirci. Impariamo dalle privatizzazioni precedenti: l’acquirente deve avere mano libera. Con due condizioni: garantire un’adeguata ricapitalizzazione e avere una strategia di sviluppo della compagnia, ovvero non pensare solo a ridurre Alitalia a una piccola compagnia regionale che alimenta una base all’estero, con voli dall’Italia verso quella base e basta».
Più pessimista Balotta: «Sul nuovo piano presentato da Alitalia c’è scritto “2008-2010”. Questo significa che i boiardi di stato vogliono rimanere alla cloche per altri tre anni».

7) Conviene concentrare i voli Alitalia su Roma?
Balotta: «No. Alitalia ha il 56% dei suoi voli su Milano, ma ha mantenuto il 90% dei suoi dipendenti a Roma. Quello del Nord Italia è un mercato ricco e in crescita, e Malpensa è un aeroporto nuovo con spazi di crescita. Fiumicino invece ha pochi passeggeri d’affari e non è in grado di accogliere altro traffico: come si è visto quest’estate, lo smistamento bagagli è inadeguato».
Brough: «Alitalia paga le conseguenze di uno sviluppo aeroportuale irrazionale. Non si costruiscono grandi aeroporti senza prima aprire linee ferroviarie veloci e ottimi collegamenti autostradali. Questa regola basilare è stata dimenticata a Malpensa, troppo lontana da Milano. L’aeroporto di Monaco di Baviera ha ben due linee di metropolitana per la città. Così si è potuto chiudere il vecchio scalo senza creare problemi per nessuno. A Milano invece si diceva che il treno Malpensa-Milano (stazione Cadorna, poi, neanche la Centrale) sarebbe stato raddoppiato entro cinque anni. Ne sono passati quasi dieci e non si è visto nulla. Ora si vorrebbe costringere le compagnie a trasferire i voli da Linate a Malpensa, ma senza collegamenti veloci si penalizzerebbe la stragrande maggioranza dei passeggeri che volano a Milano, i quali fanno voli di una-due ore, e che quindi vedrebbero raddoppiare la durata dei loro viaggi».

8) Come farà Malpensa senza l'Alitalia?
Brough: «Anche il Canada fece lo stesso nostro errore: costruire un grande aeroporto lontano da Montreal. Ma passeggeri e vettori preferivano il vecchio scalo. Dopo molti decenni di sforzi il governo ha lasciato il nuovo aeroporto al suo destino. Per evitare lo stesso futuro è essenziale collegare bene Malpensa con la città. Gli errori hanno un costo, a Malpensa lo dovrà affrontare. Nel frattempo, continueranno i voli intercontinentali di altre compagnie, per i quali la pista di Linate è troppo corta. Ci sono molte compagnie straniere, soprattutto in Asia, che vorrebbero volare a Milano, ma il governo non le autorizza. Bisogna chiarire gli obiettivi».
Balotta: «Il vero problema di Malpensa non è Fiumicino, ma i troppi aeroporti: Linate, Orio-Bergamo, Torino, Verona, Parma. Meglio meno aeroporti, ma ben gestiti».

9) Un paese come l'Italia può permettersi due «hub» internazionali con voli intercontinentali?
Balotta: «La tedesca Lufthansa ne ha tre: Francoforte, Monaco, e ora Zurigo con la Swiss. Non c’è conflitto, basta chiarire specializzazioni e gerarchie».
Brough: «Milano, come Roma, costituisce un grande bacino di traffico, sufficiente per sostenere una rete di servizi verso le maggiori destinazioni nel mondo. A condizione però che la compagnia aerea nazionale sia molto efficiente, con aerei delle giuste dimensioni e caratteristiche. E oggi Alitalia non ne ha abbastanza per il lungo raggio».

10) La crisi Alitalia può rifllettersi sulla sicurezza dei voli?
Risposta decisa e unanime: «Assolutamente no. Gli standard vengono sempre rispettati, e il ministero vigila».

Mauro Suttora

dati:

FIUMICINO
30 milioni di passeggeri nel 2006
8 milioni da/per l’estero
4 piste
32 km da Roma
un treno ogni 30 minuti, ci mette 30 minuti

MALPENSA
22 milioni di passeggeri nel 2006
18 milioni da/per l’estero
2 piste
48 km da Milano
un treno ogni 30 minuti, ci mette 40 minuti

ALITALIA
deficit 2006: 380 milioni
deficit tendenziale 2007: 700 milioni
18 mila dipendenti a Roma
1.800 dipendenti a Milano