di Mauro Suttora
Milano, aprile 2000
Introduzione
Centinaia di migliaia di visitatori, attratti dall’esposizione nel Duomo di Milano del grandioso ciclo pittorico dei «Teleri della vita del beato Carlo e dei quadri dei miracoli di san Carlo», hanno letto la didascalia che, sull’attiguo pilone, illustra una grande tela dipinta da Gian Battista Crespi detto il Cerano: «Vende il principato d’Oria per il prezzo di 40 mila scudi i quali incontinente distribuisce ai poveri».
Oria? E dov'è mai questo paese, sede di un principato? E perché san Carlo Borromeo fu il suo signore? Domande legittime, perché gran parte dei milanesi ignora un antico, anche se breve, legame che un tempo unì la metropoli lombarda alla terra di Puglia.
Come gran parte delle città e dei borghi pugliesi, anche Oria ha radici lontane, risalenti alla civiltà messapica. Rifiorì nel Duecento sotto Federico II, al quale si deve il castello a pianta triangolare, che accoglie nel cortile interno la cripta dei santi Cristante e Daria (sec IX), forse appartenente alla prima cattedrale.
Oria era un piccolo ma ricco principato, a 35 chilometri da Brindisi, al centro di un fertile entroterra, che dopo varie vicissitudini nel 1562 venne dato dal re di Spagna al conte Federico Borromeo. Questi, defunto dopo pochi mesi, lasciò in eredità il principato al fratello minore Carlo, cardinale e arcivescovo di Milano.
La morte del fratello turbò profondamente Carlo, già ai vertici degli onori presso la Curia romana: da quel momento iniziò a dedicarsi «apertamente e decisamente al disprezzo completo di questa vita e a quella sacra disciplina di più severa condotta, che da tempo si era affacciata alla mente», come scrive il suo biografo Carlo Bascapè.
Preso possesso dell’arcidiocesi milanese nel 1565, ben presto il contatto con la popolazione portò l’arcivescovo Carlo a immedesimarsi nella grave miseria in cui versava gran parte del suo gregge. Scelta per sé una vita di assoluto rigore - vesti povere, digiuni e penitenze - , man mano destinò i suoi molti averi ai bisognosi e agli appestati.
Tra queste benemerite azioni, la vendita del principato d’Oria nel 1567 ha un posto rilevante. Ecco come descrive il munifico gesto un altro suo biografo, G. P. Giussano:
«E poi vendé il suo Prêcipato d’Oria nel Regno di Napoli per quaranta mila scudi, e nel far il compartimento per darli parimenti a simili luoghi bisognosi, Môsignor Cesare Specciano, che all’hora era Preposito della casa, errò di due mila scudi, che aggiunse di più, e dicêdolo al Cardinale, per ritirarli indietro, gli rispose che non occorreva, poiché era errore molto giovevole a poveri, e così in un sborso solo fece limosina di quarantaduemila scudi».
Un episodio che unisce terre e popoli lontani, e che sottolinea l’animo generoso e la santità di un vescovo tanto caro ai milanesi, ma che ha forse qualche tito lo per farsi ricordare e amare anche dalla popolazione di Oria.
Architetto Ernesto Brivio, storico della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano
Cerano: San Carlo vende il principato d'Oria (Duomo di Milano) |
L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA CARISSIMO
Tutto cominciò con il cavaliere bolognese Gesualdo Storletti. Quando egli partì verso le Crociate in Terra Santa, si fregiò il petto di una croce d’oro in campo rosso per testimoniare la sua fede religiosa, e sotto vi aggiunse la parola «Carissima». Gesualdo tornò a Bologna vittorioso nel 1222, e in seguito suo figlio Giovanni, in segno di devozione, abbandonò il cognome Storletti per quello di Carissima.
Com’è successo per molti casati, nel corso dei secoli il cognome si modificò: dalla forma originaria di Carissima si passò al Carissimi, e infine all’attuale Carissimo. Si verificò anche una dispersione geografica in tutta Italia, perché la famiglia da Bologna si estese in Sicilia, a Parma e a Benevento.
I CARISSIMO A TRAPANI
Il primo a recarsi a Palermo, allora fiorentissima sede dell’imperatore Federico II, fu Pascotto Carissima. Da lì nel 1248 Pascotto si trasferì a Trapani dove gli nacque un figlio, Tomeo, padre a sua volta di Pirrone.
Pirrone ebbe sei figli. L’unica femmina, Smeralda, si sposò nel 1349 con Palmerio Spinola, gentiluomo genovese residente a Trapani, e generò un altro Palmerio, che troviamo «giurato» a Trapani nel 1409 assieme al cugino Tommaso Carissimo.
Gli altri fratelli di Smeralda dal 1392 aiutarono re Martino d’Aragona a domare i baroni ribelli, e furono ricompensati con feudi: quelli di Calatafimi e Sant’Ippolito andarono ad Antonio Carissimo, mentre le isole Egadi (Favignana, Marettimo e Levanzo) finirono ad Aloisio assieme alle tonnare di San Niccolò e San Leonardo.
Le concessioni furono confermate da re Alfonso V d’Aragona a Melchiorre Carissimo, figlio di Aloisio, nel 1445. Ma nel 1516 questo ramo si estinse, per la morte dell’unico erede maschio.
I CARISSIMO A BENEVENTO
Contemporaneamente ai Carissimo siciliani, ecco Pietro e Giovanni Carissimo, soldati così valorosi del regno di Napoli da ricevere in ricompensa alcuni feudi nel Beneventano da parte del re francese Carlo d’Angiò (1266-1285), fratello del re di Francia.
Al 1350 risale un documento che attesta la presenza in Benevento città del cavalier Giacopo Carissimo. Un suo discendente, Bartolomeo, sposò Beatrice, figlia del principe Morra della stessa famiglia di papa Gregorio VIII. Rimasto vedovo, Bartolomeo si risposò con Prudenzia Visconte contessa di Mirabella. Dal nuovo matrimonio nacque Giannantonio, che nel 1557 era Governatore del tempio della SS.Annunziata a Benevento.
I CARISSIMO A PARMA
Il ramo parmense dei Carissimo è presente in città dalla seconda metà del XIV secolo con Paolo, che fu consigliere generale nel 1387. Il ricordo dell’illustre casato è perpetuato nella toponomastica cittadina con l’intitolazione del borgo dove sorgeva il palazzo Carissimo, sovrastato da una torre: diritto allora concesso soltanto a pochi nomi dell’alto patriziato.
Della famiglia restano la tomba con epigrafe di Pirro, capitano che servì valorosamente lo Stato di Milano, nella chiesa di Santa Cristina a Parma (1480). Inoltre nel bellissimo Duomo (all’interno del quale ottennero il diritto di sepoltura) troviamo le lapidi di Battista Carissimo (morto nel 1598), di Pietro Maria e di Vincenzo , scolpite dal D’Agata.
Un altro Carissimo, il nobile magistrato Alessandro, fece da modello per Leonardo da Vinci quando questi dipinse il suo capolavoro, l’Ultima Cena di Santa Maria delle Grazie a Milano: il Codice Forster II attesta che la mano di Cristo era la sua. Ottaviano, capitano di cavalleria, guidò nel 1551 una spedizione contro Pico della Mirandola.
Tra le religiose ricordiamo Sandrina e Cabrina, che nel ‘500 furono Badesse di Sant’Ulderico di Parma. Ma anche questa famiglia si estinse verso la fine del Seicento per mancanza di eredi maschi, dopo aver goduto per vari secoli gli onori di vari uffici e cariche nobiliari.
IL CASTELLO DI ORIA
Per una coincidenza quasi magica della storia, qualche anno prima che Pascotto Carissimo giungesse da Bologna a Palermo, presso la corte di Federico II di Svevia, quest’ultimo durante uno dei suoi frequentissimi viaggi si era recato in Puglia, e fermandosi a Oria nel 1222 aveva ordinato la costruzione di un castello. Hanno così inizio due vicende parallele, quelle della famiglia Carissimo e del castello di Oria, che si incroceranno soltanto sei secoli dopo.
Oria si trova nel centro della penisola Salentina, lungo la via Appia che nel suo ultimo tratto collega Taranto a Brindisi, e il mar Jonio all’Adriatico. La leggenda racconta che sia stata fondata attorno al Mille avanti Cristo da un gruppo di soldati cretesi reduci da una spedizione in Sicilia, e approdati in Puglia dopo una tempesta.
La posizione geografica centrale di Oria le ha fatto subìre nel corso dei secoli innumerevoli assedi (compreso quello di Annibale), battaglie (come quella fra Ottaviano e Marco Antonio durante la guerra civile) e saccheggi (da parte di goti, longobardi e saraceni). Il luogo dove l’imperatore Federico II fece costruire il castello svevo è quello di un’antica acropoli dei messapi, i primi abitanti della Puglia. Alcuni resti delle mura messapiche sono sepolti sotto il castello.
Ai tempi di Roma su quel colle sorgeva il tempio di Saturno, che nel 58 dopo Cristo fu trasformato in chiesa cristiana da Sant’Oronzo. Nell’880 il vescovo Teodosio vi eresse la chiesa dei santi Crisante e Daria, di cui esiste ancor oggi l’ipogeo nel cortile del castello, ai piedi della torre del Salto.
Il castello ha pianta triangolare, con il vertice orientato verso Nord. Lunga 103 metri e larga 68, la costruzione è imponente per la sua vastità, per l’altezza (166 metri sul livello del mare) e per i suoi muraglioni larghi quattro metri, che raccolgono una piazza d’armi con una capienza di cinquemila persone.
Su una delle torri, rotonde e altissime, fa mostra di sè ancor oggi l’aquila degli Imperiali marchesi di Oria e principi di Francavilla, che furono gli ultimi feudatari fino alla fine del Settecento. Federico II ordinò la costruzione di numerosi castelli nel suo regno sia per esigenze di difesa esterna, sia per controllare meglio le eventuali rivolte popolari. Soggiornò spesso in quello di Oria anche dopo l’inaugurazione, cui prese parte, nella primavera del 1230.
Quando l’imperatore muore nel 1250, l’erede è suo figlio Corrado. Ma il principato di Taranto, che comprendeva Oria, andò al figlio naturale Manfredi. E quando Oria, assieme a tutte le città della Puglia meridionale (Brindisi, Taranto, Lecce, Otranto, Mesagne) nel 1255 gli si ribella, ecco che il castello subisce il primo dei suoi numerosi assedi.
IL PRIMO ASSEDIO
Sotto la guida di Tommaso d’Oria, uno dei migliori comandanti dell’epoca, gli oritani rinchiusi nel castello fecero fronte alle truppe dell’imperatore per mesi, sventando anche un tentativo nemico di penetrazione attraverso un cunicolo sotterraneo, finché Manfredi non dovette togliere l’assedio per andare a fronteggiare l’esercito del Papa che era entrato in Puglia.
Clamoroso fu anche l’inganno con il quale Tommaso d’Oria riuscì a uscire dal Castello, grazie a un salvacondotto concesso dall’imperatore convinto che il suo avversario volesse recarsi a Brindisi per trattare la resa. Invece l’indomito capitano ne approfittò per incitare i brindisini a mandargli aiuti, e poi tornò a chiudersi nel castello.
Ma l’imperatore non poteva permettere che un simile schiaffo restasse impunito, anche perché aveva bisogno di impressionare i baroni, che non gli furono mai fedeli. Così, vinte le truppe papaline, Manfredi dispose un secondo assedio con forze ancora più numerose. Ma fu il tradimento dei brindisini e non la resa di Tommaso d’Oria a far entrare l’esercito imperiale nel castello. Il giorno dopo il corpo del valoroso comandante penzolava appeso a uno spalto.
LA PRINCIPESSA MARIA D’ENGHIEN
Nel 1403 le mura del castello d’Oria assistettero mute al dramma della principessa Maria d’Enghien. Vedova del principe di Taranto Raimondello Orsini, preferiva vivere a Oria anziché a Taranto. E si trovava proprio nel castello quando ricevette la proposta di contratto di nozze che le offriva Ladislao d’Angiò-Durazzo, re di Napoli dal 1400.
Lei all’epoca aveva trent’anni, era bella, i suoi possedimenti erano vasti e il popolo l’amava (non capitava spesso ai governanti, né allora né oggi). Ladislao non poteva vincere con la forza, e allora cercò le vie del cuore con l’attraente vedova. La sventurata disse sì, e lui subito le fece recapitare l’anello nuziale nel castello d’Oria. Ma poi rimase deluso riguardo ai tesori di Raimondello, che sperava fossero maggiori. Così imprigionò la povera Maria d’Enghien nella residenza di Castelnuovo a Napoli.
Soltanto trent’anni più tardi, dopo la morte di Ladislao (1414) e di sua sorella Giovanna II che gli era subentrata come regina di Napoli (1435), Maria potè riacquistare la libertà. Sua figlia Caterina divenne moglie di Tristano di Chiaramonte e solo allora, dopo una vita di espiazioni e di pianto, a sessant’anni, riuscì a tornare nel Salento e a rivedere il suo amato castello d’Oria. Quel castello dov’era stata felice da giovane, dove aveva sentito l’ansia di un’ambizione nascente e di una vanità che le proveniva dall’età, dalla bellezza e dai vasti possedimenti.
Pochi anni più tardi, nel 1440, il castello d’Oria ospitò Isabella di Chiaramonte, nipote di Maria d’Enghien, e la storia si ripetè: questa volta la giovane andò a Napoli per sposare Ferrante, figlio naturale e successore del re Alfonso d’Aragona che riuscì a unificare tutto il Sud, Sicilia compresa, sotto il suo scettro. Ma il destino di Isabella fu meno triste di quello di sua nonna.
L’ASSEDIO DELLA REGINA GIOVANNA
Torniamo ai fatti d’arme: quasi due secoli dopo il primo assedio del 1255, la grande storia italiana passa di nuovo per il castello d’Oria. Nella notte del 28 agosto 1433 i soldati della regina di Napoli Giovanna II d’Angiò-Durazzo, comandati dal conte Jacopo Caldora, dal principe di Salerno e dal conte di Tricarico, invasero Oria che non aveva voluto arrendersi. Il figlio di Maria d’Enghien Giovanni Antonio Orsini, infatti, appoggiava più gli aragonesi che gli angioini.
La città subisce un saccheggio totale, violenze inaudite e un incendio. Le fiamme lambiscono le mura del castello, dentro al quale si sono rifugiati gli oritani. Inizia un altro assedio, che però questa volta finisce bene per Oria. Arriva infatti a liberarla l’Orsini, che sorprende alle spalle gli assedianti.
L’ASSEDIO SPAGNOLO
E arriviamo così al 1503, nell’epoca in cui l’Italia era diventata terra di conquista per Francia e Spagna. Il gran Capitano spagnolo Consalvo sconfisse i francesi D’Ambigny nella battaglia di Seminara (Reggio Calabria) e il duca di Nemours in quella di Cerignola (Foggia), diventando così padrone dell’intero regno di Napoli.
Ma nel castello d’Oria era rimasta un’ultima guarnigione francese. Allora ventimila soldati spagnoli dotati di ben venti cannoni (allora rarissimi, l’artiglieria era stata appena inventata) circondarono la città. I cannoni furono issati sul colle di San Basilio che si eleva di fronte al castello, e da lì partivano i colpi. L’assedio durò oltre un mese, con sanguinosi tentativi d’assalto.
I cittadini si erano trasformati in soldati, asserragliandosi come settant’anni prima nella fortezza, e compirono vari atti eroici.
Dopo averle provate tutte il comandante degli assedianti spagnoli Pedro De Pace ordinò di far scoppiare un mina. Ma l’imperizia degli artificieri fece sì che l’ordigno procurasse morti da entrambe le parti. Per tutto il mese d’agosto del 1503 l’assedio continuò, e alla fine si trovò una soluzione: i francesi furono liberi di uscire dal Castello, che venne consegnato agli spagnoli. La città dovette accettare il dominio spagnolo, ma in cambio gli abitanti non subirono angherie e ritorsioni.
Intanto Oria era stata separata dal principato di Taranto, ed era diventata capoluogo del marchesato che comprendeva anche Manduria e Francavilla Fontana.
DAL MARCHESE BONIFACIO A SAN CARLO BORROMEO
Nel Cinquecento il castello d’Oria ospitò un altro grande infelice: il marchese Gian Bernardino Bonifacio. Era un uomo dottissimo, ma entrò in urto con il vicerè e con l’arcivescovo di Oria perché usurpò diversi beni di privati. Lo accusavano di essere un individuo strano ed eretico, anche se tutti gli riconoscevano un gran carattere. Molti scrittori lo hanno descritto come un uomo pieno di vizi e nemico della Chiesa.
Così nel 1557 il marchese Bonifacio dovette andare in esilio volontario e abbandonare Oria. Amante della libertà e curioso di vedere il mondo, andò a Venezia e poi si spinse fino in Germania e Inghilterra. Morì a Danzica nel 1597 vecchio, cieco e poverissimo. Ancor oggi, visitando il castello, una porta alta e stretta in una delle stanze che guardano a Ovest ci mostra la dimora di quest’uomo singolare.
Intanto, nel 1562 il regno di Napoli conferì il principato d’Oria, assieme al titolo di principe, alla famiglia del cardinale milanese Carlo Borromeo. Il futuro San Carlo tenne il principato per cinque anni finché, non avendo altri mezzi per aiutare i poveri di Milano, lo vendette per 40 mila scudi che distribuì agli indigenti in un sol giorno.
Il quadro che raffigura la vendita del castello e dei possedimenti di Oria viene esposto assieme ad altri all’interno del Duomo di Milano ogni anno da ottobre a gennaio, in occasione delle festività di San Carlo (4 novembre), Sant’Ambrogio (7 dicembre), e di quelle natalizie.
Nel Seicento e Settecento il castello d’Oria andò parzialmente in rovina. Nel 1825 fu comprato dalle monache Benedettine, che ne occupano ancor oggi una parte. Nel 1866, con l’incameramento dei beni religiosi da parte dello Stato, il castello passò al Comune di Oria.
BENEVENTO
Negli stessi secoli, invece, in quel di Benevento la famiglia Carissimo si espande. Avevamo lasciato Giannantonio nel 1557 come governatore del tempio beneventano della Santissima Annunziata. Da lui nacquero due figli.
Il primo, Girolamo, dopo la laurea a Napoli nel 1575 divenne un eccellente avvocato e coprì importantissimi uffici nella città di Benevento. L’altro, Giuseppe, all’inizio del XVII secolo possedeva diversi feudi: Cirritello, Lucita, San Marco, Cocuozzolo, Gambarota e Staffili.
Morto Giuseppe senza eredi, tutti i possedimenti passarono a Girolamo e ai suoi tre figli: Bartolomeo, Antonio e Scipione. Ma questi dovettero sostenere un lungo e aspro conflitto con il patriziato beneventano sul valore e l’uso dei loro diritti nobiliari. Alla fine, nel febbraio 1619, una sentenza definitiva della Sacra Rota sotto il pontificato di Alessandro VIII li reintegrò fra i nobili di Benevento con il titolo di Patrizi.
Bartolomeo Carissimo si sposò con la baronessa Claudia del Tufo, ed ebbe cinque figli. Com’era usanza a quel tempo, le tre femmine non maritate si fecero suore. E una di loro, Beatrice, diventò badessa del monastero di San Vittorino. Il primogenito Giuseppe fu eletto consigliere comunale per il ceto patrizio nel 1671 e si distinse fra i migliori avvocati del foro napoletano.
Anche suo figlio Ferdinando, che sposò in successione due vedove, fu avvocato, ma a Roma presso la Sacra Rota. L’altro figlio Carlo, anch’egli consigliere comunale nel 1688 e nel 1695, fece costruire per la famiglia il magnifico palazzo Carissimo a Benevento, che ancora oggi è fra i più grandiosi edifici della città.
Lo zio Ottavio, invece, secondogenito di Bartolomeo, si diede alla guerra e combattè valorosamente per il re Filippo V, ma anche la sua unica figlia femmina Claudia finì nel convento di San Vittorino, dove successe alla zia come madre badessa.
Molte vocazioni, in quell’epoca, fra i Carissimo: Scipione, fratello di Claudia, coprì successivamente le cariche di canonico, primicerio e arciprete della Chiesa metropolitana di Benevento.
Il terzo figlio di Ottavio, Domenico, si diede invece alla vita pubblica. Diventò console di Benevento e nell’anno giubilare 1675 fece adornare di stucchi la porta Ruffina, la più frequentata della città perché è in direzione di Napoli, decorandola con le statue di San Bartolomeo e di altri santi protettori. Nel 1738 un altro Carissimo, Pietro, ricopre la carica di consigliere comunale.
Ma alla fine del Settecento suo nipote Gennaro decide di lasciare Benevento e di trasferirsi in provincia, a Foiano di Val Fortore, verso il confine con la Puglia.
FOIANO DI VAL FORTORE
Durante il tranquillo soggiorno nel suo feudo di Foiano, Gennaro si dedicò all’amministrazione degli interessi di famiglia, e ne fece prosperare il patrimonio. L’esempio paterno fu seguito con ottimi risultati anche dal figlio Nicola Antonio, che nacque a Benevento nel 1818 e morì a Foiano nel 1902.
Ma Nicola Antonio non si limitò alla cura dei propri affari privati: sotto il nuovo regno d’Italia occupò diverse cariche pubbliche. Per molti anni fu sindaco di Foiano, e più volte consigliere provinciale. Dalle sue nozze con Anna Saveria Magno nacquero ben nove figli. Fra questi il quintogenito Alessandro sposò nel 1881 la nobile Concetta Margarita di Francavilla Fontana.
Il terzogenito Gennaro nacque a Foiano nel 1846. Dopo il liceo classico si laureò in legge all’università di Napoli, e nel 1869 entrò in magistratura. Per dieci anni fece il giudice di Tribunale a Napoli, Bari, Firenze e Viterbo. Ma nel 1879, a soli 33 anni quindi, lasciò la carriera di magistrato dopo il matrimonio con Elena Martini, figlia del senatore Tommaso e della contessa Isabella Gattini di Matera.
E qui le due storie, quelle della famiglia Carissimo e del castello di Oria, si uniscono: Elena Martini, infatti, apparteneva a una delle famiglie più in vista della cittadina salentina.
I MARTINI CARISSIMO A ORIA
Gennaro Carissimo si impegnò nell’amministrazione del vasto patrimonio delle famiglie Carissimo e Martini. Nei suoi possedimenti sviluppò la coltivazione intensiva dell’ulivo e introdusse nuove colture, come il mandorlo e il pistacchio.
Per combattere la cronica penuria d’acqua fece installare una pompa alimentata da un motore a vento alto trenta metri: un’idea così ingegnosa e avveniristica che gli valse il Cavalierato del lavoro. Così riuscì a render fertile una zona fin ad allora abbandonata, al di là del santuario di San Cosimo presso Oria.
Seguendo le orme del suocero Tommaso Martini, nobile nominato senatore nel 1892, Gennaro Carissimo si dedicò alla vita pubblica diventando sindaco di Oria nel 1906 (riconfermato nel 1910) e vicepresidente della provincia di Terra d’Otranto (corrispondente alle attuali provincie di Brindisi, Taranto e Lecce).
Amministrò l’ospedale Martini, fondato a Oria dal suocero, e vi spese di tasca sua 40mila lire (circa mezzo miliardo ai valori attuali). Liberale, appoggiò a livello nazionale i governi di Giovanni Giolitti, finché nel 1913 il re Vittorio Emanuele III lo nominò senatore.
La sua vita privata, però, fu subito funestata da un gravissimo lutto: la morte nel 1884 della moglie Elena, che tre settimane prima aveva dato alla luce la figlia Maria Isabella. Due anni dopo Gennaro Carissimo si risposò con la sorella di Elena, Mariannina, e da essa ebbe altri quattro figli.
Intanto il castello d’Oria era stato acquistato nel 1825 da Elena Martini, zia del senatore Tommaso e badessa del monastero di San Benedetto. Ma con l’avvento dell’unità d’Italia e la soppressione delle corporazioni religiose, il castello divenne proprietà del comune di Oria.
Il primogenito maschio del senatore Carissimo, Giuseppe, nacque nel 1889. Dopo il liceo classico a Lecce e la laurea in Legge a Roma cambiò il proprio cognome in quello di Martini Carissimo, come aveva voluto il nonno materno nel suo testamento.
La famiglia Martini può vantare origini antiche quanto i Carissimo: nel 1020 infatti il capostipite, nobile capitano dell’esercito spagnolo, si stabilì a Brindisi. Nei secoli seguenti i Martini si trasferirono a Oria, dove per secoli godettero dei privilegi nobiliari. Fra i più insigni della famiglia si ricorda Giovan Carlo Martini (1717-1760), erudito arciprete di Oria, buon poeta e fecondo scrittore di versi in latino e in italiano.
LA RINASCITA DEL CASTELLO
Nel 1933 avviene la permuta fra il palazzo dei Martini Carissimo nel centro di Oria e il Castello svevo. In cambio di quello che ormai è un rudere, il municipio oritano ottiene la proprietà di un prezioso edificio, che adibisce a sua sede.
Fra le clausole del contratto, c’è quella che impegna l’avvocato Giuseppe Martini Carissimo a restaurare il Castello «come meglio crederà, dandone avviso alla Soprintendenza delle Antichità e Belle Arti». Martini Carissimo, inoltre, «farà visitare le torri nei giorni e nelle ore che egli stesso vorrà designare a quei cittadini e forestieri che vi si recheranno a scopo culturale e storico».
Il Castello svevo era completamente «diruto», e Giuseppe Martini Carissimo dovette impegnare ingenti fondi personali per ripristinarlo. Per ringraziarlo di quest’opera re Vittorio Emanuele gli concesse il titolo di conte di Castel d’Oria.
Così, dopo avere ospitato nel corso dei secoli gli Hohenstaufen i D’Angiò, gli Enghien, i Del Balzo Orsini, i D’Aragona, i Bonifacio, i Borromeo e gli Imperiali, il castello è passato alla famiglia Martini Carissimo. La storia della quale, come abbiamo visto, si è intrecciata con personaggi illustri quali l’imperatore Federico II e Leonardo da Vinci, Pico della Mirandola e san Carlo Borromeo.
Al conte Giuseppe Martini Carissimo va il merito di avere saputo tutelare il poderoso castello dal degrado, e di averne fatto un importante punto di riferimento culturale.
Dopo i restauri il castello e l’intera cittadina di Oria, con il suo Centro di documentazione sulla civiltà messapica (1000 a.C.), sono diventati mete di autorevoli studiosi e turisti provenienti da tutto il mondo.
Oltre alla suggestione del ricordo federiciano, infatti, per chi visita Oria e il suo castello si aggiunge la possibilità di una presa di contatto con importanti testimonianze di vita e di cultura che coprono l’arco di tre millenni di storia.
Mauro Suttora
© Il Gabbiano Edizioni, 2000
Via della Meccanica 2
20083 Vigano di Gaggiano (Milano)