Graziata negli Usa la sua compagna condannata a 58 anni
di Mauro Suttora
Oggi, 18 marzo 2000
Ora che gli americani hanno liberato una sua compagna che era stata condannata a 58 anni di carcere, non si capisce più cosa ci stia a fare Silvia Baraldini in prigione, lei che di anni da scontare ne ha quindici in meno.
Il 19 gennaio scorso, poche ore prima di lasciare la Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha graziato la 45enne Susan Rosenberg, militante come la Baraldini del gruppo estremista americano «19 Maggio» (data di nascita sia del rivoluzionario di colore Malcolm X, sia del capo comunista vietnamita Ho Chi Min).
Entrambe erano state arrestate all’inizio degli anni Ottanta per una rapina commessa dalla loro organizzazione nel New Jersey, durante la quale erano stati ammazzati una guardia giurata e due poliziotti. Il 9 novembre 1982 la Baraldini venne catturata e processata con ben nove imputazioni. Ma soltanto due furono confermate da testimoni: la complicità nell’evasione di Assata Shakur, militante del Black Liberation Army condannata a cento anni per omicidio, e la partecipazione a una tentata rapina a Danbury (Connecticut).
In realtà Silvia Baraldini non ha mai impugnato un’arma, né gliene hanno trovate in casa. Lei era soltanto una fiancheggiatrice: autista, al massimo palo. Ma tanto bastò al severo pubblico ministero Rudolph Giuliani, futuro sindaco di New York, per farla condannare a vent’anni. Pena raddoppiata per effetto di una legge speciale americana antimafia, la Rico (Racketeer influenced corrupt organisation), poi estesa anche ai terroristi. Infine, un supplemento di tre anni per oltraggio alla corte. Totale: 43 anni.
Due anni fa la Baraldini ottenne il trasferimento in Italia, con l’impegno da parte del nostro governo di tenerla in prigione fino al 2008. Ma ora, dopo la grazia ottenuta dalla Rosenberg, non sembra giusto che lei rimanga l’unica a pagare. Così il ministro della Giustizia italiano Piero Fassino ha chiesto al suo nuovo collega americano, John Ashcroft, di rivedere la questione. Anche perché la mamma 84enne di Silvia Baraldini, Dolores, versa in fin di vita in una casa di cura a venti chilometri da Roma. E la figlia è potuta andarla a visitare pochi giorni fa soltanto grazie a un permesso speciale di quattro ore (che non le veniva concesso da settembre).
Dallo scorso ottobre la Baraldini è stata trasferita dal carcere di Rebibbia al sesto piano del policlinico Gemelli di Roma, dov’è piantonata per seguire un ciclo di sei settimane di radioterapia e di sei mesi di chemioterapia. La donna, infatti, ha dovuto sottoporsi a due interventi chirurgici per l’asportazione di noduli al seno.
La sua battaglia contro il tumore era iniziata già negli Stati Uniti, dove nell’88 era stata operata anche all’utero. Ma gran parte della vita di questa donna sembra un calvario, con il quale sta pagando duramente gli errori commessi in gioventù.
La famiglia Baraldini si trasferisce nel 1961 da Roma a New York, dove il padre Michele lavora in una società del gruppo Olivetti. Silvia, allora tredicenne, passa dall’esclusivo collegio romano delle suore dell’Assunzione, in piazza di Spagna, a un altro istituto religioso di un quartiere residenziale americano, dove come vicino di casa c’è Arturo Toscanini. Poi il padre diventa funzionario dell’ambasciata italiana a Washington, e Silvia prende la maturità nel ’65. È l’estate della famosa marcia di Martin Luther King per i diritti dei neri d’America, ma i genitori le vietano di parteciparvi.
Il 1965 è anche l’anno in cui Bob Dylan, profeta dei giovani antimilitaristi che rifiutano di andare nella guerra del Vietnam, parla in una sua canzone di «weathermen», gli uomini che fanno le previsioni del tempo. Da lì prenderanno il nome i terroristi del gruppo Weather Underground, che verranno distrutti dall’Fbi all’inizio degli anni Settanta, ma alcune frange dei quali sopravviveranno fino agli anni Ottanta.
La giovane Silvia ottiene di andare a fare l’università a Madison (Wisconsin), uno dei college più di sinistra degli Stati Uniti. Il suo impegno politico si concretizza dopo la morte del padre, nel ’68, con l’adesione agli Sds (Students for a democratic society). Poi, piano piano, sempre più a sinistra, fino ad approdare ai gruppuscoli dell’estremismo afroamericano.
Lavora a New York come interprete per la Rai, commessa di libreria, telefonista, segretaria e contabile in un laboratorio di gioielli. La sorella minore Marina, intanto, si laurea alla Rockefeller university, torna a Roma con la madre in una casa di via del Babuino e diventa funzionario Cee a Bruxelles.
Sempre più coinvolta dalla politica, Silvia Baraldini viaggia per conto di alcune organizzazioni marxiste in Africa. Il governo americano non gradisce tutto questo attivismo, cosicché per evitare l’espulsione e ottenere la cittadinanza statunitense nel 1981 lei si sposa con un compagno, Tim Blunk (condannato a 58 anni, ma libero dal 1996 dopo essersi dissociato dalla lotta armata).
Lei invece, dopo l’arresto e il processo, non si dissocia né si pente. «Non posso pentirmi di cose che non ho commesso», dice, dura, e dopo la condanna lancia un appello ai compagni affinché continuino la lotta. «Se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto», proclama orgogliosa in un’intervista a Oggi dell’aprile 1988.
Finisce a Lexington (Kentucky), in un carcere di massima sicurezza dove le detenute vengono sottoposte a un isolamento ferreo: chiuse in un seminterrato, non possono usare neppure l’acqua calda, che è considerata un’arma. Ogni notte vengono svegliate più volte. Sono sorvegliate sempre da telecamere, anche sotto la doccia, e quando vanno in cortile devono sottoporsi a ispezioni corporali.
La sorella Marina Baraldini denuncia queste vessazioni, intervengono in suo favore l’attrice Susan Sarandon e Amnesty International, e alla fine, nel luglio ’88, un giudice americano riconosce che quella inflitta a Silvia e a due sue compagne di prigionie è stata una vera e propria tortura. Il carcere di Lexington verrà poi chiuso.
La sorella Marina muore nell’89 per un’esplosione in volo dell’aereo che la stava riportando a Parigi dopo una missione in Ciad, causata da terroristi libici. Ma la mobilitazione della sinistra italiana in favore di Silvia Baraldini continua, con tanto di canzoni di Francesco Guccini, interviste di Lucio Manisco al Tg3 e cortei di Rifondazione.
Ora l’obiettivo è far estradare l’eroina indomabile in Italia, visto che gli Stati Uniti non concedono sconti di pena a chi non denuncia i compagni di lotta. Ma Silvia, pur pentendosi, si rifiuta di fare la spia: «Ciò che stavo cercando di fare non giustifica l’assassinio di quattro persone innocenti», ha dichiarato al giudice americano che nel ’97 ha esaminato la sua domanda di libertà provvisoria, «e per aver perduto mia sorella capisco bene il dolore che provano le famiglie colpite. Anche se non ho partecipato né all’ideazione né alla realizzazione dei fatti che portarono a quelle morti, come appartenente all’associazione responsabile devo scusarmi con tutti per il ruolo da me svolto nella tragedia. Lo farei ancora? No, era un’impresa donchisciottesca».
Dichiarazioni insufficienti per la giustizia statunitense, che però nel ’99 acconsente al trasferimento in Italia. Ora, tuttavia, la grazia concessa a Susan Rosenberg cambia le carte in tavola. La compagna di lotta della Baraldini era infatti stata condannata per reati ben più gravi, anche perché era stata arrestata proprio mentre stava trasportando le armi e gli esplosivi utilizzati dal gruppo «19 Maggio».
Ciononostante, grazie alle aderenze dei genitori (una famiglia ebraica in vista, che abita nell’Upper West Side, ricco quartiere di Manhattan), dopo 16 anni di prigione oggi è libera: un condono di 42 anni rispetto alla sua severissima pena. Negli Stati Uniti si sono levate subito le proteste dei parenti delle tre vittime della rapina dell’81 nel New Jersey: «Sono totalmente disgustato dal comportamento dell’ex presidente Clinton», ha detto Gregory Brown, che perse il padre quando aveva 16 anni.
Il problema è che adesso al governo negli Stati Uniti c’è l’avversario di Clinton, George W. Bush: il rischio è che, proprio a causa dello scandalo provocato in America dalle grazie in extremis, la posizione Usa si indurisca, che il nulla osta per la liberazione di Silvia Baraldini non venga concesso, e che quindi l’unica a rimanere dentro sia l’italiana.
Mauro Suttora