Wednesday, January 12, 1994

Pannella svolta a destra

Oplà: Pannella fa un altro giro di valzer

Europeo, 12 gennaio 1994

E BRAVO MARCO CHE SORRIDE A DESTRA

Con Berlusconi e Bossi. Per rinviare le elezioni. E opporsi alla sinistra vincente. Dove vuole arrivare il leader radicale?

di Mauro Suttora

Un tempo la sua arma preferita era il digiuno. Ne ha fatti 16 per le cause più diverse: Cecoslovacchia invasa, divorzio, fame nel mondo. Oggi, invece, ha il telefonino. E alla fine, tempestato per giorni dalle sue chiamate, anche Silvio Berlusconi ha ceduto: è andato in piazza Duomo a Milano a a firmare per i suoi nuovi referendum, lo ha ricevuto nella propria villa di Arcore.

“Rieccolo”. Il soprannome che Fortebraccio aveva appioppato all’eterno Amintore Fanfani oggi si attaglia bene a Marco Pannella. In politica da 48 anni (la prima tessera, liberale, la prese quindicenne nel ‘45), sempre all’opposizione (tranne cento giorni nel ‘92 al Comune di Ostia), il leader radicale sembrava definitivamente tramontato.

Il colpo di grazia gliel’avevano dato le riunioni alle sette del mattino che aveva organizzato lo scorso maggio per difendere il Parlamento degli inquisiti. “Continuate ad essere irriconoscibili, scandalizzate, bestemmiate”: così Pier Paolo Pasolini esortò i radicali prima di morire, nel ‘75. Consiglio preso fin troppo alla lettera, in questi anni, da Pannella.

Invece, per l’ennesima volta, “il nostro Marco nazionale” (come lo chiama il suo peggior nemico, Eugenio Scalfari) è risorto. E’ lui, di nuovo, l’uomo del giorno, il protagonista di queste ultime settimane di vita politica. Il 12 gennaio la Camera è convocata per discutere la sua mozione di sfiducia al governo di Carlo Azeglio Ciampi: è riuscito a farla firmare a ben 150 deputati, quasi tutti della maggioranza.

Perché questa mossa? Il dibattito in Parlamento è un atto dovuto, come ritiene il presidente Oscar Luigi Scalfaro sempre rispettosissimo delle prerogative parlamentari, o è soltanto un espediente degli onorevoli indagati (“i carcerandi”, come li dileggia Gianfranco Miglio) per guadagnar tempo e rimandare ancora di un po’ le inevitabili elezioni?

E Pannella che fa? Di nuovo, forse solo per il gusto autolesionista di apparire al centro dell’attenzione, si mette alla testa del “partito degli inquisiti”, oppure la sua è una strategia lucida con precisi obiettivi?

“Ciampi deve scegliere da che parte stare”

“Pannella è soltanto uno specialista nell’intorbidare le acque, è un politichese fra i più consumati”, taglia corto Scalfari sulla prima pagina di Repubblica. E quasi accusa Scalfaro di essersi fatto plagiare dal capo radicale, visto che il presidente avrebbe potuto sciogliere le Camere già dal 20 dicembre.

Replica Pannella: “Anche votando a marzo, l’attuale governo resterebbe in carica fino a giugno. Ma Ciampi è ormai delegittimato: lui stesso ha dichiarato di aver esaurito il proprio compito dopo la riforma elettorale e la legge Finanziaria. E l’Italia non può certo permettersi di stare per mezzo anno senza un vero governo. Occorre quindi una nuova compagine, guidata dallo stesso Ciampi e con Mario Segni vicepresidente. Io mi propongo ministro degli Esteri”.

Questa è la spiegazione ufficiale, istituzionale. Ma c’è anche un secondo movente, squisitamente politico, nella mossa di Pannella. E’ lui stesso a confessarlo: “Ciampi deve scegliere: o sta con il Pds e il partito di Repubblica, o prende Segni e me. Così gli elettori potranno decidere subito fra due schieramenti”.

Figurarsi se quel vecchio volpone di Ciampi cadrà nella trappola di Marco. Il presidente del Consiglio sa che, se la sinistra vincerà, potrà continuare a stare al suo posto: Achille Occhetto gli ha già offerto quella poltrona. D’altra parte, Ciampi aveva già inserito ministri di area pidiessina in questo governo: soltanto l’assoluzione della Camera a Bettino Craxi provocò le loro immediate dimissioni.

Il terzo motivo, inconfessabile, della mozione Pannella, è infine quello di prender tempo. Non tanto per rinviare le elezioni (“Mi vanno bene ad aprile”), quanto per guadagnare giorni preziosi alla raccolta di firme sui suoi referendum. “Siamo a 100mila, più le 60mila che finora ha preso la Lega”, dicono al club Pannella a Roma. Tutte firme che rischiano di essere buttate.

Lega incinta di liberaldemocrazia.

E’ probabile che ciò accada. Ma i referendum sono serviti a Pannella per allearsi alla Lega Nord. Com’è scoppiato questo nuovo, improvviso amore? Il leader radicale è stato l’unico ospite esterno (applauditissimo) al congresso leghista del 12 dicembre. Pannella, per la verità, si dichiara federalista da sempre. Seguace di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e del loro Manifesto di Ventotene per un’Europa unita e federale, nell’87 ha fatto anche cambiar nome al gruppo radicale della Camera, che da allora si chiama “federalista europeo”.

“Pannella sta mettendo incinta la Lega”, scherza Valerio Zanone. “Le sta inoculando il seme della liberaldemocrazia, e la Lega gode”, precisa Ottavio Lavaggi, deputato pri, anch’egli nuovo fan del Carroccio. Ma c’è anche un dato umano: molti leghisti hanno votato radicale prima di sposare Umberto Bossi.

Pannella ha sempre scelto i propri alleati con pragmatismo spregiudicato: chi ci sta, ci sta. Il divorzio lo conquistò in compagnia del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini. Contro la fame nel mondo si alleò con i democristiani, per difendere Enzo Tortora con i socialisti.

Questa volta, sui referendum lanciati da lui e da illustri politologi come Angelo Panebianco e Saverio Vertone (Corriere della Sera), Marcello Pera (La Stampa), dal filosofo Giulio Giorello e dall’economista Antonio Martino (preside della Luiss, l’università della Confindustria), c’è stata soltanto la Lega. Ma lui li aveva proposti a tutti i partiti.

Non più tardi di un mese fa, d’altronde, Pannella ha appoggiato, assieme al Pds, il radicale Francesco Rutelli a Roma, Adriano Sansa a Genova e vari altri nuovi sindaci di sinistra. Adesso invece passa il suo tempo ad attaccare Occhetto. Perché? “La sinistra può vincere solo con me e Segni, come a Roma. Altrimenti è un bidone”, risponde lui. Pannella l’indispensabile. Pannella il salvifico. “Ha una concezione tolemaica di se stesso”, è la descrizione ironica di Scalfari, “è lui l’asse della verità gravitazionale, misconosciuto però da tutti. Di qui la sua paranoia vittimista”.

Con Scalfari l’odio è profondo. I due si conoscono da 40 anni: bazzicavano entrambi la corrente di sinistra del Pli. Insieme hanno fondato il partito radicale nel ‘55. Poi però Scalfari ne divenne il vicesegretario, si volle alleare con il Psi (nel ‘60), e cacciò Pannella (allora filo-comunista) all’opposizione.

“Marco è un esibizionista logorroico”, dice Scalfari. E Pannella ricambia: “Scalfari è un libertino mascherato da tartufo: con una mano indica il Dio della democrazia, con l’altra tocca le cosce della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava”.

Fra Pannella e Silvio Berlusconi, invece, c’è simpatia. Al Cavaliere il leader radicale piace perché è l’uomo politico più spettacolare d’Italia. Una sua intervista a Mixer lo scorso maggio ha conquistato otto milioni di spettatori. E alle comunali di Roma Pannella è stato il più votato (dopo il missino Teodoro Buontempo) fra tutti i capilista: 14mila preferenze, il doppio di Enrico Montesano (il più gradito fra i pidiessini).

Le Tv Fininvest hanno aiutato molto il partito radicale sia nell’86 sia nel ‘92, quando Pannella minacciava di chiudere il Pr se non si fossero raggiunti 10mila e 30mila iscritti. Il leader radicale è un assiduo di tutti i programmi berlusconiani, dall‘“Uno contro tutti” di Maurizio Costanzo fino a “Scherzi a parte”. In questi giorni il Tg di Paolo Liguori (ex redattore di Radio radicale) su Italia Uno lo coccola, intervistandolo spesso.

Amore per Bossi, ostilità con Scalfari, sintonia con Berlusconi. Alle elezioni Pannella finirà nel blocco moderato? Con Mariotto Segni il rapporto è agrodolce: il capo del Pr si vanta di essere stato il primo a proporre, nell’86, il maggioritario uninominale, e di aver convinto lui Segni. Perfino con Gianfranco Fini c’è qualche punto di contatto: vent’anni fa Pannella fu l’unico a difendere il Msi dalla campagna per metterlo fuorilegge: “I veri fascisti oggi sono i democristiani”, sosteneva assieme a Pasolini. E nell’82 fu il primo segretario di partito che parlò a un congresso missino.

“Il Pds è l’erede della partitocrazia”.

Quel che è certo, è che Pannella non è catalogabile. E’ di destra o di sinistra? Domanda antica quanto lui stesso. Negli Anni ‘50, da liberale gobettiano, fece entrare il Pci nel parlamentino degli universitari italiani che presiedeva. Nel ‘59, assieme a Occhetto, cacciò Bettino Craxi dalla guida dell’Unione goliardica. Poi scrisse una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera, proponendo l’alternativa di sinistra.

Trent’anni fa Giancarlo Pajetta gli offrì un seggio da deputato (rifiutato) come indipendente di sinistra. Poi i rapporti si guastarono, perchè il Pci su divorzio e aborto non voleva attaccare troppo la Dc, mentre Pannella era un anticlericale acceso. “Furgone di immondizia”, lo apostrofò Fortebraccio, il corsivista dell’Unità.

Dopo che Occhetto ha cambiato nome al partito, Pannella è stato un interlocutore attento e speranzoso del nuovo Pds, che però oggi considera come “l’erede principale del regime partitocratico”. E’ stato anche uno dei fondatori di Alleanza democratica, “che adesso non mi invita neanche più alle sue riunioni”, si lamenta. E Leoluca Orlando? “Un piccolo Peron”, taglia corto. Insomma, la deriva a destra di Pannella sembra essere causata soprattutto da dissapori personali.

Dal ‘92 Pannella è il primo politico al mondo a farsi eleggere in liste con il proprio nome. Neanche il generale Charles De Gaulle era arrivato a tanto narcisismo. “Ma questa è la politica del futuro, basata sulle persone e non sugli apparati burocratici di partito. Si vota il singolo candidato, come in America”, si difende Marco. Che però è stato abbandonato da molti dei suoi compagni di un tempo: Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, Adelaide Aglietta.

In ogni caso, quello di Pannella è l’unico partito, assieme ai Verdi, a non essere mai stato indagato per tangenti. Anche Lega, Rifondazione e Msi hanno dirigenti inquisiti. I radicali no. Pannella l’incorruttibile vive solo per la politica, abita in una soffitta al quinto piano senza ascensore dietro la fontana di Trevi. Passa i Ferragosti a visitare prigioni, e Natali e Capodanni a concionare da Radio Radicale. Riuscirà a far parlare di sè anche dopo il Duemila, c’è da scommetterlo.

Mauro Suttora

Monday, November 01, 1993

Marie Louise Rescia Pellegrin: Les Travaillants

I DISOCCUPATI? IN REALTA' SONO BABY SITTER

Risultano senza lavoro 12 europei su cento. Problema insolubile? No, rispondono a Parigi. Perché l'importante è il loro ruolo sociale

di Mauro Suttora

Europeo, 1 novembre 1993
























Disoccupazione: è il nuovo mostro da combattere nei Paesi industrializzati dell’Ocse, dove i senza lavoro sono ormai 35 milioni. In novembre a Washington si terrà addirittura un vertice mondiale su questo problema. Gli Stati Uniti, però, stanno molto meglio dell’Europa: i disoccupati sono al 7%, contro il 12% della Cee. La Francia, in particolare, soffre la peggior crisi di mancanza di lavoro dagli anni ’30.

Ma è proprio in Francia che si stanno sviluppando le idee più interessanti e innovative per affrontare il fenomeno. A Parigi Marie-Louise Pellegrin, docente di Antropologia e presidente del seminario di Psicologia sociale all’università della Sorbona, ha pubblicato un libro che fa discutere: ‘Des inactifs aux travaillants’. Letteralmente: ‘Dagli inattivi ai lavoranti’. È un gioco di parole: il neologismo ‘lavorante’ prende il posto del classico ‘travailleur-lavoratore’.

“In tutt’Europa ormai”, spiega la professoressa Pellegrin, “la maggioranza degli abitanti, fra giovani, pensionati, donne e disoccupati, è catalogata come ‘inattiva’. È questa oggi la categoria predominante, e non più quella del ‘maschio adulto produttivo’. Eppure ancora adesso tutta la nostra società ruota attorno alla figura del ‘lavoratore’. Così chi perde il lavoro perde status, oltre che lo stipendio, e un problema che dovrebbe essere solo economico diventa anche politico e sociale”.

“Gli ‘inattivi’ svolgono in realtà ruoli preziosissimi anche se non retribuiti”, sostiene la Pellegrin, “dalle casalinghe ai parenti che fanno da baby sitter, dai volontari ai lavoratori ’sommersi’. Definiamoli ‘lavoranti’, riconosciamo la loro importanza. Altrimenti il problema ‘disoccupazione’ rimarrà insolubile. Oggi non siamo attrezzati culturalmente per affrontarlo, proprio come nel '700, quando erano considerati ‘produttivi’ soltanto gli agricoltori, e ci volle Adam Smith per definire ‘lavoratori’ anche quelli delle fabbriche”.

Insomma, il nostro modo di pensare non si è ancora adeguato alla nuova realtà. E questa ‘rivoluzione culturale’ iniziata a Parigi oltre agli economisti coinvolge antropologi, linguisti e psicanalisti.

Friday, December 11, 1992

Eurocrati Ue

Europeo, 11 dicembre 1992

 Ma che faccia ha un tecnocrate Cee?

Sette uomini d'oro. Vengono dall'Italia, ma ormai si considerano europei. Ecco chi sono

di Mauro Suttora



 


Friday, May 08, 1992

Corriere della Sera: processo

Milano: tangenti in aula.
I missini annunciano una loro nutrita presenza in aula, questa mattina, per il processo per diffamazione intentato dall'ex presidente dell'Atm Giacomo Properzj contro il consigliere del Msi, Riccardo De Corato, il consigliere liberale Pierangelo Rossi e il giornalista dell'"Europeo" Mauro Suttora per un articolo di tre anni fa, in cui i due consiglieri dubitavano della regolarita' di alcuni appalti dell'azienda tranviaria.

Thursday, December 19, 1991

Dateci una zampa, maghi del marketing















Il Wwf ha raggiunto quota 300mila soci. Greenpeace ne fa mille in più ogni mese. La Lipu è inondata di coupon per salvare la marmotta. Le nuove armi dei verdi si chiamano mailing, fund raising e sponsorship


di Mauro Suttora


Europeo, 20 dicembre 1991


Se continua così, fra qualche anno il Wwf avrà più iscritti del Pds. I soci italiani del World Wide Fund for Nature (Fondo mondiale per la natura) da 25mila che erano nel 1981 hanno appena festeggiato quota 300mila. Performance impressionante: poche associazioni al mondo possono vantare una crescita del 1200% in appena dieci anni.

Ma va bene anche alle altre organizzazioni ecologiste: dalla Lega Ambiente con i suoi 60mila iscritti, a Greenpeace che ne ha raccolti 55mila in soli tre anni, e che continua ad aumentare al ritmo di mille al mese.

Tutto questo nonostante il disastro ambientale italiano, la delusione dei verdi come partito, le sconfitte ripetute dei referendum anticaccia: da quello nazionale del 1990 a quelli in Friuli due settimane fa. Rigettati dalla politica, gli ecologisti nostrani si consolano partecipando con accanimento a iniziative concrete in favore della natura: piantano alberi, puliscono parchi, ramazzano spiagge, curano uccellini feriti. Ma mettono anche mano al portafogli: ‘adottano’ delfini, finanziano oasi, comprano magliette, regalano animali di peluche scelti dai cataloghi natalizi del Pandashop…

È un’attività frenetica che coinvolge una quindicina di associazioni nazionali più una miriade di gruppi locali, con bilanci annui che vanno dai 25 miliardi del Wwf ai 30 milioni della Lac (Lega abolizione caccia). E sono oltre mezzo milione gli italiani che hanno in tasca la tessera di una (o più di una) organizzazione ambientalista. Ma non è più un boom affidato al caso: da qualche anno l’entusiasmo spontaneo degli amanti della natura viene stimolato e poi organizzato scientificamente da esperti di marketing. I quali stanno importando in Italia le tecniche più avanzate del fund raising, del mailing e delle sponsorship, già sviluppatissime negli Stati Uniti.

Storicamente il nostro è un Paese cattolico in cui la carità è da sempre monopolio di missionari, suore e dame di san Vincenzo. E la raccolta di fondi per organismi laici senza scopo di lucro (Croce rossa, ricerca contro il cancro e altre gravi malattie) non è facilitata, come in America, dalla deducibilità fiscale dei contributi.

Ma i nuovi maghi del marketing verde non si son persi d’animo, e tanto per cominciare hanno messo a buon frutto le centinaia di migliaia di firme e indirizzi raccolti per i referendum. “A quegli 800mila firmatari abbiamo spedito una lettera con l’invito ad associarsi, e la risposta è stata buona”, ci dice Valerio Neri, direttore generale del Wwf.

Neri, 40 anni, è il superman dei nuovi manager ambientali. Ha insegnato filosofia del linguaggio all’università di Roma ed è entrato nel Wwf nel 1982. Le sue iniziative di direct marketing per convincere i soci a rinnovare l’iscrizione hanno avuto subito successo, e questo è stato molto importante per l’associazione del Panda negli anni della crescita impetuosa. Troppe volte, infatti, un eccessivo ricambio dei soci vanifica il reclutamento di nuovi iscritti: se molti non rinnovano la tessera, alla fine il saldo è insoddisfacente. “La percentuale di rinnovi è molto alta per il Wwf: bastano due-tre lettere di sollecito e arriviamo all’80 per cento”, spiega Neri.

Dal 1989 Neri è direttore generale dell’associazione fondata e presieduta da Fulco Pratesi, succedendo a Staffan de Mistura (oggi impegnato con l’Unicef in Jugoslavia) che già aveva introdotto buone dosi di managerialità nel Wwf. L’anno scorso un sondaggio Espansione-Swg fra 300 dirigenti italiani ha collocato Neri al quinto posto fra i direttori marketing più bravi d’Italia, e al terzo fra i creatori delle operazioni più innovative.

Così si è coronata una carriera cominciata per caso. “Ma la mia precedente esperienza di filosofo del linguaggio è stata preziosa”, sostiene Neri. “Un’operazione di mailing infatti costa molto, per cui occorre calibrare bene il messaggio da inserire nella lettera. Nella comunicazione ambientale dobbiamo far leva su emozioni e ricordi del linguaggio privato per catturare l’interesse”.

Insomma, Neri applica gli insegnamenti del filosofo Ludwig Wittgenstein quando scrive di suo pugno molte delle lettere con cui il Wwf, magari usando come testimonial Piero Angela, sollecita i simpatizzanti all’azione e al contributo finanziario. “La raccolta fondi è soltanto uno dei nostri obiettivi”, precisa Neri, “perché vogliamo anche spingere i nostri soci a compiere atti pratici, come spedire cartoline per qualche petizione a un uomo di governo, o a cessare un comportamento inquinante, fino ad assumere personalmente iniziative concrete”. Come i soci Wwf che hanno piantato alberi poche settimane fa a Milano.


Un altro asso nella manica del Wwf è Marina Salamon. Questa 33enne proprietaria della Doxa (con il padre Ennio che la dirige da 35 anni) e imprenditrice tessile (con l’ex compagno Luciano Benetton controlla due aziende a Treviso che fatturano 150 miliardi) fa parte della commissione Ambiente della Confindustria, e da un anno è anche consigliere d’amministrazione del Wwf Italia. Ha l’incarico di seguire le vendite del Pandashop, catalogo per corrispondenza allegato alla rivista mensile del Wwf che incassa cinque miliardi all’anno.

“Da adolescente frequentavo i campi di lavoro del Wwf”, ricorda la Salamon, “e ho riannodato i rapporti nell’86, quando ho aiutato a organizzare le cerimonie per il venticinquennale del Wwf internazionale ad Assisi”. Salamon senior a suo tempo si era impegnato con Italia Nostra a Milano per la creazione del parco del Ticino. Adesso sua figlia dedica in media una decina di ore alla settimana per andare a Roma e Milano alle riunioni Wwf. “Mi sono laureata, ho lavorato, e adesso posso permettermi di coltivare i miei veri interessi”, dice.

Anche dentro Confindustria Marina Salamon sta combattendo la sua battaglia ecologista. “È stato Luigi Abete a volere che m’impegnassi nel comitato Ambiente. Io per la verità producendo vestiti non ho grossi problemi di coscienza, anche perché compro tessuti già colorati. La mia impressione è che le grosse aziende, coordinate da Federchimica, Assoplastica e Assovetro, si stiano muovendo per ridurre l’inquinamento. Ma restano i problemi delle piccole industrie, e soprattutto di leggi confuse con sovrapposizione di poteri fra Stato e regioni. Non vorrei comunque ridurmi a fare il Bertuzzi [primo difensore civico d’Italia, ndr] della situazione, quella che parla e denuncia ma con scarsi risultati concreti. Per questo mi trovo meglio fra i giovani imprenditori, che ultimamente hanno assunto posizioni coraggiose, e non solo sui temi ambientali: penso al caso Libero Grassi e alla mafia in Sicilia”.

Le vendite del Pandashop curate dalla Salamon hanno un catalogo stampato su carta riciclata e provengono in gran parte da canali alternativi alle normali strutture industriali: comunità di ex tossicodipendenti o handicappati, cooperative del Terzo mondo). Assieme al professor Luigi Boitani, docente di management ambientale all’università di Roma, la Salamon ha vincolato a parco regionale 150 ettari di sue tenute in Toscana, vicino a Siena. E la scorsa settimana questa pasionaria dell’ambiente è volata in Kenya e Uganda, dove Boitani ha progettato nuovi parchi naturali, e dove stanno molti di quegli elefanti e rinoceronti per i quali il Wwf ha organizzato campagne negli ultimi anni.

Intanto, proprio una ricerca Doxa ha scoperto che il marchio del panda è conosciuto dall’80% degli italiani, e che il Wwf è noto perfino più della Croce rossa come raccoglitore di fondi. Perciò le aziende private fanno la coda per ottenere una sponsorizzazione che permetta di legare la propria immagine a quella prestigiosa del Wwf. “Ma accettiamo meno del 10 per cento delle proposte che ci vengono fatte”, dice Neri. Dagli sponsor il Wwf incassa un miliardo e mezzo annuo, che destina ai 42 parchi gestiti a proprie spese. La sponsorizzazione più grossa attualmente è quella della Perfetti, che abbina la caramella Golia all’orso bianco.

Con 26 dipendenti a tempo pieno, 300 obiettori in servizio civile, 300 sedi e 4mila Panda club nelle scuole, il Wwf riesce a proteggere quasi 20mila ettari di territorio in Italia, e a spendere più del ministero dell’Ambiente per i suoi parchi nazionali.


Un’altra storia di successo è quella di Greenpeace. Specializzata in spettacolari azioni dirette nonviolente, è sbarcata in Italia da pochi anni. L’unica sede è a Roma, dove con il direttore Gianni Squitieri  lavorano 12 persone. Non ha chiesto obiettori al ministero della Difesa. I 55mila soci contribuiscono in media con 40mila lire annue, e il bilancio si aggira sui due miliardi.

La responsabile marketing di Greenpeace è Silvia Provera, 33 anni, laureata in biologia: “La ‘raccolta fondi’ in Italia è quasi inesistente come tecnica specializzata”, ci dice nella sede sotto l’Aventino. “Per questo Greenpeace mia ha mandata a frequentare per due settimane un corso universitario di ‘fund raising’ a San Francisco. Ne sono uscita stordita: le organizzazioni no profit statunitensi si occupano quasi tutte di donne violentate, bambini brutalizzati, malattie terribili e altre amenità del genere. Ma lì il mailing raggiunge vette di sofisticazione scientifica. Anche perché società apposite sono in grado di affittare indirizzari perfino ridicoli, nella loro precisione: tutti i divorziati degli ultimi tre mesi, o chi acquista cibi naturali, o i ‘giovani evoluti’ che ‘vanno spesso al camping’, e così via…”

In Italia le liste sono più approssimative, garantiscono raramente una ‘redemption’ (risposta positiva) superiore al 3-4%. “Invece in Gran Bretagna e Olanda Greenpeace riesce a raggiungere risultati strepitosi con il mailing: perfino il 18 per cento su liste ‘fredde’, cioè di persone che non hanno dimostrato in precedenza interessi particolari per l’ambiente”.

In Olanda Greenpeace ha 700mila iscritti: uno in ogni famiglia. E da noi c’è il grande ostacolo della posta lenta, che rende difficoltose grosse spedizioni di lettere. Un’altra tecnica che le organizzazioni non a scopo di lucro utilizzano all’estero è lo scambio reciproco di indirizzari. In alcuni Paesi la legge lo proibisce, per non invadere la privacy con quantità non richieste di ‘junk mail’, posta spazzatura. Ma il divieto è superabile stampando la clausola “Se lei non vuole che il suo indirizzo venga dato ad altri, sbarri questa casella”. Quasi nessuno lo fa.

“In Italia però le associazioni ecologiste sono gelose, non prestano mai ad altri i propri indirizzari”, dice Silvia Provera. “Eppure i nostri iscritti spesso sono complementari. Il Wwf, per esempio, rispetto a noi ha soci o più giovani o più anziani, e più nell’area del protezionismo che in quella dell’ecologia politica. Noi invece siamo forti fra i 20-45enni”.

Per statuto, al contrario del Wwf, Greenpeace non può concedere il proprio marchio, farsi sponsorizzare né accettare donazioni da aziende: solo privati cittadini. “Abbiamo declinato anche i finanziamenti del ministero dell’Ambiente, perché non prendiamo soldi da governi. E perché abbiamo scoperto che in Italia pure questi fondi sono un po’ lottizzati”, dice la Provera. “Una volta mi ha telefonato un’associazione di pellicciai che voleva assolutamente farci una donazione. Ho spiegato che potevamo accettare solo il contributo del presidente come singola persona”.

Anche Greenpeace nella rivista mensile che invia ai soci ha un piccolo catalogo di magliette, adesivi e cartoline. Offre pure il disco inciso dalle principali rockstar per finanziare le campagne contro la caccia alle balene in Unione Sovietica, che ha venduto tre milioni di copie.


La Lega Ambiente (presidente Ermete Realacci, segretaria Renata Ingrao, 60mila iscritti) si sta avvicinando adesso alle campagne di mailing. “Con Antonio Lubrano come testimonial”, spiega l’amministratrice Rita Tiberi, “abbiamo contattato tutti i firmatari dei referendum. Così è cambiata un po’ anche la natura della nostra associazione, perché 20mila persone si sono iscritte direttamente alla sede nazionale senza passare per uno dei nostri 600 circoli locali”.

Una ventina di impiegati, 30 obiettori, due miliardi a bilancio, l’attività di Lega Ambiente si impernia soprattutto sulla Goletta verde estiva e sul Treno verde invernale, che girano Italia e Mediterraneo misurando l’inquinamento. I soci, più di sinistra delle altre associazioni, sono anche più severi nella scelta degli sponsor: hanno protestato quando la Montedison di Raul Gardini aveva sponsorizzato un loro convegno. Così il marchio del cigno verde non viene concesso alle aziende, che possono solo offrire fondi.

Ce l’hanno fatta Duracell con le sue pile (in risposta ad altre pile concorrenti abbinate al Wwf), Italstat, Assovetro, il detersivo ecologico Atlas, il consorzio Replast che ricicla la plastica. La Banca Toscana e Il Monte dei Paschi hanno sponsorizzato un convegno internazionale particolarmente costoso. E Ottavio Missoni ha disegnato tre magliette per la Goletta verde.


La Lipu (Lega italiana protezione uccelli), che gestisce 15 oasi e due ospedali veterinari, ha 30mila soci e due miliardi e mezzo di budget. Presidente, l’ex giornalista Rai Mario Pastore. Si è fatta sponsorizzare da Polenghi un centro per le cicogne a Racconigi (Cuneo), Invicta ha finanziato l’oasi di Torrile (Parma) e altri suoi benefattori sono stati Piaggio e Virgin dischi. Grande successo ha riscosso la recente campagna per la marmotta: ben 45mila coupon stampati su giornali sono arrivati alla sede nazionale di Parma, e formeranno un ottimo target per i prossimi mailing.


Italia Nostra, 20mila soci, si è fatta sponsorizzare da Scavolini e dal Lysoform della Lever quattro aree di rimboschimento post incendi. “Ma i mailing non possiamo permetterceli, costano troppo”, dice il segretario Vittorio Machella.

Molto intraprendente invece il presidente di Europe Conservation Fabio Ausenda: “Abbiamo raccolto 400 milioni da settemila donatori per le nostre campagne di adozione di lupi, balene e delfini”. Fra i finanziatori Moschino e Fox video per i lupi e Prénatal per le balene.

La più grande associazione animalista (da non confondere, avvertono gli specialisti, con i ‘conservazionisti’) è la Lav (Lega antivivisezione): 16 mila iscritti, 90 sedi, mezzo miliardo in bilancio, nessun obiettore (“Il ministero ce li nega”), niente personale stipendiato: “Siamo tutti volontari, al massimo c’è qualche rimborso spese”. Sono loro a inscenare ogni anno, all’apertura della Scala, gli happening anti-pellicce.

Anche Kronos 1991, specializzato nel misurare l’inquinamento di mari, laghi e fiumi, ha un modello lontano da quello ‘commerciale’ del Wwf: “Vogliamo che i nostri 4mila iscritti si mobilitino direttamente, non ci interessano i soci solo finanziari o epistolari”, dice il segretario Silvano Vinceti.

Sulla stessa lunghezza d’onda la Lac (Lega anticaccia) di Carlo Consiglio, professore di zoologia all’università di Roma, e Federnatura, che raduna 10mila soci sotto la presidenza di Francesco Corbetta, docente di botanica all’Aquila.

Apertissimi alle sponsorizzazioni sono invece il Fai (Fondo ambiente italiano, 15mila soci, bilancio di tre miliardi) di Giulia Maria Crespi, gli Amici della Terra e Marevivo (30 mila soci, un miliardo di budget: Tirrena assicurazioni, Marina militare, Enel, Alenia, Telespazio).

Quanto a Mountain Wilderness, l’associazione di Reinhold Messner che conta un migliaio di soci, ha ricevuto contributi da Fidia (farmaceutici) e Geospirit (abbigliamento sportivo).

Infine Animal Amnesty: “Siamo un ufficio di pubbliche relazioni per animali”, spiega l’addetto stampa Enzo Del Verme. Ottomila soci dichiarati, dieci addetti a tempo pieno, sono loro a coniare slogan fulminanti come “Tua madre ha una pelliccia? La mia non l’ha più”, oppure “Se pensi che la corrida sia divertente, prova a fare il toro”. Sponsor: Fiorucci, Videomusic, Young & Rubicam. 


















Friday, August 30, 1991

Il golpe di Mosca

FUORI GORBACIOV, ECCO ELTSIN. UNA RIVOLUZIONE CON SOLI TRE MORTI SEPPELLISCE IL COMUNISMO

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora


Europeo, 30 agosto 1991





«Cambiar nome? Non serve a niente. Anch'io ho cambiato nome, quattro volte. Ma adesso che sono arrivata al terzo marito mi ritrovo uguale a prima, con lo stesso caratteraccio».


Piazza Puskin, una bella e tiepida notte moscovita. Sotto la statua del poeta si danno appuntamento le coppiette di innamorati. Davanti a McDonald's c'è la solita fila di mezzo chilometro per un hamburger americano. E dall'altra parte della piazza, sotto la sede del settimanale Moskovskie Novosti, Notizie di Mosca, una centinaio di persone commentano la morte del partito comunista sovietico, decretata dal presidente Michail Gorbaciov 24 ore prima.


La battuta più bella la pronuncia la pluridivorziata Elena, contro chi ipotizza una resurrezione sotto diverso nome per i 14 milioni di membri di un Pcus rinnovato e purgato.




Un altro struggente tramonto chiude la settimana decisiva per la storia dell'Unione Sovietica. Era cominciata lunedì mattina sotto la pioggia, e con i carri armati del golpe nelle strade. È finita sabato sotto il sole con le dimissioni di Gorbaciov da segretario del Pcus, lo scioglimento del partito e la antica-nuova bandiera russa tricolore che sventola sul Cremlino.


In mezzo, sei giorni di rivoluzione. Una bella rivoluzione, con pochi morti e molta ironia. Perfino Gorbaciov è riuscito a scherzare sulla propria prigionia in Crimea. «È la nostra quinta rivoluzione», ricorda un signore in un capannello di piazza Puskin. E conta: quella decabrista nell'800, quella socialista nel 1905, la menscevica nel febbraio '17, la bolscevica nell'ottobre '17... D'estate, però, è la prima volta. Ma anche sulla numerazione delle loro rivoluzioni i russi riescono a litigare: «Quello bolscevico fu un colpo di stato, non una rivoluzione di popolo», puntualizza stizzito un altro.


Le uniche due parole che mettono d'accordo tutti sono «democrazia» e «Eltsin». La gente preferisce quest'ultimo, presidente della Russia (che copre il 75 per cento dell'Urss), a Gorbaciov, presidente tuttora non eletto di una cosa che ormai esiste ogni giorno di meno: l'Unione Sovietica.


Questa volta, contrariamente a 74 anni fa, i sei giorni di rivoluzione non hanno sconvolto il mondo. Più modestamente, lo hanno tranquillizzato. Le mamme russe ora portano i figli a visitare le barricate che hanno protetto Eltsin e il suo parlamento dai militari. Come la signora Ludmila Salnikova, che già la sera di giovedì 21 agosto conduce per mano la figlia Xenia di 8 anni a vedere in Piazza Rossa i fuochi d'artificio della festa antigolpista. La incontriamo in metropolitana, alla stazione del viale della Pace (Prospekt Mira).


È eccitata, felice e arrabbiatissima: «Dopo i botti andremo ad assaltare la sede del partito comunista», annuncia. «Ho appena visto la conferenza stampa di Gorbaciov in tv, quello scemo difende ancora il partito che l'ha tradito». Nella carrozza del metro (il biglietto costa quindici copechi, sei lire italiane) la gente legge i quotidiani con i primi titoli sul golpe fallito. I generali golpisti avevano chiuso tutti i giornali tranne sei, quelli fedeli al Pcus. Il giorno dopo Eltsin li ha fatti riaprire tutti, tranne quei sei (tra i quali l'esimia Pravda).


Usciamo con Ludmila e Xenia alla stazione del metro Barricada che ricorda gli scontri del 1905 fra i soldati zaristi e i rivoluzionari. Per coincidenza, le nuove barricate sono a poche decine di metri. E qui bisogna spiegare che il Bielo Dom, la Casa Bianca di Eltsin, si trova in una parte di Mosca che, come quasi tutta la città, non è a misura d'uomo bensì di Stalin e della sua megalomania.


Per capirci: non sareste presi dalla disperazione, o perlomeno da agorafobia, se doveste improvvisare qualche ostacolo antitank attorno al palazzo della Farnesina a Roma? La grande fortuna dei diecimila giovani di Eltsin è che, a mani nude, hanno potuto contare su un cantiere aperto proprio davanti al parlamento per lavori di fognatura in viale Kalinin. Si può quindi affermare, con rispetto parlando, che la nuova democrazia russa è nata non sulla canna del fucile, ma grazie a tubi di fogna e traversine di cemento.


Queste commoventi barricate, tenute su con tavoli, sedie, tondini di ferro, pezzi di pavé, perfino rami d'albero e tutto ciò che i giovani di Eltsin hanno trovato, sono diventate monumento nazionale. Nessuno osa più toccarle. Eppure tre filobus bruciacchiati ostruiscono il traffico su una delle principali circonvallazioni di Mosca. Vari deputati hanno proposto di lasciarne uno intatto per ricordo.


E per ricordare, adesso, la piccola Xenia, due anni dopo i suoi coetanei del muro di Berlino, si porta a casa un pezzo di fil di ferro della barricata come reliquia storica. Attorno si beve, si canta, si balla, si fa festa. Sono tornati il sorriso e l'entusiasmo sui visi tristi dei moscoviti. Perfino alcune guide turistiche dei greggi in viaggio organizzato hanno giunto una nuova tappa al tour della città: un po' di storia contemporanea, oltre a quella imbalsamata nel Cremlino.


Non si è ancora asciugata l'acqua nelle pozzanghere di viale Ciaikovski, in quel sottopasso illuminato dai neon arancioni che la Cnn ha mostrato a tutto il mondo in diretta nella notte degli scontri. Qui ci sono stati i tre morti che hanno pagato per tutti i milioni di russi il passaggio dalla dittatura alla democrazia.


A scuola ci hanno insegnato che la libertà concessa dall'alto, come quella della perestroika gorbacioviana, vale poco se non è conquistata anche con un conflitto, una rivolta, magari un po' di sangue. Per fortuna le rivoluzioni moderne sono sempre più spesso nonviolente. A volte hanno successo (Europa dell'Est, Filippine), a volte no (Cina, Birmania). «Ma la paura di una nuova strage tipo piazza Tian an men ha paralizzato molti soldati», commenta Oleg Finestein, scrittore, «questi generali non erano golpisti professionisti».


«Buonanotte amico, siamo con te». «In memoria vostra, amici». Nei tre punti dove si è ucciso ora ci sono montagne di fiori e queste scritte pitturate in bianco. «Riebata», amico, ha preso il posto di «Tovarish», compagno, parola squalificata perché comunista. Anzi, «comunista» è ormai diventato un insulto a Mosca. Centinaia di persone, soprattutto donne pie di mezza età che si raccolgono in preghiera, continuano a portar fiori ai nuovi martiri di viale Ciaikovski.


Arriviamo tardi, con Ludmila e Xenia, alla manifestazione contro la sede del Pcus (che poi Eltsin ha fatto chiudere), perché la grande attrazione della notte è l'abbattimento della statua di Felix Djerzinski, nella piazza di fronte alla sede del Kgb da lui fondato. Il giorno dopo è andata giù a picconate la statua di Sverdlov, e adesso tutti i dirigenti bolscevichi rischiano. Anche il monumento a Lenin in piazza Octoberskaia è nel mirino dei moscoviti.


«Io butterei giù anche il busto di Marx di fronte al teatro Bolscioi», propone Ludmila ormai in preda a furia iconoclasta. Per adesso ci si sfoga con le scritte. Sul basamento di Marx con l'appello storico «Proletari di tutto il mondo unitevi» qualcuno ha aggiunto «...e combattete contro il comunismo». Il giorno dopo invece campeggia un grosso «Scusatemi». Un turista stalinista italiano che indossa una giacca a vento con la scritta Cariplo comincia a urlare: «Porci fascisti! Dopo che li hanno fatti studiare tutti gratis, bel ringraziamento!»


Poco più in là, in piazza del Maneggio, cominciano i funerali di stato per le tre vittime. Cerimonia lunghissima e solenne che raggiunge l'apice quando, sotto la Casa Bianca, Eltsin raggiunge il corteo e porta le condoglianze ai parenti. Per la verità ai funerali non c'era moltissima gente, al massimo centomila persone. Non è neanche vero che la gente si rivolta in massa contro il partito comunista: la vita va avanti tranquilla, ed erano poche centinaia i dimostranti contro il palazzo del Comitato centrale del Pcus (quello dentro al Cremlino su cui adesso sventola la bandiera tricolore russa al posto di quella rossa).


In realtà questa è una rivoluzione soprattutto televisiva, con decine di milioni di persone le quali ogni giorno si bloccano davanti alle tv che trasmettono tutto in diretta e a canali unificati per ore e ore. Va bene l'entusiasmo per la libertà, ma se la gente non ricomincia a lavorare l'economia andrà ancora più a rotoli. Ora l'inflazione è al 100 per cento, i prezzi raddoppiano ogni anno. La produzione è crollata di un decimo e il rublo si cambia a quaranta lire, contro le 700 del cambio ufficiale.


L'unico posto a Mosca dove fra i lavoratori regna una perfetta e disciplinata efficienza, senza televisori nel retro ad aggravare la leggendaria accidia slava, è forse Pizza Hut. La Casa della pizza americana ha aperto da poco due ristoranti: uno nell'ex via Gorki tornata all'antico nome Tverskaia, l'altro in viale Kutuzovski, dove stanno molte redazioni di giornali e tv straniere che il governo sovietico costringe in quasi topaie.


Pizza Hut è un esempio agghiacciante di come potrebbero finire le cose se i governanti sovietici non introdurranno la libertà di mercato. Ogni ristorante ha tre porte. In due si paga con rubli (per sedersi e per l'asporto), nella terza in dollari. In teoria anche un russo potrebbe avere dollari. In pratica no, visto che dieci dollari, il minimo per chi vuole mangiare qualcosa, equivalgono a 320 rubli. Cioè la metà di uno stipendio mensile medio.


Così Pizza Hut e tutti i posti dove si può pagare in dollari hanno file lunghissime per i russi schiavi del loro rublo, mentre l'entrata è libera per i privilegiati occidentali. Certo, non si può passare al libero mercato da un giorno all'altro. Ma Gorbaciov finora non ha riformato granché. I russi sperano che Eltsin vada più avanti. «Tanto, peggio di così non possiamo stare», dice Andrei Sedov, ingegnere che da sei mesi ha abbandonato l'industria militare in cui lavorava e si è messo in proprio con una sua società.


Mauro Suttora

Boris Eltsin, un po' Pertini un po' Pannella

... E POI LEOLUCA ORLANDO, ANDREOTTI, REAGAN, KENNEDY: ECCO A CHI ASSOMIGLIA IL NUOVO CAPO RUSSO

Europeo, 30 agosto 1991

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora



Tradotto in italiano, Boris Nicolaievich Eltsin è un misto fra Sandro Pertini, Marco Pannella e Leoluca Orlando. Insomma, ci siamo capiti: una bomba ambulante. Con lui lo spettacolo è sempre assicurato. La noia - principale caratteristica della politica, in Russia come in Italia - è eliminata.

Come Pertini, Eltsin capisce al volo l'umore della gente che ha di fronte, e trova sempre le parole giuste. Parole terra terra: è l'unico leader sovietico a non parlare in politichese. E come il nostro ex presidente, fa impazzire la scorta quando si immerge nella folla, il suo ambiente naturale.

In questo è differente da Michail Gorbaciov, i cui «colloqui col popolo» sono troppo spesso sapientemente filtrati dal servizio d'ordine. Inoltre, quando Boris si trova di fronte a un operaio, lo ascolta. Gorby invece lo affligge con un monologo prolisso pensando alla tv che inquadra la scena.

Come Pannella, il nuovo «zar della Russia» ama i gesti teatrali. Nei due anni in cui è stato segretario del partito comunista di Mosca (cioè sindaco) gli piaceva improvvisare incursioni nei negozi per scoprire di persona le magagne del mercato nero.

Una volta, nell'87, si mette in fila davanti a una macelleria e, arrivato al banco, ordina un chilo di vitello. «Non c'è», gli risponde stancamente il commesso. Allora Boris, sicuro del contrario, piomba in magazzino e blocca le fettine di vitello che stavano uscendo dal retro verso le dacie della nomenklatura.

Memorabile anche il suo abbandono pubblico del partito comunista in pieno congresso, l'anno scorso: ha attraversato l'immensa sala da solo, a passo lento, in mezzo a un silenzio glaciale e imbarazzato. «Beh», brontolò Gorbaciov, seccatissimo per la figuraccia in diretta tv davanti all'intera Unione Sovietica, «adesso possiamo continuare i lavori». E mezza Russia cambiò canale.

Anche il capo dei radicali russi, come quello italiano, si lamenta sempre per l'ostracismo dei giornalisti. In particolare nei primi mesi di quest'anno, quando i giornali ancora controllati dal partito comunista (quasi tutti, in barba alla glasnost) lo hanno bersagliato con una campagna diffamatoria.

Ma i russi, dopo settant'anni di «disinformazia», sanno leggere fra le righe: chi è attaccato dalla Pravda si guadagna automaticamente la reputazione di brav'uomo. Risultato: alle elezioni del 12 giugno 1991 Eltsin è diventato il primo presidente democraticamente eletto nella storia della Russia, con quasi il 60 per cento dei voti.

Come Leoluca Orlando, anche Corvo bianco (questo il suo soprannome) ha un ciuffo ribelle che gli casca sulla fronte. E pure lui è un ex sindaco estraneo all'apparato: quando fu nominato viveva solo da pochi mesi a Mosca, dove lo ha chiamato da Sverdlovsk Gorbaciov nell'85.

Anche lui è stato cacciato perché pestava i piedi dei potenti, ha abbandonato il suo partito (come Orlando la Dc) ed è stato rieletto trionfalmente dalla città che aveva cercato di ripulire: 89 per cento dei voti come deputato di Mosca nel marzo '89.

«Ho lottato contro la mafia, ma non sono riuscito a colpire i suoi collegamenti con la politica»: frase pronunciata da Eltsin, ma che a Palermo suona familiare. Nei suoi comizi Eltsin suda, ci mette foga e convinzione. Poca sostanza e nessuna concretezza, accusano all'unisono i critici di Boris e Leoluca. Tre parole magiche nella loro bocca: «Democrazia, libertà, pulizia».

Andiamo avanti con i paragoni. Come Ronald Reagan, Eltsin sbadiglia quando i suoi consulenti lo tediano con briefing sull'economia. «Però», si difende lui, «in un anno a Mosca sono riuscito a portare in tribunale 860 apparatchik accusati di corruzione: non è conreta economia, questa?»

Gorbaciov si lesse da cima a fondo le 400 pagine del piano Shatalin che l'anno scorso doveva riformare l'economia sovietica in 500 giorni. Ne discusse per sette ore con l'autore. Alla fine lo buttò nel cestino perché non piaceva ai conservatori. Eltsin invece ammette di non avere studiato il mattone. Però nella sua Russia il piano di liberalizzazione lo sta applicando.

Nei rapporti con le donne, Eltsin è paragonabile a John Kennedy: un mandrillo. Però più romantico: come tutti i russi, sommerge con innumerevoli mazzi di fiori le sue predilette. E poi è anche cardiopatico, ha 60 anni, non può permettersi grandi performances.

Naturalmente in pubblico giura eterno e fedele amore alla moglie Maia che gli ha dato due figlie. E che ha un grosso pregio, per un politico russo: è brutta. Molto più brutta di Raissa Gorbaciova, soprannominata con fastidio «la zarina» dalle invidiose matrone russe.

Per la sua capacità di risorgere sempre dopo sconfitte che avrebbero distrutto un toro, il paragone casereccio lo si può fare con Giulio Andreotti. Alla fine dell'87 fu cacciato non solo dalla poltrona di sindaco di Mosca, ma perse anche la sedia del Politburo. Fu allora che lo soprannominarono «kamikaze della perestroika».

Subì perfino l'umiliazione di vedere pubblicato sulla Pravda il resoconto dell'allucinante processo che gli fecero Gorbaciov e i gerarchi comunisti, in perfetto stile stalinista. Con tanto di autocritica estorta: «Sì è vero, mi ha rovinato l'ambizione».

Gorbaciov gliene ha fatte passare di tutti i colori. Adesso Eltsin si vendica. Ogni giorno lo bacchetta sulle dita, come prima Gorby faceva con lui. «In qualsiasi altro Paese del mondo Eltsin sarebbe da anni al governo. Ma l'Urss è un Paese particolare», ha scritto il Financial Times.

Eppure l'Ovest lo ha sempre snobbato. C'è un signore, in particolare, che adesso dovrebbe nascondersi per la vergogna. Si chiama Jean-Pierre Cot, francese, vicepresidente del parlamento europeo. Pochi mesi fa, quando Eltsin era già leader indiscusso della Russia, gli impedì di parlare di fronte all'Europarlamento. Lo trattò come un mendicante e un ubriacone.

Si dice che Eltsin non è amato dall'intellighenzia perché è un populista. Storie. Fior di intellettuali hanno abbandonato da mesi Gorbaciov per diventare suoi consiglieri: l'economista Oleg Bogomolov, la sociologa Tatiana Zaslavskaia e l'esperto di affari esteri Georgi Arbatov, tutti gorbacioviani schifati dagli alleati trogloditi che Gorby si era scelto.

«Il comunismo? Sì, in Unione sovietica c'è. Però funziona solo per venti persone: i membri del Politburo, quelli con la villa», ha scritto Eltsin nella sua autobiografia (Confessioni sul tema, tradotto in Italia dall'editore Leonardo).

«Quando mi hanno fatto entrare per la prima volta nella mia dacia a Mosca, nell'85, mi sono perso. Avevamo tre camerieri, tre cuochi, un giardiniere». L'ingegnere edile alto 1 e 88 calato dagli Urali ora si dovrà abituare a governare l'Urss (o almeno la Russia) tirandola fuori dal caos.

Mauro Suttora

Friday, January 18, 1991

Il Friuli per il federalismo

IL CONSIGLIO REGIONALE CONDANNA A MORTE LO STATO CENTRALISTA


“Federalismo”, è la parola d’ordine del presidente Adriano Biasutti. Un neoleghista? Macché. Vuole solo affettare l’Italia, per servirla con contorno di Verdi. Ma non a Bossi


dal nostro inviato a Udine Mauro Suttora


Europeo, 18 gennaio 1991


Ottimo, il prosciutto crudo di Sauris. Delizioso quanto quello di San Daniele, l’altro rinomato affettato friulano. Non per nulla Adriano Biasutti, presidente dc del Friuli-Venezia Giulia, si è rifugiato proprio nella sua casa di montagna in questo paesino della Carnia dopo le polemiche sulla sua ultima clamorosa presa di posizione. Che, sintetizzata e tradotta dal politichese, si può riassumere in: “Facciamo a fette la penisola”. Per affettare meglio la Lega lombarda, spera sotto sotto l’intelligente Biasutti.


Non sono solo manovre di salumeria. Perla prima volta nella storia d’Italia il 19 dicembre 1990 una regione ha chiesto solennemente la sepoltura dello Stato centralista dopo 130 anni di vita. Passando, ovviamente, anche per la liquidazione della Prima repubblica. “L’Italia deve diventare uno Stato federale”, proclama la mozione approvata dal consiglio regionale friulano, con il sì di Biasutti. 

Non è certo una secessione come quella appena decisa dai vicini del Friuli, gli sloveni, contro la loro capitale Belgrado. Ma, se la parola “federalismo” ha un senso, è comunque un’intera regione che passa dalla parte di Umberto Bossi.


Lo spumante natalizio ha messo un po’ il silenziatore a questa rivolta contro Roma dell’estrema “marca nordorientale”. Ma il fuoco cova sotto la cenere. E l’incendio si sta spostando dalla Lombardia, dove ormai un terzo degli elettori è con la Lega, a tutto il Nordest. 

Ecco cosa dichiara il presidente della giunta veneta Franco Cremonese, dc: “Aumenta la domanda di autonomia… Il centralismo è sempre più insufficiente, povero di idee, incapace”. E Umberto Carraro, psi, presidente del consiglio regionale veneto, propone di eliminare ministeri come la Pubblica istruzione e l’Agricoltura, trasferendone le competenze alle regioni. 

(...) 

Friday, November 03, 1989

Suttora e De Corato assolti

Corriere della Sera, 21 settembre 1993

Non diffamo' Properzj, assolto il missino De Corato

Si e' conclusa dopo quattro anni di denunce una guerra a colpi di carta bollata tra due esponenti politici milanesi. L' ottava sezione del tribunale ha infatti assolto dall' accusa di diffamazione a mezzo stampa il consigliere comunale del Msi Riccardo De Corato. L' esponente missino era stato querelato dall' ex presidente della Provincia, il repubblicano Giacomo Properzj, arrestato e poi rilasciato nell' ambito dell' inchiesta milanese sulle tangenti.

L' allora numero uno di Palazzo Isimbardi si era ritenuto diffamato dal contenuto di un' intervista rilasciata da De Corato e pubblicata sull' Europeo del 3 novembre 1989. Nel servizio il capogruppo missino aveva accusato Properzj di coprire con artifici contabili i buchi del bilancio dell' amministrazione provinciale, che . secondo la sua tesi . sarebbe quindi stato truccato. Nella causa erano coinvolti anche l' autore del servizio, Mauro Suttora, e l' allora direttore del settimanale, Lanfranco Vaccari, che avevano sottoscritto la remissione di querela.

De Corato aveva voluto il processo e ieri e' stato assolto perche' il fatto non costituisce reato. Il pubblico ministero, Gemma Gualdi, aveva chiesto la condanna di De Corato a un milione di multa. Il tribunale ha accolto le conclusioni dei difensori Ignazio La Russa e Adriano Bazzoni.