"È UN RISCHIO ANCHE PER L'ITALIA"
Il principe Idris Al Senussi, nipote del re deposto 42 anni fa, avverte: "Potrebbe finire in una carneficina. E i delinquenti verrebbero da noi"
di Mauro Suttora
Libero, 17 febbraio 2011
«Sono molto preoccupato. Se Gheddafi imbocca la strada del pugno di ferro, finirà in una carneficina. Non a casa i disordini sono scoppiati a Bengasi. C’è infatti il pericolo che sulla richiesta di libertà si sovrapponga anche un tentativo separatista da parte della Cirenaica contro la Tripolitania».
Il principe Idris Al Senussi, 54 anni, nipote dell’omonimo ultimo re di Libia rimosso 42 anni fa, è in partenza da Roma per Washington. Guida la potente corrente islamica moderata dei senussiti, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E i senussiti hanno la loro base proprio a Bengasi.
«Gheddafi non è stupido», dice Senussi a Libero, «ha capito che il vento sta cambiando e che ci vuole qualche apertura. Per questo ha da poco restituito qualche proprietà privata ai libici, fra cui anche diversi miei parenti senussiti. Ma se adesso copia Mubarak e, per contrastare i dimostranti, fa scendere in piazza dei picchiatori suoi sostenitori, si illude di poter risolvere le cose. Prima o poi, questione di settimane o mesi, la rivolta riprenderà».
C’è pericolo di estremismo islamico in Libia?
«Per ora no. Ma se Gheddafi rilascia, come ha annunciato, 110 prigionieri del Gruppo combattente islamico libico dal carcere di Abu Salim, vuol dire che cerca di creare il caos. E la cosa riguarda anche l’Italia, perché nei giorni scorsi pare abbia fatto attraversare la frontiera con la Tunisia da delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri libiche, che poi si sarebbero imbarcati verso Lampedusa dal porto tunisino di Zarzis».
Idris Senussi aveva 14 anni quando ci fu il golpe del 1969, e da allora non è più tornato in Libia. In questi decenni ha lavorato come finanziere e mediatore d’affari. Grazie alle sue conoscenze presso le famiglie regnanti arabe è stato consulente per Eni, Condotte e altre grandi aziende italiane con commesse in Medio Oriente. Suo padre era nipote e braccio destro del vecchio re Idris, che lo aveva indicato come erede al trono. Negli anni ’70 cercò di fare assassinare Gheddafi con l’operazione segreta “Hilton Assignment”, fallita perché i servizi segreti italiani avvisarono il dittatore libico.
Oggi anche un cugino di Idris, Muhammad, avanza dall’esilio di Londra pretese dinastiche. Ma Muhammad è troppo vicino agli islamici fanatici dell’Ikhwan. E questa scelta estremista lo ha messo ai margini del movimento senussita, che è invece aperto alla modernità.
Secondo Gregory Copley, del centro studi Defense & Foreign Affairs di Washington, il principe Idris Senussi potrebbe fungere da catalizzatore per una successione tranquilla a Gheddafi, che ormai ha 69 anni. Fino a poco tempo fa l’imprevedibile colonnello sembrava orientato a una soluzione dinastica, di cui avrebbe beneficiato il figlio Saif al-Islam. Ma anche Saif sarebbe troppo vicino agli estremisti islamici per i gusti del tradizionalista ma laico padre.
Qualcuno ipotizza per la Libia una soluzione «spagnola», come quella adottata nel 1975 per il pacifico passaggio di poteri dal generalissimo Franco alla monarchia costituzionale restaurata di re Juan Carlos.
Per questo il principe Al Senussi tiene bassi i toni, e il 4 febbraio ha lanciato un appello a Gheddafi affinché attui aperture politiche: «La grande novità delle rivoluzioni tunisina ed egiziana è che per la prima volta non si sono viste bandiere americane bruciate in piazza, né sentiti slogan contro Israele. Speriamo che Gheddafi capisca la nuova situazione, per non fare la fine di Ben Ali e di Mubarak».
Mauro Suttora
intervista Cnn 21.2.11
Thursday, February 17, 2011
Wednesday, February 16, 2011
Il no al burqa è di sinistra
Giorgio Oldrini, sindaco Pd di Sesto San Giovanni (Milano), proibisce il velo totale delle donne islamiche
Oggi, 4 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«Sono al massimo quattro le donne che vanno in giro col burqa nella nostra città. Ma è bene stabilire il principio: nei luoghi pubblici le donne hanno il diritto di non andare in giro velate».
Parola di Giorgio Oldrini, 64 anni, sindaco dell’ex bastione comunista alle porte di Milano, ancor oggi governato dal Pd. La sua adesione a una mozione della Lega nord fa notizia, perché lui è un ex comunista con i fiocchi: figlio del sindaco Pci partigiano e internato in lager nazista che governò Sesto dal 1946 al ‘62, corrispondente dell’Unità da Cuba, grande ammiratore di Che Guevara e di Fidel Castro... Qui nella sua stanza in municipio campeggia un grande ritratto di Marx.
«Però sotto, come vede, c’è un candelabro che mi è stato regalato dalla comunità islamica, con cui abbiamo un ottimo rapporto», dice.
E allora perché rovinarlo per una questione solo teorica? «Perché noi pratichiamo l’accoglienza, ma nel concreto. Siamo uno dei 40 comuni italiani - su 8 mila - che hanno un ufficio apposito per aiutare gli stranieri, nel 18 per cento delle nostre case comunali ci sono loro, e nel prossimo bando di assegnazione hanno il 44 per cento delle domande. Ma la solidarietà sta in piedi solo se c’è rispetto per le tradizioni e le conquiste civili, costate decenni di lotte. In Italia per arrivare alla parità tra uomo e donna abbiamo battagliato. Ci sono doveri nostri, ma anche doveri degli altri».
Sesto non è un posto qualunque. «Intanto, con i nostri 83 mila abitanti siamo la quinta città della Lombardia. Ci superano solo Milano, Brescia, Bergamo e Monza. E abbiamo il 14 per cento di stranieri, che salgono al 20 nelle scuole. Tutti arrivati negli ultimi 10-15 anni, quindi un’immigrazione biblica: fortissima e concentrata».
Che vi fa paura? «Assolutamente no. Anzi, ne siamo orgogliosi. Ma il peso dell’accoglienza qui grava sui pensionati ex operai, non su Tronchetti. Non siamo nel centro di Milano, dove vivono i ricchi. Quindi bisogna evitare paure e disagi».
Non è la prima volta che Oldrini prende provvedimenti controcorrente. Negli ultimi mesi, prima ha sistemato i ben tredici centri cinesi di «massaggi» sorti magicamente a Sesto negli ultimi tempi. Chiusura entro le dieci di sera, visto che gli orari li decide il sindaco. «Quanto ai controlli sulla prostituzione, competono alla polizia».
Poi è stata la volta del «muro anti-rom»: recintata un’area dismessa dove si erano accampati gli zingari. «I quali hanno la brutta abitudine di far chiedere la carità ai loro bimbi. È una di quelle tradizioni che bisogna superare, come l’infibulazione».
Chiamparino e Penati
Insomma, come Filippo Penati, suo predecessore sindaco di Sesto fino al 2001, e a Torino Sergio Chiamparino, Oldrini non ha paura di prendere decisioni «di destra». «In realtà concetti come legalità e dignità delle donne sono di sinistra. Dopodiché, offriamo 5 mila alloggi pubblici, otto asili nido, sei centri anziani, due case di riposo. E agli immigrati questo interessa».
Oldrini fu assunto da Carlo Rossella nel settimanale Panorama di Silvio Berlusconi durante gli anni ‘90: «Ma non ho mai sentito il suo fiato sul collo.
E ora si candida anche lei?
«A che cosa?»
A capo Pd. Lo fanno tutti...
«Mi va benissimo Bersani. Io sono rimasto vetero: il capo è uno solo. Quindi, disciplina». Come nelle strade di Sesto...
Mauro Suttora
Oggi, 4 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«Sono al massimo quattro le donne che vanno in giro col burqa nella nostra città. Ma è bene stabilire il principio: nei luoghi pubblici le donne hanno il diritto di non andare in giro velate».
Parola di Giorgio Oldrini, 64 anni, sindaco dell’ex bastione comunista alle porte di Milano, ancor oggi governato dal Pd. La sua adesione a una mozione della Lega nord fa notizia, perché lui è un ex comunista con i fiocchi: figlio del sindaco Pci partigiano e internato in lager nazista che governò Sesto dal 1946 al ‘62, corrispondente dell’Unità da Cuba, grande ammiratore di Che Guevara e di Fidel Castro... Qui nella sua stanza in municipio campeggia un grande ritratto di Marx.
«Però sotto, come vede, c’è un candelabro che mi è stato regalato dalla comunità islamica, con cui abbiamo un ottimo rapporto», dice.
E allora perché rovinarlo per una questione solo teorica? «Perché noi pratichiamo l’accoglienza, ma nel concreto. Siamo uno dei 40 comuni italiani - su 8 mila - che hanno un ufficio apposito per aiutare gli stranieri, nel 18 per cento delle nostre case comunali ci sono loro, e nel prossimo bando di assegnazione hanno il 44 per cento delle domande. Ma la solidarietà sta in piedi solo se c’è rispetto per le tradizioni e le conquiste civili, costate decenni di lotte. In Italia per arrivare alla parità tra uomo e donna abbiamo battagliato. Ci sono doveri nostri, ma anche doveri degli altri».
Sesto non è un posto qualunque. «Intanto, con i nostri 83 mila abitanti siamo la quinta città della Lombardia. Ci superano solo Milano, Brescia, Bergamo e Monza. E abbiamo il 14 per cento di stranieri, che salgono al 20 nelle scuole. Tutti arrivati negli ultimi 10-15 anni, quindi un’immigrazione biblica: fortissima e concentrata».
Che vi fa paura? «Assolutamente no. Anzi, ne siamo orgogliosi. Ma il peso dell’accoglienza qui grava sui pensionati ex operai, non su Tronchetti. Non siamo nel centro di Milano, dove vivono i ricchi. Quindi bisogna evitare paure e disagi».
Non è la prima volta che Oldrini prende provvedimenti controcorrente. Negli ultimi mesi, prima ha sistemato i ben tredici centri cinesi di «massaggi» sorti magicamente a Sesto negli ultimi tempi. Chiusura entro le dieci di sera, visto che gli orari li decide il sindaco. «Quanto ai controlli sulla prostituzione, competono alla polizia».
Poi è stata la volta del «muro anti-rom»: recintata un’area dismessa dove si erano accampati gli zingari. «I quali hanno la brutta abitudine di far chiedere la carità ai loro bimbi. È una di quelle tradizioni che bisogna superare, come l’infibulazione».
Chiamparino e Penati
Insomma, come Filippo Penati, suo predecessore sindaco di Sesto fino al 2001, e a Torino Sergio Chiamparino, Oldrini non ha paura di prendere decisioni «di destra». «In realtà concetti come legalità e dignità delle donne sono di sinistra. Dopodiché, offriamo 5 mila alloggi pubblici, otto asili nido, sei centri anziani, due case di riposo. E agli immigrati questo interessa».
Oldrini fu assunto da Carlo Rossella nel settimanale Panorama di Silvio Berlusconi durante gli anni ‘90: «Ma non ho mai sentito il suo fiato sul collo.
E ora si candida anche lei?
«A che cosa?»
A capo Pd. Lo fanno tutti...
«Mi va benissimo Bersani. Io sono rimasto vetero: il capo è uno solo. Quindi, disciplina». Come nelle strade di Sesto...
Mauro Suttora
Wednesday, February 09, 2011
parla il principe Idris Al Senussi
"ATTENTI, L'AFRICA È TUTTA IN FIAMME"
Prima intervista esclusiva con il nipote dell'ultimo re di Libia, estromesso dal golpe di Gheddafi nel 1969. Che avverte: "Le rivolte di Tunisia ed Egitto possono propagarsi anche a Libia e Algeria"
Oggi, 9 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«La maggioranza dei giovani tunisini ed egiziani, con grandi sacrifici loro e delle loro famiglie, hanno studiato, si sono laureati. Oppure hanno un diploma e un mestiere. Si informano, si confrontano col resto del mondo su internet. Insomma, sono moderni. Si accorgono che il mondo fa progressi, che i loro amici e parenti emigrati dall’altra parte del mare, anche in Italia, a poche decine di chilometri di distanza, stanno in un mondo dove ci sono diritti, speranze e benessere. Invece nei loro Paesi non trovano chi interpreta i loro bisogni. Nessuno si interessa a loro. Protestando dimostrano di amare i loro Paesi, che vorrebbero floridi e dove invece ristagna la povertà per molti e la ricchezza per pochissimi. Allora vanno in strada a chiedere cambiamenti. Così in Yemen, Algeria. E il disagio cova anche nella mia Libia».
Idris Al Senussi conosce bene il Nordafrica. Nipote dell’ultimo re di Libia, di cui porta il nome e che nel 1969 venne rimosso dal golpe di Muammar Gheddafi, ora vive fra Roma e Washington. Guida il movimento senussita: una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non musulmani, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E avverte: «I nostri giovani non hanno più pazienza. Hanno studiato, guardano Al Jazeera e le altre tv arabe e non, trovano su internet tutte le notizie che fino a pochi anni fa i regimi riuscivano a nascondere. Dobbiamo aiutarli affinché domani possano essere buoni dirigenti».
Non teme che succeda come nell’Iran del ’79, passato dallo Scià agli ayatollah fanatici e violenti? Oppure come a Gaza, dove le prime elezioni libere sono state vinte dagli estremisti di Hamas?
«Avete notato una cosa? Per la prima volta ci sono state manifestazioni di arabi senza una bandiera americana bruciata, o uno slogan contro Israele. Non danno più la colpa agli altri, non ci sono più capri espiatori. Come in tutti i Paesi civili, se le cose non vanno se la prendiamo con i propri governanti. E, se non fossero stati attaccati dai sostenitori di Mubarak, sarebbero stati cortei nonviolenti».
Perché le rivoluzioni sono scoppiate proprio adesso?
«Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, e non cinque anni prima o dopo. Ci sono tanti fattori. La crisi economica toglie letteralmente il pane di bocca alla gente, perché lo stipendio medio è di 200 euro al mese ma un chilo di pane costa due euro, quasi come in Europa. Wikileaks ha rivelato che gli americani disprezzano la gestione di quei governanti che loro stessi finanziano . In Tunisia la scintilla è stato il gesto del laureato che si è bruciato perché la polizia gli aveva sequestrato il carretto della frutta con cui manteneva la famiglia. Gli egiziani si sono mossi a loro volta vedendo che i tunisini hanno avuto successo. E l’effetto domino può continuare».
La Libia sembra tranquilla.
«Gheddafi sta al potere da 42 anni. È il governante autoritario più longevo del mondo. Quando il tempo al governo è molto lungo, si tende a perdere il contatto con la realtà e ad avere paura del cambiamento. La Libia ha molto petrolio e pochi abitanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati: quattro milioni contro gli 80 dell’Egitto. Eppure, invece di avere una ricchezza diffusa e prosperare, è ancora arretrata. Gheddafi ha preferito beneficiare più i suoi seguaci e parenti. Mi auguro che faccia tesoro dei cambiamenti che si annunciano, e che non governi ancora col pugno di ferro».
Che è usato anche in Egitto.
«Mubarak ha torturato gli oppositori in carcere per 30 anni, in Tunisia Ben Alì lo ha fatto per 24 anni. Mentre i cinesi sopportano la mancanza di libertà politica perché almeno garantisce loro ricchezza e sviluppo, da noi non c’è né libertà politica, né economica».
In Marocco c’è calma.
«Lì stanno meglio. C’è una monarchia parlamentare, ci sono partiti, giornali, c’è abbastanza libertà. Si è formata una classe media, una borghesia forte. Il giovane re sta facendo riforme. Insomma, esiste uno sbocco alle tensioni».
E in Libano?
«Bene o male quella è una democrazia, malgrado 17 diverse etnie religiose».
Che cosa può fare l’Italia?
«Aiutare Mubarak nella transizione a quella che potrebbe essere la più grande democrazia del mondo arabo. Quanto alla Libia, proprio quest’anno cade il centenario dell’invasione italiana. Mi auguro che Gheddafi, vedendo il vento di libertà che soffia sul Maghreb, compia dei passi e crei istituzioni che permettano il passaggio pacifico alla democrazia. Lui è intelligente, ha capito che ci vuole un’apertura. A dimostrazione di questo, da poco ha restituito qualche proprietà ai libici, tra i quali anche miei parenti senussiti. E sembra concedere qualche libertà nel campo del commercio».
Si candida a tornare in Libia?
«Tornerò se e quando arriverà il tempo giusto, e prego che sia vicino. Ma dobbiamo trovare tutti un percorso pacifico e ordinato».
Mauro Suttora
Prima intervista esclusiva con il nipote dell'ultimo re di Libia, estromesso dal golpe di Gheddafi nel 1969. Che avverte: "Le rivolte di Tunisia ed Egitto possono propagarsi anche a Libia e Algeria"
Oggi, 9 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«La maggioranza dei giovani tunisini ed egiziani, con grandi sacrifici loro e delle loro famiglie, hanno studiato, si sono laureati. Oppure hanno un diploma e un mestiere. Si informano, si confrontano col resto del mondo su internet. Insomma, sono moderni. Si accorgono che il mondo fa progressi, che i loro amici e parenti emigrati dall’altra parte del mare, anche in Italia, a poche decine di chilometri di distanza, stanno in un mondo dove ci sono diritti, speranze e benessere. Invece nei loro Paesi non trovano chi interpreta i loro bisogni. Nessuno si interessa a loro. Protestando dimostrano di amare i loro Paesi, che vorrebbero floridi e dove invece ristagna la povertà per molti e la ricchezza per pochissimi. Allora vanno in strada a chiedere cambiamenti. Così in Yemen, Algeria. E il disagio cova anche nella mia Libia».
Idris Al Senussi conosce bene il Nordafrica. Nipote dell’ultimo re di Libia, di cui porta il nome e che nel 1969 venne rimosso dal golpe di Muammar Gheddafi, ora vive fra Roma e Washington. Guida il movimento senussita: una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non musulmani, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E avverte: «I nostri giovani non hanno più pazienza. Hanno studiato, guardano Al Jazeera e le altre tv arabe e non, trovano su internet tutte le notizie che fino a pochi anni fa i regimi riuscivano a nascondere. Dobbiamo aiutarli affinché domani possano essere buoni dirigenti».
Non teme che succeda come nell’Iran del ’79, passato dallo Scià agli ayatollah fanatici e violenti? Oppure come a Gaza, dove le prime elezioni libere sono state vinte dagli estremisti di Hamas?
«Avete notato una cosa? Per la prima volta ci sono state manifestazioni di arabi senza una bandiera americana bruciata, o uno slogan contro Israele. Non danno più la colpa agli altri, non ci sono più capri espiatori. Come in tutti i Paesi civili, se le cose non vanno se la prendiamo con i propri governanti. E, se non fossero stati attaccati dai sostenitori di Mubarak, sarebbero stati cortei nonviolenti».
Perché le rivoluzioni sono scoppiate proprio adesso?
«Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, e non cinque anni prima o dopo. Ci sono tanti fattori. La crisi economica toglie letteralmente il pane di bocca alla gente, perché lo stipendio medio è di 200 euro al mese ma un chilo di pane costa due euro, quasi come in Europa. Wikileaks ha rivelato che gli americani disprezzano la gestione di quei governanti che loro stessi finanziano . In Tunisia la scintilla è stato il gesto del laureato che si è bruciato perché la polizia gli aveva sequestrato il carretto della frutta con cui manteneva la famiglia. Gli egiziani si sono mossi a loro volta vedendo che i tunisini hanno avuto successo. E l’effetto domino può continuare».
La Libia sembra tranquilla.
«Gheddafi sta al potere da 42 anni. È il governante autoritario più longevo del mondo. Quando il tempo al governo è molto lungo, si tende a perdere il contatto con la realtà e ad avere paura del cambiamento. La Libia ha molto petrolio e pochi abitanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati: quattro milioni contro gli 80 dell’Egitto. Eppure, invece di avere una ricchezza diffusa e prosperare, è ancora arretrata. Gheddafi ha preferito beneficiare più i suoi seguaci e parenti. Mi auguro che faccia tesoro dei cambiamenti che si annunciano, e che non governi ancora col pugno di ferro».
Che è usato anche in Egitto.
«Mubarak ha torturato gli oppositori in carcere per 30 anni, in Tunisia Ben Alì lo ha fatto per 24 anni. Mentre i cinesi sopportano la mancanza di libertà politica perché almeno garantisce loro ricchezza e sviluppo, da noi non c’è né libertà politica, né economica».
In Marocco c’è calma.
«Lì stanno meglio. C’è una monarchia parlamentare, ci sono partiti, giornali, c’è abbastanza libertà. Si è formata una classe media, una borghesia forte. Il giovane re sta facendo riforme. Insomma, esiste uno sbocco alle tensioni».
E in Libano?
«Bene o male quella è una democrazia, malgrado 17 diverse etnie religiose».
Che cosa può fare l’Italia?
«Aiutare Mubarak nella transizione a quella che potrebbe essere la più grande democrazia del mondo arabo. Quanto alla Libia, proprio quest’anno cade il centenario dell’invasione italiana. Mi auguro che Gheddafi, vedendo il vento di libertà che soffia sul Maghreb, compia dei passi e crei istituzioni che permettano il passaggio pacifico alla democrazia. Lui è intelligente, ha capito che ci vuole un’apertura. A dimostrazione di questo, da poco ha restituito qualche proprietà ai libici, tra i quali anche miei parenti senussiti. E sembra concedere qualche libertà nel campo del commercio».
Si candida a tornare in Libia?
«Tornerò se e quando arriverà il tempo giusto, e prego che sia vicino. Ma dobbiamo trovare tutti un percorso pacifico e ordinato».
Mauro Suttora
Assange come Vanunu?
La tremenda condanna che ha colpito il pacifista Mordechai Vanunu: 18 anni in carcere (11 in isolamento totale) per spionaggio. Aveva rivelato un segreto di Pulcinella: che Israele ha la bomba atomica
di Mauro Suttora
Oggi, 9 febbraio 2011
Altro che buona condotta e sconti di pena: non gli hanno abbuonato neanche un giorno di prigione. E lo hanno tenuto per ben 11 anni in isolamento. È questa la sorte capitata a Mordechai Vanunu, il pacifista oggi 56enne antesignano di Assange che 25 anni fa osò rivelare un segreto di Pulcinella: il possesso della bomba atomica da parte di Israele. Tutti lo sapevano, ma lui poté portare le prove perché di professione faceva il tecnico nucleare e lavorava nella centrale di Dimona.
Vanunu fu sequestrato nel 1986 da un commando del Mossad, i servizi segreti israeliani, con un'operazione segreta mentre si trovava a Roma, dove aveva seguito una bellissima ragazza che si rivelò un'agente segreto. Processato e condannato per alto tradimento, Vanunu ha scontato tutti i suoi 18 anni. È stato liberato nel 2004, ma ancora adesso non può lasciare Israele, non può parlare con cittadini stranieri, non può possedere né usare computer e telefoni cellulari, e se osa avvicinarsi a qualche ambasciata estera viene arrestato di nuovo. Amnesty International lo considera un perseguitato politico.
Gli Stati Uniti vorrebbero applicare ad Assange lo stesso trattamento riservato da Israele a Vanunu: processarlo per alto tradimento e rivelazione di segreti di Stato. Ma questo sembra giuridicamente impossibile, per due motivi: il capo di Wikileaks è cittadino australiano, quindi non ha obblighi particolari di lealtà verso gli Stati Uniti; e la costituzione americana tutela la libertà di parola e di stampa più della riservatezza statale. Quindi pare infondato il timore di Assange di venire estradato prima in Svezia (per una strana accusa di molestie sessuali da parte di due sue ex amanti consenzienti), poi negli Stati Uniti, dove rischierebbe molto di più.
di Mauro Suttora
Oggi, 9 febbraio 2011
Altro che buona condotta e sconti di pena: non gli hanno abbuonato neanche un giorno di prigione. E lo hanno tenuto per ben 11 anni in isolamento. È questa la sorte capitata a Mordechai Vanunu, il pacifista oggi 56enne antesignano di Assange che 25 anni fa osò rivelare un segreto di Pulcinella: il possesso della bomba atomica da parte di Israele. Tutti lo sapevano, ma lui poté portare le prove perché di professione faceva il tecnico nucleare e lavorava nella centrale di Dimona.
Vanunu fu sequestrato nel 1986 da un commando del Mossad, i servizi segreti israeliani, con un'operazione segreta mentre si trovava a Roma, dove aveva seguito una bellissima ragazza che si rivelò un'agente segreto. Processato e condannato per alto tradimento, Vanunu ha scontato tutti i suoi 18 anni. È stato liberato nel 2004, ma ancora adesso non può lasciare Israele, non può parlare con cittadini stranieri, non può possedere né usare computer e telefoni cellulari, e se osa avvicinarsi a qualche ambasciata estera viene arrestato di nuovo. Amnesty International lo considera un perseguitato politico.
Gli Stati Uniti vorrebbero applicare ad Assange lo stesso trattamento riservato da Israele a Vanunu: processarlo per alto tradimento e rivelazione di segreti di Stato. Ma questo sembra giuridicamente impossibile, per due motivi: il capo di Wikileaks è cittadino australiano, quindi non ha obblighi particolari di lealtà verso gli Stati Uniti; e la costituzione americana tutela la libertà di parola e di stampa più della riservatezza statale. Quindi pare infondato il timore di Assange di venire estradato prima in Svezia (per una strana accusa di molestie sessuali da parte di due sue ex amanti consenzienti), poi negli Stati Uniti, dove rischierebbe molto di più.
Assange aspetta il verdetto
Julian agli arresti domiciliari in inghilterra attende la sentenza sull'estradizione
Ha fatto tremare il mondo con le sue rivelazioni on line. Il dittatore della Tunisia è caduto anche grazie a lui. Ma ora il capo di Wikileaks teme un processo in Svezia. E intanto...
di Mauro Suttora
Oggi, 5 febbraio 2011
Il 7 febbraio il tribunale di Londra decide se estradare Julian Assange in Svezia. Il capo del sito Internet che rivela i segreti di Stato è accusato di molestie sessuali da due sue ex ammiratrici di Stoccolma, che lo hanno denunciato nonostante fossero andate volontariamente a letto con lui.
Dopo aver assaggiato il carcere di sua maestà, mister Wikileaks si trova da due mesi agli arresti domiciliari nella campagna inglese. Lo ospita nella propria tenuta di campagna un suo ricco fan, che lo aveva nascosto quando Assange era ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Ora il turbolento Julian, come si vede da queste foto, ha molto tempo a disposizione. Che impiega anche dando da mangiare alle galline nel pollaio, e rispondendo alle cartoline di auguri che gli arrivano dagli ammiratori. Niente di più lontano dall' immagine dell'hacker, del pirata supertecnologico circondato da fili e computer, che si era costruito finora.
Intanto, la guerra continua. Wikileaks, infatti, è stata colpita dalle società che raccoglievano le donazioni per finanziarla: su richiesta del governo statunitense, Visa, MasterCard, Paypal e Amazon hanno bloccato i flussi di denaro. Subito è scattata la vendetta degli hacker. Cinque di loro, giovanissimi (dai 15 ai 26 anni), sono stati arrestati in Gran Bretagna pochi giorni fa per una serie di attacchi informatici contro i siti «traditori». Sono accusati di appartenere al cyber-commando Anonymous, che ha compiuto assalti on line da diversi computer contemporaneamente, diffondendo un virus. Hanno bloccato anche il sito del governo svedese, colpevole di volere l'estradizione di Assange. Ora rischiano una condanna fino a 10 anni di carcere e 6 mila euro di multa. E il mese scorso anche in Olanda sono stati arrestati due adolescenti con accuse analoghe.
Intanto, le rivelazioni di Wikileaks hanno prodotto i primi effetti concreti. La rivolta popolare che ha cacciato il dittatore tunisino Ben Ali è stata provocata anche dalla diffusione delle frasi crude che l'ambasciatore americano a Tunisi aveva usato nel telex segreto di un suo rapporto a Washington: «Qui la famiglia del presidente è come una mafia, ruba e si appropria di tutto».
Sono tanti i governi, compreso quello italiano, messi in imbarazzo dalla pubblicazione di tutta la corrispondenza diplomatica riservata degli Usa. Perfino le «feste selvagge» di Silvio Berlusconi non sono sfuggite ai diplomatici americani, i quali ne avevano scrupolosamente riferito al Dipartimento di Stato (il loro ministero degli Esteri).
Denudata la diplomazia confidenziale del mondo intero grazie all'aiuto del soldatino ventenne americano Bradley Manning (che gli ha passato i documenti e ora rischia decine di anni di carcere per alto tradimento), Assange ha compiuto la sua mossa più intelligente. Ha offerto tutto lo scottante materiale ai giornali più prestigiosi del mondo( New York Times, Guardian, Spiegel, Le Monde, El Pais), rendendoli di fatto suoi complici.
Adesso il direttore del New York Times, Bill Keller, ha svelato i retroscena del suo rapporto con Assange. Mesi di lavoro segreto, i dubbi su cosa pubblicare e cosa no, le proteste dei lettori, alcuni dei quali contrariati dalle rivelazioni di documenti top secret. «Dall'odore, sembrava che non si fosse lavato da giorni», ha raccontato il direttore del New York Times. Poi la sua trasformazione in una celebrity che si comporta da grande seduttore e si descrive come il «grande burattinaio» della stampa. Keller rivela che Richard Holbrooke, il compianto plenipotenziario Usa in Iraq e Afghanistan morto da poco, a una festa gli aveva sussurrato che le indiscrezioni che il giornale stava per pubblicare avrebbero reso quasi impossibile il suo lavoro. Ma gli fece anche capire di comprendere le ragioni della stampa libera.
E ora le banche svizzere
Per Keller, Assange è «un Peter Pan imbevuto di teorie cospirative, arrogante, diffidente fino alla paranoia, ideologicamente motivato dal desiderio di colpire gli Usa. Somiglia a un personaggio dei thriller di Stieg Larsson». Adesso Assange minaccia di rivelare i segreti delle banche svizzere, con i nomi di tutti i miliardari evasori fiscali del mondo. Dice di possedere documenti segreti contro Rupert Murdoch, il magnate delle tv Sky e Fox. Presto Hollywood farà un film su di lui. Sarà la sua consacrazione definitiva.
Mauro Suttora
Ha fatto tremare il mondo con le sue rivelazioni on line. Il dittatore della Tunisia è caduto anche grazie a lui. Ma ora il capo di Wikileaks teme un processo in Svezia. E intanto...
di Mauro Suttora
Oggi, 5 febbraio 2011
Il 7 febbraio il tribunale di Londra decide se estradare Julian Assange in Svezia. Il capo del sito Internet che rivela i segreti di Stato è accusato di molestie sessuali da due sue ex ammiratrici di Stoccolma, che lo hanno denunciato nonostante fossero andate volontariamente a letto con lui.
Dopo aver assaggiato il carcere di sua maestà, mister Wikileaks si trova da due mesi agli arresti domiciliari nella campagna inglese. Lo ospita nella propria tenuta di campagna un suo ricco fan, che lo aveva nascosto quando Assange era ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Ora il turbolento Julian, come si vede da queste foto, ha molto tempo a disposizione. Che impiega anche dando da mangiare alle galline nel pollaio, e rispondendo alle cartoline di auguri che gli arrivano dagli ammiratori. Niente di più lontano dall' immagine dell'hacker, del pirata supertecnologico circondato da fili e computer, che si era costruito finora.
Intanto, la guerra continua. Wikileaks, infatti, è stata colpita dalle società che raccoglievano le donazioni per finanziarla: su richiesta del governo statunitense, Visa, MasterCard, Paypal e Amazon hanno bloccato i flussi di denaro. Subito è scattata la vendetta degli hacker. Cinque di loro, giovanissimi (dai 15 ai 26 anni), sono stati arrestati in Gran Bretagna pochi giorni fa per una serie di attacchi informatici contro i siti «traditori». Sono accusati di appartenere al cyber-commando Anonymous, che ha compiuto assalti on line da diversi computer contemporaneamente, diffondendo un virus. Hanno bloccato anche il sito del governo svedese, colpevole di volere l'estradizione di Assange. Ora rischiano una condanna fino a 10 anni di carcere e 6 mila euro di multa. E il mese scorso anche in Olanda sono stati arrestati due adolescenti con accuse analoghe.
Intanto, le rivelazioni di Wikileaks hanno prodotto i primi effetti concreti. La rivolta popolare che ha cacciato il dittatore tunisino Ben Ali è stata provocata anche dalla diffusione delle frasi crude che l'ambasciatore americano a Tunisi aveva usato nel telex segreto di un suo rapporto a Washington: «Qui la famiglia del presidente è come una mafia, ruba e si appropria di tutto».
Sono tanti i governi, compreso quello italiano, messi in imbarazzo dalla pubblicazione di tutta la corrispondenza diplomatica riservata degli Usa. Perfino le «feste selvagge» di Silvio Berlusconi non sono sfuggite ai diplomatici americani, i quali ne avevano scrupolosamente riferito al Dipartimento di Stato (il loro ministero degli Esteri).
Denudata la diplomazia confidenziale del mondo intero grazie all'aiuto del soldatino ventenne americano Bradley Manning (che gli ha passato i documenti e ora rischia decine di anni di carcere per alto tradimento), Assange ha compiuto la sua mossa più intelligente. Ha offerto tutto lo scottante materiale ai giornali più prestigiosi del mondo( New York Times, Guardian, Spiegel, Le Monde, El Pais), rendendoli di fatto suoi complici.
Adesso il direttore del New York Times, Bill Keller, ha svelato i retroscena del suo rapporto con Assange. Mesi di lavoro segreto, i dubbi su cosa pubblicare e cosa no, le proteste dei lettori, alcuni dei quali contrariati dalle rivelazioni di documenti top secret. «Dall'odore, sembrava che non si fosse lavato da giorni», ha raccontato il direttore del New York Times. Poi la sua trasformazione in una celebrity che si comporta da grande seduttore e si descrive come il «grande burattinaio» della stampa. Keller rivela che Richard Holbrooke, il compianto plenipotenziario Usa in Iraq e Afghanistan morto da poco, a una festa gli aveva sussurrato che le indiscrezioni che il giornale stava per pubblicare avrebbero reso quasi impossibile il suo lavoro. Ma gli fece anche capire di comprendere le ragioni della stampa libera.
E ora le banche svizzere
Per Keller, Assange è «un Peter Pan imbevuto di teorie cospirative, arrogante, diffidente fino alla paranoia, ideologicamente motivato dal desiderio di colpire gli Usa. Somiglia a un personaggio dei thriller di Stieg Larsson». Adesso Assange minaccia di rivelare i segreti delle banche svizzere, con i nomi di tutti i miliardari evasori fiscali del mondo. Dice di possedere documenti segreti contro Rupert Murdoch, il magnate delle tv Sky e Fox. Presto Hollywood farà un film su di lui. Sarà la sua consacrazione definitiva.
Mauro Suttora
Monday, February 07, 2011
I radicali salvano Berlusconi
Pannella stangherà i pm per conto del Cav
Sempre in bilico fra destra e sinistra, il leader radicale promette nove voti al premier
di Mauro Suttora
Libero, 7 febbraio 2011
Se Silvio Berlusconi cerca l'elisir della giovinezza, meglio Marco Pannella di Ruby. L’ottantunenne leader radicale esibisce l’energia di un ventenne, in questi giorni. Con la sua coda di cavallo bianca da capo indiano, è felice per essere tornato a fare notizia. E che notizia: sarà lui a nominare il prossimo ministro della Giustizia. Se Alfano diventerà coordinatore unico del Pdl, di fatto delfino di Berlusconi, il candidato potrebbe essere un «tecnico d’area radicale»: Mario Patrono, consigliere Csm di area socialista negli anni ‘90. Il quale in via Arenula si occuperà dei tre argomenti che stanno a cuore a Pannella: carceri, separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati (referendum vinto nell’87 sull’onda del caso Tortora, ma depotenziato da legge poco applicata).
In cambio, nelle votazioni topiche Berlusconi avrà nove voti in più: i sei radicali alla Camera, e i tre senatori. Difficile per Emma Bonino seguire Marco anche in questo suo ultimo giro di valzer: lei è vicepresidente del Senato, in quota centrosinistra. Con qualche obbligo in più verso chi l’ha eletta, quindi. Ma se Fini ha fatto il salto della quaglia, può farlo anche lei in direzione opposta. Magari astenendosi, oppure con qualche provvidenziale assenza. Già adesso Emma risulta fra i senatori meno presenti. Gli altri parlamentari radicali obbediranno, come sempre. Anche quelli col mal di pancia.
Sbaglia chi carica il «tradimento» radicale di significati politici. Come sempre, Pannella agisce soprattutto in base a umori personali. Gli dà fastidio che Bersani lo snobbi. Mentre lo hanno galvanizzato i due incontri personali con Berlusconi, e poi quello con Alfano.
Il premier è in difficoltà? In Pannella scatta immediatamente l’istinto della crocerossina: «Io ti salverò», gli promette hitchcockianamente. Lo aveva fatto anche con Craxi nel ‘93: «Consegnati, fatti incarcerare, stai in prigione qualche settimana, e alla fine verrai liberato a furor di popolo». Con tutti i parlamentari inquisiti di Tangentopoli, Marco si era dimostrato accogliente. Li aveva combattuti per trent’anni, democristi e socialisti, ma di fronte alla procura di Milano li aveva difesi, respingendo il voto anticipato che li privava dell’immunità: «Riuniamoci all’alba, resistiamo».
Anche adesso, gli piace apparire come il «salvatore». È tornato a fare il consigliere di Berlusconi, come ai bei tempi del ‘94-96, quando i radicali si allearono a Forza Italia. Poi una rottura parziale, quando non raggiunsero il quorum e rimasero fuori dal Parlamento per dieci anni (1996-2006). E una rottura totale nel 2000, dopo che la lista Bonino conquistò il 14 per cento al nord alle europee, ma Berlusconi la liquidò come «protesi di Pannella».
I radicali sono sempre stati in bilico fra destra e sinistra. Liberisti in economia, ma libertari sui diritti civili. Portafogli a destra, cuore a sinistra. Sessant’anni fa Pannella cominciò nella corrente di sinistra del partito liberale con Eugenio Scalfari. Assieme fondarono il partito radicale nel ‘55, per separarsi sette anni dopo: Scalfari guardava al Psi, Pannella al Pci.
Fino al ‘92 i radicali sono rimasti a sinistra. Poi hanno svoltato a destra organizzando referendum liberisti con la Lega Nord, cui aderì anche Berlusconi. Il ritorno a sinistra è del 2006, dopo il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Si allearono con i socialisti, riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno, ma non andarono oltre il tre per cento. Nel 2008 Veltroni rifiutò di l’”apparentamento” con loro (come con Rifondazione), costringendoli a un’umiliante contrattazione di posti all’interno delle liste Pd. Ancor peggio l’anno dopo, quando Franceschini li cancellò anche dall’Europarlamento alzando la soglia-ghigliottina al 4 per cento.
L’orgoglioso Pannella non ha dimenticato gli affronti degli «imbecilli del loft», e ora gliela fa pagare.
Con Bersani i rapporti sono rimasti agrodolci fino a poche settimane fa. Il capo Pd ha incontrato Pannella prima del 14 dicembre, quando già c’erano le avvisaglie del cambiamento con i primi abboccamenti dei radicali col centrodestra. Si è sorbito due ore di incontro, in cui ha parlato quasi sempre Pannella. Ma i radicali ce l’hanno con lui perché non li ha appoggiati nella loro battaglia contro le firme false di Formigoni alle regionali della Lombardia la scorsa primavera. «E quando cerchiamo di parlare di giustizia con il Pd, come interlocutori troviamo solo magistrati», si lamenta il deputato radicale Marco Beltrandi.
Ora una cosa è sicura: alle prossime elezioni sarà difficile che il Pd offra nove seggi ai radicali. Fa niente: Pannella li otterrà dal Pdl. Si ritroverà con Daniele Capezzone, suo delfino fino al 2007. E a chi lo accusa di trasformismo, risponde sorridendo: «Omnia immunda immundis. Io lotto per il bene del Paese».
Sempre in bilico fra destra e sinistra, il leader radicale promette nove voti al premier
di Mauro Suttora
Libero, 7 febbraio 2011
Se Silvio Berlusconi cerca l'elisir della giovinezza, meglio Marco Pannella di Ruby. L’ottantunenne leader radicale esibisce l’energia di un ventenne, in questi giorni. Con la sua coda di cavallo bianca da capo indiano, è felice per essere tornato a fare notizia. E che notizia: sarà lui a nominare il prossimo ministro della Giustizia. Se Alfano diventerà coordinatore unico del Pdl, di fatto delfino di Berlusconi, il candidato potrebbe essere un «tecnico d’area radicale»: Mario Patrono, consigliere Csm di area socialista negli anni ‘90. Il quale in via Arenula si occuperà dei tre argomenti che stanno a cuore a Pannella: carceri, separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati (referendum vinto nell’87 sull’onda del caso Tortora, ma depotenziato da legge poco applicata).
In cambio, nelle votazioni topiche Berlusconi avrà nove voti in più: i sei radicali alla Camera, e i tre senatori. Difficile per Emma Bonino seguire Marco anche in questo suo ultimo giro di valzer: lei è vicepresidente del Senato, in quota centrosinistra. Con qualche obbligo in più verso chi l’ha eletta, quindi. Ma se Fini ha fatto il salto della quaglia, può farlo anche lei in direzione opposta. Magari astenendosi, oppure con qualche provvidenziale assenza. Già adesso Emma risulta fra i senatori meno presenti. Gli altri parlamentari radicali obbediranno, come sempre. Anche quelli col mal di pancia.
Sbaglia chi carica il «tradimento» radicale di significati politici. Come sempre, Pannella agisce soprattutto in base a umori personali. Gli dà fastidio che Bersani lo snobbi. Mentre lo hanno galvanizzato i due incontri personali con Berlusconi, e poi quello con Alfano.
Il premier è in difficoltà? In Pannella scatta immediatamente l’istinto della crocerossina: «Io ti salverò», gli promette hitchcockianamente. Lo aveva fatto anche con Craxi nel ‘93: «Consegnati, fatti incarcerare, stai in prigione qualche settimana, e alla fine verrai liberato a furor di popolo». Con tutti i parlamentari inquisiti di Tangentopoli, Marco si era dimostrato accogliente. Li aveva combattuti per trent’anni, democristi e socialisti, ma di fronte alla procura di Milano li aveva difesi, respingendo il voto anticipato che li privava dell’immunità: «Riuniamoci all’alba, resistiamo».
Anche adesso, gli piace apparire come il «salvatore». È tornato a fare il consigliere di Berlusconi, come ai bei tempi del ‘94-96, quando i radicali si allearono a Forza Italia. Poi una rottura parziale, quando non raggiunsero il quorum e rimasero fuori dal Parlamento per dieci anni (1996-2006). E una rottura totale nel 2000, dopo che la lista Bonino conquistò il 14 per cento al nord alle europee, ma Berlusconi la liquidò come «protesi di Pannella».
I radicali sono sempre stati in bilico fra destra e sinistra. Liberisti in economia, ma libertari sui diritti civili. Portafogli a destra, cuore a sinistra. Sessant’anni fa Pannella cominciò nella corrente di sinistra del partito liberale con Eugenio Scalfari. Assieme fondarono il partito radicale nel ‘55, per separarsi sette anni dopo: Scalfari guardava al Psi, Pannella al Pci.
Fino al ‘92 i radicali sono rimasti a sinistra. Poi hanno svoltato a destra organizzando referendum liberisti con la Lega Nord, cui aderì anche Berlusconi. Il ritorno a sinistra è del 2006, dopo il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Si allearono con i socialisti, riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno, ma non andarono oltre il tre per cento. Nel 2008 Veltroni rifiutò di l’”apparentamento” con loro (come con Rifondazione), costringendoli a un’umiliante contrattazione di posti all’interno delle liste Pd. Ancor peggio l’anno dopo, quando Franceschini li cancellò anche dall’Europarlamento alzando la soglia-ghigliottina al 4 per cento.
L’orgoglioso Pannella non ha dimenticato gli affronti degli «imbecilli del loft», e ora gliela fa pagare.
Con Bersani i rapporti sono rimasti agrodolci fino a poche settimane fa. Il capo Pd ha incontrato Pannella prima del 14 dicembre, quando già c’erano le avvisaglie del cambiamento con i primi abboccamenti dei radicali col centrodestra. Si è sorbito due ore di incontro, in cui ha parlato quasi sempre Pannella. Ma i radicali ce l’hanno con lui perché non li ha appoggiati nella loro battaglia contro le firme false di Formigoni alle regionali della Lombardia la scorsa primavera. «E quando cerchiamo di parlare di giustizia con il Pd, come interlocutori troviamo solo magistrati», si lamenta il deputato radicale Marco Beltrandi.
Ora una cosa è sicura: alle prossime elezioni sarà difficile che il Pd offra nove seggi ai radicali. Fa niente: Pannella li otterrà dal Pdl. Si ritroverà con Daniele Capezzone, suo delfino fino al 2007. E a chi lo accusa di trasformismo, risponde sorridendo: «Omnia immunda immundis. Io lotto per il bene del Paese».
Saturday, February 05, 2011
La talpa più grande del mondo
Questa fresa è da record
Maxiopere: così nasce la nuova galleria dell'autostrada Bologna-Firenze
È più alta di un palazzo di cinque piani. Non si può trasportare dalla Germania via terra: per scavare l'Appennino ha dovuto fare il periplo dell' Europa... Appuntamento al 2013
di Mauro Suttora
Oggi, 4 febbraio 2011
Alzi la mano chi non ha sofferto andando in auto da Bologna a Firenze, sull'Autosole. Le 90 mila auto e soprattutto Tir che ci passano ogni giorno fanno di questi 80 chilometri una delle autostrade più intasate del mondo. Ma un altro record mondiale sta per essere battuto da queste parti. A perforare la galleria Sparvo della nuova Variante di valico sta per arrivare la maxifresa più grande della Terra. Con i suoi 15 metri e 62 centimetri di diametro ha battuto di un metro quella che sta scavando un tunnel idroelettrico sotto le cascate del Niagara. «E supera di venti centimetri anche la talpa che abbiamo mandato a Shanghai», dicono alla Herrenknecht, la società tedesca che costruisce questi giganti, «ma lì il terreno da perforare è sabbioso». Sotto l'Appennino, invece, la talpona avrà a che fare con roccia dura.
«Ma riuscirà ad avanzare al ritmo di dieci metri al giorno, contro i 15 al mese dei metodi tradizionali», dicono alla Toto di Chieti, l'impresa costruttrice che ha comprato questa meraviglia al prezzo di 53 milioni di euro. Così i cinque chilometri della galleria (2.500 metri per ciascun senso di marcia) verranno ultimati in 500 giorni, e potremo percorrere la nuova Bologna-Firenze nel 2013. Ma c' è un' altra impresa in corso proprio in questi giorni. La maxitalpa, infatti, è così grande e pesante (4.300 tonnellate) che non è trasportabile attraverso i valichi alpini, né ferroviari né stradali.
Quindi, per arrivare in Italia dalla fabbrica tedesca di Schwanau, vicino alla Foresta Nera, ha fatto un giro dell' oca che l'ha portata a imbarcarsi nel porto belga di Anversa. Ora, dopo aver circumnavigato l'Europa, è arrivata nel porto di Ravenna. E da lì lo scudo frontale (separabile dal resto della fresa, lungo 120 metri) verrà trasportato fino all' imbocco della galleria dal lato nord. Dopo questa faticosissima installazione, sarà pronta a lavorare a maggio.
Il nome ufficiale della talpa è Tbm: Tunnel boring machine. Non si limita a scavare la galleria: subito dopo mette in posa le centine prefabbricate di cemento armato che foderano il tunnel. Lo scavo della galleria Sparvo è particolarmente complesso, perché i prospetti geologici hanno evidenziato la possibile presenza di zone con presenza di miscele gassose. È il famigerato «grisù», che esplodendo ha provocato centinaia di vittime nelle miniere di tutto il mondo.
La maxi talpa lavora nella massima sicurezza, perché la testa di scavo agisce all' interno di una camera chiusa e sigillata. Questo permette ai minatori di lavorare al riparo, all' interno dello scudo. La fresa viene controllata da un operatore specializzato che si trova all'interno di una cabina di pilotaggio e che, grazie a speciali monitor e sistemi computerizzati, è in grado di «guidare» lo scavo con precisione millimetrica. La testa dello scudo è attrezzata con denti e dischi ( cutter ) che rompono la roccia e portano il materiale nella camera di scavo posteriore. Qui la rimozione del materiale avviene in automatico attraverso un nastro trasportatore che lo trasferisce all'esterno della galleria.
Il rivestimento del tunnel, infine, viene posizionato da un robot radiocomandato da un tecnico, ed è attrezzato con guarnizioni che garantiscono la tenuta all'acqua e al gas. Per aumentare i parametri di sicurezza, oltre alla sigillatura del fronte di scavo, è stata incapsulata anche la catena di trasporto del materiale, in modo da evitare ogni propagazione di gas nelle zone dove lavorano gli addetti. C'è anche una rete di controllo dell' atmosfera sia nella zona incapsulata sia in tutte le aree del talpone, per intervenire immediatamente nel caso di rilevamento di gas e di superamento delle soglie di allarme.
Pronta dopo 17 anni
La Variante di valico Bologna-Firenze ha avuto una storia tormentata. Decisa nel 1996, i lavori sono iniziati soltanto nel 2002 nel tratto di Sasso Marconi, e due anni dopo in quello di montagna. Il costo finale sarà enorme: 3,6 miliardi di euro.
Mauro Suttora
Maxiopere: così nasce la nuova galleria dell'autostrada Bologna-Firenze
È più alta di un palazzo di cinque piani. Non si può trasportare dalla Germania via terra: per scavare l'Appennino ha dovuto fare il periplo dell' Europa... Appuntamento al 2013
di Mauro Suttora
Oggi, 4 febbraio 2011
Alzi la mano chi non ha sofferto andando in auto da Bologna a Firenze, sull'Autosole. Le 90 mila auto e soprattutto Tir che ci passano ogni giorno fanno di questi 80 chilometri una delle autostrade più intasate del mondo. Ma un altro record mondiale sta per essere battuto da queste parti. A perforare la galleria Sparvo della nuova Variante di valico sta per arrivare la maxifresa più grande della Terra. Con i suoi 15 metri e 62 centimetri di diametro ha battuto di un metro quella che sta scavando un tunnel idroelettrico sotto le cascate del Niagara. «E supera di venti centimetri anche la talpa che abbiamo mandato a Shanghai», dicono alla Herrenknecht, la società tedesca che costruisce questi giganti, «ma lì il terreno da perforare è sabbioso». Sotto l'Appennino, invece, la talpona avrà a che fare con roccia dura.
«Ma riuscirà ad avanzare al ritmo di dieci metri al giorno, contro i 15 al mese dei metodi tradizionali», dicono alla Toto di Chieti, l'impresa costruttrice che ha comprato questa meraviglia al prezzo di 53 milioni di euro. Così i cinque chilometri della galleria (2.500 metri per ciascun senso di marcia) verranno ultimati in 500 giorni, e potremo percorrere la nuova Bologna-Firenze nel 2013. Ma c' è un' altra impresa in corso proprio in questi giorni. La maxitalpa, infatti, è così grande e pesante (4.300 tonnellate) che non è trasportabile attraverso i valichi alpini, né ferroviari né stradali.
Quindi, per arrivare in Italia dalla fabbrica tedesca di Schwanau, vicino alla Foresta Nera, ha fatto un giro dell' oca che l'ha portata a imbarcarsi nel porto belga di Anversa. Ora, dopo aver circumnavigato l'Europa, è arrivata nel porto di Ravenna. E da lì lo scudo frontale (separabile dal resto della fresa, lungo 120 metri) verrà trasportato fino all' imbocco della galleria dal lato nord. Dopo questa faticosissima installazione, sarà pronta a lavorare a maggio.
Il nome ufficiale della talpa è Tbm: Tunnel boring machine. Non si limita a scavare la galleria: subito dopo mette in posa le centine prefabbricate di cemento armato che foderano il tunnel. Lo scavo della galleria Sparvo è particolarmente complesso, perché i prospetti geologici hanno evidenziato la possibile presenza di zone con presenza di miscele gassose. È il famigerato «grisù», che esplodendo ha provocato centinaia di vittime nelle miniere di tutto il mondo.
La maxi talpa lavora nella massima sicurezza, perché la testa di scavo agisce all' interno di una camera chiusa e sigillata. Questo permette ai minatori di lavorare al riparo, all' interno dello scudo. La fresa viene controllata da un operatore specializzato che si trova all'interno di una cabina di pilotaggio e che, grazie a speciali monitor e sistemi computerizzati, è in grado di «guidare» lo scavo con precisione millimetrica. La testa dello scudo è attrezzata con denti e dischi ( cutter ) che rompono la roccia e portano il materiale nella camera di scavo posteriore. Qui la rimozione del materiale avviene in automatico attraverso un nastro trasportatore che lo trasferisce all'esterno della galleria.
Il rivestimento del tunnel, infine, viene posizionato da un robot radiocomandato da un tecnico, ed è attrezzato con guarnizioni che garantiscono la tenuta all'acqua e al gas. Per aumentare i parametri di sicurezza, oltre alla sigillatura del fronte di scavo, è stata incapsulata anche la catena di trasporto del materiale, in modo da evitare ogni propagazione di gas nelle zone dove lavorano gli addetti. C'è anche una rete di controllo dell' atmosfera sia nella zona incapsulata sia in tutte le aree del talpone, per intervenire immediatamente nel caso di rilevamento di gas e di superamento delle soglie di allarme.
Pronta dopo 17 anni
La Variante di valico Bologna-Firenze ha avuto una storia tormentata. Decisa nel 1996, i lavori sono iniziati soltanto nel 2002 nel tratto di Sasso Marconi, e due anni dopo in quello di montagna. Il costo finale sarà enorme: 3,6 miliardi di euro.
Mauro Suttora
Wednesday, February 02, 2011
Marina Berlusconi in politica?
Oggi, 24 gennaio 2011
di Mauro Suttora
E dopo vent’anni di Silvio Berlusconi, altri venti con sua figlia Marina? Fino a poche settimane fa, nessuno pensava che la primogenita 44enne del premier potesse darsi alla politica. Ma negli ultimi giorni la crisi del Rubygate ha dato un’accelerata a tutto. Compresa l’ipotesi di un passo indietro di Silvio, compensato da una simultanea discesa in campo di Marina.
Lo auspica a tutta prima pagina il Giornale, quotidiano di famiglia. Ma già a novembre l’attuale direttore, Alessandro Sallusti, aveva dichiarato: «È lei l’unica che può continuare la rivoluzione». Marina infatti, abbandonando la ritrosia a occuparsi di politica, aveva caricato a testa bassa contro il finiano Italo Bocchino che accusava Berlusconi di considerare palazzo Chigi «casa propria»: «Mio padre di case ne ha abbastanza, e le ha comprate con soldi suoi. Non certo con quelli del partito…». Il riferimento è all’appartamento di Montecarlo in cui si è installato il fratello della compagna di Gianfranco Fini.
Ancor più violento e improvviso, ed estraneo quindi allo stile felpato e meditato sfoggiato finora da Marina, l’attacco allo scrittore Roberto Saviano. Il quale ha dedicato una sua laurea «honoris causa» ai magistrati di Milano che accusano Berlusconi per prostituzione minorile e concussione. «Mi fa letteralmente orrore che Saviano calpesti e rinneghi tutto quello per cui ha sempre proclamato di battersi: il rispetto della libertà, della legalità e della dignità delle persone», ha dichiarato la figlia.
Non è la prima volta che Marina si scontra con Saviano, il quale pubblica i suoi libri con la Mondadori, di cui lei è presidente. Lo scorso aprile Berlusconi criticò l’autore di Gomorra perché scrivendo di mafia farebbe cattiva pubblicità all’Italia. Saviano gli replicò, ma Marina lo fulminò: «Saviano non riesce a distinguere fra una libera critica e una censura».
E adesso? Veramente lo scettro anche politico dell’impero berlusconiano sta per passare alla erede? Magari in cambio dell’accettazione da parte di Silvio di un governo Letta-Tremonti, di un seggio da senatore a vita per se stesso (con annesse garanzie giudiziarie) e l’assicurazione che le sue aziende non verranno smembrate?
Non sono molte le figlie di politici che cercano di raccogliere l’eredità dei genitori. L’ultima è, proprio in questi giorni, la figlia di Jean-Marie Le Pen, guarda caso un’altra Marina. Il presidente 82enne del Front National l’ha fatta eleggere eurodeputata, e ora le ha affidato il partito di estrema destra. Ma la Marina parigina era già vicepresidente del partito da otto anni.
Nulla, invece, indica una propensione della figlia di Berlusconi per la politica. Entrata in punta di piedi alla Fininvest senza laurearsi, a 29 anni Marina ne diventa vicepresidente. Nel 2005, quando l’avvocato Aldo Bonomo muore, presidente. Ma si tratta dell’azienda capogruppo di famiglia: naturale che ne venga assicurata la successione dinastica.
Un’altra morte prematura proietta Marina in cima alla Mondadori: quella del presidente Leonardo, cui subentra nel 2003. A quel punto, il futuro è chiaro. I due figli di primo letto di Berlusconi si sono divisi l’impero mediatico da quasi sei miliardi di fatturato: a Pier Silvio le tv Mediaset, a Marina libri e giornali. L’incoronazione definitiva arriva con l’ingresso nella classifica Forbes delle donne più ricche e potenti del pianeta, e nel consiglio d’amministrazione di Mediobanca (che ha fra le sue partecipate anche Rizzoli Corriere della Sera, e quindi il giornale che state leggendo).
Le riviste di famiglia, intanto, cominciano a pompare l’immagine di Marina. Il settimanale Chi pochi mesi fa ha pubblicato sue foto fintamente «rubate» a seno nudo, in cui lei espone il nuovo petto rifatto. Sposata con il ballerino Maurizio Vanadia, ex compagno del suo chirurgo plastico Angelo Villa, ne ha avuto due figli: Gabriele, 8 anni, e Silvio, 6.
Rimangono per ora fuori dalla spartizione i tre figli del secondo matrimonio di Silvio con Veronica Lario. Ed è questo, forse, il fronte più delicato. La combattiva Barbara, infatti, ha detto che vorrebbe lavorare pure lei in Mondadori. E, affetti filiali a parte, sembra vicina più alle idee politiche progressiste della madre che a quelle di centrodestra del padre.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
E dopo vent’anni di Silvio Berlusconi, altri venti con sua figlia Marina? Fino a poche settimane fa, nessuno pensava che la primogenita 44enne del premier potesse darsi alla politica. Ma negli ultimi giorni la crisi del Rubygate ha dato un’accelerata a tutto. Compresa l’ipotesi di un passo indietro di Silvio, compensato da una simultanea discesa in campo di Marina.
Lo auspica a tutta prima pagina il Giornale, quotidiano di famiglia. Ma già a novembre l’attuale direttore, Alessandro Sallusti, aveva dichiarato: «È lei l’unica che può continuare la rivoluzione». Marina infatti, abbandonando la ritrosia a occuparsi di politica, aveva caricato a testa bassa contro il finiano Italo Bocchino che accusava Berlusconi di considerare palazzo Chigi «casa propria»: «Mio padre di case ne ha abbastanza, e le ha comprate con soldi suoi. Non certo con quelli del partito…». Il riferimento è all’appartamento di Montecarlo in cui si è installato il fratello della compagna di Gianfranco Fini.
Ancor più violento e improvviso, ed estraneo quindi allo stile felpato e meditato sfoggiato finora da Marina, l’attacco allo scrittore Roberto Saviano. Il quale ha dedicato una sua laurea «honoris causa» ai magistrati di Milano che accusano Berlusconi per prostituzione minorile e concussione. «Mi fa letteralmente orrore che Saviano calpesti e rinneghi tutto quello per cui ha sempre proclamato di battersi: il rispetto della libertà, della legalità e della dignità delle persone», ha dichiarato la figlia.
Non è la prima volta che Marina si scontra con Saviano, il quale pubblica i suoi libri con la Mondadori, di cui lei è presidente. Lo scorso aprile Berlusconi criticò l’autore di Gomorra perché scrivendo di mafia farebbe cattiva pubblicità all’Italia. Saviano gli replicò, ma Marina lo fulminò: «Saviano non riesce a distinguere fra una libera critica e una censura».
E adesso? Veramente lo scettro anche politico dell’impero berlusconiano sta per passare alla erede? Magari in cambio dell’accettazione da parte di Silvio di un governo Letta-Tremonti, di un seggio da senatore a vita per se stesso (con annesse garanzie giudiziarie) e l’assicurazione che le sue aziende non verranno smembrate?
Non sono molte le figlie di politici che cercano di raccogliere l’eredità dei genitori. L’ultima è, proprio in questi giorni, la figlia di Jean-Marie Le Pen, guarda caso un’altra Marina. Il presidente 82enne del Front National l’ha fatta eleggere eurodeputata, e ora le ha affidato il partito di estrema destra. Ma la Marina parigina era già vicepresidente del partito da otto anni.
Nulla, invece, indica una propensione della figlia di Berlusconi per la politica. Entrata in punta di piedi alla Fininvest senza laurearsi, a 29 anni Marina ne diventa vicepresidente. Nel 2005, quando l’avvocato Aldo Bonomo muore, presidente. Ma si tratta dell’azienda capogruppo di famiglia: naturale che ne venga assicurata la successione dinastica.
Un’altra morte prematura proietta Marina in cima alla Mondadori: quella del presidente Leonardo, cui subentra nel 2003. A quel punto, il futuro è chiaro. I due figli di primo letto di Berlusconi si sono divisi l’impero mediatico da quasi sei miliardi di fatturato: a Pier Silvio le tv Mediaset, a Marina libri e giornali. L’incoronazione definitiva arriva con l’ingresso nella classifica Forbes delle donne più ricche e potenti del pianeta, e nel consiglio d’amministrazione di Mediobanca (che ha fra le sue partecipate anche Rizzoli Corriere della Sera, e quindi il giornale che state leggendo).
Le riviste di famiglia, intanto, cominciano a pompare l’immagine di Marina. Il settimanale Chi pochi mesi fa ha pubblicato sue foto fintamente «rubate» a seno nudo, in cui lei espone il nuovo petto rifatto. Sposata con il ballerino Maurizio Vanadia, ex compagno del suo chirurgo plastico Angelo Villa, ne ha avuto due figli: Gabriele, 8 anni, e Silvio, 6.
Rimangono per ora fuori dalla spartizione i tre figli del secondo matrimonio di Silvio con Veronica Lario. Ed è questo, forse, il fronte più delicato. La combattiva Barbara, infatti, ha detto che vorrebbe lavorare pure lei in Mondadori. E, affetti filiali a parte, sembra vicina più alle idee politiche progressiste della madre che a quelle di centrodestra del padre.
Mauro Suttora
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