Saturday, December 15, 1984

Energia solare? No, grazie

Riscaldamento: gli italiani non vogliono risparmiare

di Mauro Suttora

C'erano 54 miliardi a disposizione di chi voleva installare pannelli solari per avere acqua calda gratuita. Ecco come burocrazia, impreparazione e dilettantismo hanno fatto fallire il piano

Europeo, 15 dicembre 1984



 

Saturday, September 08, 1984

Uganda: era meglio Amin Dada?

Stragi con 330mila morti, dice l'opposizione. Quindicimila, ammette il governo. Un fatto è certo: dopo quattro anni di apparente democrazia, regna sempre il terrore

di Mauro Suttora

Europeo, 8 settembre 1984


 

Saturday, August 18, 1984

Sovrappopolazione mondiale: esplodono le megalopoli

 LA TERRA È PICCOLA PER NOI

Nascono due bambini ogni secondo. Nel Duemila saremo sei miliardi. Città del Messico sfiorerà i trenta milioni di abitanti. Il nostro sarà ancora un pianeta vivibile? E, soprattutto, come sarà la qualità della vita nel Terzo mondo?

di Mauro Suttora

Europeo, 18 agosto 1984





























































Per la seconda Conferenza mondiale sulla popolazione, organizzata a dieci anni esatti di distanza dalla prima a Bucarest, l'Onu non poteva scegliere un posto migliore: Città del Messico, 15 milioni di abitanti, il simbolo del disastro demografico mondiale. Nel 1990 supererà Tokyo come prima megalopoli della Terra, e nel 2000 la sua zona metropolitana avrà 28 milioni di abitanti.

A pochi metri di distanza dal palazzo dove la conferenza si è aperta il 6 agosto ci sono i milioni di contadini spinti in città dalla fame, che nella città trovano soltanto altra miseria, malattie e un giaciglio maleodorante sotto una tettoia di plastica. Il Cairo, Lagos, Calcutta: tutte le capitali dei Paesi poveri stanno esplodendo. A Rio de Janeiro, la favolosa Rio di Copacabana e del Pan di Zucchero, può capitare che ti piantino un coltello nella schiena se rifiuti di consegnare il portafogli a una delle centinaia di bande di diseredati che scorrazzano per la città. Così i 'poveri' si materializzano per i turisti occidentali: non sono più gli improbabili fantasmi che languono in un lontano deserto del Sahel.

I delegati dei governi discuteranno fino al 15 agosto, ma alla fine l'oggetto dei loro discorsi sarà già cambiato: in questi dieci giorni saranno nati nel mondo due milioni di bambini. L'equivalente di una città come Milano, al ritmo di più di due culle al secondo. I fortunati che vedranno la luce nei Paesi ricchi o in Cina diventeranno grandi e vivranno in media 70 anni. Gli altri saranno falciati da fame, sete e malattie. Speranza di vita: 32 anni in Ciad e Alto Volta.

Dieci anni fa la situazione era migliore. Eravamo 800 milioni in meno, quindi morivano di fame meno persone. "Nel 1983 c'è stata la crescita demografica più forte della storia", avverte Leon Tabash, segretario della conferenza. "Sono nati 90 milioni di persone, quasi tutti nel Terzo mondo". Sullo schermo luminoso dell'orologio della popolazione, al museo della scienza di Chicago, fra alcuni giorni apparirà la cifra 4.800.000.000; ma la mattina dopo il numero degli abitanti del pianeta sarà già 4.800.105.379. In una sola notte, una Udine di neonati in più.

Alcuni Paesi come l'Etiopia non fanno censimenti. Altri, come la Nigeria, dichiarano il falso. Il governo di Lagos ci tiene ad apparire come il Paese più popoloso dell'Africa, ma non dovrebbe avere più di 60 milioni di cittadini, in luogo degli 80 ufficiali: trucchi per ricevere più aiuti dalle organizzazioni internazionali.

In ogni caso, siamo molti. Troppi? "no", risposero decisi i Paesi del Terzo mondo e quelli comunisti alla conferenza Onu dieci anni fa. "La povertà non è frutto della sovrappopolazione, ma dell'aggressione imperialista e dello sfruttamento delle superpotenze", dichiarò il capo della delegazione cinese. Gli fecero eco, curiosamente, i regimi militari del Sudamerica: "Parlare di spazio vitale e di limiti delle risorse per giungere alla riduzione demografica è parziale", tuonò il generale peruviano Enrique Falconi.

Anche il Vaticano appoggiò il blocco comunista-terzomondista nel rifiutare il piano proposto dall'Onu per il controllo delle nascite. Già nel 1968 PaoloVI aveva condannato ogni anticoncezionale nell'enciclica Humanae Vitae. Un certo padre Bordignon, membro della delegazione italiana a Bucarest (composta per metà da preti, chissà perché) arrivò a parlare di "genocidio" e avanzò il sospetto che il piano Onu fosse ispirato da "agenti di grosse ditte farmaceutiche statunitensi". Alla fine l'Italia si astenne: né con gli Usa, né con Papa e Breznev.

"La Chiesa estende il diritto alla vita anche agli ovuli e a tutto l'universo latente dei nascituri", commentò Guido Ceronetti. "La posizione vaticana è scabrosa: lo stesso schieramento di 'natalizi' avrebbe potuto avere alla sua testa la Germania nazista. A Bucarest ha vinto la demenza". E il teologo Ambrogio Valsecchi: "L'ideologia della Chiesa proviene da una mai superata disistima verso la sessualità. Non vogliono che il gesto sessuale venga privato con troppa facilità dell'impegno procreativo". 

Ma rimasero due voci isolate. Ancor oggi l'Italia figura agli ultimi posti per il consumo della pillola anticoncezionale, superata perfino dai cattolicissimi Spagna e Portogallo: solo il 5% delle donne la usa, contro il 37% dell'Olanda, dove i preservativi vengono distribuiti gratis a scuola alle sedicenni.

"Il miglior contraccettivo è lo sviluppo economico", sosteneva nel 1974 il comunista Eugenio Sonnino, docente di demografia all'università di Roma. "Quelle di Usa e Onu sono posizioni velleitarie di terrorismo demografico; c'è anche un tentativo d'ingerenza nell'autonomia degli Stati". "Il controllo delle nascite è stato inventato dai nemici dell'Islam", tagliavano corto gli arabi sauditi.

Il tempo ha fatto giustizia di questi pregiudizi ideologici. Caduti i miti terzomondisti, dal Vietnam all'Angola all'Iran, lo sviluppo non è arrivato, la fame è aumentata, alcuni cominciano addirittura a rimpiangere il tempo delle colonie. E in questo decennio tutti i Paesi del Terzo mondo hanno fatto esattamente ciò che criticavano a Bucarest.

La Cina è quella che ha preso il problema più sul serio, forse anche troppo. Con metodi draconiani ha fatto cadere della metà il tasso di natalità. Soprattutto, in Cina la vita media è uguale a quella dei Paesi occidentali, pur con un reddito pro capite infinitamente minore: indice di giustizia sociale. 

Tuttavia il problema è lungi dall'essere risolto. La stessa Cina l'anno scorso ha messo al mondo più di 23 milioni di creature. Fra tre anni l'umanità girerà la boa dei cinque miliardi. Nel Duemila saremo sei miliardi. Continuando così, raggiungeremo l'equilibrio fra nascite e morti soltanto nel 2095, quando saremo dieci miliardi.

Per afferrare meglio la vastità della questione, ricordiamoci che arrivammo al miliardo solo nel 1850 e a due ottant'anni dopo, nel 1930. Ma per raddoppiare, arrivando a quattro nel 1975, sono bastati 45 anni. È ciò che si chiama crescita geometrica (1,2,4,8,16,32...), differente da quella aritmetica (1,2,3,4,5,6...)

L'astronomo Heinrich Siedentopf ha immaginato di condensare i cinque miliardi di anni del nostro pianeta in un solo anno fittizio. Il risultato è questo: a gennaio una nuvola di gas si divide in miliardi di parti, di cui una è il Sole; a febbraio si formano la Terra e i pianeti; in aprile acqua e terra si separano; siamo già a novembre quando arriva la vegetazione; i dinosauri scompaiono a Natale; solo dieci minuti prima di mezzanotte appare l'uomo di Neanderthal. Quella che noi chiamiamo Storia occupa soltanto l'ultimo mezzo miliardo di quest'anno immaginario.

Durante l'ultimo secondo il numero degli umani si moltiplica per tre, e siamo a oggi. Nei primi dieci secondi dell''anno' seguente (15 dei nostri secoli) se il tasso di crescita resta costante il peso degli uomini viventi sarà uguale a quello del globo terrestre.

Certo, è un paradosso, messo in luce già nel 1972 dal primo rapporto del Club di Roma, 'I limiti dello sviluppo'. Esso fu criticato perché sosteneva che non può esserci sviluppo infinito in un mondo finito. Si disse che erano idee di tecnocrati illuministi, si arrivò ad accusare il Club di Roma di volere sciogliere antifecondativi nell'acqua potabile.

In realtà, il problema dello sviluppo economico e della diminuzione delle nascite è come quello dell'uovo e della gallina: non sappiamo quale sia la causa e quale l'effetto. Ecco l'opinione di Maurice Guernier, membro del Club: "Il Terzo mondo è situato nelle zone tropicali, calde e umide, dove la virulenza dei microbi è al massimo. È il luogo delle malattie più gravi, ragion per cui lì la popolazione deve - da millenni - procreare al massimo per resistere: fare molti figli affinché ne sopravviva qualcuno. Ne risulta che oggi, per la legge della selezione naturale, tutti gli abitanti del Terzo mondo sono prematuri sessuali, con matrimoni frequenti a partire dai 12-14 anni, e superattivi: praticano l'atto sessuale molto frequentemente, senza preoccuparsi del risultato. Ecco perché l'argomento 'Aiutiamoli a svilupparsi economicamente, poi avranno meno figli' non è in tutta onestà sostenibile. Anzi, è un controsenso".

Tuttavia, è vero anche che ogni occidentale consuma 40 volte più di un abitante del Terzo mondo, e che quindi non si possono incolpare i Paesi sottosviluppati per l'impoverimento delle risorse. Insomma, aveva ragione Gandhi: "In questo mondo c'è abbastanza per soddisfare i bisogni degli uomini, ma non la loro ingordigia".

Mauro Suttora


Tuesday, January 31, 1984

Lega per il disarmo a congresso

PACE/FIRENZE: UNILATERALISTI E POLEMICI

di Mauro Suttora

Il Manifesto, 31 gennaio 1984

Firenze. Vilipendio alle forze armate, istigazione a delinquere, diserzione, oltraggio a pubblico ufficiale, manifestazione non autorizzata, blocco stradale.
Quasi tutti i cento partecipanti al congresso nazionale della Lega per il disarmo unilaterale (Ldu), conclusosi a Firenze domenica, si sono 'macchiati' di qualcuno di questi reati negli anni scorsi, durante la loro attività antimilitarista.

"Siamo antimilitaristi, non semplici pacifisti", tengono a precisare, "perché ci opponiamo non solo alle armi atomiche, ma anche a ogni tipo di armamento convenzionale. E vogliamo l'abolizione di tutti gli eserciti, a cominciare dal nostro".

Lo scrittore Carlo Cassola cominciò a scrivere questa cose nel 1975 nei suoi elzeviri sul Corriere della Sera, e nel '77 fondò con pochi amici la Lega per il disarmo dell'Italia. Due anni dopo questa si fuse con un gruppo guidato allora dal giovane radicale Francesco Rutelli. Da allora la Ldu, sempre presieduta da Cassola, è divenuta l'alfiere dell'antimilitarismo più rigoroso, piena com'è di anarchici, radicali, nonviolenti, pronti a farsi arrestare alla prima occasione.

Nonostante i sondaggi rivelino che il 35% degli italiani è favorevole al disarmo unilaterale, gli iscritti alla Lega non superano mai le poche centinaia. Come mai?
"Colpa nostra, che non facciamo abbastanza propaganda. Ma ormai solo due giovani su cento sono iscritti a un partito politico, c'è in giro molta noia per i discorsi in 'politichese', anche per quelli dei pacifisti. Per questo noi siamo per l'azione diretta, nonviolenta naturalmente", dice il segretario uscente Bruno Petriccione.

C'è grossa polemica nei confronti del coordinamento nazionale dei comitati per la pace. "Sono controllati dai funzionari di partito, soprattutto del Pci. I pochi comitati spontanei locali sono emarginati, non c'è democrazia nel movimento. Per questo abbiamo perso contro i missili Cruise".
Padre Ernesto Balducci, da anni iscritto alla Ldu, non è d'accordo: "Il Poi non ha il pacifismo nella sua tradizione, e dobbiamo riconoscere che in questi ultimi anni ha fatto molti passi in avanti".

Anche Umberto Mazza, portando i saluti di Democrazia proletaria (l'unico partito, assieme ai radicali, favorevole a passi di disarmo unilaterale), ammonisce i disarmisti a non rinchiudersi in uno sterile settarismo: "Abbiamo tutti un grosso debito nei vostri confronti, perché per primi avete detto cose che adesso condividiamo in molti. Abbiamo bisogno delle vostre idee".

I programmi della Ldu per il 1984 prevedono un grosso impegno sulla 'obiezione fiscale' alle spese militari e su Comiso. Uno dei tre nuovi segretari, Alfonso Navarra, ventenne palermitano, ha ricevuto il foglio di via dalla provincia di Ragusa dopo avere trascorso un mese in carcere lo scorso agosto per la sua attività antimilitarista.
"Ritornerò pubblicamente a Comiso in marzo", dice, "perché voglio disobbedire alle leggi ingiuste".

Fra molte dichiarazioni roboanti ("Bisogna passare dalla protesta alla disobbedienza civile generalizzata contro questo stato militarista che negli ultimi cinque anni ha triplicato le spese militari") il discorso di Adele Faccio, ex deputata radicale, suona perfino mite: "Dobbiamo portare il messaggio nonviolento in tutti i luoghi, anche all'est".
Mauro Suttora








Saturday, October 22, 1983

Sarajevo prepara le Olimpiadi invernali 1984

JUGOSLAVIA
Ci vuole lo stadio? Facciamo una colletta

Un referendum. Migliaia di volontari. Un'autotassazione collettiva. Che s'ha da fare per ospitare le gare mondiali di sci in una città comunista...

di Mauro Suttora e Art Zamur

Europeo, 22 ottobre 1983








 

Saturday, October 08, 1983

Gli ecologisti tedeschi



IL MIO VERDE È PIU’ VERDE DEL TUO

Germania/Il movimento ecologista si spacca

Fondamentalisti, realpolitici, nonviolenti, filoamericani, gandhiani... Che cosa nasconde il fiorire di tante correnti all’interno del partito che sorprese tutti alle elezioni di sei mesi fa?

Europeo, 8 ottobre 1983

di Mauro Suttora

«Non vogliamo cadere nelle mani dei comunisti e del loro modo vecchio, burocratico e perdente di fare politica. Basta con il minoritarismo di sinistra», afferma deciso Ernst Hoplitschek, leader degli ecologisti berlinesi. E così da quest’estate i grünen, iverdi di Berlino Ovest, si sono messi in proprio, iniziando una campagna autonoma di iscrizioni e separandosi dalla Lista alternativa, con la quale avevano ottenuto il sette per cento e nove consiglieri due anni fa.

Berlino è da sempre il laboratorio politico della Germania. Tutto ciò che accade nella ex capitale prima o poi si ripercuote a livello nazionale. Così è stato, ad esempio, per il ritorno della Cdu al potere, avvenuto a Berlino già nel settembre 1981. E’ probabile, quindi, che le frizioni all’interno del partito verde e fra questo e gli altri settori della sinistra extraparlamentare che finora lo hanno appoggiato si moltiplichino nei prossimi mesi.

Già ci sono alcuni segni. A Brema, dove nel 1979 per la prima volta i verdi superarono alle elezioni la soglia-ghigliottina del cinque per cento, le votazioni appena avvenute hanno visto la concorrenza reciproca di ben tre formazioni ecologiste: quella dei verdi federali, la «Bremer grune liste» più conservatrice e localista, e la Lista alternativa del lavoro, piena di comunisti. Ma anche nel resto della Germania la presenza fra i verdi di molti marxisti sta cominciando a creare molti problemi agli ecologi meno politicizzati, e si vanno già formando due tendenze contrapposte all’interno del piccolo partito approdato in Parlamento da soli sei mesi: «fondamentalisti» e «realpolitici».

Forti soprattutto in Assia e ad Amburgo, i fondamentalisti criticano «dalle fondamenta» la società dei consumi, seguendo le teorie apocalittiche di Rudolph Bahro, 48 anni, intellettuale incarcerato e poi espulso (1978) dalla Germania Est, dov’era stato un importante tecnocrate in campo economico. Adesso, pur non essendo deputato, è l’ideologo e l’eminenza grigia dei verdi. Predica la «Ausstieg aus der Industriegesellschaft», l’uscita dalla società industriale che produce sempre più armi e fame.
Ma l’aspetto più controverso delle proposte di Bahro riguarda la strategia elettorale: egli afferma che sarebbe miope per i verdi limitarsi a fare la pulce a sinistra dell’Spd, e che essi devono rivolgersi invece a un elettorato molto più ampio, anche di destra, con un programma di «conservazione dei valori».

E quali sarebbero questi «valori» capaci di attrarre gli elettori democristiani di Helmut Kohl e Franz Strauss? La vita, minacciata dalle bombe atomiche; la comunità e la privacy, minacciate dall’invadenza dello stato assistenziale e poliziesco (vinta quest’anno la battaglia contro il censimento, i verdi si stanno ora battendo contro l’introduzione della carta d’identità magnetica, prevista per il 1984, considerata uno strumento di maggiore controllo sociale); le foreste, amate visceralmente da ogni tedesco e rovinate dalle piogge acide; l’unità della Germania, spezzata dalla divisione in blocchi nemici.

Ai fondamentalisti si contrappongono i realpolitici di Brema, Baviera e Baden-Wurttemberg, nonché i rossoverdi che mirano ancora al coinvolgimento degli operai (in settembre a Bonn il deputato Eckhart Stratmann ha organizzato un «foro dell’acciaio» assieme a delegati di fabbrica). I realpolitici vengono bollati in tal modo a cuasa della loro disponibilità ad allearsi con i socialisti, mentre per Bahro fra Spd e Cdu non c’è molta differenza.
«E gli emarginati, gli omosessuali, i carcerati, gli stranieri? Ci dimenticheremo di loro per correre dietro ai piccolo-borghesi?», domanda Thomas Ebermann, capogruppo dei verdi alla Dieta di Amburgo, preoccupato di perdere i contatti con i gruppi spontanei di protesta che fioriscono al di fuori della vita istituzionale. E anche i giovani estremisti «alternativi» delle grandi città non ne vogliono sapere di cercare i modi e le parole per attrarre «i fascisti della Cdu».

Ma non sono soltanto le grandi questioni ideologiche o le strategie elettorali a dividere i verdi. Si discute anche, e con ripercussioni che vanno al di là dell’area alternativa, di violenza e nonviolenza. Dove comincia l’una e finisce l’altra? Un sit-in davanti a una base Nato è già una forma di violenza?
Lukas Beckmann, 30 anni, deputato e tesoriere del partito, è stato appena condannato a pagare una multa di 500 marchi, a scelta all’erario o ad Amnesty International, per avere bruciato un missile di cartone davanti alla sede dell’Spd di Bonn. «Volevo far cambiare loro idea sugli euromissili», si è difeso. E per la verità, viste le ultime posizioni del partito di Willy Brandt su Cruise e Pershing 2, sembra esserci riuscito.

Lo stesso Beckmann due settimane fa, a una riunione del comitato che coordina le mainifestazioni pacifiste d’autunno, ha dichiarato: «Nonviolenza non vuol dire rispetto della legalità: non ci limiteremo a bloccare gli accessi alle basi americane in Germania, ci entreremo dentro». Quanti sono d’accordo?

All’inizio di agosto un deputato regionale verde dell’Assia, Frank Schwalba-Hoth (non si è ripresentato alle elezioni domenica scorsa, preferendo tornare alla propria professione di insegnante), ha spruzzato del sangue addosso a un generale americano durante un ricevimento ufficiale. «Ha offeso la dignità di un uomo», è stato il duro commento di Petra Kelly, ex collaboratrice di Martin Luther King e quindi nonviolenta integrale. «Orrendo», ha rincarato il suo compagno, l’ex generale ora pacifista Gert Bastian, che conserva ancora un certo rispetto per le divise nonostante sui giornali appaia sempre più frequentemente in foto mentre viene trascinato via di peso dai sit-in antimilitaristi. L’«azione del sangue» è stata però approvata da parecchi altri, comprsi gli stessi verdi dell’Assia.

Iniziatori del movimento per la pace, i verdi sin dalla loro nascita quattro anni fa vengono accusati di essere antiamericani. Una delle loro principali preoccupazioni è dimostrare il contrario: «Non ce l’abbiamo con gli americani, ma con tutti gli eserciti d’occupazione». Gandhiani convinti, hanno sostituito il vecchio «Yankee go home» con il gentilissimo «Soldato, lascia l’esercito e vieni con noi».

«Nessuna accondiscendenza verso slogan del tipo “Violenza contro i piedipiatti” in voga fra gli autonomi», assicura Hoplitschek, il capo dei verdi berlinesi. Ci tengono a ricordare che nel novembre ’81, quando l’allora leader sovietico Leonid Breznev andò a Bonn, gli organizzarono contro un corteo di ventimila persone. Per protestare contro il golpe del generale Wojciech Jaruzelski in Polonia si rifiutarono di partecipare a qualsiasi iniziativa assieme al Dkp, il partito comunista della Germania Ovest finanziato da Mosca. E anche dopo l’incidente del jumbo coreano (abbattuto dai sovietici il primo settembre, provocando la morte di 269 persone) non sono mancate le condanne.

«Non siamo fedeli all’Est o all’Ovest, ma al genere umano», sta scritto nel loro programma. Eppure, dice il deputato Joschka Fischer, «per me ogni negozio di McDonald’s rappresenta una garanzia che la vecchia Germania non rinascerà più. Ogni hamburger, anche se io li detesto e li trovo immangiabili, è un pezzo di libertà. Siamo tutti americani, e la nostra cultura democratica la dobbiamo agli Stati Uniti. Ma non all’America ufficiale: a quella degli anni Sessanta, dei diritti civili e della musica pop».

In giugno Petra Kelly (sempre più pallida e nervosa, ma affascinante quando investe le platee con la sua eloquenza ispirata e torrenziale) ha compiuto un lungo tour negli Stati Uniti invitata dal Freeze movement, l’organizzazione che propone di congelare gli arsenali atomici ai livelli attuali.

E a sottolineare la distanza dall’Unione Sovietica c’è l’atteggiamento che i verdi tengono nei confronti del dissenso tedesco orientale. Roland Jahn, espulso dal governo di Berlino Est per la colpa di avere organizzato un movimento pacifista indipendente, è stato «adottato» dai verdi. Da anni il cantautore Wolf Biermann, anch’egli dissidente esiliato dal rtegime di Erich Honecker, si esibisce durante le loro manifestazioni.

Divisi sul piano ideologico, impegnati a differenziarsi da un movimento pacifista ambiguo (anche il premio Nobel della letteratura Heinrich Böll ha controbattuto le accuse di filosovietismo e di pacifismo a senso unico: «Non mettiamo in pericolo la democrazia, la usiamo») e decisi a rompere uno dei tradizionali tabù della sinistra, l’antiamericanismo, i verdi hanno dovuto fare i conti anche con alcuni curiosi e imbarazzanti incidenti di percorso.

All’indomani delle elezioni del 6 marzo si viene a sapere che l’ultrasettantenne Werner Vogel, eletto nelle liste col simbolo del girasole, il quale si accingeva a presiedere la seduta inaugurale del Bundestag risultandone il decano, aveva trascorsi nazisti. Niente di gravissimo, in un paese dove perfino il passato del presidente della Repubblica Karl Carstens non è immacolato. Ma subito il vecchietto amante della natura è stato costretto a dimettersi.

In agosto poi c’è stato l’«affare del sesso». «Il verde che palpa le tette alle segretarie», ha titolato a tutta pagina con la sua solita eleganza la Bild Zeitung. E così finisce la carriera di deputato di Klaus Hecker, 53 anni, sposato con tre figli: «Sì, ho fatto qualche avance alle ragazze dello staff: mi sentivo tanto solo a Bonn d’estate...»
Il gruppo parlamentare lo invita a dimettersi. Un certo puritanesimo femminista imperante tra i verdi fa addirittura dichiarare a una deputatessa: «La lotta contro i missili e contro il potere maschilista è una cosa sola». In questo clima antifallico, Hecker viene paragonato a un Pershing e non gli rimane che fare le valigie.

Mauro Suttora

I verdi in Germania

"Né a sinistra né a destra: siamo avanti"
Come lavorano i verdi nel Parlamento tedesco

di Mauro Suttora
Europeo, 8 ottobre 1983




Willy Brandt, l'anziano presidente dei socialdemocratici tedeschi, ha pronosticato una durata di soli altri quattro anni per i verdi. L'impatto con il Parlamento in effetti è stato molto duro per un partito in cui mai nessuno ha fatto politica di professione: dilettantismo vuol dire freschezza e onestà, ma anche ingenuità e passi falsi. 
Per esempio, durante la campagna elettorale per le regionali del 25 settembre in Assia e a Brema, per ben due volte i verdi sono rimasti fuori dai dibattiti televisivi perché si ostinavano a mandare negli studi tv degli emeriti sconosciuti invece dei parlamentari uscenti, in omaggio ai propri principi di "democrazia di base" e di uguaglianza. 

Fautori della democrazia diretta, i verdi eletti nelle istituzioni sono sottoposti a vincolo di mandato e tengono periodicamente delle assemblee di consultazione con i propri elettori. Questo spesso tarpa le ali a iniziative personali delle personalità più brillanti: Petra Kelly e gli altri deputati che in maggio erano andati a protestare contro gli armamenti a Berlino Est, venendo arrestati ed espulsi, sono stati criticati non per l'azione in sé, ma perché non ne avevano parlato prima con la "base". Per i verdi infatti è importantissimo rispettare la volontà degli attivisti. 

Ormai sono in 120 a Bonn a lavorare a tempo pieno per i verdi: una cifra considerevole per un partito "alternativo" (i cugini radicali italiani non danno lavoro a più di 60 persone fra Roma e Bruxelles). Oltre ai deputati e allo staff di segreteria ci sono i 28 vicedeputati, pronti a subentrare nella carica fra un anno e mezzo, a metà legislatura, ma già adesso impegnati a tempo pieno. 

"Non siamo né a sinistra né a destra: siamo davanti", proclamavano i grünen prima delle elezioni del marzo scorso. Così nell'aula del Bundestag li hanno messi in centro, in fila per due. A parte l'elegante avvocato Otto Schily e l'ex generale Gert Bastian, sempre impeccabile, i deputati maschi hanno i capelli lunghi in media trenta centimetri. Abbigliati in salopette e sandali di sughero, sono l'immagine fedele del 5,6 per cento di tedeschi che li ha votati.
Mauro Suttora

Saturday, March 12, 1983

Il fattore K dei pacifisti italiani

di Mauro Suttora

A Rivista Anarchica, marzo 1983

link al sito di A Rivista Anarchica

Chi afferma che oggi in Italia esiste un movimento per la pace o è disinformato o è in malafede. Si vada in Olanda, in Germania, in Gran Bretagna, per vedere cos'è un vero movimento per la pace, con la gente che si «muove». 
In Italia c'è un «certo» movimento, qua e là; c'è un «falso» movimento (quello della marcia Milano-Comiso del dicembre 1982, che è stata in realtà una serie di manifestazioni del PCI per la penisola; quello dei comitati fantasma per la pace, pieni di burocratini di partito riverniciati a nuovo, capaci solo di farla scappare, la gente, con il loro noioso sinistrese). Ma, in definitiva, poco si muove.

Lo dico con dispiacere, perché io stesso cerco di far qualcosa per far crescere questo movimento rachitico, e vorrei che la partitocrazia imperante e le lusinghe istituzionali non continuassero a soffocarlo. Ma tant'è: i gruppi anarchici, la Lega per il disarmo unilaterale dello scrittore Carlo Cassola, il Movimento nonviolento, la Loc (Lega obiettori di coscienza), il Campo internazionale e le leghe autogestite di Comiso (cioè tutti gli antimilitaristi), anche se in crescita, coinvolgono ancora solo poche migliaia di persone in tutta Italia. Lo stesso le riviste Senzapatria e Azione Nonviolenta. Perché? 


Quello che caratterizza l'Italia rispetto agli altri paesi interessati ai missili Cruise (che sono stati la molla iniziale del movimento degli anni '80) è innanzitutto la mancanza di un grande organismo pacifista indipendente dai partiti. In Gran Bretagna c'è il CND (Campaign for Nuclear Disarmament), con 250.000 membri. In Olanda c'è l'IKV (Consiglio interecclesiale per la pace), con più di 400 gruppi locali attivi in ogni più piccolo paese. In Belgio ci sono il VAKA fiammingo e il CNAPD francofono. In Germania Ovest il gruppo-ombrello possono essere considerati i Verdi, che per loro fortuna non sono ancora un partito («E se non superate il 5% alle elezioni?» «Chi se ne frega, noi esistiamo indipendentemente dal parlamento! Se poi ci entriamo, tanto meglio: andremo a far casino anche lì dentro!»). Oltre ai Verdi, due altre organizzazioni aspirano ad un ruolo di coordinamento del variegato e vitalissimo movimento tedesco: l'ASF, presieduta da un vescovo, e l'AGDE. 


In Italia, niente di tutto questo. 
Intendiamoci, si sta parlando di pacifisti, non di antimilitaristi: cioè di gente che si oppone solo alle armi atomiche, e non anche all'esercito. Ma il problema è che il PCI non è contro le armi atomiche. Anzi, in realtà, non è neanche contro i Cruise: è «per la sospensione dei lavori a Comiso, come contributo dell'Italia per le trattative di Ginevra», come ribadisce la Direzione del PCI in un documento del 26 gennaio scorso, e come diceva l'appello della Milano-Comiso, tratto di peso da documenti PCI (altro che 'intellettuali', che avrebbero scritto l'appello).

Per cui, fanno benissimo i comunisti - assieme alla loro corrente esterna del PdUP - a tenere da ormai un anno e mezzo addormentato il movimento per la pace italiano: se lo appoggiassero, magari noi correremmo il rischio di essere egemonizzati, ma le posizioni inconsistenti del vertice PCI verrebbero spazzate via ... dal buon senso.

Sì, perché è il semplice buon senso ad indicare a tutti, ai vescovi cattolici americani, al Labour party inglese, ai partiti socialisti olandese e tedesco, perfino alla DC olandese, posizioni più avanzate di quelle del PCI: e cioè, disarmo unilaterale atomico e indifferenza diffidente verso le trattative USA-URSS di Ginevra, che al massimo sanzionerebbero una nuova Yalta alle spese dell'Europa. 


Ma, si dirà, a noi antimilitaristi cosa importa occuparci di queste cose che riguardano i «pacifisti atomici», che forse faranno anche guerra alla guerra, ma certo non alla pace sociale?
Importa moltissimo, perché in realtà la gente che partecipa alle dimostrazioni per la pace è molto più radicale di coloro che si arrogano il diritto di rappresentarla (come l'END). In Germania, in particolare, c'è da ormai 3 anni una situazione di vera e propria sovversione permanente, una rivoluzione culturale ma anche pratica che ha creato un circuito alternativo a cui fanno riferimento milioni di persone: occupanti di case, ma anche migliaia di iniziative culturali, sociali, economiche, in ogni quartiere di ogni città, che fanno da supporto al movimento antimilitarista così come a quello femminista, a quello ecologista e a quant'altri. E lo stesso in Olanda.

Si ride in faccia a chi non vuole uscire dalla Nato, perché sarebbe destabilizzante. 
Però, poiché l'unione fa la forza, e poiché noi ci opponiamo non ai puffi ma nientepopodimenoche al «complesso militare-industriale» (eserciti, armi, fabbriche di armi, Nato e Patto di Varsavia, stati, governi, culto della violenza), può anche servire partecipare alle iniziative di chi non ha il coraggio di chiedere tutto subito, ma almeno qualcosa: il famoso primo passo, per cominciare, nel nostro caso, a fare a meno delle armi atomiche. E infatti le donne del campo permanente di Greenham Common, in Inghilterra, si sono battute affinché tutto il CND appoggiasse le proprie azioni dirette, riuscendoci (cosa che, come ricorda Roussopoulos, non riuscì a Bertrand Russell negli anni '60).

In Olanda gli antimilitaristi anarchici di Onkruit e della «piattaforma radicale» litigano con i perbenino dell'IKV e ne denunciano le posizioni più stupide (come quella di rafforzare l'armamento convenzionale in cambio della rinuncia unilaterale al nucleare), ma si tratta di polemiche costruttive, fra gente che si muove nella stessa direzione.
In Spagna gli obiettori totali del MOC sono presenti dappertutto, e così in Germania gli anarchici nonviolenti di Graswurzelrevolution («la rivoluzione dalle radici dell'erba», decentrata ed antiautoritaria) e Gewaltfreie Aktion («Azione Nonviolenta»), che hanno organizzato le azioni dirette dello scorso 12 dicembre.
Negli USA la forte War Resisters League (che, assieme agli altri gruppi antimilitaristi che ho citato, aderisce alla WRI, War Resisters International, l'Internazionale dei resistenti alla guerra, che ha un ufficio con due persone a Londra) non disdegna di appoggiare la campagna veramente minimale del «Freeze» con le proprie azioni di disobbedienza civile (di cui i gesuiti fratelli Berrigan e l'ex consigliere di Nixon Daniel Ellsberg (Pentagon Papers) sono i fautori più intransigenti). 


In Italia, invece, molti antimilitaristi - specialmente gli anarchici e i radicali - si sono appollaiati su di un Aventino un po' sterile, snobbando i pacifisti dell'ultima ora e lasciando spazio così alle pseudo-iniziative di PCI & C.
Certo, è impossibile collaborare con chi è parte integrante del complesso militare-industriale, con chi pretende di fare il pacifista in piazza e di presiedere la commissione difesa in parlamento (on. Vito Angelini, comunista, amico di tutti i generali): basta leggere cosa scrivevano Claudio Venza («Rosso, rosa e grigioverde», 1978, ed. Interrogations) o Roberto Cicciomessere («Italia Armata», 1982, ed. Gamma) per scoprire chi bluffa.

Ma si tratta di affrontare intelligentemente questo «fattore K» (anche in Francia un forte PC impedisce di fatto la crescita dei pacifisti spontanei) con la presenza, e non con l'assenza, perdendo tempo in dibattiti accademici su violenza e nonviolenza. Perciò andiamo pure al congresso di Berlino in maggio - come ci invita a fare Rossoupoulos -, anche se sappiamo che il problema non è tanto quello, in negativo, di evitare la terza guerra mondiale, quanto quello, estremamente urgente, di intaccare concretamente i concetti di difesa armata, e quindi di sovranità nazionale, e quindi di stato.
Mauro Suttora

Thursday, May 05, 1977

Rock and baroque music

Madison (Connecticut), May 1977

Daniel Hand High School

Graduation dissertation

by Mauro Suttora

I believe that music, like all arts, affects and is affected by the social environment in which it is created. Although the genius of a musician is something that goes beyond time and space: that's what is meant when we say that a music piece is immortal. I think therefore it's useful to investigate music from a sociological point of view, trying to grasp the ideas behind the music.

Music is not something technical, with a history of his own, apart from the world: it is influenced by the political social and economic happenings of its time, and sometimes it reflects them very clearly. A Marxist would say that, music being a superstructure, it is dependent from the economic situation, which is the structure that makes every superstructure possible.

Too often, when we listen to music, especially old music (old in the sense that it was not composed 3 or 10 years ago, but 30, 100, 300 years ago), we are interested in the "form" of music, and not in its substance. I think music is only a medium to express ideas, and every single piece of music has an underlying idea which could also be expressed in poetry, in painting, or in theatre.

In the case of "program music", finding the ideas behind is not very complicated. The problems begin when we listen to something and, without any background, we throw our little estethic judgement in term: I like it, I don't; sounds boring, sounds exciting, makes me nervous, evokes in me a feeling of joy, etc.

These are all irrational, superficial, personal and subjective judgements, and they all imply that music was composed only for music's sake. Nothing is composed for music's sake, not even the silliest "disco" record of our days. Behind, let's say, Disco Duck, there are clear purposes: selling records, make a profit, make people dancing to the rythm of this song, and so on.

Wanting to be very politica, one could even say that Disco Duck was a drug given by the system to the young people, to keep them from doing things more serious and dangerous to the status quo, like reading books, or listening to other music, like folk or protest music.

I will now dive into the era of baroque. The baroque era (1600-1750) corresponds in religion to the Counter-reform of the Catholic church (the answer to the Protestant reform), in politics to the triumph of absolutisms and the consolidation of national states, and in economics to the rise of mercantilism and the bourgeoisie.

During absolutism there was virtual identity beteween Church and State: this connection is best exemplified by famous cardinal Richelieu, who held tremendous political power in France. Both these institutions used the arts as a mean to represent their power.

So, display of splendor was one of the main social functions of music for the church and the baroque courts. Like all baroque arts, music too was bound socially to the aristocracy; both the nobility and the clergy served as patrons. In Venice, where there was a republic, the state paid musicians.

Having a musician was a status-symbol for the noblemen. Consistent with the predominantly private organization of musical life (although there were some sorts of musicians' unions), the social position of the musician was in principle dependent on a patron, a sponsor.

Self-supporting composers who made their living from proceeds of their music, which is now the norm, did not exist then. The dependence on an aristocratis patron put the musician in the servant class. Like bakers and tailors, he had to wear livery, and had to come up with one new dance for every weekend, for the luxurious parties his patron held.

The same goes for musicians dependent on the Church: Johann Sebastian Bach had to deliver one new chorale every Sunday. Today, in a way, it's just the same: the Rolling Stones just signed a contract for six Lp's in five years.

(...)