Thursday, December 07, 2006
Corriere della Sera: Severgnini su No Sex in the City
GRANDE MELA
La Manhattan degli «affari galanti» raccontata da Mauro Suttora
Non troppo sesso, per favore. Siamo a New York
7 dicembre 2006
di Beppe Severgnini
recensione sul Corsera
Mauro Suttora voleva scrivere un saggio, e per fortuna non c'è riuscito. Ha prodotto invece un romanzo breve e un lungo affresco: e questi gli sono venuti piuttosto bene (No sex in the city - Amori e avventure di un italiano a New York, Cairo Editore, pp. 206, 14 euro).
No sex in the city - dove di sesso ce n' è abbastanza - è uno dei rari ritratti efficaci della città più complicata e nevrotica d' America: New York. Molti italiani hanno provato a dipingerlo, con risultati che vanno dall' infantile al disastroso. Perché quasi tutti, della Grande Mela, hanno una fifa blu (interamente giustificata). Quando la superano - di solito, dopo pochi giorni - cadono in una specie di euforia, che gli impedisce di andar oltre, e capire dove sono finiti.
Le avventure galanti sono, in realtà, una scusa per mettere il naso nelle faccende sociali, mondane e professionali di Manhattan. Talvolta si ha l' impressione che Suttora salisse in casa delle ragazze per studiare l'arredamento, e riferircelo.
Alcuni rapporti sono esilaranti: la ragazza che non vuole baciare, quella che si scatena solo in taxi, quella che lo pianta per email. C'è anche un focoso incontro notturno sul tappeto del Rizzoli Bookstore nella 57esima strada, un luogo dove alcuni di noi si sono limitati a presentare, ogni tanto, un libro.
Ripeto: il sesso, negato nel titolo, esiste. Ma è una scusa, e per l' autore non è una priorità. Più che dalle gambe e dai seni, Mr Suttora è ipnotizzato dalla pancia di Manhattan - in senso metaforico, naturalmente. Corrispondente per il settimanale «Oggi» - i newyorkesi capiscono sempre «orgy», orgia, e restano perplessi - l'autore ha scritto anche per «Newsweek» e «New York Observer», dov'è nata la rubrica che ha dato il titolo al libro.
Per uscire dalla cuccia calda della corrispondenza ci vuole coraggio, Suttora l' ha avuto, ed è stato premiato. Nei media di New York sanno chi è, e non sarei stupito se un editore americano mettesse gli occhi sul volume. Alcune intuizioni sono folgoranti. Il quarantenne Mauro - che è più abbagliato dalla mondanità di quanto voglia farci credere - riesce tuttavia a restare un italiano con gli occhi aperti.
Racconta che troppe donne newyorkesi «parlano con la voce di Topolino» (un fenomeno che la scienza non ha ancora spiegato); che i ristoranti francesi sono in crisi, e quelli italiani no; che la tariffa fissa telefonica (flat rate) è una jattura, perché i taxisti di Manhattan sono sempre al cellulare, e confabulano come zombie in lingue misteriose, disinteressandosi di chi hanno a bordo.
I personaggi del libro vengono attivati a turno con pochi tocchi, e un dialogo che fa invidia a tanti affermati narratori nostrani. Tra le ragazze americane (Marsha, Liza, Maria, Danielle, Paula, Susan, Adrienne, Nicole: dimentico qualcuna?) compare anche qualche collega italiano (Giuliano Ferrara, Guia Soncini, Christian Rocca, Simona Vigna, lo ieratico Cianfanelli).
No sex, per loro: ma contribuiscono a movimentare il racconto, che procede con leggerezza per duecento pagine fino a un finale sorprendente. «Adoro i flip-flop, le ciabatte infradito: sono sexyssime», scrive l'autore appena sopra la parola «fine». Questa, Suttora, devi proprio spiegarmela.
Beppe Severgnini
Thursday, November 23, 2006
intervista su Affari Italiani
http://canali.libero.it/affaritaliani/culturaspettacoli/nosex2111.html
Libri/ "No sex in the city": la risposta italiana a Sarah Jessica Parker
Martedí 21.11.2006 13:45
New York, patria del sesso? Macchè... Altro che Samantha, Carrie & Co... per Mauro Suttora, giornalista ultraquarantenne, corrispondente da New York per un settimanale italiano, il sesso nella 'capitale' del mondo è solo virtuale: se ne parla, ma non lo si fa. Tutto è più importante: la carriera, lo shopping, il jogging, i party.
Così è nato "No sex in the city" in cui Suttora racconta in modo divertente e divertito le abitudini, le manie e le stravaganze delle donne americane viste con l'occhio del maschio italiano. Tra ristoranti alla moda e quartieri ultrachic, limousine e cene di finta beneficenza, il protagonista s'imbatte in un gran numero di donne.
C'è Liza, bellissima fashion-victim, che lo scarica via e-mail per mancanza di tempo; Maria, pantera a parole, ma agnellino quando si passa ai fatti; Paula disposta a tutto ma non a baciare. Un susseguirsi di esilaranti incontri, che diventano anche l'occasione per fotografare impietosamente pregi e difetti della specie umana più avanzata: le femmine di Park Avenue.
Mauro, come è nata l'idea del libro?
"Ho vissuto quattro anni a New York come corrispondente di Oggi. I miei amici italiani continuavano a chiedermi 'come erano le donne di Sex and the city' e da lì ho cominciato ad essere più attento alla questione. Devo dire che non pensavo fosse così popolare il programma in Italia, invece mi sono dovuto ricredere: questo a quanto pare è il decennio di 'Sex and the city', adesso poi sembra si faccia anche il film..."
A proposito di sesso, ci hai fatto capire che a New York se ne fa poco...
"Sì, ormai non è più di moda... non è considerato una cosa interessante, per le donne è più interessante fare jogging, shopping, correre, fare acquisti, curare il proprio corpo; sembra che ci sia un generale calo del desiderio, come confermano d'altra parte le statistiche; quando sono andato a New York trent'anni anni fa come studente me la ricordavo lussuriosa, una città erotica, mentre adesso direi che è molto vittoriana"
Cosa ha influito su questo trend?
"Gli hippy negli anni 60 dicevano: 'fate l'amore e non la guerra'; ora ci sono la guerra in Iraq, in Afganistan... e evidentemente non c'è spazio per l'amore. Tutta la società americana è completamente votata alla carriera, al guadagno, ad andare avanti tanto che molti piaceri vengono relegati all'ultimo posto, è una società edonista, è importante comprare la casa, guadagnare sempre di più... con il risultato che rilassarsi è davvero impossibile, vivono tutti in costante stress".
Dal tuo libro esce fuori anche un ritratto impietoso donna americana, considerata sempre un mito...
"Non si può generalizzare in effetti; io ho parlato della donna newyorkese, in particolare della donna di Manhattan e residente nell'Upper side dove vivono ricchi e alti borghesi che ce l'hanno fatta; ecco in questa parte della città ci sono un sacco di nevrosi, è stato divertente parlarne....
Durante un viaggio in Italia la tua fidanzata, Marsha, dice che non le 'dispiace non andare a Venezia perchè tanto di lunedì i negozi sono chiusi"...
"Sì, è così, lo scrivo nel libro. Ho convissuto con Marsha per un anno. La mia compagna in effetti era deliziosa, simpatica, bella e intelligente ma americana... Faccio un esempio: le newyorkesi hanno un brutto rapporto con il cibo, vanno sempre al ristorante, ma Marsha una volta al mese mi diceva trionfante 'stasera ti faccio io da mangiare' , come fosse una concessione; una sera mi prepara un hot dog orribile, vado in cucina e vedo una confezione 'meatless hot dog', hot dog senza carne. Insomma era un hot dog di soia, mangiava tutto tranne che le cose vere, latte senza latte, carne senza carne... tutto tranne che la cosa vera.."
Adesso a Roma e sei fidanzato...
"Sì sto insieme ad un'adorabile italiana e sono sereno. Vivo a Roma, città orizzontale quanto New York è verticale; presto il libro sarà tradotto in inglese da un editore americano...e tornerò a Manhattan".
In tutte le storie americane c'è un happy end: speri di ricavarne un film?
"Speriamo, sarebbe bello, la risposta italiana alle quattro donne di 'Sex and the city' , la risposta del maschio europeo. Perchè no..."
Michaela K. Bellisario
Mauro Suttora - "No sex in the city" - Cairo Editore - 14 euro
Copyright © 1999-2006 ItaliaOnLine S.r.l.
Libri/ "No sex in the city": la risposta italiana a Sarah Jessica Parker
Martedí 21.11.2006 13:45
New York, patria del sesso? Macchè... Altro che Samantha, Carrie & Co... per Mauro Suttora, giornalista ultraquarantenne, corrispondente da New York per un settimanale italiano, il sesso nella 'capitale' del mondo è solo virtuale: se ne parla, ma non lo si fa. Tutto è più importante: la carriera, lo shopping, il jogging, i party.
Così è nato "No sex in the city" in cui Suttora racconta in modo divertente e divertito le abitudini, le manie e le stravaganze delle donne americane viste con l'occhio del maschio italiano. Tra ristoranti alla moda e quartieri ultrachic, limousine e cene di finta beneficenza, il protagonista s'imbatte in un gran numero di donne.
C'è Liza, bellissima fashion-victim, che lo scarica via e-mail per mancanza di tempo; Maria, pantera a parole, ma agnellino quando si passa ai fatti; Paula disposta a tutto ma non a baciare. Un susseguirsi di esilaranti incontri, che diventano anche l'occasione per fotografare impietosamente pregi e difetti della specie umana più avanzata: le femmine di Park Avenue.
Mauro, come è nata l'idea del libro?
"Ho vissuto quattro anni a New York come corrispondente di Oggi. I miei amici italiani continuavano a chiedermi 'come erano le donne di Sex and the city' e da lì ho cominciato ad essere più attento alla questione. Devo dire che non pensavo fosse così popolare il programma in Italia, invece mi sono dovuto ricredere: questo a quanto pare è il decennio di 'Sex and the city', adesso poi sembra si faccia anche il film..."
A proposito di sesso, ci hai fatto capire che a New York se ne fa poco...
"Sì, ormai non è più di moda... non è considerato una cosa interessante, per le donne è più interessante fare jogging, shopping, correre, fare acquisti, curare il proprio corpo; sembra che ci sia un generale calo del desiderio, come confermano d'altra parte le statistiche; quando sono andato a New York trent'anni anni fa come studente me la ricordavo lussuriosa, una città erotica, mentre adesso direi che è molto vittoriana"
Cosa ha influito su questo trend?
"Gli hippy negli anni 60 dicevano: 'fate l'amore e non la guerra'; ora ci sono la guerra in Iraq, in Afganistan... e evidentemente non c'è spazio per l'amore. Tutta la società americana è completamente votata alla carriera, al guadagno, ad andare avanti tanto che molti piaceri vengono relegati all'ultimo posto, è una società edonista, è importante comprare la casa, guadagnare sempre di più... con il risultato che rilassarsi è davvero impossibile, vivono tutti in costante stress".
Dal tuo libro esce fuori anche un ritratto impietoso donna americana, considerata sempre un mito...
"Non si può generalizzare in effetti; io ho parlato della donna newyorkese, in particolare della donna di Manhattan e residente nell'Upper side dove vivono ricchi e alti borghesi che ce l'hanno fatta; ecco in questa parte della città ci sono un sacco di nevrosi, è stato divertente parlarne....
Durante un viaggio in Italia la tua fidanzata, Marsha, dice che non le 'dispiace non andare a Venezia perchè tanto di lunedì i negozi sono chiusi"...
"Sì, è così, lo scrivo nel libro. Ho convissuto con Marsha per un anno. La mia compagna in effetti era deliziosa, simpatica, bella e intelligente ma americana... Faccio un esempio: le newyorkesi hanno un brutto rapporto con il cibo, vanno sempre al ristorante, ma Marsha una volta al mese mi diceva trionfante 'stasera ti faccio io da mangiare' , come fosse una concessione; una sera mi prepara un hot dog orribile, vado in cucina e vedo una confezione 'meatless hot dog', hot dog senza carne. Insomma era un hot dog di soia, mangiava tutto tranne che le cose vere, latte senza latte, carne senza carne... tutto tranne che la cosa vera.."
Adesso a Roma e sei fidanzato...
"Sì sto insieme ad un'adorabile italiana e sono sereno. Vivo a Roma, città orizzontale quanto New York è verticale; presto il libro sarà tradotto in inglese da un editore americano...e tornerò a Manhattan".
In tutte le storie americane c'è un happy end: speri di ricavarne un film?
"Speriamo, sarebbe bello, la risposta italiana alle quattro donne di 'Sex and the city' , la risposta del maschio europeo. Perchè no..."
Michaela K. Bellisario
Mauro Suttora - "No sex in the city" - Cairo Editore - 14 euro
Copyright © 1999-2006 ItaliaOnLine S.r.l.
Saturday, November 18, 2006
Un'americana a Roma
UN'AMERICANA A ROMA
di Mauro Suttora
New York Observer
Roma, sabato 18 novembre 2006
Marsha, la mia fidanzata newyorkese, ha appena scoperto che oggi si sposano Tom Cruise e Katie Holmes. Siamo anche noi a Roma in queste settimane. Abbiamo affittato un loft in via Margutta 33.
Marsha era diventata pazza quando ha saputo che in questo stesso palazzo abitò per sei mesi Truman Capote, nel 1953: "Lo voglio" .
"Ma ci chiedono tremila euro al mese", ho obiettato.
"Li vale", ha detto con gli occhi brillanti di gioia. "E poi, Mauro, non noti nessuna coincidenza?"
"No".
"Le date".
"Cioè?"
"Fifty-three and fifty-three..."
"Cinquantatre?"
"Sì, era il '53 quando Truman visse qui, e da allora sono passati esattamente '53 anni. Non è fantastico?"
Adoro Marsha per questi suoi improvvisi entusiasmi puerili. È un ex modella stupenda, abbastanza anoressica ma affamata di vita, curiosa di tutto e facilmente eccitabile (anche sessualmente) da piccoli particolari riguardanti celebrità del passato e del presente.
Poter abitare lo stesso posto dove Capote visse più di mezzo secolo fa - quando non era nessuno se non un giovane ricco americano gay aspirante scrittore - ma soprattutto poterlo poi raccontare alle sue amiche, la fa andare al settimo cielo. Come se le pareti di questo ex studio di pittore riuscissero ancora trasudare storia ed emozioni. Probabilmente non ha mai letto nulla di Capote, neanche 'A sangue freddo'. Lo conosce solo dal film del 2005 con Philip Seymour Hoffman. Ma fa niente. Basta il nome. Ormai lei lo chiama confidenzialmente Truman. È diventato un nostro intimo, post mortem.
Marsha è innamorata di Roma. C'è già stata altre volte, con altri uomini. Io sospetto che sia più innamorata di Roma che di me. Sono quasi geloso.
"Vuoi me o i miei soldi?", chiedono le miliardarie di Manhattan ai loro spasimanti.
"Vuoi me o l'Italia?", domando io alle ragazze di Manhattan che diventano improvvisamente troppo cordiali quando scoprono che vengo dalla terra di Dolce & Gabbana e del pinot grigio che amano ingollare.
Ho conosciuto Marsha due anni fa a un cocktail-party a New York, dove sono corrispondente per un settimanale italiano. Bellissima 29enne, occhi azzurri, gambe da sogno, è rimasta a lavorare nel mondo della moda. Mi porta con lei a tutti i fashion events di Manhattan, dalle sfilate di Calvin Klein ai gala al Waldorf e ai vernissage dei nuovi negozi sulla Quinta Avenue.
Ho ricambiato con questo soggiorno a Roma. Avevo fatto una ricerca su Google per controllare la questione di Capote. Sì, è vero. Non solo abitò nel palazzo, ma dieci anni dopo descrisse il suo soggiorno romano in un racconto titolato 'Lola', dal nome della cornacchia con cui conviveva. Probabilmente l unico animale femmina che abbia mai amato in vita sua...
Cazzeggiando sui internet, però, ho fatto un altra scoperta. Sconvolgente, per una drogata di celebrity come Marsha. In via Margutta 33 girarono anche il film 'Vacanze Romane'. Sempre in quel fatidico anno, 1953. Glielo dico quando torna a casa, nel nostro appartamento di West End Avenue. Lei ha quasi un orgasmo: "Reeeally?"
Va subito a controllare sul computer. "Wow!", urla.
Ora, bisogna sapere che più passano gli anni, più 'Roman Holidays' è diventato per gli americani il simbolo di tutto ciò che c'è di attraente in Italia: dolce vita, amore, uomini romantici.
"E Gregory Peck era giornalista come te Mauro, un'altra incredibile coincidenza", mi sussurra Marsha con i suoi occhioni sognanti.
Mi bacia: "Sarò la tua principessa Audrey Hepburn..."
Va a sdraiarsi sul divano, facciamo l'amore. Viene prima di me (non capita spesso). Per fortuna l'agenzia immobiliare non ci ha chiesto cinquemila euro: temo che a quel punto Marsha avrebbe pagato qualsiasi cifra per un mese in quei 60 metri quadri con soppalco.
Arriviamo a Roma, il posto in via Margutta è in effetti delizioso. A me per la verità ricorda una casa di ringhiera milanese con ballatoio, ma Marsha è così emozionata che arrivata in cima alle scale del cortile interno, pieno di oleandri, ciclamini, glicini e palme, apre la porta del loft a due piani, grida "I'm so happy, Mauro!".
Mi trascina dentro con le valigie, richiude la porta, mi abbraccia, mi bacia interminabilmente e intanto si sfila le mutandine. È umidissima (a New York non capita spesso: "Sono stressata", dice sempre). Mi stringe a sè, vuole che la prenda in piedi sulla parete. Mugola dal piacere, le devo tappare la bocca, gode quasi subito (a New York non capita spesso, senza l'ausilio di un dito: "Sono clitoridea", mi ha spiegato solenne).
Qualche giorno dopo, Marsha scopre sui giornali la terza coincidenza: Cruise e la sua fidanzatina Kate sono all'hotel Hassler, a duecento metri da noi, sopra piazza di Spagna. E si sposano proprio oggi, in un castello sul lago di Bracciano.
"Dov'è?"
"Lontanissimo, Marsha".
"Quanto lontano? Vicino a lake Como?" (chissà perché i newyorkesi conoscono solo il lago di Como e l'albergo Villa d'Este).
"Ecco. Più o meno", baro per togliermi l'impiccio.
Marsha però è relentless, testarda. Come Bush. Quando si mette in testa una cosa, addio. Mi trascina per via del Babuino e su per la scalinata di Trinità dei Monti. Davanti all'hotel Hassler troviamo radunata una piccola folla. È l'una.
"Che succede?", domando ai curiosi.
"Ora escono", mi risponde uno sfaccendato.
"Ok Marsha, andiamocene. Non possiamo aspettare qui come due deficienti, chi se ne frega".
"No, dai, fammi vedere".
"E se escono fra tre ore? Non vedo nessuna limousine parcheggiata qui vicino. E poi, vedi: ci sono solo turisti, perditempo. Agli italiani non frega nulla di questi cosiddetti matrimoni del secolo . Anche perché ne vediamo da 27 secoli..."
"Dai, non fare il blasé. Non fare finta, che sei excited pure tu. Siamo testimoni di history in the making, la storia che si compie sotto i nostri occhi..."
Fortuna che le rimane un po di autoironia. In fondo si è laureata con una tesi su Derrida.
"Su, torniamo a casa", la tiro per il braccio.
Il mio obiettivo è passare qualche ora a letto a leggere i giornali, come facciamo ogni sabato a New York con i due chili del Times del week-end.
"Eccoli!", strilla Marsha improvvisamente.
In effetti una Mercedes nera si ferma di fronte all'entrata dell'Hassler.
"Ma sono Jennifer Lopez e Victoria Beckham", la informo, allungando il collo. "Il peggio del peggio. Saranno fra le invitate. Stanno entrando, non esce nessuno. Andiamo via".
"Prima o poi Tom Cruise e Katie dovranno uscire. Il matrimonio è previsto per le sei. In un castello. Anch'io sogno di sposarmi in un castello..."
Ecchetela. Afferro il messaggio subliminale.
"Dai Mauro, portami al castello. Andiamo a vedere Bracciano. Prendi l'auto. Quant'è lontano?"
"Ma almeno cento miglia", mento, loro ci andranno in elicottero".
"Eccoli!"
Un gippone con i vetri fumé esce dalla porta di servizio e sgomma via. Impossibile vedere chi c'era dentro.
"Seguiamoli, corri a prendere l'auto al parcheggio!"
Marsha è così sovraeccitata che non tento neppure di contraddirla. Sono innamorato, mi piace regalarle qualcosa qui in Italia. La amerà ancora di più, e di riflesso amerà anche me. E poi, per dirla tutta, questa sua energia molto americana risulta assai sexy per un pigro e scettico europeo come me.
Dopo venti minuti siamo in auto. È un pomeriggio brillante di sole dopo un temporale, i pini marittimi lungo la Cassia esibiscono un verde intenso, guido e sono felice vedendola felice.
"Pensi che il castello sia circondato da poliziottotti, assediato da giornalisti e cose del genere?", mi chiede.
"Certo. Ma anch'io sono giornalista. Riusciremo a passare, non preoccuparti".
Arriviamo a Bracciano alle tre del pomeriggio. Per fortuna Marsha è totalmente ignara di geografia italiana, e non mi chiede conto della mia bugia sulla vicinanza con il lago di Como. Bella cittadina, non c'ero mai stato, nessuno in giro. Parcheggiamo.
'Cinquantamila curiosi per le nozze di Tom', titola speranzoso un giornale appeso a un edicola. Ce ne saranno a malapena cinquanta nella vecchia strada che ci porta in centro. Quando arriviamo nella piazza di fronte al castello Odescalchi, vedo un piccola folla di reporter con telecamere di fronte all'entrata. Vado a salutare Umberto Pizzi, il mio amico paparazzo autore della rubrica Cafonal sul sito Dagospia. Ci sono perfino due elicotteri che girano rumorosi attorno agli spalti.
"Mauro, I lllove this castle!"
Marsha è abbacinata: "Ha otto torri invece di quattro, è enorme. Ho deciso: ci sposeremo anche noi qui!"
"Certo, cara. Ho letto sul giornale che anche Keira Knightley ora vuole un matrimonio a Bracciano. Sta diventando di moda sposarsi qui..."
Alcuni colleghi mi riconoscono: "Suttora, ma non stavi a New York? Sei venuto apposta per Tom Cruise?"
"Ovvio", invento, "e la mia fidanzata americana Marsha è fra gli invitati, perché fa parte della setta di Tom, Scientology. Così entro pure io".
"Allora quando sei dentro ti chiamiamo sul telefonino, così ci descrivi la cerimonia. Ci sarà anche una cena? Chi sono gli invitati? Quando entri? È vero che John Travolta è arrivato a Ciampino col suo jet privato?"
"Ragazzi, io ci provo, ma non posso creare problemi a Marsha. Vedremo..."
Intanto lei mi guarda. Conosce un po' d'italiano, e capisce che ho trovato un modo per infilarmi nel maniero.
"Beh, prima d'entrare voglio mostrare il paese e il panorama sul lago alla mia fidanzata, sta per fare buio. Ci vediamo più tardi..."
Prendo Marsha per mano e andiamo sul retro del castello. Ci sediamo a un bar.
"Mauro, allora riusciamo a entrare?"
"Figurati, è sigillato peggio del Cremlino".
"Ma avevo capito..."
"Hai capito bene: con i miei colleghi giornalisti ho fatto finta che tu fossi invitata, e io con te, ma che non possiamo dire nulla. E ora andiamocene, altrimenti scoprono lo scherzo".
Passeggiamo per Bracciano, sul lungolago e in centro. Marsha si calma, e improvvisamente non gliene importa più nulla del matrimonio del secolo. La sua finestra di attenzione si è esaurita, la curiosità saziata: le è bastata la visione del castello. La amo anche per questo: cambia idea spesso, e in fretta.
Torniamo in città al tramonto. Guidando, le canto la canzone più famosa su Roma: "Arrivederci Roma, goodbye and au revoir/Voglio rivedere via Margutta..."
I miei colleghi resteranno di fronte al castello fino alle tre del mattino, senza riuscire a vedere nulla. Marsha ed io, invece, siamo di nuovo vip-free. Ceniamo a lume di candela nella nostra trattoria preferita, Edy in vicolo del Babuino. Poi saliamo a dormire nella stanza di Truman, nel palazzo di Audrey e Gregory.
"È vero che la parola romantico deriva da Roma?", mormora Marsha prima di chiudere soddisfatta gli occhi azzurrissimi. La guardo con tenerezza: ora che dorme, sembra veramente la principessa di 'Vacanze Romane'.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
New York Observer
Roma, sabato 18 novembre 2006
Marsha, la mia fidanzata newyorkese, ha appena scoperto che oggi si sposano Tom Cruise e Katie Holmes. Siamo anche noi a Roma in queste settimane. Abbiamo affittato un loft in via Margutta 33.
Marsha era diventata pazza quando ha saputo che in questo stesso palazzo abitò per sei mesi Truman Capote, nel 1953: "Lo voglio" .
"Ma ci chiedono tremila euro al mese", ho obiettato.
"Li vale", ha detto con gli occhi brillanti di gioia. "E poi, Mauro, non noti nessuna coincidenza?"
"No".
"Le date".
"Cioè?"
"Fifty-three and fifty-three..."
"Cinquantatre?"
"Sì, era il '53 quando Truman visse qui, e da allora sono passati esattamente '53 anni. Non è fantastico?"
Adoro Marsha per questi suoi improvvisi entusiasmi puerili. È un ex modella stupenda, abbastanza anoressica ma affamata di vita, curiosa di tutto e facilmente eccitabile (anche sessualmente) da piccoli particolari riguardanti celebrità del passato e del presente.
Poter abitare lo stesso posto dove Capote visse più di mezzo secolo fa - quando non era nessuno se non un giovane ricco americano gay aspirante scrittore - ma soprattutto poterlo poi raccontare alle sue amiche, la fa andare al settimo cielo. Come se le pareti di questo ex studio di pittore riuscissero ancora trasudare storia ed emozioni. Probabilmente non ha mai letto nulla di Capote, neanche 'A sangue freddo'. Lo conosce solo dal film del 2005 con Philip Seymour Hoffman. Ma fa niente. Basta il nome. Ormai lei lo chiama confidenzialmente Truman. È diventato un nostro intimo, post mortem.
Marsha è innamorata di Roma. C'è già stata altre volte, con altri uomini. Io sospetto che sia più innamorata di Roma che di me. Sono quasi geloso.
"Vuoi me o i miei soldi?", chiedono le miliardarie di Manhattan ai loro spasimanti.
"Vuoi me o l'Italia?", domando io alle ragazze di Manhattan che diventano improvvisamente troppo cordiali quando scoprono che vengo dalla terra di Dolce & Gabbana e del pinot grigio che amano ingollare.
Ho conosciuto Marsha due anni fa a un cocktail-party a New York, dove sono corrispondente per un settimanale italiano. Bellissima 29enne, occhi azzurri, gambe da sogno, è rimasta a lavorare nel mondo della moda. Mi porta con lei a tutti i fashion events di Manhattan, dalle sfilate di Calvin Klein ai gala al Waldorf e ai vernissage dei nuovi negozi sulla Quinta Avenue.
Ho ricambiato con questo soggiorno a Roma. Avevo fatto una ricerca su Google per controllare la questione di Capote. Sì, è vero. Non solo abitò nel palazzo, ma dieci anni dopo descrisse il suo soggiorno romano in un racconto titolato 'Lola', dal nome della cornacchia con cui conviveva. Probabilmente l unico animale femmina che abbia mai amato in vita sua...
Cazzeggiando sui internet, però, ho fatto un altra scoperta. Sconvolgente, per una drogata di celebrity come Marsha. In via Margutta 33 girarono anche il film 'Vacanze Romane'. Sempre in quel fatidico anno, 1953. Glielo dico quando torna a casa, nel nostro appartamento di West End Avenue. Lei ha quasi un orgasmo: "Reeeally?"
Va subito a controllare sul computer. "Wow!", urla.
Ora, bisogna sapere che più passano gli anni, più 'Roman Holidays' è diventato per gli americani il simbolo di tutto ciò che c'è di attraente in Italia: dolce vita, amore, uomini romantici.
"E Gregory Peck era giornalista come te Mauro, un'altra incredibile coincidenza", mi sussurra Marsha con i suoi occhioni sognanti.
Mi bacia: "Sarò la tua principessa Audrey Hepburn..."
Va a sdraiarsi sul divano, facciamo l'amore. Viene prima di me (non capita spesso). Per fortuna l'agenzia immobiliare non ci ha chiesto cinquemila euro: temo che a quel punto Marsha avrebbe pagato qualsiasi cifra per un mese in quei 60 metri quadri con soppalco.
Arriviamo a Roma, il posto in via Margutta è in effetti delizioso. A me per la verità ricorda una casa di ringhiera milanese con ballatoio, ma Marsha è così emozionata che arrivata in cima alle scale del cortile interno, pieno di oleandri, ciclamini, glicini e palme, apre la porta del loft a due piani, grida "I'm so happy, Mauro!".
Mi trascina dentro con le valigie, richiude la porta, mi abbraccia, mi bacia interminabilmente e intanto si sfila le mutandine. È umidissima (a New York non capita spesso: "Sono stressata", dice sempre). Mi stringe a sè, vuole che la prenda in piedi sulla parete. Mugola dal piacere, le devo tappare la bocca, gode quasi subito (a New York non capita spesso, senza l'ausilio di un dito: "Sono clitoridea", mi ha spiegato solenne).
Qualche giorno dopo, Marsha scopre sui giornali la terza coincidenza: Cruise e la sua fidanzatina Kate sono all'hotel Hassler, a duecento metri da noi, sopra piazza di Spagna. E si sposano proprio oggi, in un castello sul lago di Bracciano.
"Dov'è?"
"Lontanissimo, Marsha".
"Quanto lontano? Vicino a lake Como?" (chissà perché i newyorkesi conoscono solo il lago di Como e l'albergo Villa d'Este).
"Ecco. Più o meno", baro per togliermi l'impiccio.
Marsha però è relentless, testarda. Come Bush. Quando si mette in testa una cosa, addio. Mi trascina per via del Babuino e su per la scalinata di Trinità dei Monti. Davanti all'hotel Hassler troviamo radunata una piccola folla. È l'una.
"Che succede?", domando ai curiosi.
"Ora escono", mi risponde uno sfaccendato.
"Ok Marsha, andiamocene. Non possiamo aspettare qui come due deficienti, chi se ne frega".
"No, dai, fammi vedere".
"E se escono fra tre ore? Non vedo nessuna limousine parcheggiata qui vicino. E poi, vedi: ci sono solo turisti, perditempo. Agli italiani non frega nulla di questi cosiddetti matrimoni del secolo . Anche perché ne vediamo da 27 secoli..."
"Dai, non fare il blasé. Non fare finta, che sei excited pure tu. Siamo testimoni di history in the making, la storia che si compie sotto i nostri occhi..."
Fortuna che le rimane un po di autoironia. In fondo si è laureata con una tesi su Derrida.
"Su, torniamo a casa", la tiro per il braccio.
Il mio obiettivo è passare qualche ora a letto a leggere i giornali, come facciamo ogni sabato a New York con i due chili del Times del week-end.
"Eccoli!", strilla Marsha improvvisamente.
In effetti una Mercedes nera si ferma di fronte all'entrata dell'Hassler.
"Ma sono Jennifer Lopez e Victoria Beckham", la informo, allungando il collo. "Il peggio del peggio. Saranno fra le invitate. Stanno entrando, non esce nessuno. Andiamo via".
"Prima o poi Tom Cruise e Katie dovranno uscire. Il matrimonio è previsto per le sei. In un castello. Anch'io sogno di sposarmi in un castello..."
Ecchetela. Afferro il messaggio subliminale.
"Dai Mauro, portami al castello. Andiamo a vedere Bracciano. Prendi l'auto. Quant'è lontano?"
"Ma almeno cento miglia", mento, loro ci andranno in elicottero".
"Eccoli!"
Un gippone con i vetri fumé esce dalla porta di servizio e sgomma via. Impossibile vedere chi c'era dentro.
"Seguiamoli, corri a prendere l'auto al parcheggio!"
Marsha è così sovraeccitata che non tento neppure di contraddirla. Sono innamorato, mi piace regalarle qualcosa qui in Italia. La amerà ancora di più, e di riflesso amerà anche me. E poi, per dirla tutta, questa sua energia molto americana risulta assai sexy per un pigro e scettico europeo come me.
Dopo venti minuti siamo in auto. È un pomeriggio brillante di sole dopo un temporale, i pini marittimi lungo la Cassia esibiscono un verde intenso, guido e sono felice vedendola felice.
"Pensi che il castello sia circondato da poliziottotti, assediato da giornalisti e cose del genere?", mi chiede.
"Certo. Ma anch'io sono giornalista. Riusciremo a passare, non preoccuparti".
Arriviamo a Bracciano alle tre del pomeriggio. Per fortuna Marsha è totalmente ignara di geografia italiana, e non mi chiede conto della mia bugia sulla vicinanza con il lago di Como. Bella cittadina, non c'ero mai stato, nessuno in giro. Parcheggiamo.
'Cinquantamila curiosi per le nozze di Tom', titola speranzoso un giornale appeso a un edicola. Ce ne saranno a malapena cinquanta nella vecchia strada che ci porta in centro. Quando arriviamo nella piazza di fronte al castello Odescalchi, vedo un piccola folla di reporter con telecamere di fronte all'entrata. Vado a salutare Umberto Pizzi, il mio amico paparazzo autore della rubrica Cafonal sul sito Dagospia. Ci sono perfino due elicotteri che girano rumorosi attorno agli spalti.
"Mauro, I lllove this castle!"
Marsha è abbacinata: "Ha otto torri invece di quattro, è enorme. Ho deciso: ci sposeremo anche noi qui!"
"Certo, cara. Ho letto sul giornale che anche Keira Knightley ora vuole un matrimonio a Bracciano. Sta diventando di moda sposarsi qui..."
Alcuni colleghi mi riconoscono: "Suttora, ma non stavi a New York? Sei venuto apposta per Tom Cruise?"
"Ovvio", invento, "e la mia fidanzata americana Marsha è fra gli invitati, perché fa parte della setta di Tom, Scientology. Così entro pure io".
"Allora quando sei dentro ti chiamiamo sul telefonino, così ci descrivi la cerimonia. Ci sarà anche una cena? Chi sono gli invitati? Quando entri? È vero che John Travolta è arrivato a Ciampino col suo jet privato?"
"Ragazzi, io ci provo, ma non posso creare problemi a Marsha. Vedremo..."
Intanto lei mi guarda. Conosce un po' d'italiano, e capisce che ho trovato un modo per infilarmi nel maniero.
"Beh, prima d'entrare voglio mostrare il paese e il panorama sul lago alla mia fidanzata, sta per fare buio. Ci vediamo più tardi..."
Prendo Marsha per mano e andiamo sul retro del castello. Ci sediamo a un bar.
"Mauro, allora riusciamo a entrare?"
"Figurati, è sigillato peggio del Cremlino".
"Ma avevo capito..."
"Hai capito bene: con i miei colleghi giornalisti ho fatto finta che tu fossi invitata, e io con te, ma che non possiamo dire nulla. E ora andiamocene, altrimenti scoprono lo scherzo".
Passeggiamo per Bracciano, sul lungolago e in centro. Marsha si calma, e improvvisamente non gliene importa più nulla del matrimonio del secolo. La sua finestra di attenzione si è esaurita, la curiosità saziata: le è bastata la visione del castello. La amo anche per questo: cambia idea spesso, e in fretta.
Torniamo in città al tramonto. Guidando, le canto la canzone più famosa su Roma: "Arrivederci Roma, goodbye and au revoir/Voglio rivedere via Margutta..."
I miei colleghi resteranno di fronte al castello fino alle tre del mattino, senza riuscire a vedere nulla. Marsha ed io, invece, siamo di nuovo vip-free. Ceniamo a lume di candela nella nostra trattoria preferita, Edy in vicolo del Babuino. Poi saliamo a dormire nella stanza di Truman, nel palazzo di Audrey e Gregory.
"È vero che la parola romantico deriva da Roma?", mormora Marsha prima di chiudere soddisfatta gli occhi azzurrissimi. La guardo con tenerezza: ora che dorme, sembra veramente la principessa di 'Vacanze Romane'.
Mauro Suttora
Celebrity-free
Tom Cruise wedding in Bracciano Castle (Rome)
'The New York Observer', December 2006
by Mauro Suttora
"Sounds like hassle".
"Let's go home, then".
"Sounds like hustler".
"Yes, but it's Hassler instead, can't you read it above the front door?"
Rome, Saturday November 18, 2006. One pm. Marsha, my New York girlfriend, has dragged me in front of the hotel atop the Spanish steps where Tom Cruise is staying with his fiancée Kate Holmes since five days now. The sun is shining, I left home just to buy the papers.
The Rome apartment we're renting in Via Margutta 33 is at walking distance from the Spanish Steps. Truman Capote lived for a few months in our very flat 53 years ago, in 1953, when he was just a young American gay touring Italy. He wrote about it ten years later in the short story 'Lola', the name of his roommate (a black young she-raven, possibly the only female he ever loved).
During that same year 1953 the movie 'Roman Holidays' was shot in this very building courtyard. I feel so Gregory Peck, the journalist whose pad princess Audrey Hepburn slept in...
Marsha has accompanied me outside, and after stopping at the newsstand she convinced me to climb the steps:
"Let’s get a glimpse of history in the making..."
"Come on, Marsha, you always act so celebrity-free while in New York City. Who cares about today's marriage?"
"Just a little curiosity, mummy has asked me about it".
"Ah, you're constantly on the phone with your mummy in Manhattan, from Rome too. The umbilical cord. Will you turn cordless someday, honey?"
"See, all this crowd in front of the hotel... Romans are curious as well, despite their pretending being jaded after 27 centuries of celeb-watching".
"No locals, it's just tourists. Italians have better things to do than wasting time after Tom Cruise or any other self-appointed 'wedding of the century".
"Here they are! Who's coming out of the limo?"
A black Mercedes stops in front of the Hassler Hotel. I crane my neck.
"Jennifer Lopez and Victoria Beckham. The worst of the worst".
"But they're getting in".
"Nobody coming out. Come on, let's go, Marsha".
"If all these people keep waiting, Tom and Kate are due out any moment. They have to come out in any case, the ceremony at the castle is supposed to take place today at 6 p.m."
"Maybe they're already there, at Bracciano. I wonder why they switched from lake Como to Bracciano. All American actors love lake Como and its Villa d'Este Hotel in Cernobbio, what's so special in Bracciano?"
"The castle".
"Yeah..."
"I would love to marry in a castle..."
"Yeah... Alright Marsha".
"Let s go see this one".
"What? You want to go to Bracciano? Today?"
"Yes, let's follow them when they come out of the hotel".
"What if they take an helicopter?"
"Go and get the car".
"But Bracciano is 30 miles away... And it's gonna be flooded with people this afternoon".
"Look, they're coming out!"
A black SUV is exiting the service entrance, but it's impossible to see anyone behind its darkened windows.
"Who knows, Marsha, it could have been anybody. Let's go home now".
"No way. Get the car, we're definitely going to the Bracciano castle".
"Keep your wide mouth shut".
I would have loved replying so, just to bet on her recognizing the Cruise/Kidman pun. But in these moments she always gets a humour failure. I know her, she's so surcharged now: impossible to joke, impossible to stop her. No way to discuss nor to object. She is determined, my only answer can be "Yes", or leave.
When my Italian friends ask me how I stand her, I reply that I like her exactly because of this: she's so imperious, doubtless, energetic, aggressively American. Very sexy, to an old (in the Rumsfeld sense), lazy, dreamy European. Besides, she turns so sweet in bed. So, I am totally subjected when she gets into one of these fits of hers. Probably also because I love her. That's why I don't rebel. Oh, did I say I love her? Sometimes I forget.
O.K., I decide to go with her to the Tom Cruise wedding in Bracciano Castle. So I head for the Villa Borghese underground parking, to get our car. A wonderful Lancia Ypsilon compact, and it's a sunny day right after a shower, why not travel through the country to Bracciano anyway?
"Why not", the magic words which make it impossible to argue with Marsha, my beautiful love.
I look at her while driving on the Cassia old consular road lined with parachute-shaped maritime pine trees: she's so excited to go to the marriage in the castle. And I'm so happy to offer her this gift, in order to make her love Italy evermore.
"Do you think the castle will be surrounded by journalists?"
"Of course. But I'm one. I'll get a pass, don't worry".
We arrive in Bracciano at 3 pm. Lovely town, no one around. 50,000 people expected for Tom’s wedding, headlines a daily we bought. There are maybe 50 in the old grey street climbing to the castle. When we arrive in the square in front of the castle, we notice a small crowd of reporters in front of the entrance. Umberto Pizzi, the king of Rome paparazzi, is cruising aimlessly. Two press helicopters hover noisily.
“Mauro, I lllove this castle!” Marsha is thrilled “It’s humongous, it has got eight towers instead of four! Wow! We re definitely gonna get married here!”
“Yes dear, like Christiane Amanpour and James Rubin back in ’98. And I read in the paper today that Keira Knightley wants to marry here too. Bracciano weddings are becoming fashionable”.
I speak with some colleagues I know, they’re surprised to see me: “Have you come from New York just for the wedding?”
“Of course”, I joke them. “And my girlfriend Marsha is invited, so I’m getting in. She belongs to Scientology”.
“We’ll call you around 10 then, can you keep your cell turned on? Is there a reception inside? Is there any reception before the ceremony? When are you getting in? Have you seen John Travolta, he was supposed to land in Rome with his private jet this morning…”
“Sorry folks, I can’t embarrass Marsha, and those people are real paranoiacs, I had to sign a promise of silence. They’ll ask for all of our cellphones at the entrance” .
“And you’re not going to break the embargo, are you?”
“I really can’t”.
Marsha looks at me wide eyes open, she knows only a few words in italian and understands that the almighty Italian journalist Mauro has found a way to sneak in.
“Bye now, we’ll come back and get in later, now we want to tour the town before darkness”, I salute my fellow Italian reporters who are green with envy.
I take Marsha by the hand, we go around the corner and sit down in a café where we order one macchiato and one cappuccino.
“Mauro, is there really a way to get in?”
“No way Marsha, it’s all sealed. Worse than the Kremlin”.
“But I understood…”
“Yes, you understood well: I pretended you were invited, and me along with you, but that we can’t report anything”.
“…”
“Ok darling, now let’s go, otherwise they’ll find out about our joke”.
We proceed to visit Bracciano. Very nice town indeed. Marsha calms down and suddenly doesn’t give a damn about the wedding of the century. Her window of interest has run out, the castle vision has satisfied her. I love her also because she changes her mind often and fast, even before the job is done. We’re not going to get stuck here. Bracciano won’t be our Iraq.
We’re back in Rome right after sunset. While driving, I entertain her by singing the most famous song about Rome: “Arrivederci Roma, goodbye and au revoir/ Voglio rivedere via Margutta…”
My colleagues stay on in front of the castle until 3 a.m. Can’t get a glimpse of anything. At that time, Marsha and I are celebrity-free again, sleeping in the Truman Capote’s bed of the Audrey&Gregory building after a lovely candle-lit al fresco dinner at Edy, our favourite osteria in vicolo del Babuino.
“I guess the word romantic comes from Rome”, whispers starry-eyed Marsha just before closing them.
Mauro Suttora
Tuesday, October 31, 2006
Ansa: 'No Sex in the City' libro del giorno
(ANSA) - ROMA, 31 ott - (di Maurizio Giammusso) - MAURO
SUTTORA, 'NO SEX IN THE CITY. AMORI E AVVENTURE DI UN ITALIANO A NEW YORK' (Cairo editore, pp 223, euro 14.00)
Un pò diario, un pò inchiesta sul campo, un pò vademecum (in appendice tutti luoghi di cui si parla), ma sempre col sapore del "vissuto" autobiografico e con un gradevole umorismo: ecco le qualità del libro di Mauro Suttora, milanese, classe 1959, giornalista Rizzoli, con un piede a Milano e l'altro a New York; uno che da una parte è un bel campione di maschio italico in trasferta, e dall'altra un osservatore tanto smagato, da firmare rubriche di costume anche su settimanali americani importanti come Newsweek e New York Observer. Come dire un nipotino di Casanova quanto ad avventure (non tutte riuscite) e un ammiratore di Tom Wolfe, quanto a curiosità, gusto del dettaglio e passione per il pettegolezzo.
Più esattamente il libro pone questa domanda: che cosa
succede a un giovane italiano, solo nella patria di 'Sex and the
City', il serial divenuto la bibbia televisiva dei comportamenti
sessuali americani? La risposta dello scrittore suona più o
meno così: nella vita febbrile di Manhattan, l'isola a più
alto tasso di donne single del mondo, la realtà è bizzarra
proprio come appare nelle avventure delle quattro star della
serie tv. E a volte anche di più. Le favolose donne di New
York, tutte in carriera, perlopiù nevrotiche ai limiti del
comico, finalmente sono fotografate dalla prospettiva opposta:
quella di un maschio single, per di più europeo, anzi italiano.
"Gli europei vengono da Venere, gli americani da Marte" si
dice oltreoceano. Forse è vero, forse no, ma certo è un buona
battuta per cominciare una conversazione con una bionda (o
bruna, o rossa) mozzafiato, al bancone di un pub o al cocktail
di un vernissage. Così tra tacchi alti, hot dog vegetariani,
corse in taxi bollenti e sogni di anello al dito, il
protagonista s'imbatte in un gran numero di donne: Liza,
bellissima Fashion-victim che lo scarica via e-mail; Maria,
pantera a parole, ma agnellino quando si passa ai fatti; Paula
disposta a tutto, ma non a baciare... E 'No Sex in the City'
diventa l'ultima, indispensabile guida per chi ama New York ed
è affascinato dai suoi misteri.
SUTTORA, 'NO SEX IN THE CITY. AMORI E AVVENTURE DI UN ITALIANO A NEW YORK' (Cairo editore, pp 223, euro 14.00)
Un pò diario, un pò inchiesta sul campo, un pò vademecum (in appendice tutti luoghi di cui si parla), ma sempre col sapore del "vissuto" autobiografico e con un gradevole umorismo: ecco le qualità del libro di Mauro Suttora, milanese, classe 1959, giornalista Rizzoli, con un piede a Milano e l'altro a New York; uno che da una parte è un bel campione di maschio italico in trasferta, e dall'altra un osservatore tanto smagato, da firmare rubriche di costume anche su settimanali americani importanti come Newsweek e New York Observer. Come dire un nipotino di Casanova quanto ad avventure (non tutte riuscite) e un ammiratore di Tom Wolfe, quanto a curiosità, gusto del dettaglio e passione per il pettegolezzo.
Più esattamente il libro pone questa domanda: che cosa
succede a un giovane italiano, solo nella patria di 'Sex and the
City', il serial divenuto la bibbia televisiva dei comportamenti
sessuali americani? La risposta dello scrittore suona più o
meno così: nella vita febbrile di Manhattan, l'isola a più
alto tasso di donne single del mondo, la realtà è bizzarra
proprio come appare nelle avventure delle quattro star della
serie tv. E a volte anche di più. Le favolose donne di New
York, tutte in carriera, perlopiù nevrotiche ai limiti del
comico, finalmente sono fotografate dalla prospettiva opposta:
quella di un maschio single, per di più europeo, anzi italiano.
"Gli europei vengono da Venere, gli americani da Marte" si
dice oltreoceano. Forse è vero, forse no, ma certo è un buona
battuta per cominciare una conversazione con una bionda (o
bruna, o rossa) mozzafiato, al bancone di un pub o al cocktail
di un vernissage. Così tra tacchi alti, hot dog vegetariani,
corse in taxi bollenti e sogni di anello al dito, il
protagonista s'imbatte in un gran numero di donne: Liza,
bellissima Fashion-victim che lo scarica via e-mail; Maria,
pantera a parole, ma agnellino quando si passa ai fatti; Paula
disposta a tutto, ma non a baciare... E 'No Sex in the City'
diventa l'ultima, indispensabile guida per chi ama New York ed
è affascinato dai suoi misteri.
Wednesday, October 25, 2006
Il Foglio anticipa 'No Sex in the City'
Pubblichiamo un brano tratto dal libro “No Sex in the City, avventure e amori di un italiano a New York” di Mauro Suttora, edizioni Cairo (Milano, 2006), in libreria da questa settimana.
LE DIVE DEL JET LAG
Dialogo incorrect nell’Upper Side newyorkese, dove tutte le donne (tranne una) si sentono belle e famose solo perché sanno allacciarsi la cintura in aereo
IL FOGLIO SABATO 14 OTTOBRE 2006, pag. VIII
di Mauro Suttora
Il principale problema nella vita dei genitori di Marsha, la mia fidanzata americana, sono i viaggi dal loro attico sulla Lexington avenue di Manhattan alla villa dei weekend a Easthampton, Long Island. Poiché le corsie riservate ai miliardari non sono state ancora inventate, anche loro quando si spostano in limousine nera Lincoln con lo chauffeur rimangono imbottigliati in autostrada come tutti. L’alternativa ci sarebbe: “Prendiamoci l’elicottero, cara”, esclama il mio probabile suocero durante un sofferto viaggio per il quale ci hanno offerto un passaggio.
Siamo bloccati in coda a Queens da mezz’ora.
”Come dici? Vuoi comprare un elicottero?”, domanda lei al marito abbastanza estraniato. Nonostante abbia solo 60 anni, lui passa il tempo a giocare a golf in giro per il mondo: estati in quel campo famoso scozzese, inverni a Palm Beach in Florida. Ormai si entusiasma soltanto per gli ‘hole-in-one’, buche con un colpo solo.
”Possiamo affittarlo”.
“Affittare l’elicottero?”, strepita la moglie, irrequieta. “Cosa vuoi dire, per tutta la stagione o volta per volta?”.
"Un leasing per l’estate intera non conviene, ci costerebbe quasi quanto comprarlo. E poi dove lo parcheggiamo? No, volta per volta”.
Quel che il padre di Marsha non osa confessare alla moglie è che sì, lui è ricco con molte case in giro per il mondo (New York, Los Angeles, Florida, Londra), ma non tanto da potersi permettere anche un elicottero. Per non parlare dell’aereo privato all’aeroporto di Teterboro, nel New Jersey (quello da cui partì il povero John Kennedy junior prima di precipitare nel ’99).
A Marsha piace fregiarsi del titolo di “Teterboro girl”, le ragazze del jet set così chiamate perché volano sui jet personali di famiglia, o dei mariti, o degli amici. Ma in realtà il suo è un bluff: quando butta lì “L’altro giorno tornavo da Aspen con un Gulfstream”, si riferisce all’aereo dell’amante di una sua amica molto bella e un po’ zoccola (praticamente una mantenuta, cui lui ha regalato una lussuosa garçonnière a Madison avenue).
Insomma, i genitori di Marsha sono ricchissimi ma si sentono poveri perché non possono permettersi l’elicottero privato.
Nell’Upper east side le vittime di questa situazione spiacevole vengono descritte così: “Sono nelle decine, ma non nelle centinaia” (di milioni di dollari, sottinteso). E’ una caratteristica che di solito si accoppia a quella di “essere fra i sessanta e settanta”, intesi come numero delle strade dove abitano - sono gli isolati più ambiti – ma anche come
l’età attuale di chi ci vive in prevalenza, e i decenni che invece videro il loro splendore.
"Però non credere che basti dire ‘I live on East 65 Street’ per poter esibire un indirizzo prestigioso”, mi avverte molto compresa Marsha, mentre mi inizia ai piccoli misteri dello status newyorkese, “perché poi occorre precisare all’altezza di quale avenue”.
Ecco quindi il terzo cruccio dei suoi genitori, oltre a quello di non potersi permettere l’elicottero privato e di essere “in the tens” invece che “in the hundreds”: abitare la penthouse (attico) in una delle venti Strade “giuste”, sì, ma non all’angolo delle uniche due Avenues che contano veramente: la Quinta e Park.
“Lexington sta un gradino sotto, come anche Madison”, sospira Marsha, che poverina è dovuta crescere lì, subendo gli affronti delle compagne di scuola più fortunate.
"E le altre Avenues, la Prima, la Seconda, la Terza?”, le chiedo ingenuo.
“Periferia”, mi sorride, ironica ma non troppo, “tanto vale allora abitare verso la Novantesima Strada, a Carnegie Hill, oppure migrare oltre il parco”.
Cioè nella detestata Upper west side, dove abito io, considerata un ricettacolo di intellettuali ebrei di sinistra. “Per certi Upper Eastsiders attraversare Central Park equivale ad attraversare l’Atlantico”, mi rivela Marsha, “mio padre si spingeva nella West Side solo quando doveva imbarcarsi coi genitori suitransatlantici per l’Europa negli anni Cinquanta”. I moli dei passeggeri stavano infatti nella zona del ghetto portoricano, celebrato da Leonard Bernstein nel suo musical “West Side Story” prima della bonifica con la costruzione del Lincoln Center nel 1961.
Marsha per delicatezza non aggiunge quattro cose: primo, che i suoi genitori hanno storto il naso quando ha detto loro che si è messa con un italiano; secondo, che lo hanno storto ancora di più perché sono separato (negli Usa la separazione non esiste, o si è sposati o divorziati); terzo, ho superato i 40 anni; quarto, faccio il giornalista e non il finanziere (leggi: speculatore) a Wall Street.
La mia quinta caratteristica però è stata dirimente: se la loro adorata figliola ha accettato di trasmigrare in quella che loro considerano “la parte sbagliata di Central Park”, allora dev’essere proprio un grande amore. Che inoltre profuma di Europa, Italia, Roma, Venezia, Firenze…
Quanto a me, per delicatezza non ho detto a Marsha che una volta, nella fase in cui lei insisteva per presentarmi i suoi, ho fatto uno strano sogno: nuotavo, come Paperon de Paperoni, in un immenso forziere quadrato colmo di tappi. Suo padre, infatti, ha fatto fortuna coi tappi, possiede due immense fabbriche che li producono, e due figlie alle quali ovviamente dei tappi non importa nulla. E io, che con la fantasia volo, già mi vedevo alle prese con il mercato mondiale del tappo, indagini di mercato, strategie e quant’altro, nella sede in cima a un grattacielo del World Financial Center: l’adorato genero-erede.
Per mesi Marsha non aveva detto loro nulla di me. Perfino quando ha traslocato a casa mia, per un bel po’ ha fatto finta di continuare a vivere nel suo appartamento da single (la scomparsa dei telefoni fissi permette questi stratagemmi: lei comunica con sua madre via cellulare, e col padre per e-mail). Improvvisamente, però, le è venuta la smania di presentarmeli.
“Ci hanno invitato per il pranzo di Thanksgiving”, mi dice un pomeriggio di sabato al caffè Lalo (quello di “C’è Posta per Te” con Meg Ryan e Tom Hanks), mentre sorseggio la mia solita cioccolata con panna, e lei una spremuta ‘organic’ (biologica) di barbabietole, sedano e carote.
“Ma non sono andati in Florida?”
“Appunto. Li raggiungiamo lì.”
“Non ci penso nemmeno”.
“You are so rude [maleducato], cos’hai contro di loro?”
“Nulla”.
“E allora perché non vuoi conoscerli?”.
“Tua madre la conosco già troppo bene, in pratica era sempre con noi durante il nostro viaggio in Italia.”
“Cosa vuoi dire?”.
“Che sei perennemente attaccata al cordone ombelicale telefonico”.
“Oh, smettila Mauro. Sono solo in buoni rapporti con lei, grazie a Dio. Quanto a noi: viviamo assieme, sarebbe carino che sapessero con chi. Che ti vedessero almeno una volta in faccia”.
“Possono vedermi qui a New York”.
“Io li raggiungo comunque a Palm Beach per Thanksgiving, tutte le famiglie americane si riuniscono per il Giorno del Ringraziamento”.
“Buon viaggio”.
“Ti odio quando fai così”.
“E io odio il tacchino”.
“Ma ci sarà molto altro da mangiare! Il Thanksgiving per noi è la festa più importante, più
del Natale, più della Pasqua…”.
“Mi spiace Marsha, ma non chiedermi di sciupare giorni di ferie per venire in quel gerontocomio a cielo aperto che è la Florida”.
“Non è più come pensi, ci sono anche un sacco di giovani”.
“Sì, le infermiere che curano i vecchi, e poi i caddies dei campi da golf…”.
Incrocio la mamma di Marsha due settimane dopo nei grandi magazzini Bloomingdales. C’ero stato trascinato alla fine del lavoro per un cocktail di presentazione di non so quale nuovo prodotto, Marsha mi aveva dato appuntamento alle sei e si presenta con sua madre: “Ci siamo incontrate per caso sotto al piano terra, stava facendo compere per Natale”, mi annuncia falsa come Giuda.
Un’imboscata in piena regola. La signora è come nelle foto, una bella sessantenne rifattona ‘bottle blonde’, bionda ossigenata come ce ne sono centomila nell’Upper East Side. Nasino finto, occhi svaniti all’insù, sorriso svampito all’ingiù, elegantissima, cachecol, portamento
altero. Uniche note positive: snella, linea perfetta, belle gambe e caviglie splendide, come sua figlia. La quale quindi promette bene per i prossimi trent’anni.
Confesso che esamino di sfuggita anche il bacino della senior: quello di Marsha mi preoccupa, è troppo stretto e magro per essere quello di una buona fattrice. Lo so che è vergognoso ammetterlo, sarò un maniaco, ma una maternità senza problemi fisici è un aspetto importante del mio eventuale matrimonio.
La conversazione con la madre fila liscia e banale come le telefonate madre/figlia, che ormai conosco a memoria. Che traffico sulla Quinta signora mia, sotto Natale non si circola più, non si trova un taxi ma tanto è inutile prenderli, e anche il metrò è impossibile, sovraffollatissimo. Considerazioni surreali, visto che Bloomingdales è a tre isolati da casa sua, ma che lei invece di arrivarci in due minuti a piedi ha preferito torturare il suo chauffeur facendosi accompagnare in limousine. Ormai sono intrappolato: “Be our guest before Christmas”, mi invita-ordina imperiosa la signora, sarò loro ospite prima di Natale.
Non posso più sfuggire. Sapientemente nei giorni seguenti sposto il terreno della trattativa sul dove. La mia ultima linea di resistenza è non incontrarli a casa loro, il che equivarrebbe a un fidanzamento definitivo con Marsha. “Facciamo una cosa informale, vediamoci per una pizza alla Houppa”, le propongo con nonchalance. La Houppa, mitica gioielleria sulla Sessantaquattresima, dove al posto (e al prezzo) dei diamanti vendono pizze.
Arriva la sera micidiale. Per alleggerire l’atmosfera vengono pure la sorella di Marsha e il suo boyfriend. Ma fra il mio futuro suocero e me è, inopinatamente, amore a prima vista. Entrambi ordiniamo una pizza capricciosa, e questa vicinanza di gusto già sembra entusiasmarlo. Poi ovviamente parliamo dell’Italia, e lui si dilunga felice a ricordare per una buona ora tutti i viaggi più belli nella penisola.
Ammorbidito dalla nostaglia e dal pinot grigio,il papà di Marsha impazzisce di gioia quando rispondo alla sua domanda: “Ti piace l’America?”
“Moltissimo. La adoro”, rispondo io, ed è vero.
Non sto a precisare che preferisco quella di Bob Dylan ai bigottoni di George Bush, a lui basta sapere che c’è un europeo che non odia gli Stati Uniti.
“Perché ci detestano tutti?”, mi domanda similpreoccupato.
“Beh, la guerra in Iraq…”, mi addentro io.
Mi interrompe subito: “Ma quel figlio di puttana di Saddam non meritava una bella randellata?”. mi chiede.
“Certo che sì”, rispondo io, sinceramente. E lui si soddisfa così.
Poi va in visibilio per un mio stupido giochetto di parole: “We are stuck in Iraq”, siamo bloccati in Iraq.
“Mi piace la rima, ma soprattutto il fatto che hai detto ‘noi’, e non ‘voi’, vuol dire che ti senti uno dei nostri. Infatti in Iraq ci sono anche soldati italiani, no?”
Non avrei mai pensato di dovere un giorno ringraziare Berlusconi per avermi fatto conquistare il padre della mia fidanzata, ma questo è proprio ciò che è accaduto la sera del 20 dicembre 2004. Ormai il corpulento papà di Marsha mi considera uno della famiglia, mi chiama “son” (figliolo) dimenticando che ho soli 15 anni meno di lui, mi confonde con l’agognato figlio maschio che non ha mai avuto.
L’idillio raggiunge l’apice quando scopriamo di condividere entrambi una vergognosa predilezione per un oscuro complesso degli anni Sessanta chiamato Moody Blues.
“Quelli di ‘Nights in White Satin’?”, mi chiede lui, guardingo e imbarazzato.
“Ebbene sì”.
“Ma è impossibile che tu li conosca, son”.
“E perché?”.
“Perché quella canzone la ballavo nell’estate ’67, mi ricordo esattamente l’anno perchè è stato quando ho conosciuto mia moglie Jane. Do you remember, cara?”
“Certo”, risponde lei, irromantichita.
“Beh, me la ricordo anch’io”, aggiungo, “avevo sette anni e la mettevano sempre nel jukebox dei bagni Cala Sveva di Termoli in the Molise region”.
Questa mia acribia lo manda in visibilio: “Mi piacciono i tipi precisi”.
Infierisco sul neosuocero rimasto evidentemente come me allo stadio anale: “Però da noi andava di più una cover di un complesso che l’aveva tradotta in italiano, ‘Ho Difeso’ dei Dik Dik”.
Lui commenta estasiato: “Era il più bel lento della storia, lo ballavamo a Washington, ti ricordi Jane?”.
“Se permette, sir, lo porrei a pari merito con ‘A Whiter Shade of Pale’ dei Procol Harum, stessa estate”.
Mi guarda con gli occhi umidi: “Son, tu sei la bibbia, sei un’enciclopedia vivente, sei... sei fantastico. Hai ragione, oh, i Procol Harum! Come ho potuto dimenticarli?”.
Marsha, che detesta le mie predilezioni musicali rétro, non ne può più. I Moody Blues e i Procol Harum li conosce soltanto perchè abbiamo litigato quando ho osato invitarla ai loro concerti. “Senti, Mauro, pochi giorni dopo averti conosciuto mi hai trascinata a una serata con Jorma Kaukonen”, mi aveva risposto, “e avevo accettato pensando fosse una cosa palatable, commestibile, accettabile. Ma non mi sono mai annoiata così tanto. Se tu devi recuperare il tempo perduto fallo pure, ma ti prego non coinvolgermi più”.
Così mi tocca andare da solo a tutti i concerti dei grandi degli anni Sessanta ancora in circolazione, da Crosby Stills e Nash agli Allman Brothers, dai Jefferson a Steve Winwood. Nel famoso teatro Town Hall, dove nel ’45 Charlie Parker inventò il bebop, ho visto fuoriuscire
dalla formalina Art Garfunkel. E poi l’ho rivisto accoppiato col compare Paul Simon. Nessun mio amico di New York condivide questa solitaria perversione, tranne Christian Rocca col quale sono andato a vedere Neil Young alla Radio City Music Hall. Ma ora ho mio suocero, come compagno di future scorribande nel cateterock.
Si tratta di concerti impegnativi, di una lunghezza spossante, perchè all’intervallo i musicisti dicono sempre: “Ci vediamo fra poco”.
Invece passano come minimo tre quarti d’ora: infatti il pubblico formato da sessantenni (gli ex hippies degli anni Sessanta) è debole di prostata, e quindi si formano sempre code interminabili ai cessi.
Finito l’acme musicale siamo al dessert. Se fosse per il papà di Marsha, a questo punto più che darmi la figlia mi sposerebbe direttamente lui. O mi nominerebbe seduta stante direttore della sua multinazionale di tappi. Si informa distrattamente del mio lavoro, e sentenzia subito con una prosopopea che mi fa sentire Dustin Hoffman nel ‘Laureato’: “Son, il futuro del giornalismo è nella rete”.
"Grazie al cazzo, non me n’ero accorto", mi viene da rispondergli, però non voglio rovinare l’atmosfera supercordiale. Anche perchè lo impressiona molto il fatto che io scriva su “Newsweek”, ma soprattutto che abbia una column sul “New York Observer”: settimanale che vende solo 60 mila copie rispetto ai tre milioni di “Newsweek”, ma è il massimo dello chic per quel maso chiuso che è l’Upper East Side, in transumanza a Palm Beach d’inverno e agli Hamptons d’estate. Giornale intelligente ed irriverente stampato su carta rosa, viene letto da tutti i “socialites” del bel mondo di Manhattan per tenersi à la page, ne segue i tic e ne impone le tendenze. Il padre di Marsha non ne apprezza la linea politica troppo liberal, ma compulsa avidamente le notizie immobiliari.
(…) Mentre usciamo dalla Houppa salgo con Marsha su un taxi. Lei è raggiante: “Mauro, è stato un successo”.
Io sento solo che sto per precipitare in un fidanzamento pronto, a presa rapida e asfissiante. Finirò in uno di quegli attici terrorizzanti dove si arriva schiacciando il bottone PH (penthouse) sull’ascensore, ma solo dopo aver girato la chiave accanto. Si entra direttamente in casa, non c’è neppure il pianerottolo. Quando vorrò fare una festa dovrò ordinare il catering da Fauchon, camerieri in divisa si aggireranno per le stanze.
E per andare agli Hamptons non potrò neppure prendere l’elicottero, perchè Marsha, come sua madre, obietterà: “Se ci vede qualche conoscente all’eliporto della Trentatreesima Strada, e nota che non è di proprietà ma che ci siamo ridotti ad affittarlo, che figura facciamo?”.
Mauro Suttora
(dal capitolo 25: "I miei futuri suoceri")
LE DIVE DEL JET LAG
Dialogo incorrect nell’Upper Side newyorkese, dove tutte le donne (tranne una) si sentono belle e famose solo perché sanno allacciarsi la cintura in aereo
IL FOGLIO SABATO 14 OTTOBRE 2006, pag. VIII
di Mauro Suttora
Il principale problema nella vita dei genitori di Marsha, la mia fidanzata americana, sono i viaggi dal loro attico sulla Lexington avenue di Manhattan alla villa dei weekend a Easthampton, Long Island. Poiché le corsie riservate ai miliardari non sono state ancora inventate, anche loro quando si spostano in limousine nera Lincoln con lo chauffeur rimangono imbottigliati in autostrada come tutti. L’alternativa ci sarebbe: “Prendiamoci l’elicottero, cara”, esclama il mio probabile suocero durante un sofferto viaggio per il quale ci hanno offerto un passaggio.
Siamo bloccati in coda a Queens da mezz’ora.
”Come dici? Vuoi comprare un elicottero?”, domanda lei al marito abbastanza estraniato. Nonostante abbia solo 60 anni, lui passa il tempo a giocare a golf in giro per il mondo: estati in quel campo famoso scozzese, inverni a Palm Beach in Florida. Ormai si entusiasma soltanto per gli ‘hole-in-one’, buche con un colpo solo.
”Possiamo affittarlo”.
“Affittare l’elicottero?”, strepita la moglie, irrequieta. “Cosa vuoi dire, per tutta la stagione o volta per volta?”.
"Un leasing per l’estate intera non conviene, ci costerebbe quasi quanto comprarlo. E poi dove lo parcheggiamo? No, volta per volta”.
Quel che il padre di Marsha non osa confessare alla moglie è che sì, lui è ricco con molte case in giro per il mondo (New York, Los Angeles, Florida, Londra), ma non tanto da potersi permettere anche un elicottero. Per non parlare dell’aereo privato all’aeroporto di Teterboro, nel New Jersey (quello da cui partì il povero John Kennedy junior prima di precipitare nel ’99).
A Marsha piace fregiarsi del titolo di “Teterboro girl”, le ragazze del jet set così chiamate perché volano sui jet personali di famiglia, o dei mariti, o degli amici. Ma in realtà il suo è un bluff: quando butta lì “L’altro giorno tornavo da Aspen con un Gulfstream”, si riferisce all’aereo dell’amante di una sua amica molto bella e un po’ zoccola (praticamente una mantenuta, cui lui ha regalato una lussuosa garçonnière a Madison avenue).
Insomma, i genitori di Marsha sono ricchissimi ma si sentono poveri perché non possono permettersi l’elicottero privato.
Nell’Upper east side le vittime di questa situazione spiacevole vengono descritte così: “Sono nelle decine, ma non nelle centinaia” (di milioni di dollari, sottinteso). E’ una caratteristica che di solito si accoppia a quella di “essere fra i sessanta e settanta”, intesi come numero delle strade dove abitano - sono gli isolati più ambiti – ma anche come
l’età attuale di chi ci vive in prevalenza, e i decenni che invece videro il loro splendore.
"Però non credere che basti dire ‘I live on East 65 Street’ per poter esibire un indirizzo prestigioso”, mi avverte molto compresa Marsha, mentre mi inizia ai piccoli misteri dello status newyorkese, “perché poi occorre precisare all’altezza di quale avenue”.
Ecco quindi il terzo cruccio dei suoi genitori, oltre a quello di non potersi permettere l’elicottero privato e di essere “in the tens” invece che “in the hundreds”: abitare la penthouse (attico) in una delle venti Strade “giuste”, sì, ma non all’angolo delle uniche due Avenues che contano veramente: la Quinta e Park.
“Lexington sta un gradino sotto, come anche Madison”, sospira Marsha, che poverina è dovuta crescere lì, subendo gli affronti delle compagne di scuola più fortunate.
"E le altre Avenues, la Prima, la Seconda, la Terza?”, le chiedo ingenuo.
“Periferia”, mi sorride, ironica ma non troppo, “tanto vale allora abitare verso la Novantesima Strada, a Carnegie Hill, oppure migrare oltre il parco”.
Cioè nella detestata Upper west side, dove abito io, considerata un ricettacolo di intellettuali ebrei di sinistra. “Per certi Upper Eastsiders attraversare Central Park equivale ad attraversare l’Atlantico”, mi rivela Marsha, “mio padre si spingeva nella West Side solo quando doveva imbarcarsi coi genitori suitransatlantici per l’Europa negli anni Cinquanta”. I moli dei passeggeri stavano infatti nella zona del ghetto portoricano, celebrato da Leonard Bernstein nel suo musical “West Side Story” prima della bonifica con la costruzione del Lincoln Center nel 1961.
Marsha per delicatezza non aggiunge quattro cose: primo, che i suoi genitori hanno storto il naso quando ha detto loro che si è messa con un italiano; secondo, che lo hanno storto ancora di più perché sono separato (negli Usa la separazione non esiste, o si è sposati o divorziati); terzo, ho superato i 40 anni; quarto, faccio il giornalista e non il finanziere (leggi: speculatore) a Wall Street.
La mia quinta caratteristica però è stata dirimente: se la loro adorata figliola ha accettato di trasmigrare in quella che loro considerano “la parte sbagliata di Central Park”, allora dev’essere proprio un grande amore. Che inoltre profuma di Europa, Italia, Roma, Venezia, Firenze…
Quanto a me, per delicatezza non ho detto a Marsha che una volta, nella fase in cui lei insisteva per presentarmi i suoi, ho fatto uno strano sogno: nuotavo, come Paperon de Paperoni, in un immenso forziere quadrato colmo di tappi. Suo padre, infatti, ha fatto fortuna coi tappi, possiede due immense fabbriche che li producono, e due figlie alle quali ovviamente dei tappi non importa nulla. E io, che con la fantasia volo, già mi vedevo alle prese con il mercato mondiale del tappo, indagini di mercato, strategie e quant’altro, nella sede in cima a un grattacielo del World Financial Center: l’adorato genero-erede.
Per mesi Marsha non aveva detto loro nulla di me. Perfino quando ha traslocato a casa mia, per un bel po’ ha fatto finta di continuare a vivere nel suo appartamento da single (la scomparsa dei telefoni fissi permette questi stratagemmi: lei comunica con sua madre via cellulare, e col padre per e-mail). Improvvisamente, però, le è venuta la smania di presentarmeli.
“Ci hanno invitato per il pranzo di Thanksgiving”, mi dice un pomeriggio di sabato al caffè Lalo (quello di “C’è Posta per Te” con Meg Ryan e Tom Hanks), mentre sorseggio la mia solita cioccolata con panna, e lei una spremuta ‘organic’ (biologica) di barbabietole, sedano e carote.
“Ma non sono andati in Florida?”
“Appunto. Li raggiungiamo lì.”
“Non ci penso nemmeno”.
“You are so rude [maleducato], cos’hai contro di loro?”
“Nulla”.
“E allora perché non vuoi conoscerli?”.
“Tua madre la conosco già troppo bene, in pratica era sempre con noi durante il nostro viaggio in Italia.”
“Cosa vuoi dire?”.
“Che sei perennemente attaccata al cordone ombelicale telefonico”.
“Oh, smettila Mauro. Sono solo in buoni rapporti con lei, grazie a Dio. Quanto a noi: viviamo assieme, sarebbe carino che sapessero con chi. Che ti vedessero almeno una volta in faccia”.
“Possono vedermi qui a New York”.
“Io li raggiungo comunque a Palm Beach per Thanksgiving, tutte le famiglie americane si riuniscono per il Giorno del Ringraziamento”.
“Buon viaggio”.
“Ti odio quando fai così”.
“E io odio il tacchino”.
“Ma ci sarà molto altro da mangiare! Il Thanksgiving per noi è la festa più importante, più
del Natale, più della Pasqua…”.
“Mi spiace Marsha, ma non chiedermi di sciupare giorni di ferie per venire in quel gerontocomio a cielo aperto che è la Florida”.
“Non è più come pensi, ci sono anche un sacco di giovani”.
“Sì, le infermiere che curano i vecchi, e poi i caddies dei campi da golf…”.
Incrocio la mamma di Marsha due settimane dopo nei grandi magazzini Bloomingdales. C’ero stato trascinato alla fine del lavoro per un cocktail di presentazione di non so quale nuovo prodotto, Marsha mi aveva dato appuntamento alle sei e si presenta con sua madre: “Ci siamo incontrate per caso sotto al piano terra, stava facendo compere per Natale”, mi annuncia falsa come Giuda.
Un’imboscata in piena regola. La signora è come nelle foto, una bella sessantenne rifattona ‘bottle blonde’, bionda ossigenata come ce ne sono centomila nell’Upper East Side. Nasino finto, occhi svaniti all’insù, sorriso svampito all’ingiù, elegantissima, cachecol, portamento
altero. Uniche note positive: snella, linea perfetta, belle gambe e caviglie splendide, come sua figlia. La quale quindi promette bene per i prossimi trent’anni.
Confesso che esamino di sfuggita anche il bacino della senior: quello di Marsha mi preoccupa, è troppo stretto e magro per essere quello di una buona fattrice. Lo so che è vergognoso ammetterlo, sarò un maniaco, ma una maternità senza problemi fisici è un aspetto importante del mio eventuale matrimonio.
La conversazione con la madre fila liscia e banale come le telefonate madre/figlia, che ormai conosco a memoria. Che traffico sulla Quinta signora mia, sotto Natale non si circola più, non si trova un taxi ma tanto è inutile prenderli, e anche il metrò è impossibile, sovraffollatissimo. Considerazioni surreali, visto che Bloomingdales è a tre isolati da casa sua, ma che lei invece di arrivarci in due minuti a piedi ha preferito torturare il suo chauffeur facendosi accompagnare in limousine. Ormai sono intrappolato: “Be our guest before Christmas”, mi invita-ordina imperiosa la signora, sarò loro ospite prima di Natale.
Non posso più sfuggire. Sapientemente nei giorni seguenti sposto il terreno della trattativa sul dove. La mia ultima linea di resistenza è non incontrarli a casa loro, il che equivarrebbe a un fidanzamento definitivo con Marsha. “Facciamo una cosa informale, vediamoci per una pizza alla Houppa”, le propongo con nonchalance. La Houppa, mitica gioielleria sulla Sessantaquattresima, dove al posto (e al prezzo) dei diamanti vendono pizze.
Arriva la sera micidiale. Per alleggerire l’atmosfera vengono pure la sorella di Marsha e il suo boyfriend. Ma fra il mio futuro suocero e me è, inopinatamente, amore a prima vista. Entrambi ordiniamo una pizza capricciosa, e questa vicinanza di gusto già sembra entusiasmarlo. Poi ovviamente parliamo dell’Italia, e lui si dilunga felice a ricordare per una buona ora tutti i viaggi più belli nella penisola.
Ammorbidito dalla nostaglia e dal pinot grigio,il papà di Marsha impazzisce di gioia quando rispondo alla sua domanda: “Ti piace l’America?”
“Moltissimo. La adoro”, rispondo io, ed è vero.
Non sto a precisare che preferisco quella di Bob Dylan ai bigottoni di George Bush, a lui basta sapere che c’è un europeo che non odia gli Stati Uniti.
“Perché ci detestano tutti?”, mi domanda similpreoccupato.
“Beh, la guerra in Iraq…”, mi addentro io.
Mi interrompe subito: “Ma quel figlio di puttana di Saddam non meritava una bella randellata?”. mi chiede.
“Certo che sì”, rispondo io, sinceramente. E lui si soddisfa così.
Poi va in visibilio per un mio stupido giochetto di parole: “We are stuck in Iraq”, siamo bloccati in Iraq.
“Mi piace la rima, ma soprattutto il fatto che hai detto ‘noi’, e non ‘voi’, vuol dire che ti senti uno dei nostri. Infatti in Iraq ci sono anche soldati italiani, no?”
Non avrei mai pensato di dovere un giorno ringraziare Berlusconi per avermi fatto conquistare il padre della mia fidanzata, ma questo è proprio ciò che è accaduto la sera del 20 dicembre 2004. Ormai il corpulento papà di Marsha mi considera uno della famiglia, mi chiama “son” (figliolo) dimenticando che ho soli 15 anni meno di lui, mi confonde con l’agognato figlio maschio che non ha mai avuto.
L’idillio raggiunge l’apice quando scopriamo di condividere entrambi una vergognosa predilezione per un oscuro complesso degli anni Sessanta chiamato Moody Blues.
“Quelli di ‘Nights in White Satin’?”, mi chiede lui, guardingo e imbarazzato.
“Ebbene sì”.
“Ma è impossibile che tu li conosca, son”.
“E perché?”.
“Perché quella canzone la ballavo nell’estate ’67, mi ricordo esattamente l’anno perchè è stato quando ho conosciuto mia moglie Jane. Do you remember, cara?”
“Certo”, risponde lei, irromantichita.
“Beh, me la ricordo anch’io”, aggiungo, “avevo sette anni e la mettevano sempre nel jukebox dei bagni Cala Sveva di Termoli in the Molise region”.
Questa mia acribia lo manda in visibilio: “Mi piacciono i tipi precisi”.
Infierisco sul neosuocero rimasto evidentemente come me allo stadio anale: “Però da noi andava di più una cover di un complesso che l’aveva tradotta in italiano, ‘Ho Difeso’ dei Dik Dik”.
Lui commenta estasiato: “Era il più bel lento della storia, lo ballavamo a Washington, ti ricordi Jane?”.
“Se permette, sir, lo porrei a pari merito con ‘A Whiter Shade of Pale’ dei Procol Harum, stessa estate”.
Mi guarda con gli occhi umidi: “Son, tu sei la bibbia, sei un’enciclopedia vivente, sei... sei fantastico. Hai ragione, oh, i Procol Harum! Come ho potuto dimenticarli?”.
Marsha, che detesta le mie predilezioni musicali rétro, non ne può più. I Moody Blues e i Procol Harum li conosce soltanto perchè abbiamo litigato quando ho osato invitarla ai loro concerti. “Senti, Mauro, pochi giorni dopo averti conosciuto mi hai trascinata a una serata con Jorma Kaukonen”, mi aveva risposto, “e avevo accettato pensando fosse una cosa palatable, commestibile, accettabile. Ma non mi sono mai annoiata così tanto. Se tu devi recuperare il tempo perduto fallo pure, ma ti prego non coinvolgermi più”.
Così mi tocca andare da solo a tutti i concerti dei grandi degli anni Sessanta ancora in circolazione, da Crosby Stills e Nash agli Allman Brothers, dai Jefferson a Steve Winwood. Nel famoso teatro Town Hall, dove nel ’45 Charlie Parker inventò il bebop, ho visto fuoriuscire
dalla formalina Art Garfunkel. E poi l’ho rivisto accoppiato col compare Paul Simon. Nessun mio amico di New York condivide questa solitaria perversione, tranne Christian Rocca col quale sono andato a vedere Neil Young alla Radio City Music Hall. Ma ora ho mio suocero, come compagno di future scorribande nel cateterock.
Si tratta di concerti impegnativi, di una lunghezza spossante, perchè all’intervallo i musicisti dicono sempre: “Ci vediamo fra poco”.
Invece passano come minimo tre quarti d’ora: infatti il pubblico formato da sessantenni (gli ex hippies degli anni Sessanta) è debole di prostata, e quindi si formano sempre code interminabili ai cessi.
Finito l’acme musicale siamo al dessert. Se fosse per il papà di Marsha, a questo punto più che darmi la figlia mi sposerebbe direttamente lui. O mi nominerebbe seduta stante direttore della sua multinazionale di tappi. Si informa distrattamente del mio lavoro, e sentenzia subito con una prosopopea che mi fa sentire Dustin Hoffman nel ‘Laureato’: “Son, il futuro del giornalismo è nella rete”.
"Grazie al cazzo, non me n’ero accorto", mi viene da rispondergli, però non voglio rovinare l’atmosfera supercordiale. Anche perchè lo impressiona molto il fatto che io scriva su “Newsweek”, ma soprattutto che abbia una column sul “New York Observer”: settimanale che vende solo 60 mila copie rispetto ai tre milioni di “Newsweek”, ma è il massimo dello chic per quel maso chiuso che è l’Upper East Side, in transumanza a Palm Beach d’inverno e agli Hamptons d’estate. Giornale intelligente ed irriverente stampato su carta rosa, viene letto da tutti i “socialites” del bel mondo di Manhattan per tenersi à la page, ne segue i tic e ne impone le tendenze. Il padre di Marsha non ne apprezza la linea politica troppo liberal, ma compulsa avidamente le notizie immobiliari.
(…) Mentre usciamo dalla Houppa salgo con Marsha su un taxi. Lei è raggiante: “Mauro, è stato un successo”.
Io sento solo che sto per precipitare in un fidanzamento pronto, a presa rapida e asfissiante. Finirò in uno di quegli attici terrorizzanti dove si arriva schiacciando il bottone PH (penthouse) sull’ascensore, ma solo dopo aver girato la chiave accanto. Si entra direttamente in casa, non c’è neppure il pianerottolo. Quando vorrò fare una festa dovrò ordinare il catering da Fauchon, camerieri in divisa si aggireranno per le stanze.
E per andare agli Hamptons non potrò neppure prendere l’elicottero, perchè Marsha, come sua madre, obietterà: “Se ci vede qualche conoscente all’eliporto della Trentatreesima Strada, e nota che non è di proprietà ma che ci siamo ridotti ad affittarlo, che figura facciamo?”.
Mauro Suttora
(dal capitolo 25: "I miei futuri suoceri")
Tuesday, October 24, 2006
recensioni a No Sex in the City
Beppe Severgnini (Corriere della Sera):
"Mauro Suttora è invadente, impudico, immodesto e impietoso come Tom Wolfe. Solo che non veste sempre di bianco, ed è più alto. Dimenticavo: il nostro autore è anche italiano, e questa a Manhattan è una cosa che non ti perdonano facilmente. O ti sfuggono o ti baciano: non ci sono vie di mezzo."
Gasolina. Blogosfere il network di blog professionali d'informazione (19.10.06):
"Quando nelle librerie arrivano libri come No sex in the city c'è da stare allegri. Nel vero senso della parola: se leggete questo estratto, non potrete fare a meno di sorridere (io mi sono fatto grasse risate).
Diversamente che in altri Paesi, dove la letteratura d'intrattenimento ha un suo status di tutto rispetto, in Italia si tende a considerare la stessa un prodotto di serie B. In altre parole: se scrivi il malloppone a sfondo interior-filosofico, puoi ambire all'ingresso nel club degli scrittori; se scrivi un libro semplice, ben congegnato, che si legge in fretta e godendone, sei solo uno che punta a far soldi. Un Ken Follett qualsiasi, insomma.
La situazione pare cambiare, e il successo non solo di pubblico ma anche di critica riscosso da Gianrico Carofiglio e Andrea Cammilleri, padri di due personaggi seriali e molto «televisivi» quali l'avvocato Guerrieri e il commissario Montalbano , ne è un segno. Ora, Sex and the city non appartiene al genere: non è un romanzo, ma la storia molto ironica di un giornalista, Mauro Suttora, e della sua vita a New York.
Niente di alto, dunque. Ma è scritto bene e strappa sorrisi. Dite che è poco?"
quotidiano Libero, 30 dicembre 2006:
Il nostro McInerney nella città dell'eros
di FRANCESCO SPECCHIA
La classe non è acqua. E se lo fosse, potrebbe essere solo l'acqua grigia e vanitosa del fiume Hudson. Che a est taglia il New Jersey; mentre a ovest accarezza Manhattan come un sorso di champagne sprizzato in una flute. Il suo scrosciare echeggia, lieve, tra i jazz club di Bleeker Street, i negozi di Armani e Calvin Klein, il profumo delle librerie antiquarie e quello dei dollari; fino a insinuarsi negli appartamentini del Village. Dove branchi d'intellettuali radical chic ticchettano al computer la loro storia. Uno di quegl'intellettuali è Jay McInerney, l'uomo che nel best seller "Le mille luci di New York" spogliò la Grande Mela, la rintronò d'alcol e cocaina e ne fece un mito degli anni 80. Un altro (meno intellettuale e -vivaddio - più giornalista) è Mauro Suttora, classe '59, moderatamente single, corrispondente del settimanale Oggi e columnist del New York Observer dal "centro esatto del mondo", ossia lo sterno e le viscere e l'inguine di Manhattan (...)
Marella Giovannelli (Sassarisera):
"No sex in the city: Mauro Suttora e le diavolesse di New York
Quando il dilettevole diventa utile è ancora meglio...e può nascere un libro come “No sex in the city. Amori e avventure di un italiano a New York”.
L’autore è il giornalista-saggista Mauro Suttora e questo suo ultimo lavoro, edito da Cairo Publishing, è un ritratto dissacrante e godibile, in chiave autobiografica, della sua lunga e produttiva esperienza nella Grande Mela.
Il giornalista italiano, durante il suo soggiorno a New York, oltre ad essere inviato della Rizzoli per il settimanale “Oggi”, collaborava con Newsweek e teneva una seguitissima rubrica sul New York Observer. Qui raccontava le abitudini, le manie e le stravaganze delle donne americane viste con l'occhio e vissute sulla pelle del maschio italiano.
Con una notevole dose di auto-ironia, Mauro descrive i suoi incontri ravvicinati con le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, tornati ora alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Di queste “diavolesse” che si muovono tra Manhattan e Park Avenue, Mauro Suttora svela i segreti più intimi: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons.
Mauro Suttora ha raccolto e tradotto quelle storie ambientate tra ristoranti alla moda e quartieri ultrachic, limousine e cene di finta charity.
Naturale la scelta di ricavarne un libro che racconta una lunga serie di incontri-scontri, equivoci irresistibili ed avventure esilaranti con un gran numero di donne. C'è Liza, bellissima fashion-victim, che scarica Mauro via e-mail per mancanza di tempo; Maria, pantera a parole, ma agnellino quando si passa ai fatti; Paula disposta a tutto ma non a baciare.
Graffiante, a tratti impietoso, quasi sempre agro-dolce, “No sex in the city” è anche la fotografia di un certo tipo di società che vive e lavora nella città più cosmopolita e internazionale del mondo. E, dietro i fasti e le feste di New York, è tangibile la solitudine.
“Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single - spiega Mauro Suttora nel suo blog http://www.maurosuttora.blogspot.com/ - quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi".
Poco spazio per l’amore e anche per il sesso a New York. Eppure è sempre la città dove, più di ogni altro posto al mondo, quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità, alla fine, sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, Viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali."
(Mara Malda per www.marellagiovannelli.com)
"Finora non avevo ancora incontrato, sentito parlare o conosciuto una persona che ha capito lo spirito Americano (anzi, Statunitense!) meglio di Mauro Suttora in questo libro. La cosa che mi ha colpito e che ho ammirato di piu’ e’ la sua abilita’ di descrizione di certe realta’ sociali, e come abbia abilmente saputo relazionarle al piu’ ampio panorama culturale di questo paese.
E’ tutto verissimo, a tratti squallido e grottesco, ma tutto sommato divertente. Io ci esco fuori di testa ad uscire con le donne Newyorkesi, e penso che non ci sia modo migliore di individuare lo mentalita’ della gente se non frequentandola il piu’ possibile. In troppe storie di questo libro mi sono riscontrato come se fosse stata la mia, di esperienza.
Ho particolarmente, poi, apprezzato la descrizione dei locali e ristoranti alla fine".
Andrea Manuali, New York
Sergio Sammartino:
"Il libro è molto godibile. Vi sono battute a sorpresa che spiazzano divertendo, alla maniera di Wodehouse. Il linguaggio è scoppiettante, spiritoso, creativo, perfettamente confezionato sui tempi presenti" (Avanti!)
Paolo Farina (forum di www.radicali.it):
"Spassoso e interessante. L'ho letto come si vede un film. Alla fine sei contento di averlo comprato (il libro), come sei contento di averlo visto (quel film). Complimenti per il soggetto. Bisogna leggerlo, perchè le recensioni non gli rendono merito".
da www.internetbookshop.it:
Filippo (26-10-2006):
"Un libro divertentissimo! Complimenti al nostro giornalista di Orgy: sia per le sue doti di seduttore sia per la sua scrittura scoppiettante."
Voto: 4 su 5
E (24-10-2006):
"Mi sono divertita molto a leggere questo lbro perchè smonta uno per uno tutti i miti sulle donne di Manhattan e mette a nudo le loro manie e incongruenze. E poi quella Marsha...probabilmente fossi stato un uomo l'avrei abbandonata io dopo il primo appuntamento...altro che andarci a vivere insieme..."
Voto: 4 su 5
http://Ilfederalista.blogspot.com:
"Incredibilmente divertente"
http://samaroundtheworld.blogspot.com:
"For Carrie Bradshaw everything started with a weekly sex column on a paper. For Mauro Suttora it wasn't actually so different.
While living in New York the 40-something-yo Mauro Suttora also wrote an autobiografical column on the New York Observer. He told his adventures with American women and how really is sex life in the best city for singles of the world for a single Italian guy.
From his "researches" on New York women lifestyle, their nails and Pilates mania and their attitude toward the opposite sex, several funny and spicy articles came out. And now his collection from the Observer turned into a novel.
Since I heard about this project for a couple of years now and I haven't read it yet, obviously I really look forward to".
Sunday, October 22, 2006
American Beauty Farm
A New York il desiderio diventa un peccato di gola divorato dall’ascesi edonistica del consumo
di Mauro Suttora
Il Foglio, giovedì 10 agosto 2006
inserito nel libro "Concupiscenza" (AA.VV., edizioni Il Foglio, 2006, pagg. 284, € 7,90)
“What’s Sutunqa?”
Maledetta scrittura ‘intelligente’. Marsha ha ricevuto un mio sms, ma il telefonino Usa storpia sempre così, in automatico, il mio cognome. E ora eccola qui di fronte a me, splendida trentenne, ex modella dagli occhi azzurri, nel mio ufficio sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada di Manhattan. E’ venuta a trovarmi in redazione. Fuori c’è il solito caldo umido atroce che rovina tutte le estati nella capitale del mondo.
L’ho conosciuta a un concerto di musica contemporanea contro la pena di morte organizzato dai radicali italiani (che si piccano di essere transnazionali) a New York. Confesso che c’ero andato soprattutto perché era vicino alla Rizzoli, nel teatro dell’Alliance Française sulla 59esima. Ho concupito Marsha appena l’ho vista. Pure lei, mi ha confessato dopo, anche se lì per lì ha fatto finta di nulla.
Il concerto era insopportabile, come tutta la musica classica dopo Debussy. All’uscita lei era dietro di me con un’amica sulla scala mobile. Ho notato subito la sua figura elegantissima, alta, flessuosa, e i capelli neri, lisci, lunghi. Anch’io ho fatto finta di niente, non mi sono voltato: temevo mi scambiasse per un appiccicoso playboy italiano che squadra le donne lanciando occhiate da triglia. Però ho subito smesso di pensare alla provvida legge del mercato che farebbe giustizia della musica dodecafonica, se quest’ultima fosse lasciata a se stessa come merita, senza più sovvenzioni pubbliche.
Una volta tanto, l’esprit de l’escalier che mi affligge (trovo le parole giuste con le donne solo mentre scendo le scale dopo averle salutate, spesso per sempre) ha funzionato al contrario: la scala mobile mi ha dato tutto il tempo di escogitare una frase ad effetto per far colpo su Marsha.
“Lei è una diplomatica?” (no, non era questa la frase).
“No, perché?”
“A questo concerto hanno invitato soprattutto diplomatici dell’Onu”.
“Non ho niente a che fare con l’Onu”.
È già qualcosa. “Ma... lei è dell’Europa dell’Est per caso?” (conservo la frase originale per dopo).
“No, perché?” Sorride.
“Ha bellissimi occhi slavi”.
“Grazie”.
“Le è piaciuto il concerto?”
“Vuole che sia sincera?”
“Certo”.
“Era ok”. Tradotto dall’educatissimo americano: faceva schifo.
“Sono d’accordo: praticamente era un’anticipazione di pena”.
“In che senso?” Porca miseria, non ha capito la mia frase ad effetto.
“Era un concerto contro la pena di morte, no?”
“Ah, certo...” Sorride. Chissà se ora ha capito. “...Però io non sono così sicura di essere contro la pena di morte”, continua. No, non ha capito. E in più è a favore della sedia elettrica. La concupisco ancora di più: una reazionaria dall’aspetto fisico così poco di destra, etereo e sublime. Affascinante, meglio di quella fascistona di Ann Coulter.
“Lei è favorevole alla pena di morte?”
“Mah, dipende... Si riceve quel che si dà”.
“Ma allora, scusi, perché è venuta a un concerto contro la pena di morte?”
“La mia amica mi ha invitato. Era gratis. E non avevo niente di meglio da fare”.
Ho fatto la corte a Marsha per tre settimane. È venuta a letto la prima volta nella notte del grande blackout a New York, due o tre agosti fa. Forse per amore, ma ho scorto anche una grande riluttanza in lei di fronte all’incubo di dover farsi quaranta piani di scale a piedi nel suo grattacielo sulla Sessantesima Strada. Io invece abitavo al sesto piano. Più comodo.
Ora stiamo assieme. Lei è la mia fidanzata americana. Non è la prima. E probabilmente neanche l’ultima, perché ieri sera mi ha confessato: “Better Saks than sex”. Lo sospettavo da mesi: meglio i grandi magazzini sulla Quinta Avenue del sesso. Finalmente è stata sincera: lei prova più piacere a fare shopping che a fare l’amore con me. Non è un caso, d’altronde, che il palazzo di Saks stia proprio accanto alla cattedrale di San Patrizio: sono i due maggiori templi di Manhattan, assieme coprono ogni esigenza corporale e spirituale.
E ora eccola qui di fronte a me, la ragazza che mi fa impazzire e potrebbe diventare la madre dei miei figli (oltre che moglie, ma già conviviamo). Se solo concupisse me (un po’) più delle borsette Chanel. O delle scarpe Prada. O dei vestiti Dolce. O degli orologi Chopard. O dei “risada with prosega”, come lei chiama felice, già al limite dell’orgasmo, i risotti innaffiati con prosecco nel nostro ristorante italiano preferito.
“E’ così hot and humid fuori, Mauro”, si lamenta Marsha.
“Sì, caldo e umido. Proprio come te”.
“Stop it!”, fa finta di indignarsi. Qualsiasi allusione sessuale, anche vaga, la scombussola. Eppure è così sexy. Oggi indossa una camicetta scollatissima, pantaloni aderenti sotto al ginocchio e flip flop, le infradito che sono ormai la divisa della donna americana. Cominciano a portarle già a marzo, ai primi soli primaverili, sfidando geloni e pantegane nel metrò, e vanno avanti fino ad autunno inoltrato. Io impazzisco a vedere tutti quei piedi nudi molto attraenti, curatissimi, con le unghie pittate di colori anche fosforescenti impensabili in Italia.
Ecco, “the Nails”. Il manicure e pedicure (con annessi cerette e massaggi). L’altra attività principale delle femmine newyorkesi dopo lo shopping: ormai ci sono in giro più insegne Nails che negozi di alimentari. Marsha mi ha scelto anche perchè la Rizzoli sta proprio accanto alle J Sisters, il tempio della depilazione, quindi le risulta agevole passare a salutarmi dopo le sedute. Perché come tutti gli americani è pragmatica e benthamiana: massimo risultato col minimo sforzo.
Di professione lavora nella moda, e sarebbe un’attività molto redditizia se gran parte dei suoi guadagni non se li facesse sifonare da quei ladri degli stilisti. Infatti ora è già eccitata al solo pensiero di scendere con me verso il ‘quadrilatero della morte’, a pochi metri da qui: l’incrocio fra 57esima e Quinta Avenue, che vede ai suoi angoli Tiffany, Luis Vuitton, Bulgari e Bergdorf Goodman, con dentro incastonato pure il gioielliere Van Cleef & Harpels. Le basterà guardare le vetrine per soddisfare la sua concupiscenza.
Marsha concupisce anche me, io concupisco lei, e non è solo passione: ci amiamo pure, vorremmo metter su famiglia, abbiamo intenzioni serie (insomma: mi ha già presentato ai suoi). Lo giuro: non solo sesso e disobbedienza, o “ricerca disordinata del piacere”, come scrivete nel riquadro rosso qua sotto. Anche nella Grande Mela ci sono personcine perbene. Lei ha studiato a Firenze, è laureata in una delle migliori università (Vanderbilt), legge giornali, riviste e perfino libri, ha addirittura scritto la tesi su Derrida...
Però io venivo diciassettenne a Manhattan ogni weekend nel ‘77, fuggendo dai campi di golf del Connecticut dove passavo un anno come ‘exchange student’. Allora gli Stati Uniti erano la terra della libertà e delle infinite possibilità. New York era una città pulsante, sporca e sensuale. Oggi è una metropoli anerotica e anoressica, la capitale del conformismo politicamente corretto: quando ho osato scherzare con Marsha su un buffo ciccione nel metrò lei mi ha guardato severa inarcando il sopracciglio, e mi ha detto aggressiva: “Mauro, it’s so inappropriate!... Non si dice ‘grasso’, si dice sovrappeso, oversize. Paffuto, chubby, al limite”.
Sui computer la parola ‘sex’ si tinge automaticamente di rosso, le parolacce vengono sostituite da asterischi. La regina Vittoria godrebbe come una pazza.
Io sono innamorato pazzo di Marsha, la concupisco a ogni ora del giorno e della notte. Però io per lei vengo dopo il lavoro, la carriera, i soldi, le cene con le amiche ogni giovedì (“girlies’ nights”), il jogging a Central Park ogni mattina presto invece di fare l’amore (la concupisco enormemente quando torna a casa accaldata e con le guance rosse: niente da fare), e poi la palestra, il parrucchiere, lo yoga, le commissioni, gli ‘events’ cui partecipare ogni sera, i ‘gala’ della beneficenza ipocrita ed esibita, le abbronzature sul roof della piscina dell’L.A. Sports Club, le prime di cinema e teatro, le anteprime ai musei, l’enogastronomia, la lettura degli annunci immobiliari, i weekend obbligatori agli Hamptons con tre ore di coda sull’autostrada (maledetto Fitzgerald, non potevi trovare un posto più vicino?).
Di sera, quando mi avvicino romanticamente sul sofà, lei mi chiede affettuosa come una gattina: “Mi gratti il braccio? Mi accarezzi la schiena? Mi massaggi il piede?” È così che lei raggiunge l’acme. Perchè poi, quando comincio a baciarla, troppo spesso mi blocca dicendomi: “Amore, sono stressata, ho bisogno di relax”. “Rilassati scopando, come me”, le ho risposto una volta. Allora lei, che invece pratica un sesso tecnicamente piuttosto ginnico e quindi faticoso, con gran dispendio di calorie, mi ha guardato condiscendente ammonendomi: “Mauro, don’t be a pervert”.
Ci sono tante Marshe a Manhattan, nei quartieri residenziali dell’Upper East e West Side. Considerano la frigidità un inconveniente pratico, secondario e superabile: con un programma in dodici step, negli intervalli del pilates, oppure - quelle più intellettuali - tramite psicanalista.
Certo, a Manhattan c’è la più alta concentrazione di single del pianeta. Certo, in questa città ci si alza ancora al mattino non sapendo bene in quale letto si finirà la sera. Le ‘one night stand’, avventure di una notte, accadono sempre, più che altrove nel mondo. Il problema è che cosa si fa, poi, su quel benedetto letto, con la sconosciuta conosciuta al cocktail party.
Qualcuno ha soprannominato la New York di questo decennio (gli anni Zero) l’Impero di dito&clito. Grande autosoddisfazione. Di qui il successo teatrale dei ‘Monologhi della Vagina’: a questo serve principalmente oggi l’organo femminile negli isolati (nomen omen) più ricchi del pianeta, quelli dei miliardari (in dollari) orgogliosi di esibire il codice di avviamento postale 10021, fra Park e Madison Avenue. Lì è nata Marsha. Lì è andata a scuola. Lì le hanno insegnato a indossare, provocante e competitiva, lussuriosi pantaloni leopardati; ma a non scoprirsi mai, inibita e puritana, il seno in spiaggia.
“Ah, vivi a New York? Come si sta? E come sono le donne di ‘Sex and the City’?” È questa la domanda che mi fanno quasi tutti i miei amici italiani, anche quelli colti. A volte rispondo buttandola sul sociologico: crollo della concupiscenza, suo spostamento su oggetti diversi dal sesso. Nulla di nuovo, se ne erano già accorti Freud cent’anni fa e Marcuse cinquanta, come ha ricordato Bandinelli su queste pagine.
Manhattan oggi è un misto di perversione e repressione. Di allegro disordine mentale (consumo di Prozac decuplicato in dieci anni) e tanta solitudine: quando passeggio a Riverside Park, ogni tanto mi si avvicina qualche (bella) donna domandandomi: “Are you John?” È il tizio con cui ha preso un appuntamento al buio su internet. Ma c’è anche tanta sconfinata, irresistibile energia: è l’ottimismo vitalista di Marsha che mi ha conquistato.
Il settimanale New York Observer, quello dove dieci anni fa nacque la rubrica ‘Sex and the City’ di Candace Bushnell prima di diventare libro e poi trasformarsi nel celebre serial tv con Carrie e Samantha, mi ha affidato una column sullo stesso argomento. Solo che il titolo questa volta è: ‘No sex in the city’.
di Mauro Suttora
Il Foglio, giovedì 10 agosto 2006
inserito nel libro "Concupiscenza" (AA.VV., edizioni Il Foglio, 2006, pagg. 284, € 7,90)
“What’s Sutunqa?”
Maledetta scrittura ‘intelligente’. Marsha ha ricevuto un mio sms, ma il telefonino Usa storpia sempre così, in automatico, il mio cognome. E ora eccola qui di fronte a me, splendida trentenne, ex modella dagli occhi azzurri, nel mio ufficio sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada di Manhattan. E’ venuta a trovarmi in redazione. Fuori c’è il solito caldo umido atroce che rovina tutte le estati nella capitale del mondo.
L’ho conosciuta a un concerto di musica contemporanea contro la pena di morte organizzato dai radicali italiani (che si piccano di essere transnazionali) a New York. Confesso che c’ero andato soprattutto perché era vicino alla Rizzoli, nel teatro dell’Alliance Française sulla 59esima. Ho concupito Marsha appena l’ho vista. Pure lei, mi ha confessato dopo, anche se lì per lì ha fatto finta di nulla.
Il concerto era insopportabile, come tutta la musica classica dopo Debussy. All’uscita lei era dietro di me con un’amica sulla scala mobile. Ho notato subito la sua figura elegantissima, alta, flessuosa, e i capelli neri, lisci, lunghi. Anch’io ho fatto finta di niente, non mi sono voltato: temevo mi scambiasse per un appiccicoso playboy italiano che squadra le donne lanciando occhiate da triglia. Però ho subito smesso di pensare alla provvida legge del mercato che farebbe giustizia della musica dodecafonica, se quest’ultima fosse lasciata a se stessa come merita, senza più sovvenzioni pubbliche.
Una volta tanto, l’esprit de l’escalier che mi affligge (trovo le parole giuste con le donne solo mentre scendo le scale dopo averle salutate, spesso per sempre) ha funzionato al contrario: la scala mobile mi ha dato tutto il tempo di escogitare una frase ad effetto per far colpo su Marsha.
“Lei è una diplomatica?” (no, non era questa la frase).
“No, perché?”
“A questo concerto hanno invitato soprattutto diplomatici dell’Onu”.
“Non ho niente a che fare con l’Onu”.
È già qualcosa. “Ma... lei è dell’Europa dell’Est per caso?” (conservo la frase originale per dopo).
“No, perché?” Sorride.
“Ha bellissimi occhi slavi”.
“Grazie”.
“Le è piaciuto il concerto?”
“Vuole che sia sincera?”
“Certo”.
“Era ok”. Tradotto dall’educatissimo americano: faceva schifo.
“Sono d’accordo: praticamente era un’anticipazione di pena”.
“In che senso?” Porca miseria, non ha capito la mia frase ad effetto.
“Era un concerto contro la pena di morte, no?”
“Ah, certo...” Sorride. Chissà se ora ha capito. “...Però io non sono così sicura di essere contro la pena di morte”, continua. No, non ha capito. E in più è a favore della sedia elettrica. La concupisco ancora di più: una reazionaria dall’aspetto fisico così poco di destra, etereo e sublime. Affascinante, meglio di quella fascistona di Ann Coulter.
“Lei è favorevole alla pena di morte?”
“Mah, dipende... Si riceve quel che si dà”.
“Ma allora, scusi, perché è venuta a un concerto contro la pena di morte?”
“La mia amica mi ha invitato. Era gratis. E non avevo niente di meglio da fare”.
Ho fatto la corte a Marsha per tre settimane. È venuta a letto la prima volta nella notte del grande blackout a New York, due o tre agosti fa. Forse per amore, ma ho scorto anche una grande riluttanza in lei di fronte all’incubo di dover farsi quaranta piani di scale a piedi nel suo grattacielo sulla Sessantesima Strada. Io invece abitavo al sesto piano. Più comodo.
Ora stiamo assieme. Lei è la mia fidanzata americana. Non è la prima. E probabilmente neanche l’ultima, perché ieri sera mi ha confessato: “Better Saks than sex”. Lo sospettavo da mesi: meglio i grandi magazzini sulla Quinta Avenue del sesso. Finalmente è stata sincera: lei prova più piacere a fare shopping che a fare l’amore con me. Non è un caso, d’altronde, che il palazzo di Saks stia proprio accanto alla cattedrale di San Patrizio: sono i due maggiori templi di Manhattan, assieme coprono ogni esigenza corporale e spirituale.
E ora eccola qui di fronte a me, la ragazza che mi fa impazzire e potrebbe diventare la madre dei miei figli (oltre che moglie, ma già conviviamo). Se solo concupisse me (un po’) più delle borsette Chanel. O delle scarpe Prada. O dei vestiti Dolce. O degli orologi Chopard. O dei “risada with prosega”, come lei chiama felice, già al limite dell’orgasmo, i risotti innaffiati con prosecco nel nostro ristorante italiano preferito.
“E’ così hot and humid fuori, Mauro”, si lamenta Marsha.
“Sì, caldo e umido. Proprio come te”.
“Stop it!”, fa finta di indignarsi. Qualsiasi allusione sessuale, anche vaga, la scombussola. Eppure è così sexy. Oggi indossa una camicetta scollatissima, pantaloni aderenti sotto al ginocchio e flip flop, le infradito che sono ormai la divisa della donna americana. Cominciano a portarle già a marzo, ai primi soli primaverili, sfidando geloni e pantegane nel metrò, e vanno avanti fino ad autunno inoltrato. Io impazzisco a vedere tutti quei piedi nudi molto attraenti, curatissimi, con le unghie pittate di colori anche fosforescenti impensabili in Italia.
Ecco, “the Nails”. Il manicure e pedicure (con annessi cerette e massaggi). L’altra attività principale delle femmine newyorkesi dopo lo shopping: ormai ci sono in giro più insegne Nails che negozi di alimentari. Marsha mi ha scelto anche perchè la Rizzoli sta proprio accanto alle J Sisters, il tempio della depilazione, quindi le risulta agevole passare a salutarmi dopo le sedute. Perché come tutti gli americani è pragmatica e benthamiana: massimo risultato col minimo sforzo.
Di professione lavora nella moda, e sarebbe un’attività molto redditizia se gran parte dei suoi guadagni non se li facesse sifonare da quei ladri degli stilisti. Infatti ora è già eccitata al solo pensiero di scendere con me verso il ‘quadrilatero della morte’, a pochi metri da qui: l’incrocio fra 57esima e Quinta Avenue, che vede ai suoi angoli Tiffany, Luis Vuitton, Bulgari e Bergdorf Goodman, con dentro incastonato pure il gioielliere Van Cleef & Harpels. Le basterà guardare le vetrine per soddisfare la sua concupiscenza.
Marsha concupisce anche me, io concupisco lei, e non è solo passione: ci amiamo pure, vorremmo metter su famiglia, abbiamo intenzioni serie (insomma: mi ha già presentato ai suoi). Lo giuro: non solo sesso e disobbedienza, o “ricerca disordinata del piacere”, come scrivete nel riquadro rosso qua sotto. Anche nella Grande Mela ci sono personcine perbene. Lei ha studiato a Firenze, è laureata in una delle migliori università (Vanderbilt), legge giornali, riviste e perfino libri, ha addirittura scritto la tesi su Derrida...
Però io venivo diciassettenne a Manhattan ogni weekend nel ‘77, fuggendo dai campi di golf del Connecticut dove passavo un anno come ‘exchange student’. Allora gli Stati Uniti erano la terra della libertà e delle infinite possibilità. New York era una città pulsante, sporca e sensuale. Oggi è una metropoli anerotica e anoressica, la capitale del conformismo politicamente corretto: quando ho osato scherzare con Marsha su un buffo ciccione nel metrò lei mi ha guardato severa inarcando il sopracciglio, e mi ha detto aggressiva: “Mauro, it’s so inappropriate!... Non si dice ‘grasso’, si dice sovrappeso, oversize. Paffuto, chubby, al limite”.
Sui computer la parola ‘sex’ si tinge automaticamente di rosso, le parolacce vengono sostituite da asterischi. La regina Vittoria godrebbe come una pazza.
Io sono innamorato pazzo di Marsha, la concupisco a ogni ora del giorno e della notte. Però io per lei vengo dopo il lavoro, la carriera, i soldi, le cene con le amiche ogni giovedì (“girlies’ nights”), il jogging a Central Park ogni mattina presto invece di fare l’amore (la concupisco enormemente quando torna a casa accaldata e con le guance rosse: niente da fare), e poi la palestra, il parrucchiere, lo yoga, le commissioni, gli ‘events’ cui partecipare ogni sera, i ‘gala’ della beneficenza ipocrita ed esibita, le abbronzature sul roof della piscina dell’L.A. Sports Club, le prime di cinema e teatro, le anteprime ai musei, l’enogastronomia, la lettura degli annunci immobiliari, i weekend obbligatori agli Hamptons con tre ore di coda sull’autostrada (maledetto Fitzgerald, non potevi trovare un posto più vicino?).
Di sera, quando mi avvicino romanticamente sul sofà, lei mi chiede affettuosa come una gattina: “Mi gratti il braccio? Mi accarezzi la schiena? Mi massaggi il piede?” È così che lei raggiunge l’acme. Perchè poi, quando comincio a baciarla, troppo spesso mi blocca dicendomi: “Amore, sono stressata, ho bisogno di relax”. “Rilassati scopando, come me”, le ho risposto una volta. Allora lei, che invece pratica un sesso tecnicamente piuttosto ginnico e quindi faticoso, con gran dispendio di calorie, mi ha guardato condiscendente ammonendomi: “Mauro, don’t be a pervert”.
Ci sono tante Marshe a Manhattan, nei quartieri residenziali dell’Upper East e West Side. Considerano la frigidità un inconveniente pratico, secondario e superabile: con un programma in dodici step, negli intervalli del pilates, oppure - quelle più intellettuali - tramite psicanalista.
Certo, a Manhattan c’è la più alta concentrazione di single del pianeta. Certo, in questa città ci si alza ancora al mattino non sapendo bene in quale letto si finirà la sera. Le ‘one night stand’, avventure di una notte, accadono sempre, più che altrove nel mondo. Il problema è che cosa si fa, poi, su quel benedetto letto, con la sconosciuta conosciuta al cocktail party.
Qualcuno ha soprannominato la New York di questo decennio (gli anni Zero) l’Impero di dito&clito. Grande autosoddisfazione. Di qui il successo teatrale dei ‘Monologhi della Vagina’: a questo serve principalmente oggi l’organo femminile negli isolati (nomen omen) più ricchi del pianeta, quelli dei miliardari (in dollari) orgogliosi di esibire il codice di avviamento postale 10021, fra Park e Madison Avenue. Lì è nata Marsha. Lì è andata a scuola. Lì le hanno insegnato a indossare, provocante e competitiva, lussuriosi pantaloni leopardati; ma a non scoprirsi mai, inibita e puritana, il seno in spiaggia.
“Ah, vivi a New York? Come si sta? E come sono le donne di ‘Sex and the City’?” È questa la domanda che mi fanno quasi tutti i miei amici italiani, anche quelli colti. A volte rispondo buttandola sul sociologico: crollo della concupiscenza, suo spostamento su oggetti diversi dal sesso. Nulla di nuovo, se ne erano già accorti Freud cent’anni fa e Marcuse cinquanta, come ha ricordato Bandinelli su queste pagine.
Manhattan oggi è un misto di perversione e repressione. Di allegro disordine mentale (consumo di Prozac decuplicato in dieci anni) e tanta solitudine: quando passeggio a Riverside Park, ogni tanto mi si avvicina qualche (bella) donna domandandomi: “Are you John?” È il tizio con cui ha preso un appuntamento al buio su internet. Ma c’è anche tanta sconfinata, irresistibile energia: è l’ottimismo vitalista di Marsha che mi ha conquistato.
Il settimanale New York Observer, quello dove dieci anni fa nacque la rubrica ‘Sex and the City’ di Candace Bushnell prima di diventare libro e poi trasformarsi nel celebre serial tv con Carrie e Samantha, mi ha affidato una column sullo stesso argomento. Solo che il titolo questa volta è: ‘No sex in the city’.
Saturday, October 21, 2006
Tutti i culi di Manhattan
per gentile concessione dell’autore, ecco un capitolo del libro No Sex in the City di Mauro Suttora (Cairo editore, 2006)
16/ CATALOGO DEI CULI DI MANHATTAN
Il filosofo italiano Massimo Fini, nel suo impareggiabile ‘Di(zion)ario Erotico’ (edizioni Marsilio, 2000), ha compilato l’elenco di una quindicina di tipi differenti di sedere. Secondo lui, possiamo capire la personalità di una persona semplicemente osservando il suo gluteo. Questo libro prezioso è stato pubblicato due anni prima del manifesto dell’era Bush (‘Paradiso e Potere’), la bibbia neocon in cui Robert Kagan afferma che gli europei proverrebbero da Venere, pianeta dell’amore, mentre gli americani da Marte, sfortunato pianeta freddo e da sempre simbolo del militarismo.
Fini nota un’altra differenza fra i due continenti: “Gli uomini, com’è noto, si dividono in due categorie: quelli che preferiscono il seno (bosomen) e quelli che preferiscono il culo (bottomen). I primi appartengono, in genere, a culture rozze, poco smaliziate, infantilmente pragmatiste, primitive, matriarcali, fortemente legate all’immagine della donna-madre e comunque troppo giovani per avere avuto il tempo di sviluppare adeguate attitudini speculative. Bosomen sono, per esempio, gli americani. L’Europa, culla della civiltà, è invece bottomen. Venere Callipigia (da kalos, bello + pyge, sedere) nacque in Grecia, nella prima metà del V secolo avanti Cristo, insieme alla grande filosofìa e alle matematiche. E ‘pour cause’. Perché il culo è innanzitutto una categoria metafisica”.
Con l’aiuto del libro di Fini, ho cercato di tracciare una mappa dei vari tipi di posteriore, prevalenti in ciascun quartiere di Manhattan. Abbiamo innanzitutto il sedere dell’Upper East Side, che conosco benissimo perchè è quello di Marsha: diffidente e avaro, con chiappe strette come hanno, in genere, i toscani. Quello dell’East Village (artisti poveri), al contrario, è fiducioso e pieno di speranza: tondo, grasso e a natiche leggermente dischiuse.
Il culo di Midtown, zona di business, è aggressivo: sodo e massiccio come una catena montuosa. Attorno all’Onu, fra Beekman Place e Tudor City, si rinviene un culo volitivo (piccolo e muscoloso): appartiene ai funzionari delle Nazioni Unite, ma anche ai diplomatici accreditati e alle loro spose.
Quello della Upper West Side, fra Central Park e il fiume Hudson, è un fondoschiena intellettuale, quindi colloquiale: elastico e malleabile. Dall’altra parte del parco, quello di Carnegie Hill (dov’è la residenza del sindaco Michael Bloomberg) è invece nobile: alto, lungo e appena rilevato.
I culi popolari, bassi e larghi, sono purtroppo rari a Manhattan (affollano invece Brooklyn e Bronx), ma se ne rinvengono ancora nella Lower East Side.
Attorno al municipio (City Hall) predomina inevitabilmente il gluteo burocratico, grasso e informe, mentre quello proletario, largo ma alto, è tipico di Washington Heights. Il culo di tipo militare, stretto e muscoloso, si può trovare attorno a Park Avenue, dove sopravvivono sia una caserma di artiglieria che qualche raro esemplare di bushiano pro-guerra.
Wall Street offre sederi meschini e timorosi (magri ma non ossuti), mentre nella zona senza identità di Hell’s Kitchen e Columbus Circle dominano quelli indifferenti, piccoli e raccolti. Le chiappe del Greenwich Village sono ridanciane (larghe e piatte), però andando verso il West Village diventano più impertinenti: tonde, a scalino e sussultorie.
Infine, c’è quello che Massimo Fini descrive come “culo remissivo”, al quale non ho trovato una particolare associazione geografica: è sparso un po’ dovunque. “Ha due tenere pieghe fra la natica e l’attaccatura della gamba, ed è tondo senza essere eccessivo”, spiega Fini. “Questo è il vero culo. Il culo dei culi. Perché possiede, al massimo grado, le due caratteristiche che, pur variamente mascherate, sono proprie di ogni culo: l’essere indifeso e ridicolo («L’ilare impotenza del deretano» la chiama Sartre che se ne intende). Il culo infatti è impotente. Perché, come Polifemo, è cieco nonostante possegga un occhio. E in condizione di palese inferiorità: non può guardare ma solo essere guardato.”
New York è la capitale mondiale di molte cose, e anche dell’S&M. All’inizio non capivo, pensavo egocentrico che si trattasse solo delle mie iniziali invertite. Poi ho scoperto che questa città pullula di sado&maso, con tanto di fruste e “dominatrix” (le signore che eccitano i maschi sculacciandoli e camminando sopra di loro con tacchi a punta).
Massimo Fini ci rivela perchè è proprio il sedere la parte del corpo che attira la maggiore attenzione da parte dei sadici: “È la perfezione ad accendere il desiderio della profanazione. Solo ciò che è perfetto merita di essere sconciato, sciupato, oltraggiato, vilipeso e quindi, alla fine, reso imperfetto. (…) Il seno si accarezza, si vezzeggia, si mordicchia affettuosamente. Per consolarlo della sua pochezza, di essere solo un seno. Nella perfezione del culo c’è invece un orgoglio luciferino che va abbattuto e degradato”.
E’ lo stesso motivo, a pensarci bene, per cui gli Stati Uniti stanno attirando su di sè tanta antipatia nel mondo. Troppo ricchi, con l’economia che continua a crescere del quattro per cento, sempre attraenti per milioni di immigrati speranzosi da tutto il pianeta, mentre la vecchia Europa è in affanno.
Troppo orgogliosi, con tutte le loro bandiere a stelle e a strisce che sventolano dappertutto. Troppo perfetti, e posseduti per di più dalla nuova mania neocon, letteralmente “evangelica”, di esportare la “buona novella” della democrazia nel resto del pianeta. Questo parallelo fra culo e neocon sembra ardito e balzano? La psicologia popolare ha le sue verità…
In ogni caso, la parola ‘culo’ sta diventando sempre più importante negli Stati Uniti. E non solo perchè l’insulto classico è e rimane ‘Asshole’ (buco di culo). Ormai il deretano viene ampiamente usato come sinonimo onnicomprensivo di “piacere”: può significare in senso lato sesso, avventure, eccitazione, ragazze, ragazzi, sveltine, flirt.
“Let’s grab some ass tonight!”, “Prendiamoci un po’ di culo stasera!” è la singola frase più utilizzata attualmente nelle università statunitensi. Lo conferma il libro Sono Charlotte Simpson di Tom Wolfe, affresco della vita nei college undergraduate Usa (primi quattro anni): dove oggi si fa di tutto – sport, drogarsi, ubriacarsi, scopare – tranne che studiare.
Mauro Suttora
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