Saturday, October 29, 2022

Il bipolarismo della Sapienza. Tutti hanno diritto di parola e i manifestanti hanno il diritto di non essere manganellati



La neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola e la seconda della prima

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 ottobre 2022

Basterebbe una modica quantità di Sapienza per ribadire due regole elementari: tutti hanno diritto di parola (perfino Capezzone), e i manifestanti inermi hanno il diritto di non essere manganellati. Invece la neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola, e la seconda della prima.

Sprofonderemo così di nuovo nella secolare guerra fascisti/comunisti? E dobbiamo chiedercelo proprio oggi, 28 ottobre? 

A giudicare da certe reazioni a caldo, pare di sì. I riflessi condizionati di sinistra di Ginevra Bompiani e Concita De Gregorio, in tv poche ore dopo i fatti, le hanno fatte pencolare automaticamente dalla parte degli studenti intolleranti. E sull'opposta barricata si sono alzati solo flebili appelli al var: "Vedremo i video della carica, se qualche agente ha esagerato verranno presi provvedimenti". 

Per la verità, il vizietto di zittire i fascisti (o reputati tali: sullo striscione del collettivo della Sapienza c'era scritto 'Capitalismo=fascismo', e perfino a un papa impedirono di parlare) viene da lontano. Nel 1972, tredicenne, reputai giunto il momento di farmi un'idea personale della politica, cosicché decisi di andare ai comizi di tutti i partiti prima delle elezioni. Quello del Msi (Mirko Tremaglia sul Sentierone di Bergamo) durò poco: fu subito interrotto da lanci di bottiglie della sinistra extraparlamentare. 

Ma anche la prima volta che l'estrema destra si affacciò al governo, nel 1960 (appoggio esterno a Tambroni), ai missini fu impedito di fare il loro congresso a Genova. In nome di una costituzione antifascista che però, proprio in quanto tale, permetteva anche ai fascisti del Msi di esistere, e quindi di riunirsi in congresso. Sempre a Genova, 31 anni dopo, le parti si invertirono: furono i poliziotti a trasformarsi direttamente in fascisti, anzi in nazisti, con le spedizioni punitive di Bolzaneto e scuola Diaz. Oggi troppi a sinistra evocano quel precedente sinistro. Per esorcizzarlo, certo, nessuno auspica la resurrezione dei black block. Ma sotto sotto la spiegazione è: ecco quel che succede appena governa la destra, via libera a Pinochet nel 2001 come nel 2022.  

Facciamo fatica a scorgere tratti cileni nel ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, seppure omonimo di Salvini. Sulle 'cariche di alleggerimento' di scelbiana memoria ci sono interpretazioni infinite. Tuttavia se uno vuole entrare nell'aula di in convegno autorizzato per menare Capezzone che sta lodando il capitalismo, è possibile che rischi un ematoma a una gamba. Il fatto è che il 7 novembre alla Sapienza ci sono le elezioni studentesche. La temperatura è alta. La lista di destra Azione universitaria mostra nel suo simbolo una innocua feluca, il berretto della goliardia, che però stilizzata ricorda vagamente una runa neonazi. 

Provocazioni estetiche subliminali a parte, la povera rettrice Antonella Polimeni ha il dovere di assicurare ordine, pace, libertà, democrazia e perfino diritto allo studio nella sua Sapienza. Che non è uno spazio extraterritoriale come Chinatown a Milano: scusate la banalità, ma se si commettono reati anche lì arriva la polizia. La quale, si spera, non commetta a sua volta reati: i manganelli gratuiti lasciamoli ai fascisti del 1922.

Friday, October 21, 2022

Meloni ribattezza i ministeri con bei nomi sovranisti



Il nazionalismo inizia dalle targhe: "Sovranità alimentare", "Made in Italy", "Natalità", "Sicurezza energetica"

di Mauro Suttora 

Huffpost, 21 ottobre 2022


Apprendiamo con sollievo che il nuovo ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, aggiungerà al suo dicastero anche la dicitura ufficiale "per la sovranità alimentare". Non capiamo bene cosa essa sia, ma siamo felici che i sovranisti abbiano deciso di sfogare il loro temibile, annunciato nazionalismo soltanto sui campi da arare e sulle nostre tavole da apparecchiare, invece che in ambiti più pericolosi e dannosi. 

Vogliono valorizzare il Made in Italy? Macché: quello è entrato nel nuovo nome del ministero dello Sviluppo economico. C'eravamo abituati al suo acronimo Mise, che sostituiva il vecchio ministero dell'Industria, e ora ce lo cambiano in dicastero delle "Imprese e made in Italy". I puristi della Crusca sussultano per il debutto dell'inglese nell'onomastica ministeriale, comunque buon lavoro al neoministro Adolfo Urso. 

Chissà invece se i sovranisti noEuro/pa, una volta così numerosi tra fratelli d'Italia, leghisti e grillini, si accontenteranno del maquillage agricolo. Perché a pensarci bene oggi non c'è molto di italiano in ciò che mangiamo. I nostri campi e allevamenti sono pieni di lavoratori immigrati: trovate un giovane italiano in stalle o fattorie. I camionisti stranieri che trasportano le derrate ogni notte da Puglia e Sicilia fanno concorrenza a quelli italiani. Stessa prevalenza fra i facchini degli ortomercati al nord, e tante benemerite bancarelle arabe nei mercati ortofrutta rionali.

I supermercati Carrefour sono francesi, i Lidl tedeschi, e assumono cassieri/e di ogni nazionalità. I rider che ci portano il cibo a casa non sono quasi mai italiani, i cinesi fanno incetta di bar, i ristoranti cercano disperati personale almeno italofono. Per non parlare dei prodotti. E non quelli esotici: i pomodori a grappolo vengono da serre olandesi, i limoni dal Sudafrica, le noci dalla California. La farina della nostra pasta è ucraina o dell'Iowa, i prosciutti sono cosce di maiali olandesi, i filetti di vitelli slavi, il miele rumeno. 

Insomma, la globalizzazione stravince da vent'anni, in barba a tutti gli Eataly per clienti danarosi. Quindi che caspita vorrà mai dire "sovranità alimentare"? Almeno Mussolini aveva la scusa delle sanzioni per la guerra in Etiopia, quando ci proponeva orzo al posto del caffè e karkadè invece del the. 

Nel 1993 un referendum decise col 70% di abolire il ministero dell'Agricoltura, visto che quasi tutte le competenze sono passate alle regioni. Poi è resuscitato col nome di "coordinamento delle politiche agricole", perché non sapevamo chi mandare alle trattative Ue di Bruxelles. Nel 2018 il governo Conte1 diede all'Agricoltura anche il Turismo, dopo un anno il Conte2 glielo tolse. Ora il Mipaaf (Ministero politiche agricole, alimentari e forestali) diventerà Mipafsa? Contorcimenti della burocrazia. 

Poi ci sarebbe anche la "natalità" aggiunta al ministero della Famiglia e delle Pari opportunità, affidato all'ex femminista abortista radicale Eugenia Roccella. Forse in onore del suo nome: nata bene, Eu-genia. Altri motivi non riusciamo a trovarne, se non una riesumazione dell'invito fascista a procreare di più. Il che, in tempi di riduzione di emissioni e consumi per contrastare il riscaldamento globale, appare bizzarro. Ma la fantasia dei politici è tanta, sicuramente ci stupiranno anche con questi neologismi.

Wednesday, October 19, 2022

Berlusconi e Putin, amici machi



Si sono piaciuti subito, dal primo incontro al G8 di Genova. Da allora Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli, Putin ricambiava con tornei di judo e lotta con Van Damme, partite di hockey su ghiaccio, spettacoli di cosacchi, battute di caccia e pesca quasi artica e un cuore di cervo

di Mauro Suttora

Huffpost, 19 ottobre 2022 

Le venti bottiglie di lambrusco spedite da Silvio Berlusconi a Vladimir Putin per il suo 70esimo compleanno, il 7 ottobre, ricambiando le venti di vodka arrivate ad Arcore la settimana prima per l'86esimo dell'ex premier, non sono il regalo più originale della loro 'bromance' (brotherly romance, amore fraterno). 

Il massimo della stravaganza fu raggiunto nel 2017, quando Berlusconi gli portò a Sochi un copripiumino matrimoniale con la foto gigante di loro due che si stringono la mano, con sfondo di Colosseo e Cremlino. Lo confezionò Michele Cascavilla, proprietario del marchio Lenzuolissimi e autore del libro 'Le lenzuola del potere', prefazione di Silvio.

Soltanto il Covid è riuscito a interrompere la simpatica consuetudine annuale dei viaggi d'ottobre in Russia. Sono continuati anche dopo il 2011, quando Berlusconi perse palazzo Chigi, e dopo il 2013, quando l'ex premier fu estromesso anche dal Senato. 

Nel 2019, ultimo anno pre-virus, l'inossidabile coppia si è incontrata due volte: a giugno infatti Putin, invitato a Roma dal governo gialloverde di Conte, non rinunciò a vedere Silvio. Il quale, sostengono i maligni, chiese a Vladimir (Volodia) di non finanziare grillini e leghisti. Non per i soldi, ovviamente, che a Forza Italia non mancano. Era gelosia pura. 

Ma l'unico che può confermare questo veleno è Valentino Valentini, il Savoini forzista: da sempre pronube della coppia visto che mastica il russo, ma attualmente amareggiato dalla trombatura del 25 settembre dopo quattro legislature da deputato. 

I due amici machi si sono piaciuti subito. Il primo incontro avvenne al G8 di Genova del 2001. Si guardarono dritti negli occhi, e per una volta fu facile: Berlusconi ha solo quattro centimetri in meno del metro e 69 di Putin. Ma quel vertice fu rovinato dai no global, Silvio aveva ben altro cui pensare. La scintilla era comunque scoccata, e nel successivo anno e mezzo i due si videro per ben otto volte. Senza contare le vacanze estive delle due figlie di Putin a villa Certosa del 2002. 

Il 28 maggio di quell'anno rimane una data incisa nel cuore di Berlusconi. Lui la considera l'apice delle sue imprese politiche. Al vertice Nato di Pratica di Mare (fra Pomezia e Capocotta) riuscì quasi a far entrare la Russia nell'Alleanza atlantica. Erano i mesi dopo lo choc delle Torri Gemelle: la minaccia islamista fece chiudere gli occhi (non solo al nostro premier) sulle porcherie che andava combinando Putin in Cecenia. Tutto sommato l'idea di associare Mosca all'Occidente non era male. Ma come sempre Berlusconi ingigantisce tutto: "Quel giorno feci finire io cinquant'anni di guerra fredda". 

Freddo faceva sicuramente nel febbraio successivo: 30 gradi sotto zero a Zavidovo, parco dove il presidente russo regalò al nostro il famoso colbacco fuori misura, tipo cacciatore, con buffi paraorecchie di pelliccia. Poi gli propose di cenare fuori, nel bosco. Lo sventurato virilmente accettò.

Berlusconi ricambiò nella calda e favolosa estate 2003, quella della bandana. Ricevette Volodia a Porto Rotondo, celebrò l'occasione piantando un po' di cactus nuovi: "Ne ho quattrocento specie". Poi Bocelli cantò 'Tu ca' nun chiagne', e infine tutti in coro intonarono Oci Ciorne. Avevano mangiato e bevuto. Menu: antipasto di mare, tortelloni di ricotta, lasagne vegetariane, porceddu alla brace, dolci sardi. 

Putin si era portato in Costa Smeralda una scorta discreta: l'incrociatore lanciamissili Moskva (quello affondato dagli ucraini), il cacciatorpediniere Smetlivy e la nave appoggio Bubnov. Ma alla conferenza stampa la coppia si presentò come Stanlio e Ollio: su un traballante caddy car, la macchinina da golf guidata da Silvio. Poi una passeggiata a Porto Cervo, dove Berlusconi regalò a Putin piatti policromi e gioielli d'oro. Assieme guardarono Milan-Porto, finale Supercoppa. Pacche sulle spalle, fuochi d'artificio.

Più maschie le cene in Russia. Volodia infliggeva a Silvio storione in gelatina, insalata di urogallo, tagliolini in brodo di funghi, pesantissimi brasati misti. Conoscendo i suoi gusti, Berlusconi gli regalò un fucile Beretta con dedica incisa. Di tutti questi scambi restano irresistibili foto su google. 

Nel 2010 Silvio inaugurò quella che avrebbe dovuto essere la sua "università liberale" di villa Gernetto a Lesmo (Monza Brianza) con un vertice italo-russo. Allora Putin era 'solo' premier. Però regalò sette milioni per ricostruire un palazzo e una chiesa dopo il terremoto dell'Aquila. 

Ma i tempi stavano cambiando, negli Usa era arrivato Barack Obama "l'abbronzato" dopo otto anni dell'amico Bush. La Russia aveva attaccato la Georgia. Un wikileak di Julian Assange rivelò che il festoso rapporto Silvio-Volodia preoccupava gli americani: "Berlusconi sembra essere il portavoce di Putin in Europa". I contratti Eni-Gazprom si rivelavano un po' troppo redditizi. 

Ma che importava? Se nei loro privatissimi vertici Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli a Roma, l'altro ricambiava a colpi di tornei di judo e lotta con Jean-Claude Van Damme a Mosca, partite di hockey su ghiaccio, gare di slalom, spettacoli di cosacchi, voli su aerei antincendio e battute di caccia e pesca quasi artica. 

La prova d'amore definitiva arrivò una sera, in dacia. Neve dappertutto. "Andiamo Silvio, solo io e te. Niente accompagnatori". Avvertirono un'ombra, Volodia sparò. Aveva abbattuto un cervo. Prese un coltello, estrasse il cuore ancora caldo e lo porse all'ospite come gesto supremo. 

Nel 2013 Putin difende Silvio: "Lo attaccano per le donne? Se fosse gay nessuno lo toccherebbe. L'Europa si indebolisce con le nozze omosex". Berlusconi, ormai privato cittadino, ricambia avventurandosi in Crimea nel 2015, dopo l'invasione russa: "Andiamo in giro senza scorta, tutti gli vogliono bene". 

Adesso accusano Silvio di parlare fuori controllo, a ruota libera, senza freni? Ma per due decenni lui ha difeso Putin da qualsiasi accusa: diritti civili, omicidio Politkovskaya, affari Yukos: "Lo diffamano i comunisti, proprio come me". "È un dono del signore". "È il numero uno, come un fratello". Certo, ora la guerra d'Ucraina. Delusione. Ma la loro relazione resta dolcissima, innaffiata col lambrusco.

Tuesday, October 18, 2022

Togliere le foto di Mussolini è come nascondere il fascismo sotto il tappeto



Bersani si oppone al ritratto del duce per i novant’anni del Mise. Un po’ come Boldrini che voleva abbattere l’obelisco del Foro Italico. Toccherà chiedere consiglio agli islamisti di Palmira

di Mauro Suttora

HuffPost, 18 ottobre 2022  

Si chiamava Beneto Giraldon, il capo scalpellino incaricato da Napoleone di distruggere tutti i leoni alati di San Marco dopo la conquista di Venezia nel 1797. Così sparirono un migliaio di simboli della Serenissima che campeggiavano sulle porte e i palazzi pubblici di ogni città veneziana, da Bergamo a Zacinto. Fu uno scalpellamento metodico, da psicanalizzare: la neonata Repubblica francese si accaniva contro la millenaria Repubblica di San Marco, la più longeva, splendida e tollerante della storia. Quel che risparmiarono i francesi fu poi distrutto in Istria e Dalmazia da Tito, dopo la conquista jugoslava del 1945. 

Chi sarà ora il Giraldon che ci libererà da ogni ricordo mussoliniano? Perché dopo la rimozione della foto del duce dalla mostra per i 90 anni del palazzo del Ministero dello Sviluppo economico (fu anche lui ministro in quelle stanze), dopo la protesta di Pierluigi Bersani che non tollera di essere incorniciato e appeso sullo stesso muro, ci siamo improvvisamente accorti che il mascellone appare anche nella galleria dei ritratti degli ex presidenti del Consiglio a palazzo Chigi. Via.

E come mai sopravvive quell'obelisco all'entrata del Foro Italico con su scritto Dux? Vergogna.

Eppure con la fascioclastia del 1943-45 pensavamo di esserci totalmente purificati, cancellando da ogni marmo d'Italia scritte con le date in era fascista e fasci littori.

Lo aveva riscoperto solo Laura Boldrini nel 2015, l'obelisco ducesco sotto cui passano spensierati ogni domenica milioni di tifosi romanisti e laziali da tre quarti di secolo. Propose di abbatterlo subito, con l'ignara urgenza dei neofiti. La liquidò Walter Veltroni: "Mi sembra assurdo nascondere un ventennio che è parte tragica della nostra storia".

Parole profetiche.

Per incredibile coincidenza del destino, venerdì 28 ottobre rischia di essere votata la fiducia al governo Meloni. Cent'anni esatti dopo la marcia su Roma. Non vogliamo assolutamente addentrarci nella querelle su quanto sia fascista, post o neo il prossimo governo. Diciamo solo che comincia per M e finisce per i. Oppure che la fiamma arde ancora. 

In ogni caso, per fugare ogni sospetto la soluzione è semplice. Fra i suoi primi atti la nuova premier istituirà una commissione internazionale per la promozione della virtù antifascista e la prevenzione del vizio littorio. Inviteremo a farne parte i migliori iconoclasti del pianeta: i talebani dei Buddha di Bamiyan, gli islamisti dell'Isis di Palmira e gli statunitensi bonificatori di statue di Cristoforo Colombo. Essi dovranno individuare e distruggere ogni traccia di mussolinismo: quasi tutte le stazioni e i palazzi di giustizia, la Farnesina, il codice Rocco, la giornata del Risparmio, l'Inps, la Festa degli alberi.

Elimineremo da wikipedia qualsiasi riferimento al Ventennio, così Bersani non dovrà più sopportare Mussolini come ministro suo predecessore al Mise. E anche lo scalpellino leontoclasta Giraldon rischierà: quel suo nome Beneto meglio cambiarlo in Veneto. 

Monday, October 17, 2022

Sorpresa: un libico giudica la Libia fascista



Per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (ed. Franco Angeli), di Mustafa Rajab Younis. Sul fascista più famoso, in Italia e nel mondo, dopo il duce

di Mauro Suttora

HuffPost, 17 ottobre 2022  

Nel profluvio di rievocazioni per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (Franco Angeli). Prezioso per due ragioni. L'argomento: Balbo è il più famoso dei quadrumviri della marcia del 28 ottobre 1922. Alla quale, ricordiamolo, Mussolini non partecipò: si nascose nella casa di campagna della sua amante Margherita Sarfatti a Cavallasca (Como), pronto a scappare in Svizzera se le cose si fossero messe male. 

Balbo, appena 26enne ma già ras dell'Emilia-Romagna, fu quindi il vero capo della marcia. E intervenne con decisione negli scontri del quartiere romano di San Lorenzo, dove la colonna fascista di Giuseppe Bottai era stata attaccata. Fondatore dell'Aeronautica, ministro dell'Aviazione, all'inizio degli anni '30 Balbo divenne il fascista più famoso dopo il duce, in Italia e nel mondo, grazie alle sue trasvolate oceaniche. 

Anche per questo Mussolini, geloso, nel 1934 lo tolse da ministro e lo esiliò in Africa, come governatore della Libia. E qui inizia il libro, prezioso anche per il suo autore: Mustafa Rajab Younis, docente libico di storia contemporanea all'università di Tripoli. Il quale affronta con equilibrio un argomento controverso, senza lasciarsi trasportare da una condanna pregiudiziale della sciagurata avventura coloniale, che ha pervaso la storiografia italiana più recente (Rochat, Del Boca).

Il professor Younis descrive meticolosamente i sei anni e mezzo di 'regno' di Balbo in Libia, che quando arrivò era ancora divisa fra Tripolitania e Cirenaica, com'è tornata a essere di fatto oggi. Un'avventura che termina tragicamente il 28 giugno 1940, quando Balbo viene ucciso in volo per sbaglio dalla nostra contraerea nei primi giorni della Seconda guerra mondiale. Younis non crede ai sospetti di un abbattimento voluto: "Fu un incidente casuale".

Di nemici comunque in Italia Balbo ne aveva parecchi. Anche perché la sua fama era ulteriormente aumentata in Libia, dove si comportava da vicerè invitando giornalisti da tutto il mondo a feste da mille e una notte nelle sue sfarzose residenze. Il suo governo della Quarta sponda fu facilitato dalla fine delle ribellioni senussita e di Al Mukhtar, che avevano funestato i primi due decenni della colonia conquistata nel 1911 (guerra avversata dall'allora pacifista Mussolini, tanto da finire addirittura in carcere con Nenni). 

"Younis valuta con obiettività le realizzazioni dell'epoca di Balbo in Libia", scrive il professor Andrea Baravelli nell'introduzione al libro, che viene presentato il 18 ottobre alle 17.30 nella biblioteca Cabral di Bologna. "Abitazioni, strade, acquedotti, scuole, consultori medici: un insieme sbalorditivo di opere che avrebbe consentito la realizzazione del vecchio sogno di popolamento su larga scala della Libia, stravolgendo equilibri secolari e sancendo la definitiva dipendenza delle genti arabe".

Nonostante la sua strada litoranea Balbia di 1800 chilometri il gerarca di Ferrara non fu un illuminato difensore dei diritti civili, anche se si oppose alle leggi razziali e voleva dare la cittadinanza ai libici, secondo le usanze dell'impero romano: era semplicemente un bravo organizzatore e ottimo propagandista. 

Come scrive Younis, oltre a favorire l'insediamento di 20mila contadini italiani, Balbo sviluppò il turismo, costruendo grandiosi alberghi per i visitatori di Leptis Magna. Mancò di poco la scoperta del petrolio, e si sentiva in concorrenza con i colonizzatori francesi in Tunisia e gli inglesi in Egitto. Finite le tirate nazionaliste di Gheddafi, ora anche gli storici libici esaminano con equanimità luci e ombre dell'occupazione italiana della loro terra.


 

Friday, October 07, 2022

Nobel per la Pace: storia controversa del premio più controverso



Impeccabili i premi 2022. Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), finora il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti

di Mauro Suttora

Huffpost, 7 ottobre 2022
  
Impeccabili i tre Nobel della pace 2022: gli attivisti per i diritti umani di Russia, Bielorussia e Ucraina meritano tutta la nostra attenzione e riconoscenza. Anche l'anno scorso i giurati di Oslo avevano premiato un russo. Ma il giornalista Dimitri Muratov, direttore della Novaya Gazeta, ha avuto poco tempo per assaporare il Nobel: poche settimane dopo è piombato con tutti i compatrioti nell'incubo della guerra contro l'Ucraina. Il suo era anche un premio postumo, in memoria della redattrice del giornale Anna Politkovskaya eliminata da Putin nel 2006. Ma non è stato di buon auspicio.
 
Speriamo invece che adesso Ales Bialiatski, 60 anni, il dissidente bielorusso premiato, venga liberato: è in prigione da un anno dopo averne già scontati tre per false accuse di evasione fiscale.
Al dissidente cinese Liu Xiaobo il premio del 2010 non è servito per uscire dal carcere. Anzi, sette anni dopo è morto di cancro al fegato, sempre prigioniero. 
La birmana Aung San Suu Kyi è stata liberata solo 19 anni dopo il Nobel del 1991, nei cinque anni da ministro degli Esteri è stata accusata anche lei di maltrattare le minoranze etniche, e l'anno scorso i generali l'hanno arrestata di nuovo. A 77 anni la sventurata langue ancora in una prigione segreta. 

Ma l'assegnazione del Nobel per la pace si muove sempre in un terreno minato. Il presidente etiope Abiy Ahmed Ali dopo il premio del 2019 non gli ha fatto onore: ha scatenato un conflitto contro i guerriglieri del Tigray. 
Il rischio di scambiare guerrafondai per pacifisti viene da lontano: nel 1906 fu decorato Theodore Roosevelt, il presidente Usa passato alla storia per la sua vanteria: "Imbraccio sempre un bastone nodoso". 
Il 99enne Henry Kissinger ha ottenuto dal Nobel un elisir di lunga vita, però neanche lui è un apostolo della nonviolenza come Albert Schweitzer (premio 1952), madre Teresa di Calcutta (1979) o Nelson Mandela (1993). 
Più onesto di Kissinger fu nel 1973 il copremiato vietnamita Le Duc Tho, che declinò il riconoscimento: "In Vietnam c'è ancora la guerra". E seguendo questo stesso criterio, appare surreale il Nobel ad Arafat.
 
A volte sono premi di incoraggiamento. Come Obama nel 2009, per i bei discorsi che faceva. I giurati di Oslo li scambiarono per realtà, definendoli "sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli". Ma quando gli arabi lo presero sul serio, scatenando contro i propri dittatori le loro primavere di libertà nel 2011, Obama non seppe cosa fare. Una no fly zone contro Gheddafi, nulla contro le armi chimiche del siriano Assad e del suo alleato Putin.
 
Con il Nobel si rischia la vita. Martin Luther King è stato assassinato quattro anni dopo averlo ricevuto nel 1964, l'egiziano Sadat (1978) tre anni dopo, l'israeliano Rabin (1994) è sopravvissuto solo un anno. Gandhi, che forse lo avrebbe meritato più di tutti, fu ammazzato prima che a Oslo pensassero a lui.

Qualche buontempone nel 1939 candidò Hitler, con la motivazione che se il premier inglese Chamberlain era stato proposto per gli accordi di Monaco, allora meritavano anche gli altri firmatari.

Quando a Oslo non sanno che pesci pigliare non conferiscono il Nobel (è successo 19 volte), oppure premiano un'organizzazione (24 volte), un'agenzia Onu, la Croce Rossa (tre volte). Che va benissimo, però (ong a parte) si tratta di organismi che la pace la devono promuovere per statuto. È il loro mestiere, sono stipendiati per questo.
 
Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti. E l'artefice della dolce morte per il blocco sovietico fu in gran parte lui. Per questo Putin non è andato al suo funerale.

Thursday, October 06, 2022

Memento Putin. L'ex presidente del Kosovo è in carcere da due anni all'Aja



Hashim Thaci nel novembre 2020 diventò il primo capo di stato nella storia a trasferirsi direttamente dal suo palazzo presidenziale a una prigione olandese. All'inizio era sembrata una buona idea, non aveva calcolato due rischi

di Mauro Suttora 

HuffPost, 6 ottobre 2022  


Al numero 47 di Raamweg, all'Aja, una cella aspetta Vladimir Putin. Sta in un palazzo di mattoni rossi che d'estate si colora col verde dei rampicanti. È la sede del Tribunale che in questi mesi sta giudicando un collega dell'autocrate russo: Hashim Thaci, per vent'anni leader del Kosovo. Prima capo militare dell'Uck (Esercito di liberazione kosovaro), poi premier (2000-2014), ministro degli Esteri, infine presidente. Fino a quel maledetto (per lui) 5 novembre 2020, giorno in cui si consegnò al Tribunale dell'Aja: fu il primo capo di stato nella storia a trasferirsi direttamente dal suo palazzo presidenziale a un carcere in Olanda. 

All'inizio era sembrata una buona idea. Thaci, i suoi avvocati e compagni di partito pensavano che qualche settimana di prigione fosse un accettabile prezzo da pagare per far entrare il Kosovo nell'Unione europea. Da anni, infatti, le accuse di crimini di guerra contro il partito degli ex guerriglieri anti-serbi bloccano il processo di adesione alla Ue. 

Così perfino il partito di governo aveva accettato di mettere sotto processo Thaci e qualche altro proprio dirigente, per rispondere di nefandezze perpetrate contro la minoranza serba durante il conflitto che liberò il Kosovo nel 1999-2000. Pare che all'ombra di Ibrahim Rugova, il Gandhi kosovaro morto nel 2006, anche l'Uck si sia lasciato andare a vendette sanguinose. 

Questo gesto apparentemente autolesionista di Thaci e del Kosovo doveva anche servire a bilanciare il processo contro il presidente Slobodan Milosevic e gli altri gerarchi serbi, che si era concluso con la condanna per crimini di guerra di molti di loro (ergastolo a Karadzic e Mladic), e il suicidio di Milosevic nella sua cella dell'Aja nel 2006 in prossimità della sentenza. 

Thaci però non aveva calcolato due rischi: le lungaggini della giustizia internazionale (le prime accuse della procuratrice svizzera Carla Del Ponte su un sospetto traffico d'organi prelevati da prigionieri serbi risale al 2008) e il puntiglio dei magistrati dell'Aja. I quali da due anni gli negano gli arresti domiciliari, o perlomeno il trasferimento in una prigione kosovara, vicina a casa. 

Qualche mese fa Thaci, furibondo anche perché il processo è ancora in istruzione e chissà quando inizierà il dibattimento in aula, ha cambiato avvocato. Si è affidato a un pezzo grosso statunitense specializzato in diritto penale internazionale. Niente da fare: anche la sua ultima richiesta di domiciliari è stata respinta dall'inflessibile corte. Né aiuta che nel frattempo in Kosovo il partito di Thaci abbia perso le elezioni, e che premier ora sia il 47enne Albin Kurti del partito 'Autodeterminazione'.

Così un capo di stato europeo, fino a due anni fa riverito in tutte le capitali del continente, langue in una cella dell'Aja. 

In realtà il Tribunale internazionale per il Kosovo è solo uno dei ben quattro in funzione all'Aja. A poche centinaia di metri c'è quello ad hoc per la ex Jugoslavia, che ha cessato di giudicare ma si occupa ancora di esecuzione della pena per decine di condannati che la stanno scontando in vari Paesi europei (uno anche in Italia).

La terza corte è quella dell'Onu, ma nel suo famoso palazzo della Pace di Carnegieplein non si occupa di reati individuali: dirime soltanto controversie fra stati. 

C'è infine la Corte penale di giustizia nata con lo statuto di Roma del 1998, che attualmente sta processando soprattutto ex capi africani (Sudan, Centrafrica, Congo, Uganda), e da poche settimane investiga anche tre presunti criminali filorussi della guerra che Putin fece alla Georgia nell'agosto 2008. 

Putin si è guardato bene (come peraltro anche gli Usa) dal far aderire la Russia a questa Corte penale di giustizia. Quindi pure lui, come il filoccidentale Thaci e il filorusso Milosevic, dovrebbe essere giudicato da un tribunale ad hoc. Ma se per Mad Vlad le cose dovessero mettersi male, una prigione olandese forse risulterebbe l'opzione più desiderabile, rispetto alla tragica fine di un Nicolae Ceausescu, un Saddam Hussein o un Muammar Gheddafi.