LEONARDO DA OSCAR
DiCaprio candidato al premio per "Blood Diamond"
1 febbraio 2007
Dieci anni, ci ha messo. Dieci anni per togliersi di dosso l’immagine di ragazzotto carino (o «Bel pezzo di carne», come si è crudamente autodefinito lui stesso la scorsa settimana su Newsweek) piombatagli addosso nel 1997 col successo mondiale di Titanic. Ora Leonardo DiCaprio è un uomo. E a 32 anni è tornato prepotentemente alla ribalta, con ben due ruoli-capolavoro in contemporanea.
Candidato all’Oscar per Blood Diamond, in cui fa la parte di un contrabbandiere di diamanti in Sierra Leone. Ma anche un’interpretazione superlativa in The Departed di Martin Scorsese, come poliziotto infiltrato fra i mafiosi di Boston. Avrebbe potuto essere candidato pure per questo film, ma due nomination nello stesso anno un attore non le può ottenere.
«Sono invidioso di Leo», non ha difficoltà ad ammettere Brad Pitt, di una dozzina d’anni più anziano, ma alla ricerca di ruoli da «vero uomo» come quello di DiCaprio in Blood Diamond (il critico Tullio Kezich l’ha paragonato addirittura a Humphrey Bogart) Pitt è rimasto a secco di nominations per l’Oscar quest’anno, come d’altronde tutti gli altri giovani leoni statunitensi concorrenti di DiCaprio: Matt Damon (il rivale di Leo in The Departed), Tom Cruise, Ed Norton, oltre al più maturo George Clooney.
Brad si consola con Angelina Jolie. Leo, invece, sembra essersi stufato anche della sua ultima fidanzata, la modella di costumi israeliana Bar Rafaeli. Lei non lo ha accompagnato in Inghilterra e Italia per le prime di Blood Diamond, e anzi domenica 21 gennaio DiCaprio ha litigato furiosamente al telefonino con lei, mentre usciva dalla discoteca Aura di Londra. «Leo è diventato grande, si è stufato di stare con ragazze che hanno undici anni meno di lui come Bar», sussurra un amico. «Sì, Leo è cambiato, ora è più maturo», conferma Kate Winslet, la sua partner in Titanic.
Leo, nato e cresciuto a Hollywood, non sopporta in particolare le ragazze americane: prima di Bar era stato a lungo con Gisele Bundchen, la supermodella brasiliana. La sua ultima passione sembra essere la presentatrice tv inglese Cat Deeley, conosciuta l’anno scorso a Los Angeles. L’ha rivista a Londra, dove si è dato alla vita notturna scatenata. Per festeggiare la nomination, infatti, ha passato nove ore consecutive fra alcol e musica. Con un conto di 15 mila euro solo di champagne e bevute varie. Prima è stato avvistato nel ristorante giapponese Roka, poi al club Boujis, il preferito dei principi Harry e William, infine in un’altra discoteca di Chelsea, The Collection, dove è rimasto fino all’alba. Un rapido salto in albergo, e poi via direttamente all’aeroporto di Luton dove alle nove aveva l’aereo per Roma.
Pochi stravizi invece in Italia questa volta per DiCaprio, alloggiato nell’Hilton romano di Monte Mario: «Adoro Roma, è la città al mondo che preferisco, e i romani sono splendidi», ha detto in una delle sue rarissime conferenze-stampa. Non sappiamo cosa magnifichi quando si trova in altre città, però è vero che Leo ha passato ben nove mesi nella città eterna: era il 2001, ai tempi delle riprese di Gangs of New York. Allora c’era l’euro debole, e così agli statunitensi conveniva venire a girare film a Cinecittà: non solo Scorsese, anche La Passione di Mel Gibson è tutta italiana.
Di quel periodo romano DiCaprio ricorda che «ogni weekend mi mettevo a visitare chiese e monumenti, è incredibile come Roma sia fatta di tante città costruite una sopra all’altra. I posti che preferisco? La Galleria di Villa Borghese e la chiesa dei Cappuccini in via Veneto».
Una scelta singolare, quest’ultima: la chiesa è famosa non per le sue opere d’arte, ma per le centinaia di teschi di frati conservati nella cripta. Una scena horror non tanto lontana da certe sequenze di Blood Diamond, in cui si vedono i guerriglieri della Sierra Leone mozzare le mani ai bambini e a chi si rifiutava di farsi arruolare. Tutte vicende realmente accadute nel 1999, durante la guerra civile. E anche se oggi quel Paese ha ritrovato la pace, il film termina con una scritta inquietante: «Oggi in Africa ci sono ancora 200 mila bambini-soldato».
Contro queste disgrazie immani nel film si batte, accanto a Leo, una giornalista interpretata da Jennifer Connelly, che quando aveva tredici anni fu scelta da Sergio Leone per l’indimenticabile parte della piccola Deborah in C’era una volta in America. Pure lei, quindi, come Leo, è un’attrice diventata famosa precocemente, ma che poi ha mantenuto le promesse vincendo l’Oscar nel 2001 come moglie di Russell Crowe in A beautiful mind.
Anche il pigmalione di DiCaprio è stato un italiano: se non fosse stato per Scorsese, infatti, che lo ha scelto per Gangs of New York, The Aviator e The Departed, Leo sarebbe ancora solo un giovane, promettente e bell’attore. Ma non un uomo.
Mauro Suttora
Wednesday, January 31, 2007
Wednesday, January 24, 2007
Le single americane
Come mai negli Stati Uniti
ci sono più single che sposate?
Oggi, 24 gennaio 2007
Per la prima volta le donne single americane superano le sposate. Negli Stati Uniti ben il 51 per cento dell’universo rosa ha scelto di non sposarsi. E pensare che nel 1950 le americane non sposate erano solo il 5 per cento. Nel 2000 sono diventate il 49 per cento e nel 2006 la maggioranza. Come mai?
risponde Mauro Suttora
autore di «No sex in the City»
Perché stanno meglio da sole. Invece di sopravvivere con un marito che passa le sere al pub bevendo birra direttamente dalla bottiglia, i week-end davanti alla tv guardando partite di football, basket, baseball, hockey su ghiaccio, e le notti a smanettare sul computer aspettando che la moglie si addormenti, scelgono la libertà. Che vuol dire solitudine, ma anche il piacere di vedersi tra amiche come in 'Sex and the City', la liberazione di non finire come 'Casalinghe disperate', o l’eccitazione di farsi di nuovo corteggiare da un affascinante sconosciuto incontrato per caso a un cocktail.
A New York c’è la massima concentrazione mondiale di single. Stupende trentenni che aspettano ancora un po’ prima di sposarsi, fantastiche 40/50enni che respirano dopo aver divorziato, e perfino eleganti vedove 60/70enni che non disdegnano di lanciarsi in nuove avventure. C’è spazio per tutte, in quell’enorme circo/teatro che è Manhattan. Dove la vita è dura, come abbiamo visto nel film 'Il Diavolo veste Prada'. Ma in cui l’energia non viene mai a mancare. Provare sempre, rassegnarsi mai: questa è la principale differenza fra Stati Uniti e Italia.
Un anno fa, di domenica, stavo leggendo al sole il giornale su una panchina di Central Park. Mi si avvicina una bella donna e mi chiede: «Are you George?». No, le rispondo. Mi sorride, si scusa e si allontana lentamente, guardandosi attorno. Aveva un appuntamento «al buio» con qualcuno conosciuto su internet. Squallido? Forse, però sono decine di migliaia ormai i clienti di siti per fare amicizia. A volte funziona. L’altra sera ne ho visto una pubblicità tv anche in Italia.
Finiremo pure noi così? Dalle statistiche sembra di sì, sempre più single anche qui. Tutte che sognano di sposarsi, in realtà. Per provare o riprovare a convivere, metter su famiglia, crescere figli. Ma dopo qualche anno le sposate, ormai spossate, ricominciano a sognare: questa volta di sfuggire alla routine, di avere un pomeriggio per sé, di essere desiderate a letto. Così ricomincia l’altalena fra noia e stress. Fra il minimo di amore e sesso garantito dal matrimonio, e il massimo di allettante ma insicura imprevedibilità promesso dalla neo-zitellaggine.
ci sono più single che sposate?
Oggi, 24 gennaio 2007
Per la prima volta le donne single americane superano le sposate. Negli Stati Uniti ben il 51 per cento dell’universo rosa ha scelto di non sposarsi. E pensare che nel 1950 le americane non sposate erano solo il 5 per cento. Nel 2000 sono diventate il 49 per cento e nel 2006 la maggioranza. Come mai?
risponde Mauro Suttora
autore di «No sex in the City»
Perché stanno meglio da sole. Invece di sopravvivere con un marito che passa le sere al pub bevendo birra direttamente dalla bottiglia, i week-end davanti alla tv guardando partite di football, basket, baseball, hockey su ghiaccio, e le notti a smanettare sul computer aspettando che la moglie si addormenti, scelgono la libertà. Che vuol dire solitudine, ma anche il piacere di vedersi tra amiche come in 'Sex and the City', la liberazione di non finire come 'Casalinghe disperate', o l’eccitazione di farsi di nuovo corteggiare da un affascinante sconosciuto incontrato per caso a un cocktail.
A New York c’è la massima concentrazione mondiale di single. Stupende trentenni che aspettano ancora un po’ prima di sposarsi, fantastiche 40/50enni che respirano dopo aver divorziato, e perfino eleganti vedove 60/70enni che non disdegnano di lanciarsi in nuove avventure. C’è spazio per tutte, in quell’enorme circo/teatro che è Manhattan. Dove la vita è dura, come abbiamo visto nel film 'Il Diavolo veste Prada'. Ma in cui l’energia non viene mai a mancare. Provare sempre, rassegnarsi mai: questa è la principale differenza fra Stati Uniti e Italia.
Un anno fa, di domenica, stavo leggendo al sole il giornale su una panchina di Central Park. Mi si avvicina una bella donna e mi chiede: «Are you George?». No, le rispondo. Mi sorride, si scusa e si allontana lentamente, guardandosi attorno. Aveva un appuntamento «al buio» con qualcuno conosciuto su internet. Squallido? Forse, però sono decine di migliaia ormai i clienti di siti per fare amicizia. A volte funziona. L’altra sera ne ho visto una pubblicità tv anche in Italia.
Finiremo pure noi così? Dalle statistiche sembra di sì, sempre più single anche qui. Tutte che sognano di sposarsi, in realtà. Per provare o riprovare a convivere, metter su famiglia, crescere figli. Ma dopo qualche anno le sposate, ormai spossate, ricominciano a sognare: questa volta di sfuggire alla routine, di avere un pomeriggio per sé, di essere desiderate a letto. Così ricomincia l’altalena fra noia e stress. Fra il minimo di amore e sesso garantito dal matrimonio, e il massimo di allettante ma insicura imprevedibilità promesso dalla neo-zitellaggine.
Tuesday, January 23, 2007
Veglia per Welby
Ti condannano a vivere, caro Piero
Welby stremato dopo una sentenza che allunga la sua agonia.
"Non ce la facciamo più", ci dice la moglie Mina dopo la beffa del tribunale di Roma, che riconosce al malato terminale il diritto di morire, ma pretende una nuova legge per poter sospendere la respirazione artificiale
di Mauro Suttora
Oggi, 18 dicembre 2006
"Non ce la facciamo più". Questo è l' unico messaggio che arriva da casa Welby dopo la sentenza del tribunale di Roma. La giudice Angela Savio, salomonica, è riuscita a dare allo stesso tempo ragione e torto a Piergiorgio, il malato terminale che da anni invoca la morte. Welby ha ragione, sentenzia il magistrato, perché il diritto di ogni persona a farsi curare nel modo che ritiene più opportuno è stabilito dalla legge suprema dello Stato: la Costituzione. Ma ha anche torto, e quindi non può fare interrompere le cure dai medici, perché manca una legge che "tuteli concretamente" questo diritto. In soldoni: Welby può teoricamente farsi staccare il ventilatore artificiale col tubo che gli permette di respirare. Ma chi compie questa azione verrà accusato di omicidio, rischiando quindici anni di carcere secondo il codice penale fascista ancora in vigore.
Per protestare contro questi arzigogoli i i radicali hanno organizzato veglie per Welby in 50 città italiane ed europee (Londra, Bruxelles, Mosca). "Ormai non so più che cosa dire, Mauro, mi sento spremuta come un limone. Non abbiamo più parole, né io né Piero", mi dice Mina Welby, moglie di Piergiorgio, nel pomeriggio di domenica 17 dicembre. L' appuntamento è per le 15 e 30, ma contrariamente alle scorse settimane dalla casa del rione Don Bosco ora "esce" quasi solo silenzio.
È incredibile come questo piccolo appartamento al sesto piano di un palazzo anni Cinquanta della periferia sud di Roma, vicino a Cinecittà, sia diventato negli ultimi tre mesi il cuore dell' Italia politica. Era l' inizio dell' autunno quando Welby si è trasformato nel "caso Welby", soltanto perché il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli aveva usato la cortesia di rispondere pubblicamente a una sua lettera aperta, in cui per l' ennesima volta Piero chiedeva l' eutanasia ("Come in Olanda, come in Svizzera").
E adesso, a fine autunno, dopo centinaia di pagine su tutti i giornali, copertine di settimanali, un libro (il suo, titolato "Lasciatemi morire"), decine di dibattiti tv, centinaia di dichiarazioni di politici, medici ed esperti, siamo al punto di prima: Piero non è padrone della propria vita, non può decidere se vivere o morire dopo 45 anni di distrofia muscolare. Nessuno vuole esaudire la richiesta di questo paziente impaziente dopo quasi mezzo secolo di sofferenze.
Nell' appartamento che il marito aveva scelto perché luminoso, sua madre Luciana, 86 anni, lo ha visto spegnersi anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno. Non fanno entrare quasi nessuno, lei e la nuora (Gugliel)Mina, coscienziosa e severa come la sudtirolese che è. Le poche immagini ritrasmesse in Tv da tre mesi sono quelle di Odeon, della trasmissione di Gianfranco Funari che riuscì a entrare a settembre. Poi basta. Idem per foto e giornalisti: gli ammessi nell' appartamentino si contano sulle dita di una mano. Nessun ministro in visita: alle richieste, gentile ma inflessibile, Mina risponde sempre: "Piero è troppo stanco, stanotte non ha dormito". Perfino Marco Pannella e i radicali dell' associazione Coscioni, Piero e Mina preferiscono sentirli al telefono. Mina teme le infezioni.
Ma Piero è collegatissimo col mondo, ascolta sempre radio radicale, guarda la Tv, si fa leggere da Mina tutte le dichiarazioni di ogni politico. Si è commosso sentendo Giorgio Albertazzi leggere alcune pagine del suo libro alla veglia in Campidoglio. Si arrabbia e si deprime ogni volta che lo insultano, che insinuano che si farebbe strumentalizzare. "Mi trattate come Aldo Moro, non volete rispettare la mia volontà", ha scritto. La guerra di Piero va avanti. "Non per molto, non ce la facciamo più", ripete Mina.
Di là, nella stanzetta oltre il minuscolo ingresso, c'è lui. Steso nel letto dove rischia piaghe da decubito, e dove viene il fisioterapista tre volte alla settimana per muovergli braccia e gambe inerti. Fino ad aprile Piero riusciva a spostare ancora qualche dito, e così poteva scrivere sul computer scambiando messaggi perfino scherzosi con gli amici del suo forum su Internet. Ora non più, anche quest' ultimo filo che lo teneva aggrappato al mondo e alla vita si è spezzato. "Per lui è stato un durissimo colpo", ci dice Mina, "è entrato in depressione, da allora vuole solo morire".
"Per fortuna, mio marito scelse un piano così alto: almeno dalle finestre entra la luce, si vedono il sole e il cielo", ci ha detto la signora Luciana seduta sul divano del soggiorno l' ultima volta che siamo andati a trovarli. Il padre di Piero si fece assegnare questo appartamentino riservato ai dipendenti pubblici. Era scozzese, da giovane era stato giocatore professionista di calcio, era sceso nei campi di serie A alla fine degli anni Venti con la Roma di Attilio Ferraris e Fulvio Bernardini.
Ottant' anni dopo, per uno strano scherzo del destino, si chiama Bernardini (Rita) anche la segretaria dell' unico partito, il radicale, che dal 2002 ha preso a cuore la tremenda richiesta di Piero Welby. È scozzese questo strano cognome che interpella le coscienze di tutti gli italiani. Apparentemente estraneo alla tradizione cattolica, e infatti c' erano solo due valdesi alla veglia per Welby: il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero (Rifondazione comunista) e la pastora Maria Bonafede, moderatrice dei valdesi, unica donna a capo di una Chiesa.
Quattro chilometri a nord di casa Welby c'è il Vaticano, con il Papa che ammonisce quasi quotidianamente: "L' eutanasia è omicidio". Due chilometri a nord c'è il Parlamento, con i parlamentari cattolici che ribadiscono: "Eutanasia, mai". Ma qui, sul divano a fiori di casa Welby, c' è la mamma di Piero, ultraottantenne, cattolicissima che allarga le braccia dicendo: "Che dobbiamo fare ?". E che cosa avrebbe fatto sua sorella, la zia di Piero, madre superiora di un importante ordine di suore, che ha visto il nipote diagnosticato di distrofia a 16 anni, con il medico che prevedeva: "Non arriverà a vent' anni"?
Alle pareti del salotto sono appesi tutti i quadri dipinti da Piero finché le sue dita riuscivano a muovere un pennello. Mamma Luciana tira fuori orgogliosa due album traboccanti di foto: sono quelle che Piero scattava a fiori, farfalle e insetti finché le sue mani riuscivano a fare clic su una macchina fotografica. Poi si alza, va verso il comò, apre due cassetti e ci regala un po' di presine coloratissime: "Le facevo all' uncinetto, le davo a un negozio di casalinghi qua sotto che me le vendeva. Ma ormai non le vuole più nessuno". Mamma Luciana allarga le braccia sul divano, sfogliando gli album con le foto delle farfalle. L' autunno di Welby è finito. Ora comincia l' inverno.
Mauro Suttora
Welby stremato dopo una sentenza che allunga la sua agonia.
"Non ce la facciamo più", ci dice la moglie Mina dopo la beffa del tribunale di Roma, che riconosce al malato terminale il diritto di morire, ma pretende una nuova legge per poter sospendere la respirazione artificiale
di Mauro Suttora
Oggi, 18 dicembre 2006
"Non ce la facciamo più". Questo è l' unico messaggio che arriva da casa Welby dopo la sentenza del tribunale di Roma. La giudice Angela Savio, salomonica, è riuscita a dare allo stesso tempo ragione e torto a Piergiorgio, il malato terminale che da anni invoca la morte. Welby ha ragione, sentenzia il magistrato, perché il diritto di ogni persona a farsi curare nel modo che ritiene più opportuno è stabilito dalla legge suprema dello Stato: la Costituzione. Ma ha anche torto, e quindi non può fare interrompere le cure dai medici, perché manca una legge che "tuteli concretamente" questo diritto. In soldoni: Welby può teoricamente farsi staccare il ventilatore artificiale col tubo che gli permette di respirare. Ma chi compie questa azione verrà accusato di omicidio, rischiando quindici anni di carcere secondo il codice penale fascista ancora in vigore.
Per protestare contro questi arzigogoli i i radicali hanno organizzato veglie per Welby in 50 città italiane ed europee (Londra, Bruxelles, Mosca). "Ormai non so più che cosa dire, Mauro, mi sento spremuta come un limone. Non abbiamo più parole, né io né Piero", mi dice Mina Welby, moglie di Piergiorgio, nel pomeriggio di domenica 17 dicembre. L' appuntamento è per le 15 e 30, ma contrariamente alle scorse settimane dalla casa del rione Don Bosco ora "esce" quasi solo silenzio.
È incredibile come questo piccolo appartamento al sesto piano di un palazzo anni Cinquanta della periferia sud di Roma, vicino a Cinecittà, sia diventato negli ultimi tre mesi il cuore dell' Italia politica. Era l' inizio dell' autunno quando Welby si è trasformato nel "caso Welby", soltanto perché il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli aveva usato la cortesia di rispondere pubblicamente a una sua lettera aperta, in cui per l' ennesima volta Piero chiedeva l' eutanasia ("Come in Olanda, come in Svizzera").
E adesso, a fine autunno, dopo centinaia di pagine su tutti i giornali, copertine di settimanali, un libro (il suo, titolato "Lasciatemi morire"), decine di dibattiti tv, centinaia di dichiarazioni di politici, medici ed esperti, siamo al punto di prima: Piero non è padrone della propria vita, non può decidere se vivere o morire dopo 45 anni di distrofia muscolare. Nessuno vuole esaudire la richiesta di questo paziente impaziente dopo quasi mezzo secolo di sofferenze.
Nell' appartamento che il marito aveva scelto perché luminoso, sua madre Luciana, 86 anni, lo ha visto spegnersi anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno. Non fanno entrare quasi nessuno, lei e la nuora (Gugliel)Mina, coscienziosa e severa come la sudtirolese che è. Le poche immagini ritrasmesse in Tv da tre mesi sono quelle di Odeon, della trasmissione di Gianfranco Funari che riuscì a entrare a settembre. Poi basta. Idem per foto e giornalisti: gli ammessi nell' appartamentino si contano sulle dita di una mano. Nessun ministro in visita: alle richieste, gentile ma inflessibile, Mina risponde sempre: "Piero è troppo stanco, stanotte non ha dormito". Perfino Marco Pannella e i radicali dell' associazione Coscioni, Piero e Mina preferiscono sentirli al telefono. Mina teme le infezioni.
Ma Piero è collegatissimo col mondo, ascolta sempre radio radicale, guarda la Tv, si fa leggere da Mina tutte le dichiarazioni di ogni politico. Si è commosso sentendo Giorgio Albertazzi leggere alcune pagine del suo libro alla veglia in Campidoglio. Si arrabbia e si deprime ogni volta che lo insultano, che insinuano che si farebbe strumentalizzare. "Mi trattate come Aldo Moro, non volete rispettare la mia volontà", ha scritto. La guerra di Piero va avanti. "Non per molto, non ce la facciamo più", ripete Mina.
Di là, nella stanzetta oltre il minuscolo ingresso, c'è lui. Steso nel letto dove rischia piaghe da decubito, e dove viene il fisioterapista tre volte alla settimana per muovergli braccia e gambe inerti. Fino ad aprile Piero riusciva a spostare ancora qualche dito, e così poteva scrivere sul computer scambiando messaggi perfino scherzosi con gli amici del suo forum su Internet. Ora non più, anche quest' ultimo filo che lo teneva aggrappato al mondo e alla vita si è spezzato. "Per lui è stato un durissimo colpo", ci dice Mina, "è entrato in depressione, da allora vuole solo morire".
"Per fortuna, mio marito scelse un piano così alto: almeno dalle finestre entra la luce, si vedono il sole e il cielo", ci ha detto la signora Luciana seduta sul divano del soggiorno l' ultima volta che siamo andati a trovarli. Il padre di Piero si fece assegnare questo appartamentino riservato ai dipendenti pubblici. Era scozzese, da giovane era stato giocatore professionista di calcio, era sceso nei campi di serie A alla fine degli anni Venti con la Roma di Attilio Ferraris e Fulvio Bernardini.
Ottant' anni dopo, per uno strano scherzo del destino, si chiama Bernardini (Rita) anche la segretaria dell' unico partito, il radicale, che dal 2002 ha preso a cuore la tremenda richiesta di Piero Welby. È scozzese questo strano cognome che interpella le coscienze di tutti gli italiani. Apparentemente estraneo alla tradizione cattolica, e infatti c' erano solo due valdesi alla veglia per Welby: il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero (Rifondazione comunista) e la pastora Maria Bonafede, moderatrice dei valdesi, unica donna a capo di una Chiesa.
Quattro chilometri a nord di casa Welby c'è il Vaticano, con il Papa che ammonisce quasi quotidianamente: "L' eutanasia è omicidio". Due chilometri a nord c'è il Parlamento, con i parlamentari cattolici che ribadiscono: "Eutanasia, mai". Ma qui, sul divano a fiori di casa Welby, c' è la mamma di Piero, ultraottantenne, cattolicissima che allarga le braccia dicendo: "Che dobbiamo fare ?". E che cosa avrebbe fatto sua sorella, la zia di Piero, madre superiora di un importante ordine di suore, che ha visto il nipote diagnosticato di distrofia a 16 anni, con il medico che prevedeva: "Non arriverà a vent' anni"?
Alle pareti del salotto sono appesi tutti i quadri dipinti da Piero finché le sue dita riuscivano a muovere un pennello. Mamma Luciana tira fuori orgogliosa due album traboccanti di foto: sono quelle che Piero scattava a fiori, farfalle e insetti finché le sue mani riuscivano a fare clic su una macchina fotografica. Poi si alza, va verso il comò, apre due cassetti e ci regala un po' di presine coloratissime: "Le facevo all' uncinetto, le davo a un negozio di casalinghi qua sotto che me le vendeva. Ma ormai non le vuole più nessuno". Mamma Luciana allarga le braccia sul divano, sfogliando gli album con le foto delle farfalle. L' autunno di Welby è finito. Ora comincia l' inverno.
Mauro Suttora
Mauro of Manhattan
New York Observer column, January 7, 2007
I meet Marsha’s mother two weeks after at Bloomingdales. I was lured there after work for a cocktail presentation of I don’t remember which new product. Marsha had given me an appointment at 6 p.m., and here she comes with her mummy: “We just met by chance at the first floor, she was Christmas shopping”, she tells me, false as Judas. I take it as a real ambush.
The lady looks the same as in the pictures, a nice bottle-blonde plastic-enhanced 60-year-old like 100,000 others in the Upper East Side. Fake nose, uplifted eyes, lackadaisical smile, incredibly elegant, foulard around her neck, haughty gait. Her only physical qualities, to my eyes: slim, perfect figure, beautiful legs and wonderful ankles. Like her daughter. So, Marsha too looks promising for the next thirty years. I have to confess I also took a glance at the senior’s pelvis: Marsha’s one worries me, because it’s too thin for her to become a good breeder. I know it’s shameful to admit it, I might be a maniac, but a peaceful pregnancy is an important feature of our future marriage.
Conversation with mother unwinds trivial as the phone calls between her and Marsha that I know so well: “Traffic is so horrible these days my dear, it’s impossible to go around before Christmas and it’s getting worse year after year...”
“Yes madam what a headache to find taxis and they’re useless anyway as they get trapped in the jams like any other car, the same goes with buses...”
“And let’s not talk about the subway it’s sooo overcrowded”.
Commonplace but surreal remarks, Bloomingdales being three blocks away from her penthouse. But the lady prefers to torture her chauffeur by taking the limousine, instead than walking three minutes.
“Be our guest before Christmas,” she invites-orders imperiously towards the end of our chat. I’m trapped. I can’t escape.
During the next few days I deftly negotiate the whereabouts of the gloomy family event. My last redoubt is not meeting the parents at their place, which would be tantamount to an official engagement with Marsha.
“Let’k keep it casual, what about a nice pizza at La Houppa?” I suggest with nonchalance.
La Houppa, a jewelry store on East 64th Street where they sell pizzas instead than (but at the price of) diamonds.
Arrives the lethal dinner. Marsha’s sister and her boyfriend are joining us. Will they lighten the atmosphere or make the evening more formal (the ‘whole’ family)? But, surprise: between my future father-in-law and me it’s love at first sight. We both order a capricciosa, and this similarity of taste seems to immediately raise his enthusiasm. Of course we start talking about Italy, and he goes on and on reminiscing about all of his Italian journeys.
I look at him: it’s a wonder such an angel-shaped Marsha came out of this chubby man with a red face. Softened by nostalgia and pinot bianco, he goes into raptures when I answer his question: “How do you like America?”
“I love it,” I reply, and it’s true. I omit to specify that I prefer Bob Dylan’s America to George Bush bigots: he is satisfied realizing that there is at least one European who doesn’t hate the States.
“Why do they all hate us?” he asks kind of worried.
“Well, the war in Iraq...” I begin to try and answer.
He stops me right away: “But that son of a bitch Saddam, didn’t he deserve a good blow?”
“Of course yes,” I say sincerely. And this is enough for him.
He then gets carried away by a stupid pun of mine: “We’re stuck in Iraq.”
“I love the rhyme, but in particular the fact you said ‘We’ and not ‘You’. Means that you feel like one of us. There are Italian soldiers in Iraq too, aren’t there?”
I would have never thought that one day I’d be thankful to premier Silvio Berlusconi for making me conquer my girlfriend’s father by sending troops to Baghdad. But this is exactly what happened one December night in 2006...
By now Marsha’s sturdy dad considers me one of the family, he begins to call me “son”. He forgets I’m only 15 years his junior, maybe he mistakes me for the male offspring he never had. Our idyll climaxes when we discover we both share a humiliating predilection for an obscure Sixties band called The Moody Blues.
“... ‘Nights in White Satin?” he asks me, embarrassed.
“Well, yes.”
“But it’s impossible for you to know them, son.”
“Why?”
“Because I used to dance to that song in the summer of ’67. I remember exactly the year because that’s when I met my wife. Do you remember, Jane?”
“Of course,” she says.
“Well, I remember too,” I throw myself in, “I was seven years old and they always played it in the jukebox at the Termoli beach, Molise region.”
This accuracy of mine makes him adore me: “I love precise people.”
Now that I understand he’s stuck like me at the anal stage, I turn pitiless: “In Italy that song was mostly successful in a cover version, translated by the band Dik Dik.”
The typical Virgo orgasm I know he’s reaching at this very moment makes him forget to calculate my real age: knowing I was seven 39 years ago, it wouldn’t be difficult (“Mauro is fortyish,” Marsha had lied to him). On the contrary, he states ecstatic: “‘Nights in White Satin’ is the best slow song ever. We used to dance to it in Washington, do you remember dear?”
“Sir, allow me to place it at the same level of ‘A Whiter Shade of Pale’ by Procol Harum, from that same summer.”
He turns slowly his head from his wife to me. He’s overwhelmed. He looks at me wet-eyed: “Son, you are the Bible, you are a living encyclopedia, you, you are... fantastic! You are so right, oh, the Procol Harum! How could I forget them?”
Marsha hates these retro musical predilections of mine. Our conversation is boring her. She discovered the Moody Blues and Procol Harum only because we had a small fight when I dared to invite her to one of their concerts: “Listen Mauro”, she had replied, “to be honest with you I really can’t stand that kind of music. A few days after we met you dragged me to a Jorma Kaukonen or whatever-was-is-name concert, and I accepted only because I was thrilled by all of your invitations, and because I thought it would be a palatable thing anyway. But let me tell you, that was a real drag. Now, if you want to make up for all of your lost time go ahead and do it, but please don’t you ever try and involve me again in one of these so very sad revivals of yours... No wonder they take place in places named with sad names such as The Bottom Line or The Bitter End, which sooner or later have to close down like the Cbgb due to the death of all of their customers, not to talk about the Beacon Theatre where you took me to watch the Allman Brothers, surrounded by drunk beer-smelling and pot-smoking 60-year-old New Jersey truckers...”
So, I have to go by myself to the concerts of all of my idols from the Sixties, some of whom never ventured in concert in Italy in the past 30 years, such as Crosby Stills and Nash, Jefferson Airplane, Steve Winwood, James Brown, Arlo Guthrie or the Eagles. In the famed Town Hall theatre, where Charlie Parker invented bebop jazz in ’45, I saw Art Garfunkel coming out of the formalin with exactly the same hair from decades ago. But this didn’t stop me from renting a car to go to as far as Albany in order to admire him again, this time coupled with Paul Simon.
Sometimes I even venture into fan club meetings, such as the yearly world reunion of Leonard Cohen at Columbia university in 2004, only to discover I have nothing in common with that bunch of alienated nerds. I reached the top in Alexandria, Louisiana, during a Mardi Gras with Chubby Checker, the inventor of twist, which was the first music I danced to in 1963 at the Lignano beach (my father shot a super8 home movie to document the event). I have no friends in New York City to share this nostalgia perversion with, except for my Italian journalist colleague Christian Rocca with whom I went to see Neil Young at Radio City Music Hall just before (or was it after?) the stroke that he brilliantly survived.
But now, here is my prospective father-in-law as companion of future raids into catheterock. Those type of concerts are challenging and never-ending, because at half-time the musicians always promise: “We’ll be back in a moment”. That is never true: intermissions last at least three quarters of an hour, as the public of former hippies has weak prostates, everybody needs to take a pee, so endless queues form in front of the toilets.
After the musical acme, we reach for the desserts. If he could, now Marsha’s father would marry me directly, instead than giving me his daughter. Or he would immediately appoint me director of his company, which produces bottle caps. I already see myself swimming in a sea of caps, like Scrooge swimming in his golden money. He inquires absentmindedly about my job, and delivers his presumptuous advise: “Son, the future of journalism is in the web”.
I feel like Dustin Hoffman in ‘The Graduate’: “Thank you very much, I had never thought about it”, I almost reply, but I don’t want to ruin the superfriendly atmosphere. He seems impressed by the fact that I have been writing for ‘Newsweek’ and ‘The New York Observer’: “They’re way too liberal for my taste, but I love the real estate column of the Observer”.
Dinner ends talking real estate: Marsha’s parents are about to buy something for her sister: “Maybe a little condo in Trump’s Park Avenue”, drops mother Jane. “I heard the same apartment costs one million more if you go up just one store: ten millions on the twentieth, eleven on the twenty-first, and so on...”, she adds, faking ignorance (her only read besides women’s mags is real estate, as well).
Now, this is an incredible oblique way to tell me: “Son, be good, kneel down in front of Marsha, give her the ring, become her puppy-dog, and you’ll be rewarded with the same godsend which is about to come down on that schmuck future brother-in-law of yours...” Such a cheap shot, very cheap, let me tell you madam. You were able to ruin with only a few word the magic atmosphere your husband had built between me and the Family. Because you surely know, your beloved daughter must have told you, that the building at the corner of Park and 59 bought and renovated by Donald Trump in 2004 is the former Delmonico Hotel, famous for hosting the Beatles during the summer of ’64, the second time they came to New York (the first time they stayed at the Plaza). It was there they met Bob Dylan, who offered them their first joint. That’s why it looks so irresistible to me, although I must be the only one - among the foreign billionaires buying there thanks to the weak dollar - to know about this.
We get out of La Houppa, exchange our greetings, and I take a taxi with Marsha. She is radiant with happiness: “Mauro, this was such a success! They love you.” I feel like I am about to dive into a fast, asphyxiating engagement, as light as quick setting concrete. If not in the Delmonico, I’ll end up in one of those terrorizing penthouses reachable by pressing PH in the elevator, but only if you have the key to insert on the side. And once you are up, you find yourself directly in the house, there is no landing. When I’ll have parties I’ll be obliged to spend thousands for catering at Fauchon, and waiters in uniform will wander around my place.
Most of all: we’ll not even be able to reach the Hamptons by helicopter, because Marsha, like her mother, is going to object: “What if someone we know spots us at the heliport, finding out we can’t afford to buy one, and that we are reduced to rent?”
Mauro Suttora
I meet Marsha’s mother two weeks after at Bloomingdales. I was lured there after work for a cocktail presentation of I don’t remember which new product. Marsha had given me an appointment at 6 p.m., and here she comes with her mummy: “We just met by chance at the first floor, she was Christmas shopping”, she tells me, false as Judas. I take it as a real ambush.
The lady looks the same as in the pictures, a nice bottle-blonde plastic-enhanced 60-year-old like 100,000 others in the Upper East Side. Fake nose, uplifted eyes, lackadaisical smile, incredibly elegant, foulard around her neck, haughty gait. Her only physical qualities, to my eyes: slim, perfect figure, beautiful legs and wonderful ankles. Like her daughter. So, Marsha too looks promising for the next thirty years. I have to confess I also took a glance at the senior’s pelvis: Marsha’s one worries me, because it’s too thin for her to become a good breeder. I know it’s shameful to admit it, I might be a maniac, but a peaceful pregnancy is an important feature of our future marriage.
Conversation with mother unwinds trivial as the phone calls between her and Marsha that I know so well: “Traffic is so horrible these days my dear, it’s impossible to go around before Christmas and it’s getting worse year after year...”
“Yes madam what a headache to find taxis and they’re useless anyway as they get trapped in the jams like any other car, the same goes with buses...”
“And let’s not talk about the subway it’s sooo overcrowded”.
Commonplace but surreal remarks, Bloomingdales being three blocks away from her penthouse. But the lady prefers to torture her chauffeur by taking the limousine, instead than walking three minutes.
“Be our guest before Christmas,” she invites-orders imperiously towards the end of our chat. I’m trapped. I can’t escape.
During the next few days I deftly negotiate the whereabouts of the gloomy family event. My last redoubt is not meeting the parents at their place, which would be tantamount to an official engagement with Marsha.
“Let’k keep it casual, what about a nice pizza at La Houppa?” I suggest with nonchalance.
La Houppa, a jewelry store on East 64th Street where they sell pizzas instead than (but at the price of) diamonds.
Arrives the lethal dinner. Marsha’s sister and her boyfriend are joining us. Will they lighten the atmosphere or make the evening more formal (the ‘whole’ family)? But, surprise: between my future father-in-law and me it’s love at first sight. We both order a capricciosa, and this similarity of taste seems to immediately raise his enthusiasm. Of course we start talking about Italy, and he goes on and on reminiscing about all of his Italian journeys.
I look at him: it’s a wonder such an angel-shaped Marsha came out of this chubby man with a red face. Softened by nostalgia and pinot bianco, he goes into raptures when I answer his question: “How do you like America?”
“I love it,” I reply, and it’s true. I omit to specify that I prefer Bob Dylan’s America to George Bush bigots: he is satisfied realizing that there is at least one European who doesn’t hate the States.
“Why do they all hate us?” he asks kind of worried.
“Well, the war in Iraq...” I begin to try and answer.
He stops me right away: “But that son of a bitch Saddam, didn’t he deserve a good blow?”
“Of course yes,” I say sincerely. And this is enough for him.
He then gets carried away by a stupid pun of mine: “We’re stuck in Iraq.”
“I love the rhyme, but in particular the fact you said ‘We’ and not ‘You’. Means that you feel like one of us. There are Italian soldiers in Iraq too, aren’t there?”
I would have never thought that one day I’d be thankful to premier Silvio Berlusconi for making me conquer my girlfriend’s father by sending troops to Baghdad. But this is exactly what happened one December night in 2006...
By now Marsha’s sturdy dad considers me one of the family, he begins to call me “son”. He forgets I’m only 15 years his junior, maybe he mistakes me for the male offspring he never had. Our idyll climaxes when we discover we both share a humiliating predilection for an obscure Sixties band called The Moody Blues.
“... ‘Nights in White Satin?” he asks me, embarrassed.
“Well, yes.”
“But it’s impossible for you to know them, son.”
“Why?”
“Because I used to dance to that song in the summer of ’67. I remember exactly the year because that’s when I met my wife. Do you remember, Jane?”
“Of course,” she says.
“Well, I remember too,” I throw myself in, “I was seven years old and they always played it in the jukebox at the Termoli beach, Molise region.”
This accuracy of mine makes him adore me: “I love precise people.”
Now that I understand he’s stuck like me at the anal stage, I turn pitiless: “In Italy that song was mostly successful in a cover version, translated by the band Dik Dik.”
The typical Virgo orgasm I know he’s reaching at this very moment makes him forget to calculate my real age: knowing I was seven 39 years ago, it wouldn’t be difficult (“Mauro is fortyish,” Marsha had lied to him). On the contrary, he states ecstatic: “‘Nights in White Satin’ is the best slow song ever. We used to dance to it in Washington, do you remember dear?”
“Sir, allow me to place it at the same level of ‘A Whiter Shade of Pale’ by Procol Harum, from that same summer.”
He turns slowly his head from his wife to me. He’s overwhelmed. He looks at me wet-eyed: “Son, you are the Bible, you are a living encyclopedia, you, you are... fantastic! You are so right, oh, the Procol Harum! How could I forget them?”
Marsha hates these retro musical predilections of mine. Our conversation is boring her. She discovered the Moody Blues and Procol Harum only because we had a small fight when I dared to invite her to one of their concerts: “Listen Mauro”, she had replied, “to be honest with you I really can’t stand that kind of music. A few days after we met you dragged me to a Jorma Kaukonen or whatever-was-is-name concert, and I accepted only because I was thrilled by all of your invitations, and because I thought it would be a palatable thing anyway. But let me tell you, that was a real drag. Now, if you want to make up for all of your lost time go ahead and do it, but please don’t you ever try and involve me again in one of these so very sad revivals of yours... No wonder they take place in places named with sad names such as The Bottom Line or The Bitter End, which sooner or later have to close down like the Cbgb due to the death of all of their customers, not to talk about the Beacon Theatre where you took me to watch the Allman Brothers, surrounded by drunk beer-smelling and pot-smoking 60-year-old New Jersey truckers...”
So, I have to go by myself to the concerts of all of my idols from the Sixties, some of whom never ventured in concert in Italy in the past 30 years, such as Crosby Stills and Nash, Jefferson Airplane, Steve Winwood, James Brown, Arlo Guthrie or the Eagles. In the famed Town Hall theatre, where Charlie Parker invented bebop jazz in ’45, I saw Art Garfunkel coming out of the formalin with exactly the same hair from decades ago. But this didn’t stop me from renting a car to go to as far as Albany in order to admire him again, this time coupled with Paul Simon.
Sometimes I even venture into fan club meetings, such as the yearly world reunion of Leonard Cohen at Columbia university in 2004, only to discover I have nothing in common with that bunch of alienated nerds. I reached the top in Alexandria, Louisiana, during a Mardi Gras with Chubby Checker, the inventor of twist, which was the first music I danced to in 1963 at the Lignano beach (my father shot a super8 home movie to document the event). I have no friends in New York City to share this nostalgia perversion with, except for my Italian journalist colleague Christian Rocca with whom I went to see Neil Young at Radio City Music Hall just before (or was it after?) the stroke that he brilliantly survived.
But now, here is my prospective father-in-law as companion of future raids into catheterock. Those type of concerts are challenging and never-ending, because at half-time the musicians always promise: “We’ll be back in a moment”. That is never true: intermissions last at least three quarters of an hour, as the public of former hippies has weak prostates, everybody needs to take a pee, so endless queues form in front of the toilets.
After the musical acme, we reach for the desserts. If he could, now Marsha’s father would marry me directly, instead than giving me his daughter. Or he would immediately appoint me director of his company, which produces bottle caps. I already see myself swimming in a sea of caps, like Scrooge swimming in his golden money. He inquires absentmindedly about my job, and delivers his presumptuous advise: “Son, the future of journalism is in the web”.
I feel like Dustin Hoffman in ‘The Graduate’: “Thank you very much, I had never thought about it”, I almost reply, but I don’t want to ruin the superfriendly atmosphere. He seems impressed by the fact that I have been writing for ‘Newsweek’ and ‘The New York Observer’: “They’re way too liberal for my taste, but I love the real estate column of the Observer”.
Dinner ends talking real estate: Marsha’s parents are about to buy something for her sister: “Maybe a little condo in Trump’s Park Avenue”, drops mother Jane. “I heard the same apartment costs one million more if you go up just one store: ten millions on the twentieth, eleven on the twenty-first, and so on...”, she adds, faking ignorance (her only read besides women’s mags is real estate, as well).
Now, this is an incredible oblique way to tell me: “Son, be good, kneel down in front of Marsha, give her the ring, become her puppy-dog, and you’ll be rewarded with the same godsend which is about to come down on that schmuck future brother-in-law of yours...” Such a cheap shot, very cheap, let me tell you madam. You were able to ruin with only a few word the magic atmosphere your husband had built between me and the Family. Because you surely know, your beloved daughter must have told you, that the building at the corner of Park and 59 bought and renovated by Donald Trump in 2004 is the former Delmonico Hotel, famous for hosting the Beatles during the summer of ’64, the second time they came to New York (the first time they stayed at the Plaza). It was there they met Bob Dylan, who offered them their first joint. That’s why it looks so irresistible to me, although I must be the only one - among the foreign billionaires buying there thanks to the weak dollar - to know about this.
We get out of La Houppa, exchange our greetings, and I take a taxi with Marsha. She is radiant with happiness: “Mauro, this was such a success! They love you.” I feel like I am about to dive into a fast, asphyxiating engagement, as light as quick setting concrete. If not in the Delmonico, I’ll end up in one of those terrorizing penthouses reachable by pressing PH in the elevator, but only if you have the key to insert on the side. And once you are up, you find yourself directly in the house, there is no landing. When I’ll have parties I’ll be obliged to spend thousands for catering at Fauchon, and waiters in uniform will wander around my place.
Most of all: we’ll not even be able to reach the Hamptons by helicopter, because Marsha, like her mother, is going to object: “What if someone we know spots us at the heliport, finding out we can’t afford to buy one, and that we are reduced to rent?”
Mauro Suttora
My prospective inlaws
New York Observer column, December 20, 2007
by Mauro Suttora
“They’re in the Sixties”.
My Upper East Side girlfriend Marsha is introducing me - a clueless Italian journalist, U.S bureau chief of my country’s largest weekly - to the oh so many Manhattan mysteries.
So, Marsha’s parents are in the Sixties.
“Threefold meaning, Mauro: first, they are 60-to-69-years-old; second, they live between 60th and 69th Street; third, they were young in the Sixties and they still somehow belong there, when they were splendid”. Marsha majored on Jacques Derrida, she loves to deconstruct.
“All three options apply to your parents. But can there be a fourth interpretation, Marsha? Their assets amount to $60-70 million».
“Too specific: either you are in the tens, or in the hundreds. No way between”.
“And that’s exactly their problem, I understand: very rich, but not enough to be able to afford a private plane. That is, how to be rich while feeling so poor...»
«Don’t be always so abrasive, Mauro. Let’s go on with the lesson. It’s not enough to say ‘I live on East 65’ in order to appear prestigious. You have to specify the Avenue”.
“So, this is their third problem, besides being in the tens but not in the hundreds and feeling plane-deprived: their penthouse is on one of the twenty right Streets, but not at the corner of the two only Avenues which really count: Fifth and Park, right?”
“You learn fast. Lexington and Madison are just one inch below”.
“What about all the other Upper East Avenues? First, Second, Third...”
“The pits”, she smiles, ironic but ‘non troppo’, “you might as well live in Carnegie Hill then, or move to the wrong side of the Park. You know, my father told me he used to venture here in the West Side only when he embarked on a ship for Europe with his parents in the Fifties”.
“Yes, I know that for some of you Uppereastsiders the Park is still larger than the Atlantic. I also know your parents are not pleased their daughter’s boyfriend is Italian, that he is separated but not divorced - because they ignore our law - , he is past 40-years-old and doesn’t play with money in Wall Street... But the move you made to my flat in the Upper West has killed all their worries: if you accepted you live on this side, it must be great love.”
“Mauro, don’t you forget that you smell Italy. They adore Italy, like Tom Cruise. For them you mean Rome, Florence, Venice... Not to talk about the Villa d’Este and Cala di Volpe hotels, their favorites. By the way, are we gonna marry there, or on an Italian lake? Como or Bracciano?”
“I never understood your sophisticated Newyorkers’ fixation for these two Italian hotels, there are so many others as beautiful. But, going back to your parents, I know that you told them about you moving to my place only recently. You should thank the disappearance of home telephones for being able doing so. You didn’t have one in your pad, so you went on for months communicating with mom via cell, and with dad by e-mail, pretending we were not living together full time.”
“Mauro, they have invited us for Thanksgiving.”
“Cazzo [F... in Italian]. They’re not going to Florida?”
“Yes. We’re gonna travel there as well.”
“No way.”
“You are so rude, are you holding a grudge against them?”
“No, not at all.”
“So, why don’t you want to meet them?”
“I already know your mother much too well, you’re always on the phone with her. It’s like you never cut your umbilical cord, although your phone is cordless...”
“Oh, stop your sarcasm! I’m just in good terms with her right now, and I’m happy for that. So, now they know I’m living at your place, it would be nice if they saw your face.”
“Are you rhyming on purpose, or is it by chance? Anyway, they can meet me here in the city, no reason to go to Florida.”
“I’m going there with them in any case. All America families reunite for Thanksgiving, you know that.”
“Travel safe.”
“I hate you when you’re like this!”
“And I hate the turkey.”
“But there’ll be so much else to eat... You know Thanksgiving is more important than Christmas and Easter, in America.”
“Sorry Marsha, I am not going to waste vacation days to go to that gerontohome which is Florida.”
“It’s not like you think, there are so many young in Florida!”
“Yes, nurses and caddies.”
“Mister sarcastic, there’s at least one thing that makes it worth flying to Florida.”
“What?”
“JetBlue.”
“The planes?”
“Yes.”
“What’s so special?”
“The individual screens, you can choose among tens of movies and tons of cd’s!”
“Yes, but not for a turkey. Besides, you know I don’t like to go to places when everybody goes: I prefer traveling against the stream, to avoid crowds, delays and waits... Don’t you love to see queues on the opposite lane?”
“Nobody will be in New York on Thanksgiving, you’ll be alone and miserable.”
“I’ll have time to read, at last and at least. Excuse me with your parents, tell them I have to work, because for us Italians the last Thusday in November is a day like any other. No holiday, Rizzoli remains open.”
Mauro Suttora
by Mauro Suttora
“They’re in the Sixties”.
My Upper East Side girlfriend Marsha is introducing me - a clueless Italian journalist, U.S bureau chief of my country’s largest weekly - to the oh so many Manhattan mysteries.
So, Marsha’s parents are in the Sixties.
“Threefold meaning, Mauro: first, they are 60-to-69-years-old; second, they live between 60th and 69th Street; third, they were young in the Sixties and they still somehow belong there, when they were splendid”. Marsha majored on Jacques Derrida, she loves to deconstruct.
“All three options apply to your parents. But can there be a fourth interpretation, Marsha? Their assets amount to $60-70 million».
“Too specific: either you are in the tens, or in the hundreds. No way between”.
“And that’s exactly their problem, I understand: very rich, but not enough to be able to afford a private plane. That is, how to be rich while feeling so poor...»
«Don’t be always so abrasive, Mauro. Let’s go on with the lesson. It’s not enough to say ‘I live on East 65’ in order to appear prestigious. You have to specify the Avenue”.
“So, this is their third problem, besides being in the tens but not in the hundreds and feeling plane-deprived: their penthouse is on one of the twenty right Streets, but not at the corner of the two only Avenues which really count: Fifth and Park, right?”
“You learn fast. Lexington and Madison are just one inch below”.
“What about all the other Upper East Avenues? First, Second, Third...”
“The pits”, she smiles, ironic but ‘non troppo’, “you might as well live in Carnegie Hill then, or move to the wrong side of the Park. You know, my father told me he used to venture here in the West Side only when he embarked on a ship for Europe with his parents in the Fifties”.
“Yes, I know that for some of you Uppereastsiders the Park is still larger than the Atlantic. I also know your parents are not pleased their daughter’s boyfriend is Italian, that he is separated but not divorced - because they ignore our law - , he is past 40-years-old and doesn’t play with money in Wall Street... But the move you made to my flat in the Upper West has killed all their worries: if you accepted you live on this side, it must be great love.”
“Mauro, don’t you forget that you smell Italy. They adore Italy, like Tom Cruise. For them you mean Rome, Florence, Venice... Not to talk about the Villa d’Este and Cala di Volpe hotels, their favorites. By the way, are we gonna marry there, or on an Italian lake? Como or Bracciano?”
“I never understood your sophisticated Newyorkers’ fixation for these two Italian hotels, there are so many others as beautiful. But, going back to your parents, I know that you told them about you moving to my place only recently. You should thank the disappearance of home telephones for being able doing so. You didn’t have one in your pad, so you went on for months communicating with mom via cell, and with dad by e-mail, pretending we were not living together full time.”
“Mauro, they have invited us for Thanksgiving.”
“Cazzo [F... in Italian]. They’re not going to Florida?”
“Yes. We’re gonna travel there as well.”
“No way.”
“You are so rude, are you holding a grudge against them?”
“No, not at all.”
“So, why don’t you want to meet them?”
“I already know your mother much too well, you’re always on the phone with her. It’s like you never cut your umbilical cord, although your phone is cordless...”
“Oh, stop your sarcasm! I’m just in good terms with her right now, and I’m happy for that. So, now they know I’m living at your place, it would be nice if they saw your face.”
“Are you rhyming on purpose, or is it by chance? Anyway, they can meet me here in the city, no reason to go to Florida.”
“I’m going there with them in any case. All America families reunite for Thanksgiving, you know that.”
“Travel safe.”
“I hate you when you’re like this!”
“And I hate the turkey.”
“But there’ll be so much else to eat... You know Thanksgiving is more important than Christmas and Easter, in America.”
“Sorry Marsha, I am not going to waste vacation days to go to that gerontohome which is Florida.”
“It’s not like you think, there are so many young in Florida!”
“Yes, nurses and caddies.”
“Mister sarcastic, there’s at least one thing that makes it worth flying to Florida.”
“What?”
“JetBlue.”
“The planes?”
“Yes.”
“What’s so special?”
“The individual screens, you can choose among tens of movies and tons of cd’s!”
“Yes, but not for a turkey. Besides, you know I don’t like to go to places when everybody goes: I prefer traveling against the stream, to avoid crowds, delays and waits... Don’t you love to see queues on the opposite lane?”
“Nobody will be in New York on Thanksgiving, you’ll be alone and miserable.”
“I’ll have time to read, at last and at least. Excuse me with your parents, tell them I have to work, because for us Italians the last Thusday in November is a day like any other. No holiday, Rizzoli remains open.”
Mauro Suttora
Capodanno 2007 a New York
da New York, per BG24 CENTO
Cosa c’è di interessante e nuovo da vedere a New York in questo inizio 2007?
Molto, e parecchio riguarda l’Italia. Al Guggenheim (1071 Fifth Avenue, angolo 89esima Strada) fino al 21 gennaio è in mostra Lucio Fontana. Piccolo consiglio per chi visita il celebre edificio di Frank Lloyd Wright: prendete l’ascensore e scendete la spirale dall’alto, invece di faticare salendo a piedi. Giù per la Quinta Avenue, al numero 1048 (dopo tre isolati e prima di arrivare al Metropolitan Museum) fermatevi nel Café Sabarsky, al piano terra della Neue Galerie (chiuso il martedì): un angolo di Vienna per riscaldarvi nel freddo inverno newyorkese.
Fino al 7 gennaio, sempre sulla Quinta Avenue, quel gioiello semisconosciuto che è la Frick Collection (angolo 70esima Strada) offre 59 preziosi disegni del figlio di Tiepolo, mentre la ‘Flagellazione del Cristo’ di Cimabue (che fa parte della raccolta permanente dal 1950) viene affiancata per la prima volta al suo gemello separato, la ‘Vergine col Bambino’ proveniente dalla National Gallery di Londra. Sostare anche solo per un attimo nella quiete del giardino interno del palazzo neoclassico Frick, in mezzo al traffico di Manhattan, è un’esperienza unica.
Arrivati alla fine di Central Park, purtroppo non si può entrare nel mitico albergo Plaza, chiuso fino al 2007 per restauri. Ma proprio di fronte, sotto al bianco e altissimo grattacielo GM (General Motors), c’è uno dei più bei negozi di giocattoli del mondo: Fao Schwartz. E al numero 31 della 57esima Strada West è d’obbligo una sosta nei tre piani della libreria Rizzoli (qui s’incontrarono Robert De Niro e Meryl Streep all’inizio del film ‘Innamorarsi’). Di fronte a Rizzoli da un anno è aperto il secondo Nobu di Manhattan: la prima sede del ristorante giapponese è a Tribeca. Poco più in là, sulla 53esima, c’è il MoMA (Museum of Modern Art): il più costoso della città, venti dollari, ma ora c’è una bella mostra per il centenario della nascita di Roberto Rossellini, oltre a quelle su Manet e Paul Klee.
Siamo in zona pericolosa (per i nostri portafogli), perché l’incrocio fra la Quinta Avenue e la 57esima Strada offre ai suoi quattro angoli Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton e Van Cleef. Poco più in là, i negozi Ferragamo, Bottega Veneta, Pucci, Prada. Per il bene delle carte di credito, meglio avviarsi verso Columbus Circle, all’altro angolo sud di Central Park, dove svettano le due nuove Torri gemelle di New York: quelle del centro commerciale Time Warner (il più grande di Manhattan). Dovete assolutamente scendere al piano sotterraneo, nell’immenso supermercato Whole Foods (per gli amanti del genere, spingersi da Fairway a Broadway e 74esima). Qui si capisce perché l’America è ancora considerata la ‘terra dell’abbondanza’.
Visitate gli studi della Cnn, e per godere di un panorama mozzafiato (gratis) salite nel bar della reception dell’hotel Mandarin, al 30° piano. Per un aperitivo, invece, è sufficiente lo Stone Rose al terzo piano, del marito di Cindy Crawford: sempre pieno di belle ragazze (e ragazzi) dalle 18 alle 20. Evitate invece i ristoranti del centro Time Warner (Per Se, Grey): pretenziosi e costosi.
E qui entriamo nel passatempo preferito dei newyorkesi: i ristoranti (le donne di Manhattan odiano cucinare, avete mai visto una di ‘Sex and the City’ ai fornelli?). Da qualche mese ha riaperto Le Cirque di Sirio Maccioni, cucina francese nel Bloomberg building su Lexington Avenue, accanto ai grandi magazzini Bloomingdale, all’angolo con la 59esima Strada. Ma il re dei ristoranti italiani a New York resta Arrigo Cipriani, col suo Downtown a West Broadway, centro di dolce vita con attori e modelle.
Cipriani gestisce anche la Rainbow Room in cima al Rockefeller Center. Nella zona del South Street Seaport ha appena aperto il ristorante Acqua (21 Peck Slip, angolo Water Street, proprio di fronte al ponte di Brooklyn). Come in tutti i ristoranti, anche qui conviene prenotare: tel 212-349-4433. Benvenuti nella Capitale del mondo, buon viaggio e buon appetito.
Mauro Suttora
Cosa c’è di interessante e nuovo da vedere a New York in questo inizio 2007?
Molto, e parecchio riguarda l’Italia. Al Guggenheim (1071 Fifth Avenue, angolo 89esima Strada) fino al 21 gennaio è in mostra Lucio Fontana. Piccolo consiglio per chi visita il celebre edificio di Frank Lloyd Wright: prendete l’ascensore e scendete la spirale dall’alto, invece di faticare salendo a piedi. Giù per la Quinta Avenue, al numero 1048 (dopo tre isolati e prima di arrivare al Metropolitan Museum) fermatevi nel Café Sabarsky, al piano terra della Neue Galerie (chiuso il martedì): un angolo di Vienna per riscaldarvi nel freddo inverno newyorkese.
Fino al 7 gennaio, sempre sulla Quinta Avenue, quel gioiello semisconosciuto che è la Frick Collection (angolo 70esima Strada) offre 59 preziosi disegni del figlio di Tiepolo, mentre la ‘Flagellazione del Cristo’ di Cimabue (che fa parte della raccolta permanente dal 1950) viene affiancata per la prima volta al suo gemello separato, la ‘Vergine col Bambino’ proveniente dalla National Gallery di Londra. Sostare anche solo per un attimo nella quiete del giardino interno del palazzo neoclassico Frick, in mezzo al traffico di Manhattan, è un’esperienza unica.
Arrivati alla fine di Central Park, purtroppo non si può entrare nel mitico albergo Plaza, chiuso fino al 2007 per restauri. Ma proprio di fronte, sotto al bianco e altissimo grattacielo GM (General Motors), c’è uno dei più bei negozi di giocattoli del mondo: Fao Schwartz. E al numero 31 della 57esima Strada West è d’obbligo una sosta nei tre piani della libreria Rizzoli (qui s’incontrarono Robert De Niro e Meryl Streep all’inizio del film ‘Innamorarsi’). Di fronte a Rizzoli da un anno è aperto il secondo Nobu di Manhattan: la prima sede del ristorante giapponese è a Tribeca. Poco più in là, sulla 53esima, c’è il MoMA (Museum of Modern Art): il più costoso della città, venti dollari, ma ora c’è una bella mostra per il centenario della nascita di Roberto Rossellini, oltre a quelle su Manet e Paul Klee.
Siamo in zona pericolosa (per i nostri portafogli), perché l’incrocio fra la Quinta Avenue e la 57esima Strada offre ai suoi quattro angoli Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton e Van Cleef. Poco più in là, i negozi Ferragamo, Bottega Veneta, Pucci, Prada. Per il bene delle carte di credito, meglio avviarsi verso Columbus Circle, all’altro angolo sud di Central Park, dove svettano le due nuove Torri gemelle di New York: quelle del centro commerciale Time Warner (il più grande di Manhattan). Dovete assolutamente scendere al piano sotterraneo, nell’immenso supermercato Whole Foods (per gli amanti del genere, spingersi da Fairway a Broadway e 74esima). Qui si capisce perché l’America è ancora considerata la ‘terra dell’abbondanza’.
Visitate gli studi della Cnn, e per godere di un panorama mozzafiato (gratis) salite nel bar della reception dell’hotel Mandarin, al 30° piano. Per un aperitivo, invece, è sufficiente lo Stone Rose al terzo piano, del marito di Cindy Crawford: sempre pieno di belle ragazze (e ragazzi) dalle 18 alle 20. Evitate invece i ristoranti del centro Time Warner (Per Se, Grey): pretenziosi e costosi.
E qui entriamo nel passatempo preferito dei newyorkesi: i ristoranti (le donne di Manhattan odiano cucinare, avete mai visto una di ‘Sex and the City’ ai fornelli?). Da qualche mese ha riaperto Le Cirque di Sirio Maccioni, cucina francese nel Bloomberg building su Lexington Avenue, accanto ai grandi magazzini Bloomingdale, all’angolo con la 59esima Strada. Ma il re dei ristoranti italiani a New York resta Arrigo Cipriani, col suo Downtown a West Broadway, centro di dolce vita con attori e modelle.
Cipriani gestisce anche la Rainbow Room in cima al Rockefeller Center. Nella zona del South Street Seaport ha appena aperto il ristorante Acqua (21 Peck Slip, angolo Water Street, proprio di fronte al ponte di Brooklyn). Come in tutti i ristoranti, anche qui conviene prenotare: tel 212-349-4433. Benvenuti nella Capitale del mondo, buon viaggio e buon appetito.
Mauro Suttora
Intervista a Ignazio Marino
Scandalo sanità: ospedali nuovi e commissariare il sud
Oggi, 17 gennaio 2007
Radere al suolo l’Umberto I di Roma. E tutti i policlinici d’Italia». La proposta-choc non è di un terrorista o di un estremista, ma di uno dei senatori più tranquilli della Repubblica: il professor Ignazio Marino, 51 anni, re dei trapianti, vent’anni di esperienza fra Inghilterra (Cambridge) e Stati Uniti, datosi alla politica da dieci mesi e oggi presidente (diessino, ma cattolico) della commissione Sanità del Senato.
Quando arrivo nel suo ufficio, al piano terra di palazzo Madama, il professore sta finendo di visitare un paziente in una piccola stanza accanto. Ha infatti chiesto e ottenuto dai dirigenti del Senato il permesso di poter continuare part-time la sua attività professionale dentro al Palazzo. Silvio Berlusconi spesso accusa i politici di non aver mai lavorato, di non conoscere un mestiere. Il professor Marino rappresenta il contrario di questa immagine.
La sua ricetta da Attila arriva in risposta allo scandalo-sanità, dopo la scoperta (dell’Espresso e di Striscia la notizia) che nei fatiscenti corridoi sotterranei del policlinico romano i malati in barella vengono trasportati fra sacchi di spazzatura, tubi che perdono e pozzanghere. Ultima denuncia raccapricciante: c’è rischio che ai cadaveri vengano rubate le cornee, e allora bisogna farli scortare dai poliziotti.
«Non sto scherzando, certi ospedali sono da ricostruire da zero», ribadisce Marino. «Dobbiamo pensare alla medicina come a un contenuto, e agli ospedali come contenitori. La scienza è in continuo progresso: oggi siamo in grado di curare, e spesso guarire, malattie per le quali fino agli anni Settanta, cioè appena trent’anni fa, potevamo soltanto allargare le braccia dicendo che non c’è nulla da fare. Un esempio: gli infarti. Nel ’75 le vittime di ostruzioni coronariche venivano trasportate al pronto soccorso e messe sotto osservazione nel letto di un’unità coronarica. Si somministravano dei farmaci, e nella migliore delle ipotesi si seguiva la funzione del cuore con un monitor.
«Oggi in molti nostri ospedali ci sono centri di eccellenza in cui il paziente viene avviato immediatamente alla struttura di emodinamica, dotata di attrezzature ad altissima tecnologia. Grazie a tubi minuscoli che vengono inseriti nei vasi sanguigni si ha subito su uno schermo il quadro della malattia. E nel giro di 120-180 minuti si può intervenire risolvendo il problema, senza aprire il torace.
«Ecco, se noi pensiamo che oggi in Italia abbiamo una sanità di questo tipo, in grado di vedere e curare in tempo reale la malattia, ci rendiamo conto che in appena trent’anni abbiamo fatto passi giganteschi. E quindi le strutture costruite anche solo cinquant’anni fa per contenere un altro tipo di medicina non sono più adeguate. Le strutture devono cambiare assieme agli straordinari progressi della scienza».
Buttiamo giù tutti gli ospedali, quindi?
«No. Solo quelli costruiti secondo una concezione della medicina ormai sorpassata. La prima pietra del policlinico di Roma fu posata più di cent’anni fa, nel 1888. Eleganti palazzine di colore giallo ocra separate da viali ombreggiati. Perfette, fatte apposta per ricoverati da tenere sotto osservazione durante periodi lunghissimi. Le discipline erano separate, e ognuna aveva il suo padiglione: chirurgia, internistica, tubercolosi... Oggi invece il medico curante può avere bisogno immediato di un esame radiologico, o di una risonanza magnetica, o di altri esami per cui serve l’inserzione di un catetere. Insomma, c’è la multidisciplinarietà, l’unione di più specializzazioni. Siamo concettualmente lontani anni-luce dall’idea di edifici separati. Poi, certo, possiamo costruire tunnel e percorsi protetti per spostare gli ammalati, ma ormai ci vogliono strutture monoblocco. La terapia intensiva deve stare accanto alle sale operatorie, mentre noi siamo fermi ancora ai tempi delle barelle da spingere in corridoio...»
Ma per distruggere e ricostruire ci vogliono tempo e soldi.
«Guardi, tutti abbiamo visto film sull’Aids o avuto conoscenti colpiti dall’epidemia. Che fino al ’95 era una malattia tremenda, gli ospedali avevano dovuto improvvisamente quadruplicare i reparti di malattie infettive. Non solo posti-letto: occorrevano bagni, stanzette dove il personale poteva vestirsi, mettersi camici e mascherine. Tutto questo venne fatto, e in tempi rapidi di fronte all’emergenza. Poi sono stati scoperti nuovi farmaci, e oggi l’aspettativa di vita di un malato di Aids è uguale alla mia e alla sua. Quelli che fino a una dozzina d’anni fa erano malati terminali oggi conducono una vita normale, lavorando in mezzo a noi. Non sono neppure riconoscibili. E tutti quei reparti ristrutturati ora non servono più. Sono cambiate le esigenze, ci vuole flessibilità. Riconvertendo le strutture ospedaliere si possono ricavare anche risorse finanziarie da reinvestire nella sanità, con la dismissione di gigantesche aree di pregio immobiliare».
In Tv abbiamo visto che l’ospedale americano di Cleveland, dov’è andato Berlusconi prima di Natale per il pacemaker, è dotato addirittura di un albergo atttiguo.
«A Filadelfia, dove ho diretto il centro trapianti, avevamo strutture residenziali sia per i trapiantati sia per i loro parenti. Dopo i trapianti infatti si sta bene, ma non così bene da poter rompere subito il cordone ombelicale dei controlli: ogni 3-4 giorni occorrono esami radiologici, esami del sangue. I posti-letto negli ospedali costano molto, sui 6-700 euro al giorno, quindi servono case-famiglia adiacenti per chi magari ha bisogno solo di un antibiotico in vena contro le infezioni due volte al giorno, o di una flebo ogni dodici ore. Così si dimininuiscono sia i costi, sia i disagi per i malati. Più in generale, per molte cure conviene mandare un’infermiera a casa invece di ricoverare in ospedale. Però l’assistenza a domicilio dev’essere introdotta prima di chiudere gli ospedali, altrimenti la gente protesta perché si sente abbandonata».
Dai controlli dei Nas effettuati negli ultimi giorni emerge il solito quadro sconfortante: bene al Nord, male al Sud. È stato un bene regionalizzare la sanità?
«Nei casi di maggiore gravità lo Stato deve avere il diritto-dovere di esercitare poteri sostitutivi rispetto a Regioni incapaci di garantire standard minimi di assistenza. Ogni anno in Italia un milione di persone sono costrette a spostarsi dalla propria regione per farsi curare bene. È una vergogna che deve finire. Non è possibile, per esempio, che un reparto di chirurgia pediatrica in Sicilia non si sia mai posto in trent’anni il problema di creare alloggi dotati di letto, cucina e doccia per le mamme dei bimbi operati».
In alcune regioni come il Lazio, oltre al danno di dover subire imposte addizionali per ripianare il deficit sanitario c’è la beffa di leggere che mogli di politici hanno comprato tramite prestanome ambulatori e cliniche private sovvenzionate con soldi pubblici.
«Anche questo è inaccettabile. Come si diceva nell’antica Roma, la moglie di Giulio Cesare dev’essere sempre al di sopra di ogni sospetto. Se io, da presidente della commissione Sanità, sto preparando una legge sulla commercializzazione dei farmaci, mia moglie non può diventare improvvisamente amministratore delegato di un’azienda farmaceutica... Insomma, per una sanità rinnovata e pulita bisogna evitare non solo i reati, ma anche i semplici sospetti e ogni situazione ambigua».
Mauro Suttora
Oggi, 17 gennaio 2007
Radere al suolo l’Umberto I di Roma. E tutti i policlinici d’Italia». La proposta-choc non è di un terrorista o di un estremista, ma di uno dei senatori più tranquilli della Repubblica: il professor Ignazio Marino, 51 anni, re dei trapianti, vent’anni di esperienza fra Inghilterra (Cambridge) e Stati Uniti, datosi alla politica da dieci mesi e oggi presidente (diessino, ma cattolico) della commissione Sanità del Senato.
Quando arrivo nel suo ufficio, al piano terra di palazzo Madama, il professore sta finendo di visitare un paziente in una piccola stanza accanto. Ha infatti chiesto e ottenuto dai dirigenti del Senato il permesso di poter continuare part-time la sua attività professionale dentro al Palazzo. Silvio Berlusconi spesso accusa i politici di non aver mai lavorato, di non conoscere un mestiere. Il professor Marino rappresenta il contrario di questa immagine.
La sua ricetta da Attila arriva in risposta allo scandalo-sanità, dopo la scoperta (dell’Espresso e di Striscia la notizia) che nei fatiscenti corridoi sotterranei del policlinico romano i malati in barella vengono trasportati fra sacchi di spazzatura, tubi che perdono e pozzanghere. Ultima denuncia raccapricciante: c’è rischio che ai cadaveri vengano rubate le cornee, e allora bisogna farli scortare dai poliziotti.
«Non sto scherzando, certi ospedali sono da ricostruire da zero», ribadisce Marino. «Dobbiamo pensare alla medicina come a un contenuto, e agli ospedali come contenitori. La scienza è in continuo progresso: oggi siamo in grado di curare, e spesso guarire, malattie per le quali fino agli anni Settanta, cioè appena trent’anni fa, potevamo soltanto allargare le braccia dicendo che non c’è nulla da fare. Un esempio: gli infarti. Nel ’75 le vittime di ostruzioni coronariche venivano trasportate al pronto soccorso e messe sotto osservazione nel letto di un’unità coronarica. Si somministravano dei farmaci, e nella migliore delle ipotesi si seguiva la funzione del cuore con un monitor.
«Oggi in molti nostri ospedali ci sono centri di eccellenza in cui il paziente viene avviato immediatamente alla struttura di emodinamica, dotata di attrezzature ad altissima tecnologia. Grazie a tubi minuscoli che vengono inseriti nei vasi sanguigni si ha subito su uno schermo il quadro della malattia. E nel giro di 120-180 minuti si può intervenire risolvendo il problema, senza aprire il torace.
«Ecco, se noi pensiamo che oggi in Italia abbiamo una sanità di questo tipo, in grado di vedere e curare in tempo reale la malattia, ci rendiamo conto che in appena trent’anni abbiamo fatto passi giganteschi. E quindi le strutture costruite anche solo cinquant’anni fa per contenere un altro tipo di medicina non sono più adeguate. Le strutture devono cambiare assieme agli straordinari progressi della scienza».
Buttiamo giù tutti gli ospedali, quindi?
«No. Solo quelli costruiti secondo una concezione della medicina ormai sorpassata. La prima pietra del policlinico di Roma fu posata più di cent’anni fa, nel 1888. Eleganti palazzine di colore giallo ocra separate da viali ombreggiati. Perfette, fatte apposta per ricoverati da tenere sotto osservazione durante periodi lunghissimi. Le discipline erano separate, e ognuna aveva il suo padiglione: chirurgia, internistica, tubercolosi... Oggi invece il medico curante può avere bisogno immediato di un esame radiologico, o di una risonanza magnetica, o di altri esami per cui serve l’inserzione di un catetere. Insomma, c’è la multidisciplinarietà, l’unione di più specializzazioni. Siamo concettualmente lontani anni-luce dall’idea di edifici separati. Poi, certo, possiamo costruire tunnel e percorsi protetti per spostare gli ammalati, ma ormai ci vogliono strutture monoblocco. La terapia intensiva deve stare accanto alle sale operatorie, mentre noi siamo fermi ancora ai tempi delle barelle da spingere in corridoio...»
Ma per distruggere e ricostruire ci vogliono tempo e soldi.
«Guardi, tutti abbiamo visto film sull’Aids o avuto conoscenti colpiti dall’epidemia. Che fino al ’95 era una malattia tremenda, gli ospedali avevano dovuto improvvisamente quadruplicare i reparti di malattie infettive. Non solo posti-letto: occorrevano bagni, stanzette dove il personale poteva vestirsi, mettersi camici e mascherine. Tutto questo venne fatto, e in tempi rapidi di fronte all’emergenza. Poi sono stati scoperti nuovi farmaci, e oggi l’aspettativa di vita di un malato di Aids è uguale alla mia e alla sua. Quelli che fino a una dozzina d’anni fa erano malati terminali oggi conducono una vita normale, lavorando in mezzo a noi. Non sono neppure riconoscibili. E tutti quei reparti ristrutturati ora non servono più. Sono cambiate le esigenze, ci vuole flessibilità. Riconvertendo le strutture ospedaliere si possono ricavare anche risorse finanziarie da reinvestire nella sanità, con la dismissione di gigantesche aree di pregio immobiliare».
In Tv abbiamo visto che l’ospedale americano di Cleveland, dov’è andato Berlusconi prima di Natale per il pacemaker, è dotato addirittura di un albergo atttiguo.
«A Filadelfia, dove ho diretto il centro trapianti, avevamo strutture residenziali sia per i trapiantati sia per i loro parenti. Dopo i trapianti infatti si sta bene, ma non così bene da poter rompere subito il cordone ombelicale dei controlli: ogni 3-4 giorni occorrono esami radiologici, esami del sangue. I posti-letto negli ospedali costano molto, sui 6-700 euro al giorno, quindi servono case-famiglia adiacenti per chi magari ha bisogno solo di un antibiotico in vena contro le infezioni due volte al giorno, o di una flebo ogni dodici ore. Così si dimininuiscono sia i costi, sia i disagi per i malati. Più in generale, per molte cure conviene mandare un’infermiera a casa invece di ricoverare in ospedale. Però l’assistenza a domicilio dev’essere introdotta prima di chiudere gli ospedali, altrimenti la gente protesta perché si sente abbandonata».
Dai controlli dei Nas effettuati negli ultimi giorni emerge il solito quadro sconfortante: bene al Nord, male al Sud. È stato un bene regionalizzare la sanità?
«Nei casi di maggiore gravità lo Stato deve avere il diritto-dovere di esercitare poteri sostitutivi rispetto a Regioni incapaci di garantire standard minimi di assistenza. Ogni anno in Italia un milione di persone sono costrette a spostarsi dalla propria regione per farsi curare bene. È una vergogna che deve finire. Non è possibile, per esempio, che un reparto di chirurgia pediatrica in Sicilia non si sia mai posto in trent’anni il problema di creare alloggi dotati di letto, cucina e doccia per le mamme dei bimbi operati».
In alcune regioni come il Lazio, oltre al danno di dover subire imposte addizionali per ripianare il deficit sanitario c’è la beffa di leggere che mogli di politici hanno comprato tramite prestanome ambulatori e cliniche private sovvenzionate con soldi pubblici.
«Anche questo è inaccettabile. Come si diceva nell’antica Roma, la moglie di Giulio Cesare dev’essere sempre al di sopra di ogni sospetto. Se io, da presidente della commissione Sanità, sto preparando una legge sulla commercializzazione dei farmaci, mia moglie non può diventare improvvisamente amministratore delegato di un’azienda farmaceutica... Insomma, per una sanità rinnovata e pulita bisogna evitare non solo i reati, ma anche i semplici sospetti e ogni situazione ambigua».
Mauro Suttora
Paura degli zingari?
LA ROMANIA ENTRA NELL'UNIONE EUROPEA
Oggi, 10 gennaio 2007
Centomila zingari stanno per invaderci? Il primo gennaio Romania e Bulgaria sono entrate nell’Unione Europea. Ventidue milioni di romeni e otto milioni di bulgari diventano automaticamente nostri concittadini, e come tutti gli europei possono attraversare liberamente la frontiera senza passaporto e controlli, con la semplice carta d’identità.
L’allarme è stato lanciato dalla Caritas: «Prepariamoci ad accogliere un’ondata di 60 mila arrivi, perché la situazione economica in Romania è veramente disastrosa».
Superiori le stime dell’Ismu (Istituto studi sulla multietnicità): secondo uno studio del professor Giancarlo Blangiardo dell’università di Milano gli arrivi toccherebbero i 105 mila all’anno, estrapolando i dati sulla disoccupazione romena e sul numero di giovani che stanno per entrare in età lavorativa.
Il problema non è la Romania in sé, ma il fatto che le ultime grandi ondate di arrivi di rom, dopo quelle dall’ex Jugoslavia negli anni Novanta, provengono soprattutto da quel Paese. E anche in questi giorni in tutta Italia divampano le proteste popolari contro la presenza dei loro campi nelle periferie delle grandi città. Ma c’è veramente di che preoccuparsi? Con l’abolizione delle frontiere, e quindi del filtro dei visti, d’ora in poi sarà impossibile frenare gli arrivi dalla Romania?
Distinguere rom e romeni
«Un equivoco nasce dal fatto che molti italiani confondono tutti i romeni con i rom, cioè i nomadi», ci dice Ramona Badescu, l’attrice romena arrivata in Italia nel 1990, all’indomani della rivoluzione che rovesciò il dittatore comunista Nicolae Ceausescu. «La parola “rom” in realtà non ha niente a che fare con la Romania, è semplicemente il termine con cui i gitani si sono sempre autodefiniti nella loro lingua, da quando sono arrivati nei Balcani dall’India un migliaio di anni fa. E oggi rappresentano soltanto il tre per cento della popolazione del mio Paese».
Fatto sta che il 72 per cento dei furti commessi da stranieri in Italia è addebitato a persone con passaporto romeno. E il 24 per cento delle rapine, e il 13 degli stupri. Le statistiche non fanno differenza fra zingari e altri. Comunque i romeni una fama di «cattivi» se la sono fatta. Tutta colpa di Dracula, signora Badescu? «Non si può mai generalizzare. In ogni popolazione ci sono buoni e cattivi, gli italiani in America non erano certo tutti mafiosi. E la stragrande maggioranza dei miei connazionali in Italia è gente onesta e laboriosa. Con un ottimo livello di istruzione, spesso non adeguato ai lavori che sono costretti a fare. Io stessa spero che ora, con l’entrata nella Ue, la mia laurea in economia venga convalidata anche in Italia».
Perché tanti romeni in Italia?
«Non creiamo inutili allarmismi», dice Gabriel Ionut Rusu, 32 anni, fino a un mese fa consigliere comunale «aggiunto» a Roma in rappresentanza dei residenti europei. «Noi romeni siamo 400 mila in Italia, la comunità straniera più numerosa, davanti ai marocchini, e in 17 mila abbiamo creato una ditta. Siamo venuti qui per lavorare, e in migliaia di cantieri, campi e fabbriche le nostre braccia sono una risorsa per l’economia italiana. Solo pochi violano le leggi».
In effetti, i duemila romeni nelle prigioni italiane sono dieci ogni cento stranieri incarcerati: una percentuale minore rispetto a quella degli incensurati sul totale degli immigrati (tre milioni). In particolare, negli ultimi anni c’è stato un boom per colf e badanti romene: quasi centomila, superate solo dalle 120 mila ucraine, il doppio di filippine e polacche.
«La somiglianza delle nostre lingue aiuta molto», ci dice Doina Ghiurcuta, 39 anni, che lavora a Milano, «e guadagnare mille euro al mese rispetto ai 250 della paga media in Romania è un’attrazione irresistibile per molti. Anche perché nelle città romene i prezzi non sono tanto più bassi di qui. Ora per lavorare non dovremo più perdere giorni con i rinnovi dei permessi di soggiorno. Forse l’aumento degli arrivi sarà causato dai ricongiungimenti familiari».
Braccia per l’agricoltura
C’è almeno una categoria contenta per l’apertura delle frontiere: gli imprenditori agricoli italiani, sempre alla spasmodica ricerca di manodopera a buon mercato: «L’ingresso di Romania e Bulgaria è un momento storico che ci offre grandi opportunità», dichiara entusiasta la Coldiretti. Ci sarà anche una rivoluzione per le quote di immigrazione di tutti gli extracomunitari: le altre nazionalità possono improvvisamente beneficiare dei 180 mila visti d’entrata attribuiti ai romeni nel 2006, e che ora verranno redistribuiti fra le altre nazionalità.
Non cambierà molto, invece, per le 18 mila aziende italiane che producono in Romania: gli stipendi lì cresceranno, ma a ritmi simili a quelli di altri Paesi dell’Est entrati nella Ue tre anni fa (Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca).
Il vero (ma salutare) choc potrebbe esserci da noi, per alcune professioni come idraulici e muratori che dovranno improvvisamente fronteggiare la concorrenza di artigiani romeni che si offriranno a prezzi più bassi. In Francia, per esempio, la figura dell’«idraulico polacco» che rovina il mercato ai locali è diventata proverbiale, attizzando la già forte ostilità gallica contro l’Unione Europea.
Come siamo attrezzati?
«Male. Anzi sul fronte della sicurezza stiamo andando indietro», denuncia Silverio Sabino, segretario del Sap (Sindacato autonomo di polizia) a Torino. «I tagli della finanziaria rischiano di farci alzare bandiera bianca di fronte a rapine in ville, furti di rame e sfruttamento della prostituzione, terreni privilegiati delle bande provenienti dalla Romania. A Torino su quattro campi nomadi uno è completamente occupato dai romeni, che sono quelli meno integrati con gli italiani».
«Intere zone a Quarto Oggiaro, Bonola e San Siro sono fuori controllo», rincara Giuseppe Calderone del Sap di Milano, «per entrarci le nostre volanti devono chiedere rinforzi». Così, ovunque si progettino nuovi campi nomadi scoppiano rivolte popolari, da Opera a via Triboniano. E anche nel resto d’Italia.
Eppure proprio di assistenza ci sarebbe bisogno: «Sono in arrivo decine di migliaia di zingari rom, gente ridotta alla fame», prevede Renata Paolucci, vicepresidente dell’Opera Nomadi. I Comuni già si preparano ad aumentare i fondi per dormitori e mense Caritas.
Dal primo gennaio nessun romeno è più clandestino. In Sicilia 14 donne hanno festeggiato la loro uscita dal Cpt (Centro di permanenza temporanea) di Ragusa, dove erano state trattenute perché prive di permesso di soggiorno. L’ingresso della Romania nella Ue ha sanato la loro posizione e le donne, colpite in dicembre da decreto di espulsione e in attesa di rimpatrio, sono tornate libere diventando «cittadine europee». Undici di loro lavoravano in Sicilia come badanti; le altre tre dovranno raggiungere località di altre regioni.
«No ai campi nomadi»
Più complicata la situazione per i rom (che sono solo una parte degli zingari, gli altri si chiamano sinti). L’Opera nomadi è contraria ai campi, che peraltro sono stati condannati dall’Europa perché provocano segregazione. «Bisogna smantellarli favorendo la costruzione di alloggi, anche con l’autocostruzione come stiamo facendo qui a Padova», spiega la professoressa Paolucci. «E per chi vuole restare nelle roulottes servono microaree attrezzate per famiglie allargate».
Il problema è che il numero dei nomadi (che chiamiamo così anche se ormai sono quasi tutti stanziali) è raddoppiato in Italia negli ultimi vent’anni: erano 70 mila prima del crollo del Muro di Berlino, oggi sono 140 mila. Con tutte le tensioni conseguenti. La Romania c’entra poco, i «figli del vento» sono sempre stati perseguitati. Ci danno fastidio, con i loro furti e i bambini costretti all’accattonaggio. Ma questa non è una novità.
Mauro Suttora
Oggi, 10 gennaio 2007
Centomila zingari stanno per invaderci? Il primo gennaio Romania e Bulgaria sono entrate nell’Unione Europea. Ventidue milioni di romeni e otto milioni di bulgari diventano automaticamente nostri concittadini, e come tutti gli europei possono attraversare liberamente la frontiera senza passaporto e controlli, con la semplice carta d’identità.
L’allarme è stato lanciato dalla Caritas: «Prepariamoci ad accogliere un’ondata di 60 mila arrivi, perché la situazione economica in Romania è veramente disastrosa».
Superiori le stime dell’Ismu (Istituto studi sulla multietnicità): secondo uno studio del professor Giancarlo Blangiardo dell’università di Milano gli arrivi toccherebbero i 105 mila all’anno, estrapolando i dati sulla disoccupazione romena e sul numero di giovani che stanno per entrare in età lavorativa.
Il problema non è la Romania in sé, ma il fatto che le ultime grandi ondate di arrivi di rom, dopo quelle dall’ex Jugoslavia negli anni Novanta, provengono soprattutto da quel Paese. E anche in questi giorni in tutta Italia divampano le proteste popolari contro la presenza dei loro campi nelle periferie delle grandi città. Ma c’è veramente di che preoccuparsi? Con l’abolizione delle frontiere, e quindi del filtro dei visti, d’ora in poi sarà impossibile frenare gli arrivi dalla Romania?
Distinguere rom e romeni
«Un equivoco nasce dal fatto che molti italiani confondono tutti i romeni con i rom, cioè i nomadi», ci dice Ramona Badescu, l’attrice romena arrivata in Italia nel 1990, all’indomani della rivoluzione che rovesciò il dittatore comunista Nicolae Ceausescu. «La parola “rom” in realtà non ha niente a che fare con la Romania, è semplicemente il termine con cui i gitani si sono sempre autodefiniti nella loro lingua, da quando sono arrivati nei Balcani dall’India un migliaio di anni fa. E oggi rappresentano soltanto il tre per cento della popolazione del mio Paese».
Fatto sta che il 72 per cento dei furti commessi da stranieri in Italia è addebitato a persone con passaporto romeno. E il 24 per cento delle rapine, e il 13 degli stupri. Le statistiche non fanno differenza fra zingari e altri. Comunque i romeni una fama di «cattivi» se la sono fatta. Tutta colpa di Dracula, signora Badescu? «Non si può mai generalizzare. In ogni popolazione ci sono buoni e cattivi, gli italiani in America non erano certo tutti mafiosi. E la stragrande maggioranza dei miei connazionali in Italia è gente onesta e laboriosa. Con un ottimo livello di istruzione, spesso non adeguato ai lavori che sono costretti a fare. Io stessa spero che ora, con l’entrata nella Ue, la mia laurea in economia venga convalidata anche in Italia».
Perché tanti romeni in Italia?
«Non creiamo inutili allarmismi», dice Gabriel Ionut Rusu, 32 anni, fino a un mese fa consigliere comunale «aggiunto» a Roma in rappresentanza dei residenti europei. «Noi romeni siamo 400 mila in Italia, la comunità straniera più numerosa, davanti ai marocchini, e in 17 mila abbiamo creato una ditta. Siamo venuti qui per lavorare, e in migliaia di cantieri, campi e fabbriche le nostre braccia sono una risorsa per l’economia italiana. Solo pochi violano le leggi».
In effetti, i duemila romeni nelle prigioni italiane sono dieci ogni cento stranieri incarcerati: una percentuale minore rispetto a quella degli incensurati sul totale degli immigrati (tre milioni). In particolare, negli ultimi anni c’è stato un boom per colf e badanti romene: quasi centomila, superate solo dalle 120 mila ucraine, il doppio di filippine e polacche.
«La somiglianza delle nostre lingue aiuta molto», ci dice Doina Ghiurcuta, 39 anni, che lavora a Milano, «e guadagnare mille euro al mese rispetto ai 250 della paga media in Romania è un’attrazione irresistibile per molti. Anche perché nelle città romene i prezzi non sono tanto più bassi di qui. Ora per lavorare non dovremo più perdere giorni con i rinnovi dei permessi di soggiorno. Forse l’aumento degli arrivi sarà causato dai ricongiungimenti familiari».
Braccia per l’agricoltura
C’è almeno una categoria contenta per l’apertura delle frontiere: gli imprenditori agricoli italiani, sempre alla spasmodica ricerca di manodopera a buon mercato: «L’ingresso di Romania e Bulgaria è un momento storico che ci offre grandi opportunità», dichiara entusiasta la Coldiretti. Ci sarà anche una rivoluzione per le quote di immigrazione di tutti gli extracomunitari: le altre nazionalità possono improvvisamente beneficiare dei 180 mila visti d’entrata attribuiti ai romeni nel 2006, e che ora verranno redistribuiti fra le altre nazionalità.
Non cambierà molto, invece, per le 18 mila aziende italiane che producono in Romania: gli stipendi lì cresceranno, ma a ritmi simili a quelli di altri Paesi dell’Est entrati nella Ue tre anni fa (Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca).
Il vero (ma salutare) choc potrebbe esserci da noi, per alcune professioni come idraulici e muratori che dovranno improvvisamente fronteggiare la concorrenza di artigiani romeni che si offriranno a prezzi più bassi. In Francia, per esempio, la figura dell’«idraulico polacco» che rovina il mercato ai locali è diventata proverbiale, attizzando la già forte ostilità gallica contro l’Unione Europea.
Come siamo attrezzati?
«Male. Anzi sul fronte della sicurezza stiamo andando indietro», denuncia Silverio Sabino, segretario del Sap (Sindacato autonomo di polizia) a Torino. «I tagli della finanziaria rischiano di farci alzare bandiera bianca di fronte a rapine in ville, furti di rame e sfruttamento della prostituzione, terreni privilegiati delle bande provenienti dalla Romania. A Torino su quattro campi nomadi uno è completamente occupato dai romeni, che sono quelli meno integrati con gli italiani».
«Intere zone a Quarto Oggiaro, Bonola e San Siro sono fuori controllo», rincara Giuseppe Calderone del Sap di Milano, «per entrarci le nostre volanti devono chiedere rinforzi». Così, ovunque si progettino nuovi campi nomadi scoppiano rivolte popolari, da Opera a via Triboniano. E anche nel resto d’Italia.
Eppure proprio di assistenza ci sarebbe bisogno: «Sono in arrivo decine di migliaia di zingari rom, gente ridotta alla fame», prevede Renata Paolucci, vicepresidente dell’Opera Nomadi. I Comuni già si preparano ad aumentare i fondi per dormitori e mense Caritas.
Dal primo gennaio nessun romeno è più clandestino. In Sicilia 14 donne hanno festeggiato la loro uscita dal Cpt (Centro di permanenza temporanea) di Ragusa, dove erano state trattenute perché prive di permesso di soggiorno. L’ingresso della Romania nella Ue ha sanato la loro posizione e le donne, colpite in dicembre da decreto di espulsione e in attesa di rimpatrio, sono tornate libere diventando «cittadine europee». Undici di loro lavoravano in Sicilia come badanti; le altre tre dovranno raggiungere località di altre regioni.
«No ai campi nomadi»
Più complicata la situazione per i rom (che sono solo una parte degli zingari, gli altri si chiamano sinti). L’Opera nomadi è contraria ai campi, che peraltro sono stati condannati dall’Europa perché provocano segregazione. «Bisogna smantellarli favorendo la costruzione di alloggi, anche con l’autocostruzione come stiamo facendo qui a Padova», spiega la professoressa Paolucci. «E per chi vuole restare nelle roulottes servono microaree attrezzate per famiglie allargate».
Il problema è che il numero dei nomadi (che chiamiamo così anche se ormai sono quasi tutti stanziali) è raddoppiato in Italia negli ultimi vent’anni: erano 70 mila prima del crollo del Muro di Berlino, oggi sono 140 mila. Con tutte le tensioni conseguenti. La Romania c’entra poco, i «figli del vento» sono sempre stati perseguitati. Ci danno fastidio, con i loro furti e i bambini costretti all’accattonaggio. Ma questa non è una novità.
Mauro Suttora
Berlusconi: manifestazione a Roma
DUE MILIONI IN PIAZZA PER LA DESTRA
Oggi, 2 dicembre 2006
Faccio parte di quel venti per cento di italiani ai quali il governo Prodi ha aumentato le aliquote Irpef: quattro milioni di fessi che dovrebbero dare un “contributo di solidarietà” ai cosiddetti “poveri”. Il problema è che, secondo le statistiche, in mezzo a questi “poveri” ci sono anche i gioiellieri, che dichiarano in media ventimila euro all’anno. Così, in pratica, io dovrei aiutare gli evasori...»
Fra il milione o due di manifestanti in piazza San Giovanni Laterano c’è Carlo Biavati, 62 anni, pilota Alitalia in pensione, da Bologna. Vota Forza Italia, sogna la Thatcher, legge ogni giorno Libero di Vittorio Feltri, «ed è la seconda volta in vita mia che scendo in piazza, per Berlusconi». «No, la terza», lo corregge la moglie Luigia Boiano, ex hostess, «dopo il ’94 e il ’96». «In ogni caso», dice Biavati, «d’ora in poi cercherò di evadere qualsiasi tassa. Se prima avevo un po’ di paura, ora non più. Il problema è che io posso farlo solo per il canone Rai».
Ma chi ha manifestato a Roma sabato due dicembre? I sostenitori di Forza Italia e Alleanza Nazionale, i leghisti calati in forze dal nord. E poi i partitini del centro-destra: la Dc di Gianfranco Rotondi, i nostalgici missini di Luca Romagnoli (Fiamma tricolore) e Alessandra Mussolini (Alternativa sociale), i radicali di destra di Benedetto Della Vedova, i pensionati di Carlo Fatuzzo... Tutti fatti salire sul palco da Silvio per salutare la folla a fine comizio. Mancavano solo quelli dell’Udc, chiamati a Palermo da Pierferdinando Casini per una manifestazione contemporanea ma separata. Commercianti, artigiani, imprenditori, casalinghe, il popolo del centrodestra. Ma anche impiegati, operai, lavoratori dipendenti, giovani. Sarebbe quindi ingeneroso ridurre questa manifestazione della Casa delle libertà a una rivolta fiscale.
Quanti sono gli evasori scesi in piazza? Tanti, secondo la sinistra. Che dice: prima riduciamo l’evasione fiscale, poi le tasse. La destra risponde con la ricetta opposta: riduciamo le tasse, e l’evasione diminuirà spontaneamente. «Che provino a mettere l’imposta fissa del 20 per cento sugli affitti, per esempio», propone il comandante Biavati, «e i proprietari di case la pagheranno tutti volentieri, non dovendo buttare più il 43 per cento. Ma la priorità è tagliare le spese».
E perché non l’ha fatto Berlusconi, in cinque anni? «Licenziare un milione di dipendenti pubblici parassitari è impossibile per chiunque. Quasi la metà della nostra burocrazia è inutile, l’unica cosa a cui serve è autoalimentarsi con carte, controlli e richieste di documenti ai cittadini». Quindi anche lei ammette che Berlusconi non è riuscito a tagliare gli sprechi, come aveva promesso. Non resta che sperare che ci riesca la sinistra... «Alt, c’è una bella differenza!», replica Biavati: «La destra liberale e liberista vuole ridurre lo Stato e la spesa pubblica al minimo, mentre nei programmi della sinistra questo non c’è. Ai politici di sinistra fa comodo mantenere la spesa sociale, come la chiamano loro, con la scusa di aiutare le fasce deboli. Ma in realtà la vogliono gestire per decidere soltanto loro a chi dare una ricchezza che, per di più, non hanno contribuito a produrre».
Produrre ricchezza. I produttori: «Nel mio paese, Venegono Inferiore in provincia di Varese, abbiamo un centinaio di aziende», dice Alberto Trussi, 67 anni, industriale nel ramo occhiali. «È la prima volta che partecipo a una manifestazione politica, sono venuto a Roma in treno con mia moglie e dodici amici. Ci accusano di evadere? Se uno ritiene giusto paga volentieri, altrimenti si evade...». E qual è il giusto? «Il 33 per cento degli Stati Uniti, e chi sgarra va in galera. Mentre in Italia è il contrario: fra Irpef, contributi e assicurazioni, su cento euro che dò a un mio dipendente a lui gliene arrivano sì e no 40-45. Ma nelle società per azioni come la mia c’è poco da evadere o eludere, dev’essere tutto fatturato e controllato: al massimo si può scaricare qualche viaggio o nota spese di ristorante. Sono i professionisti quelli che hanno molto più da perdere».
E allora perché è venuto a Roma a protestare? «Fra i miei amici c’è acrimonia contro questo governo che ci sta mandando in rovina», dice l’imprenditore Trussi, «perché invece di affrontare i problemi veri, strutturali, come l’aumento dell’età pensionabile o la diminuzione dei dipendenti pubblici, che da noi sono quasi il doppio che in Europa, si intromette senza motivo nelle faccende private di tutti noi. Vanno bene tutti i controlli sulle aziende, un po’ meno quelli sui conti correnti personali».
La privacy. Un argomento sensibile anche fra chi paga le tasse alla fonte: «Io non ho nulla da nascondere», dice la signora Boiano, «con la mia pensione da 1.400 euro, ma non sopporto l’idea di avere il telefono sotto controllo o di non poter andare dal dottore senza carta di credito. Nell’aria non si respira libertà». E la sicurezza: «A Venegono siamo esasperati, abbiamo una rapina o furto in casa ogni tre giorni», si lamenta Trussi, «stordiscono i cani, li addormentano, annullano gli allarmi, entrano e rubano. La stessa banda in una sola sera è entrata da noi, ha smontato la serratura, ha trovato sul cassettone l’apricancello e la chiave della jeep di mio figlio, l’ha presa e poi se n’è andata a depredare altre cinque ville. Quasi sempre sono extracomunitari, c’è poco da fare. E di musulmani ce n’è in giro una “sbaraccata”...» Prego? «Tantissimi. Molti se ne stanno sempre lì a ciondolare senza far nulla nel centro del paese...». Ma il famoso «cuneo fiscale», non l’ha ridotto il governo Prodi a voi industriali? «Sì, prima era il cinque per cento, ora cominciano a dire tre, forse due, “andremo a regime nel 2012”, quando saremo tutti quasi morti: il problema è riuscire a lasciare ai figli la ditta, la casa, qualcosa...».
Altre latitudini, problemi diversi, rabbia uguale: «Ci stanno aumentando tutto: bollo auto, rendite catastali, Ici, tagliano gli stanziamenti ai Comuni...», si lamenta Vincenzo Nigrelli, 39 anni, impiegato regionale da Mussomeli (Caltanissetta), comune agricolo (cereali). Dieci ore di notte nel torpedone di Forza Italia per arrivare a Roma: «Lei pensa veramente che in questa piazza siano tutti evasori?», dice quando si comincia a parlare di tasse.
Ha votato Udc ed è arrivato a San Giovanni in un pullman di An Pietro Frascaria, 55 anni, operaio di Sannicandro Garganico (Foggia): «Sono iscritto alla Uil ma ho avvertito il nostro segretario Angeletti che toglierò dalla quota d’iscrizione al sindacato tutti gli euro che mi leveranno dal mio stipendio annuale di 15 mila euro. Da noi il problema sono i polacchi e gli extracomunitari che accettano meno della paga minima giornaliera di 37 euro. La mia famiglia con quattro figli va avanti col mio solo stipendio, per questo mi scandalizzo quando vedo che gli onorevoli, con i loro 180 mila euro di stipendio, si sono aumentati l’aliquota solo dal 43 al 45 per cento, mentre io passo dal 23 al 27».
Maria Franca Santagata, 61 anni, professoressa di storia dell’arte in pensione, iscritta al Psi per 35 anni, oggi vota Forza Italia: ha fatto poca strada per scendere a Roma da Ariccia, stessa provincia. Però si è portata dietro la figlia Marianna Daniele, 32 anni, insegnante pure lei (geografia nelle scuole medie superiori), che ha votato Udc, il genero carabiniere (votante An) e due nipotini di due e cinque anni. Un altro è in arrivo. Ormai sono le diciassette del pomeriggio, aspettano tutti che parli Berlusconi: «Siamo contro i matrimoni gay, la legge Turco sulla droga, l’odio atavico contro le forze dell’ordine da parte delle sinistra. I nostri valori sono lavoro, dovere, libertà».
Mauro Suttora
Oggi, 2 dicembre 2006
Faccio parte di quel venti per cento di italiani ai quali il governo Prodi ha aumentato le aliquote Irpef: quattro milioni di fessi che dovrebbero dare un “contributo di solidarietà” ai cosiddetti “poveri”. Il problema è che, secondo le statistiche, in mezzo a questi “poveri” ci sono anche i gioiellieri, che dichiarano in media ventimila euro all’anno. Così, in pratica, io dovrei aiutare gli evasori...»
Fra il milione o due di manifestanti in piazza San Giovanni Laterano c’è Carlo Biavati, 62 anni, pilota Alitalia in pensione, da Bologna. Vota Forza Italia, sogna la Thatcher, legge ogni giorno Libero di Vittorio Feltri, «ed è la seconda volta in vita mia che scendo in piazza, per Berlusconi». «No, la terza», lo corregge la moglie Luigia Boiano, ex hostess, «dopo il ’94 e il ’96». «In ogni caso», dice Biavati, «d’ora in poi cercherò di evadere qualsiasi tassa. Se prima avevo un po’ di paura, ora non più. Il problema è che io posso farlo solo per il canone Rai».
Ma chi ha manifestato a Roma sabato due dicembre? I sostenitori di Forza Italia e Alleanza Nazionale, i leghisti calati in forze dal nord. E poi i partitini del centro-destra: la Dc di Gianfranco Rotondi, i nostalgici missini di Luca Romagnoli (Fiamma tricolore) e Alessandra Mussolini (Alternativa sociale), i radicali di destra di Benedetto Della Vedova, i pensionati di Carlo Fatuzzo... Tutti fatti salire sul palco da Silvio per salutare la folla a fine comizio. Mancavano solo quelli dell’Udc, chiamati a Palermo da Pierferdinando Casini per una manifestazione contemporanea ma separata. Commercianti, artigiani, imprenditori, casalinghe, il popolo del centrodestra. Ma anche impiegati, operai, lavoratori dipendenti, giovani. Sarebbe quindi ingeneroso ridurre questa manifestazione della Casa delle libertà a una rivolta fiscale.
Quanti sono gli evasori scesi in piazza? Tanti, secondo la sinistra. Che dice: prima riduciamo l’evasione fiscale, poi le tasse. La destra risponde con la ricetta opposta: riduciamo le tasse, e l’evasione diminuirà spontaneamente. «Che provino a mettere l’imposta fissa del 20 per cento sugli affitti, per esempio», propone il comandante Biavati, «e i proprietari di case la pagheranno tutti volentieri, non dovendo buttare più il 43 per cento. Ma la priorità è tagliare le spese».
E perché non l’ha fatto Berlusconi, in cinque anni? «Licenziare un milione di dipendenti pubblici parassitari è impossibile per chiunque. Quasi la metà della nostra burocrazia è inutile, l’unica cosa a cui serve è autoalimentarsi con carte, controlli e richieste di documenti ai cittadini». Quindi anche lei ammette che Berlusconi non è riuscito a tagliare gli sprechi, come aveva promesso. Non resta che sperare che ci riesca la sinistra... «Alt, c’è una bella differenza!», replica Biavati: «La destra liberale e liberista vuole ridurre lo Stato e la spesa pubblica al minimo, mentre nei programmi della sinistra questo non c’è. Ai politici di sinistra fa comodo mantenere la spesa sociale, come la chiamano loro, con la scusa di aiutare le fasce deboli. Ma in realtà la vogliono gestire per decidere soltanto loro a chi dare una ricchezza che, per di più, non hanno contribuito a produrre».
Produrre ricchezza. I produttori: «Nel mio paese, Venegono Inferiore in provincia di Varese, abbiamo un centinaio di aziende», dice Alberto Trussi, 67 anni, industriale nel ramo occhiali. «È la prima volta che partecipo a una manifestazione politica, sono venuto a Roma in treno con mia moglie e dodici amici. Ci accusano di evadere? Se uno ritiene giusto paga volentieri, altrimenti si evade...». E qual è il giusto? «Il 33 per cento degli Stati Uniti, e chi sgarra va in galera. Mentre in Italia è il contrario: fra Irpef, contributi e assicurazioni, su cento euro che dò a un mio dipendente a lui gliene arrivano sì e no 40-45. Ma nelle società per azioni come la mia c’è poco da evadere o eludere, dev’essere tutto fatturato e controllato: al massimo si può scaricare qualche viaggio o nota spese di ristorante. Sono i professionisti quelli che hanno molto più da perdere».
E allora perché è venuto a Roma a protestare? «Fra i miei amici c’è acrimonia contro questo governo che ci sta mandando in rovina», dice l’imprenditore Trussi, «perché invece di affrontare i problemi veri, strutturali, come l’aumento dell’età pensionabile o la diminuzione dei dipendenti pubblici, che da noi sono quasi il doppio che in Europa, si intromette senza motivo nelle faccende private di tutti noi. Vanno bene tutti i controlli sulle aziende, un po’ meno quelli sui conti correnti personali».
La privacy. Un argomento sensibile anche fra chi paga le tasse alla fonte: «Io non ho nulla da nascondere», dice la signora Boiano, «con la mia pensione da 1.400 euro, ma non sopporto l’idea di avere il telefono sotto controllo o di non poter andare dal dottore senza carta di credito. Nell’aria non si respira libertà». E la sicurezza: «A Venegono siamo esasperati, abbiamo una rapina o furto in casa ogni tre giorni», si lamenta Trussi, «stordiscono i cani, li addormentano, annullano gli allarmi, entrano e rubano. La stessa banda in una sola sera è entrata da noi, ha smontato la serratura, ha trovato sul cassettone l’apricancello e la chiave della jeep di mio figlio, l’ha presa e poi se n’è andata a depredare altre cinque ville. Quasi sempre sono extracomunitari, c’è poco da fare. E di musulmani ce n’è in giro una “sbaraccata”...» Prego? «Tantissimi. Molti se ne stanno sempre lì a ciondolare senza far nulla nel centro del paese...». Ma il famoso «cuneo fiscale», non l’ha ridotto il governo Prodi a voi industriali? «Sì, prima era il cinque per cento, ora cominciano a dire tre, forse due, “andremo a regime nel 2012”, quando saremo tutti quasi morti: il problema è riuscire a lasciare ai figli la ditta, la casa, qualcosa...».
Altre latitudini, problemi diversi, rabbia uguale: «Ci stanno aumentando tutto: bollo auto, rendite catastali, Ici, tagliano gli stanziamenti ai Comuni...», si lamenta Vincenzo Nigrelli, 39 anni, impiegato regionale da Mussomeli (Caltanissetta), comune agricolo (cereali). Dieci ore di notte nel torpedone di Forza Italia per arrivare a Roma: «Lei pensa veramente che in questa piazza siano tutti evasori?», dice quando si comincia a parlare di tasse.
Ha votato Udc ed è arrivato a San Giovanni in un pullman di An Pietro Frascaria, 55 anni, operaio di Sannicandro Garganico (Foggia): «Sono iscritto alla Uil ma ho avvertito il nostro segretario Angeletti che toglierò dalla quota d’iscrizione al sindacato tutti gli euro che mi leveranno dal mio stipendio annuale di 15 mila euro. Da noi il problema sono i polacchi e gli extracomunitari che accettano meno della paga minima giornaliera di 37 euro. La mia famiglia con quattro figli va avanti col mio solo stipendio, per questo mi scandalizzo quando vedo che gli onorevoli, con i loro 180 mila euro di stipendio, si sono aumentati l’aliquota solo dal 43 al 45 per cento, mentre io passo dal 23 al 27».
Maria Franca Santagata, 61 anni, professoressa di storia dell’arte in pensione, iscritta al Psi per 35 anni, oggi vota Forza Italia: ha fatto poca strada per scendere a Roma da Ariccia, stessa provincia. Però si è portata dietro la figlia Marianna Daniele, 32 anni, insegnante pure lei (geografia nelle scuole medie superiori), che ha votato Udc, il genero carabiniere (votante An) e due nipotini di due e cinque anni. Un altro è in arrivo. Ormai sono le diciassette del pomeriggio, aspettano tutti che parli Berlusconi: «Siamo contro i matrimoni gay, la legge Turco sulla droga, l’odio atavico contro le forze dell’ordine da parte delle sinistra. I nostri valori sono lavoro, dovere, libertà».
Mauro Suttora
In Libano con i nostri ragazzi
Un primo bilancio dopo quattro mesi di missione Unifil: ecco chi sono e cosa fanno i nostri 2.500 caschi blu
di Mauro Suttora
Oggi, 10 gennaio 2007
Tibnin (Libano)
Dopo D’Alema e Prodi, è arrivata la neve. Il 28 dicembre i 2.500 caschi blu italiani dell’Onu in Libano si sono svegliati con i tendoni imbiancati. Così l’effetto Natale è stato completo, dopo le feste passate in allegria e i travestimenti che vediamo in queste foto. «Ma non siamo certo qui per divertirci», ci dice il tenente Livio Lombardi, 26 anni, da Vallo della Lucania (Salerno). E sciorina i dati delle missioni effettuati nell’ultimo mese: 2.200 pattugliamenti, 650 posti di blocco («static point», come dicono i militari in gergo tecnico), ma soprattutto ben duemila interventi di bonifica delle bombe inesplose sparse fra campi e giardini, pericolosa eredità del conflitto dello scorso agosto. Ora gli israeliani si sono ritirati oltre confine, a una trentina di chilometri da qui, e i loro nemici hezbollah si sono acquattati: si guardano bene non solo dal lanciare missili contro Israele, ma dal farsi vedere in giro armati.
«Lo dice chiaramente la risoluzione 1701 dell’Onu che ci ha mandati qui», spiega il tenente Lombardi: «Noi controlliamo capillarmente il territorio, e quando notiamo qualcosa di sospetto avvertiamo l’esercito regolare libanese, incaricato di disarmare gli hezbollah. Ma finora, in questi primi quattro mesi di missione, non abbiamo dovuto fronteggiare incidenti di rilievo». I diecimila abitanti di Tibnin sono per metà cristiani (maroniti), e per metà musulmani. Questi ultimi, a loro volta, si dividono fra sciiti (che simpatizzano per gli hezbollah), e sunniti. Ma tutti arabi sono, e ora vivono in santa pace raccogliendo arance e pompelmi nei loro sontuosi agrumeti, e olive nel resto dei campi. Qua e là pastori pascolano greggi di pecore: poco sembra cambiato rispetto a quella famosa notte di 2006 anni fa...
«Più di un terzo delle case di Tibnin erano state colpite dai bombardamenti israeliani», ci dice il tenente, «ma ora gli abitanti sono tornati e le stanno rimettendo a posto. Più complicata la situazione nei campi, dove spesso i contadini ci chiamano per sminarli. Altrimenti non potevano raccogliere prima le olive, e ora gli aranci, per portarli con i furgoni a Tiro, dove c’è il porto. È questa la loro principale fonte di reddito, oltre al piccolo commercio. Per questo l’attività dei nostri sminatori, il sesto reggimento del Genio di Udine, è frenetica: ogni volta che li vedono lavorare su un campo, si avvicinano tre-quattro persone per chiedere di intervenire anche nel loro».
I rapporti con la popolazione locale sono ottimi: «È gente molto disponibile e ospitale, se facciamo un posto di blocco dopo un po’ qualche signora si avvicina, mandata dal marito per invitarci a bere un caffé a casa loro».
«Questo non è Terzo Mondo», conferma la caporal maggiore Sara Botticella, 25enne napoletana con diploma da operatrice turistica, arruolata da due anni: «Il Libano è un Paese molto evoluto, occidentale, ci sentiamo quasi a casa. Prima di partire abbiamo frequentato un corso di lingua e usanze arabe, ma qui tutti parlano inglese o francese, e accettano la nostra presenza». Nel picchetto che ha accolto le visite natalizie del presidente del Consiglio Romano Prodi e del ministro degli Esteri Massimo D’Alema, la caporale Botticella era in prima fila e la nostra fotografa l’ha subito notata.
Ma come finisce in Libano una ragazza come lei? «In famiglia l’esercito è di casa», spiega Sara, «mio nonno era militare e pure mio fratello. Io ho frequentato un corso di spacializzazione ad Ascoli, poi tre mesi alla Cecchignola di Roma, infine mi hanno preso nella brigata Pozzuolo del Friuli. Ho lavorato come operatrice informatica nella caserma del comando a Gorizia fino al 24 ottobre, quando sono arrivata in Libano. Per me l’esercito è una grande famiglia, non si è mai soli». Anche perché la caporale Botticella a Gorizia ha conosciuto e si è fidanzata con un commilitone, il siciliano Lorenzo Terzo: anche lui ora è in Libano. Lei ha il compito di smistare fax e messaggi fra le tre basi italiane Unifil (che sta per Forze di interposizione internazionale in Libano delle Nazioni Unite) e i vari avamposti.
Da novembre il comandante degli italiani è il generale Paolo Gerometta, e a febbraio passerà dalla Francia all’Italia il comando dell’intera missione Unifil: siamo il contingente più numeroso, i soldati degli altri Paesi non arrivano a seimila. In questo pezzo di terra del Libano meridionale, che la scorsa estate era diventato improvvisamente un inferno, ora sembra esserci la pace più totale. Diciamo «sembra», perché da queste parti non si sa mai: poche decine di chilometri a nord, a Beirut, sono ricominciate le tensioni fra cristiani e musulmani dopo l’assassinio del capo maronita Pierre Gemayel il 21 novembre. E gli hezbollah sono ridiscesi in piazza, con proclami bellicosi per la distruzione totale di Israele.
Pochi chilometri a est c’è la Siria, oppressa dal dittatore Bashar Assad, che sostiene gli estremisti sia di hezbollah che di Hamas. Le sue alture del Golan, sotto occupazione israeliana da quarant’anni, si possono vedere a occhio nudo da qui. E a sud c’è Israele, che nonostante la stretta di mano natalizia fra il suo premier Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen viene colpita quasi quotidianamente dai razzi palestinesi, e quasi quotidianamente risponde con raid aerei su Gaza. Per non parlare della sanguinosta guerra civile irachena, a soli 200 chilometri di distanza.
Ma almeno qui cannoni e missili hanno smesso di sparare. E gli italiani proseguono nella loro missione di pace per conto dell’Onu: qualche giorno fa è arrivato Marino Andolina, primario di pediatria all’ospedale di Trieste, e ha visitato venticinque bambini nell’ambulatorio di Ma’raka, sede di una delle tre principali basi italiane. Anche a questo servono i caschi blu italiani: la cellula J9 si occupa della cooperazione civile e militare, e sta realizzando ambulatori mobili nei comuni dell’area di responsabilità del nostro contingente.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 10 gennaio 2007
Tibnin (Libano)
Dopo D’Alema e Prodi, è arrivata la neve. Il 28 dicembre i 2.500 caschi blu italiani dell’Onu in Libano si sono svegliati con i tendoni imbiancati. Così l’effetto Natale è stato completo, dopo le feste passate in allegria e i travestimenti che vediamo in queste foto. «Ma non siamo certo qui per divertirci», ci dice il tenente Livio Lombardi, 26 anni, da Vallo della Lucania (Salerno). E sciorina i dati delle missioni effettuati nell’ultimo mese: 2.200 pattugliamenti, 650 posti di blocco («static point», come dicono i militari in gergo tecnico), ma soprattutto ben duemila interventi di bonifica delle bombe inesplose sparse fra campi e giardini, pericolosa eredità del conflitto dello scorso agosto. Ora gli israeliani si sono ritirati oltre confine, a una trentina di chilometri da qui, e i loro nemici hezbollah si sono acquattati: si guardano bene non solo dal lanciare missili contro Israele, ma dal farsi vedere in giro armati.
«Lo dice chiaramente la risoluzione 1701 dell’Onu che ci ha mandati qui», spiega il tenente Lombardi: «Noi controlliamo capillarmente il territorio, e quando notiamo qualcosa di sospetto avvertiamo l’esercito regolare libanese, incaricato di disarmare gli hezbollah. Ma finora, in questi primi quattro mesi di missione, non abbiamo dovuto fronteggiare incidenti di rilievo». I diecimila abitanti di Tibnin sono per metà cristiani (maroniti), e per metà musulmani. Questi ultimi, a loro volta, si dividono fra sciiti (che simpatizzano per gli hezbollah), e sunniti. Ma tutti arabi sono, e ora vivono in santa pace raccogliendo arance e pompelmi nei loro sontuosi agrumeti, e olive nel resto dei campi. Qua e là pastori pascolano greggi di pecore: poco sembra cambiato rispetto a quella famosa notte di 2006 anni fa...
«Più di un terzo delle case di Tibnin erano state colpite dai bombardamenti israeliani», ci dice il tenente, «ma ora gli abitanti sono tornati e le stanno rimettendo a posto. Più complicata la situazione nei campi, dove spesso i contadini ci chiamano per sminarli. Altrimenti non potevano raccogliere prima le olive, e ora gli aranci, per portarli con i furgoni a Tiro, dove c’è il porto. È questa la loro principale fonte di reddito, oltre al piccolo commercio. Per questo l’attività dei nostri sminatori, il sesto reggimento del Genio di Udine, è frenetica: ogni volta che li vedono lavorare su un campo, si avvicinano tre-quattro persone per chiedere di intervenire anche nel loro».
I rapporti con la popolazione locale sono ottimi: «È gente molto disponibile e ospitale, se facciamo un posto di blocco dopo un po’ qualche signora si avvicina, mandata dal marito per invitarci a bere un caffé a casa loro».
«Questo non è Terzo Mondo», conferma la caporal maggiore Sara Botticella, 25enne napoletana con diploma da operatrice turistica, arruolata da due anni: «Il Libano è un Paese molto evoluto, occidentale, ci sentiamo quasi a casa. Prima di partire abbiamo frequentato un corso di lingua e usanze arabe, ma qui tutti parlano inglese o francese, e accettano la nostra presenza». Nel picchetto che ha accolto le visite natalizie del presidente del Consiglio Romano Prodi e del ministro degli Esteri Massimo D’Alema, la caporale Botticella era in prima fila e la nostra fotografa l’ha subito notata.
Ma come finisce in Libano una ragazza come lei? «In famiglia l’esercito è di casa», spiega Sara, «mio nonno era militare e pure mio fratello. Io ho frequentato un corso di spacializzazione ad Ascoli, poi tre mesi alla Cecchignola di Roma, infine mi hanno preso nella brigata Pozzuolo del Friuli. Ho lavorato come operatrice informatica nella caserma del comando a Gorizia fino al 24 ottobre, quando sono arrivata in Libano. Per me l’esercito è una grande famiglia, non si è mai soli». Anche perché la caporale Botticella a Gorizia ha conosciuto e si è fidanzata con un commilitone, il siciliano Lorenzo Terzo: anche lui ora è in Libano. Lei ha il compito di smistare fax e messaggi fra le tre basi italiane Unifil (che sta per Forze di interposizione internazionale in Libano delle Nazioni Unite) e i vari avamposti.
Da novembre il comandante degli italiani è il generale Paolo Gerometta, e a febbraio passerà dalla Francia all’Italia il comando dell’intera missione Unifil: siamo il contingente più numeroso, i soldati degli altri Paesi non arrivano a seimila. In questo pezzo di terra del Libano meridionale, che la scorsa estate era diventato improvvisamente un inferno, ora sembra esserci la pace più totale. Diciamo «sembra», perché da queste parti non si sa mai: poche decine di chilometri a nord, a Beirut, sono ricominciate le tensioni fra cristiani e musulmani dopo l’assassinio del capo maronita Pierre Gemayel il 21 novembre. E gli hezbollah sono ridiscesi in piazza, con proclami bellicosi per la distruzione totale di Israele.
Pochi chilometri a est c’è la Siria, oppressa dal dittatore Bashar Assad, che sostiene gli estremisti sia di hezbollah che di Hamas. Le sue alture del Golan, sotto occupazione israeliana da quarant’anni, si possono vedere a occhio nudo da qui. E a sud c’è Israele, che nonostante la stretta di mano natalizia fra il suo premier Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen viene colpita quasi quotidianamente dai razzi palestinesi, e quasi quotidianamente risponde con raid aerei su Gaza. Per non parlare della sanguinosta guerra civile irachena, a soli 200 chilometri di distanza.
Ma almeno qui cannoni e missili hanno smesso di sparare. E gli italiani proseguono nella loro missione di pace per conto dell’Onu: qualche giorno fa è arrivato Marino Andolina, primario di pediatria all’ospedale di Trieste, e ha visitato venticinque bambini nell’ambulatorio di Ma’raka, sede di una delle tre principali basi italiane. Anche a questo servono i caschi blu italiani: la cellula J9 si occupa della cooperazione civile e militare, e sta realizzando ambulatori mobili nei comuni dell’area di responsabilità del nostro contingente.
Mauro Suttora
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