Tuesday, January 23, 2007

Intervista a Ignazio Marino

Scandalo sanità: ospedali nuovi e commissariare il sud

Oggi, 17 gennaio 2007

Radere al suolo l’Umberto I di Roma. E tutti i policlinici d’Italia». La proposta-choc non è di un terrorista o di un estremista, ma di uno dei senatori più tranquilli della Repubblica: il professor Ignazio Marino, 51 anni, re dei trapianti, vent’anni di esperienza fra Inghilterra (Cambridge) e Stati Uniti, datosi alla politica da dieci mesi e oggi presidente (diessino, ma cattolico) della commissione Sanità del Senato.

Quando arrivo nel suo ufficio, al piano terra di palazzo Madama, il professore sta finendo di visitare un paziente in una piccola stanza accanto. Ha infatti chiesto e ottenuto dai dirigenti del Senato il permesso di poter continuare part-time la sua attività professionale dentro al Palazzo. Silvio Berlusconi spesso accusa i politici di non aver mai lavorato, di non conoscere un mestiere. Il professor Marino rappresenta il contrario di questa immagine.

La sua ricetta da Attila arriva in risposta allo scandalo-sanità, dopo la scoperta (dell’Espresso e di Striscia la notizia) che nei fatiscenti corridoi sotterranei del policlinico romano i malati in barella vengono trasportati fra sacchi di spazzatura, tubi che perdono e pozzanghere. Ultima denuncia raccapricciante: c’è rischio che ai cadaveri vengano rubate le cornee, e allora bisogna farli scortare dai poliziotti.

«Non sto scherzando, certi ospedali sono da ricostruire da zero», ribadisce Marino. «Dobbiamo pensare alla medicina come a un contenuto, e agli ospedali come contenitori. La scienza è in continuo progresso: oggi siamo in grado di curare, e spesso guarire, malattie per le quali fino agli anni Settanta, cioè appena trent’anni fa, potevamo soltanto allargare le braccia dicendo che non c’è nulla da fare. Un esempio: gli infarti. Nel ’75 le vittime di ostruzioni coronariche venivano trasportate al pronto soccorso e messe sotto osservazione nel letto di un’unità coronarica. Si somministravano dei farmaci, e nella migliore delle ipotesi si seguiva la funzione del cuore con un monitor.
«Oggi in molti nostri ospedali ci sono centri di eccellenza in cui il paziente viene avviato immediatamente alla struttura di emodinamica, dotata di attrezzature ad altissima tecnologia. Grazie a tubi minuscoli che vengono inseriti nei vasi sanguigni si ha subito su uno schermo il quadro della malattia. E nel giro di 120-180 minuti si può intervenire risolvendo il problema, senza aprire il torace.

«Ecco, se noi pensiamo che oggi in Italia abbiamo una sanità di questo tipo, in grado di vedere e curare in tempo reale la malattia, ci rendiamo conto che in appena trent’anni abbiamo fatto passi giganteschi. E quindi le strutture costruite anche solo cinquant’anni fa per contenere un altro tipo di medicina non sono più adeguate. Le strutture devono cambiare assieme agli straordinari progressi della scienza».

Buttiamo giù tutti gli ospedali, quindi?
«No. Solo quelli costruiti secondo una concezione della medicina ormai sorpassata. La prima pietra del policlinico di Roma fu posata più di cent’anni fa, nel 1888. Eleganti palazzine di colore giallo ocra separate da viali ombreggiati. Perfette, fatte apposta per ricoverati da tenere sotto osservazione durante periodi lunghissimi. Le discipline erano separate, e ognuna aveva il suo padiglione: chirurgia, internistica, tubercolosi... Oggi invece il medico curante può avere bisogno immediato di un esame radiologico, o di una risonanza magnetica, o di altri esami per cui serve l’inserzione di un catetere. Insomma, c’è la multidisciplinarietà, l’unione di più specializzazioni. Siamo concettualmente lontani anni-luce dall’idea di edifici separati. Poi, certo, possiamo costruire tunnel e percorsi protetti per spostare gli ammalati, ma ormai ci vogliono strutture monoblocco. La terapia intensiva deve stare accanto alle sale operatorie, mentre noi siamo fermi ancora ai tempi delle barelle da spingere in corridoio...»

Ma per distruggere e ricostruire ci vogliono tempo e soldi.
«Guardi, tutti abbiamo visto film sull’Aids o avuto conoscenti colpiti dall’epidemia. Che fino al ’95 era una malattia tremenda, gli ospedali avevano dovuto improvvisamente quadruplicare i reparti di malattie infettive. Non solo posti-letto: occorrevano bagni, stanzette dove il personale poteva vestirsi, mettersi camici e mascherine. Tutto questo venne fatto, e in tempi rapidi di fronte all’emergenza. Poi sono stati scoperti nuovi farmaci, e oggi l’aspettativa di vita di un malato di Aids è uguale alla mia e alla sua. Quelli che fino a una dozzina d’anni fa erano malati terminali oggi conducono una vita normale, lavorando in mezzo a noi. Non sono neppure riconoscibili. E tutti quei reparti ristrutturati ora non servono più. Sono cambiate le esigenze, ci vuole flessibilità. Riconvertendo le strutture ospedaliere si possono ricavare anche risorse finanziarie da reinvestire nella sanità, con la dismissione di gigantesche aree di pregio immobiliare».

In Tv abbiamo visto che l’ospedale americano di Cleveland, dov’è andato Berlusconi prima di Natale per il pacemaker, è dotato addirittura di un albergo atttiguo.
«A Filadelfia, dove ho diretto il centro trapianti, avevamo strutture residenziali sia per i trapiantati sia per i loro parenti. Dopo i trapianti infatti si sta bene, ma non così bene da poter rompere subito il cordone ombelicale dei controlli: ogni 3-4 giorni occorrono esami radiologici, esami del sangue. I posti-letto negli ospedali costano molto, sui 6-700 euro al giorno, quindi servono case-famiglia adiacenti per chi magari ha bisogno solo di un antibiotico in vena contro le infezioni due volte al giorno, o di una flebo ogni dodici ore. Così si dimininuiscono sia i costi, sia i disagi per i malati. Più in generale, per molte cure conviene mandare un’infermiera a casa invece di ricoverare in ospedale. Però l’assistenza a domicilio dev’essere introdotta prima di chiudere gli ospedali, altrimenti la gente protesta perché si sente abbandonata».

Dai controlli dei Nas effettuati negli ultimi giorni emerge il solito quadro sconfortante: bene al Nord, male al Sud. È stato un bene regionalizzare la sanità?
«Nei casi di maggiore gravità lo Stato deve avere il diritto-dovere di esercitare poteri sostitutivi rispetto a Regioni incapaci di garantire standard minimi di assistenza. Ogni anno in Italia un milione di persone sono costrette a spostarsi dalla propria regione per farsi curare bene. È una vergogna che deve finire. Non è possibile, per esempio, che un reparto di chirurgia pediatrica in Sicilia non si sia mai posto in trent’anni il problema di creare alloggi dotati di letto, cucina e doccia per le mamme dei bimbi operati».

In alcune regioni come il Lazio, oltre al danno di dover subire imposte addizionali per ripianare il deficit sanitario c’è la beffa di leggere che mogli di politici hanno comprato tramite prestanome ambulatori e cliniche private sovvenzionate con soldi pubblici.
«Anche questo è inaccettabile. Come si diceva nell’antica Roma, la moglie di Giulio Cesare dev’essere sempre al di sopra di ogni sospetto. Se io, da presidente della commissione Sanità, sto preparando una legge sulla commercializzazione dei farmaci, mia moglie non può diventare improvvisamente amministratore delegato di un’azienda farmaceutica... Insomma, per una sanità rinnovata e pulita bisogna evitare non solo i reati, ma anche i semplici sospetti e ogni situazione ambigua».

Mauro Suttora

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