Un primo bilancio dopo quattro mesi di missione Unifil: ecco chi sono e cosa fanno i nostri 2.500 caschi blu
di Mauro Suttora
Oggi, 10 gennaio 2007
Tibnin (Libano)
Dopo D’Alema e Prodi, è arrivata la neve. Il 28 dicembre i 2.500 caschi blu italiani dell’Onu in Libano si sono svegliati con i tendoni imbiancati. Così l’effetto Natale è stato completo, dopo le feste passate in allegria e i travestimenti che vediamo in queste foto. «Ma non siamo certo qui per divertirci», ci dice il tenente Livio Lombardi, 26 anni, da Vallo della Lucania (Salerno). E sciorina i dati delle missioni effettuati nell’ultimo mese: 2.200 pattugliamenti, 650 posti di blocco («static point», come dicono i militari in gergo tecnico), ma soprattutto ben duemila interventi di bonifica delle bombe inesplose sparse fra campi e giardini, pericolosa eredità del conflitto dello scorso agosto. Ora gli israeliani si sono ritirati oltre confine, a una trentina di chilometri da qui, e i loro nemici hezbollah si sono acquattati: si guardano bene non solo dal lanciare missili contro Israele, ma dal farsi vedere in giro armati.
«Lo dice chiaramente la risoluzione 1701 dell’Onu che ci ha mandati qui», spiega il tenente Lombardi: «Noi controlliamo capillarmente il territorio, e quando notiamo qualcosa di sospetto avvertiamo l’esercito regolare libanese, incaricato di disarmare gli hezbollah. Ma finora, in questi primi quattro mesi di missione, non abbiamo dovuto fronteggiare incidenti di rilievo». I diecimila abitanti di Tibnin sono per metà cristiani (maroniti), e per metà musulmani. Questi ultimi, a loro volta, si dividono fra sciiti (che simpatizzano per gli hezbollah), e sunniti. Ma tutti arabi sono, e ora vivono in santa pace raccogliendo arance e pompelmi nei loro sontuosi agrumeti, e olive nel resto dei campi. Qua e là pastori pascolano greggi di pecore: poco sembra cambiato rispetto a quella famosa notte di 2006 anni fa...
«Più di un terzo delle case di Tibnin erano state colpite dai bombardamenti israeliani», ci dice il tenente, «ma ora gli abitanti sono tornati e le stanno rimettendo a posto. Più complicata la situazione nei campi, dove spesso i contadini ci chiamano per sminarli. Altrimenti non potevano raccogliere prima le olive, e ora gli aranci, per portarli con i furgoni a Tiro, dove c’è il porto. È questa la loro principale fonte di reddito, oltre al piccolo commercio. Per questo l’attività dei nostri sminatori, il sesto reggimento del Genio di Udine, è frenetica: ogni volta che li vedono lavorare su un campo, si avvicinano tre-quattro persone per chiedere di intervenire anche nel loro».
I rapporti con la popolazione locale sono ottimi: «È gente molto disponibile e ospitale, se facciamo un posto di blocco dopo un po’ qualche signora si avvicina, mandata dal marito per invitarci a bere un caffé a casa loro».
«Questo non è Terzo Mondo», conferma la caporal maggiore Sara Botticella, 25enne napoletana con diploma da operatrice turistica, arruolata da due anni: «Il Libano è un Paese molto evoluto, occidentale, ci sentiamo quasi a casa. Prima di partire abbiamo frequentato un corso di lingua e usanze arabe, ma qui tutti parlano inglese o francese, e accettano la nostra presenza». Nel picchetto che ha accolto le visite natalizie del presidente del Consiglio Romano Prodi e del ministro degli Esteri Massimo D’Alema, la caporale Botticella era in prima fila e la nostra fotografa l’ha subito notata.
Ma come finisce in Libano una ragazza come lei? «In famiglia l’esercito è di casa», spiega Sara, «mio nonno era militare e pure mio fratello. Io ho frequentato un corso di spacializzazione ad Ascoli, poi tre mesi alla Cecchignola di Roma, infine mi hanno preso nella brigata Pozzuolo del Friuli. Ho lavorato come operatrice informatica nella caserma del comando a Gorizia fino al 24 ottobre, quando sono arrivata in Libano. Per me l’esercito è una grande famiglia, non si è mai soli». Anche perché la caporale Botticella a Gorizia ha conosciuto e si è fidanzata con un commilitone, il siciliano Lorenzo Terzo: anche lui ora è in Libano. Lei ha il compito di smistare fax e messaggi fra le tre basi italiane Unifil (che sta per Forze di interposizione internazionale in Libano delle Nazioni Unite) e i vari avamposti.
Da novembre il comandante degli italiani è il generale Paolo Gerometta, e a febbraio passerà dalla Francia all’Italia il comando dell’intera missione Unifil: siamo il contingente più numeroso, i soldati degli altri Paesi non arrivano a seimila. In questo pezzo di terra del Libano meridionale, che la scorsa estate era diventato improvvisamente un inferno, ora sembra esserci la pace più totale. Diciamo «sembra», perché da queste parti non si sa mai: poche decine di chilometri a nord, a Beirut, sono ricominciate le tensioni fra cristiani e musulmani dopo l’assassinio del capo maronita Pierre Gemayel il 21 novembre. E gli hezbollah sono ridiscesi in piazza, con proclami bellicosi per la distruzione totale di Israele.
Pochi chilometri a est c’è la Siria, oppressa dal dittatore Bashar Assad, che sostiene gli estremisti sia di hezbollah che di Hamas. Le sue alture del Golan, sotto occupazione israeliana da quarant’anni, si possono vedere a occhio nudo da qui. E a sud c’è Israele, che nonostante la stretta di mano natalizia fra il suo premier Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen viene colpita quasi quotidianamente dai razzi palestinesi, e quasi quotidianamente risponde con raid aerei su Gaza. Per non parlare della sanguinosta guerra civile irachena, a soli 200 chilometri di distanza.
Ma almeno qui cannoni e missili hanno smesso di sparare. E gli italiani proseguono nella loro missione di pace per conto dell’Onu: qualche giorno fa è arrivato Marino Andolina, primario di pediatria all’ospedale di Trieste, e ha visitato venticinque bambini nell’ambulatorio di Ma’raka, sede di una delle tre principali basi italiane. Anche a questo servono i caschi blu italiani: la cellula J9 si occupa della cooperazione civile e militare, e sta realizzando ambulatori mobili nei comuni dell’area di responsabilità del nostro contingente.
Mauro Suttora
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