Saturday, March 01, 2025

Hácha, chi era costui? Zelensky ricorda il presidente ceco maltrattato da Hitler



Una scena come quella della Casa Bianca non si era mai vista, e non la si raccontava dal 1939. Perché, ogni volta, non preannuncia niente di buono. Piccolo excursus storico, dal führer a Trump

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 marzo 2025

All'una della notte fra il 14 e 15 marzo 1939 il presidente della Cecoslovacchia, Emil Hácha, viene ricevuto da Adolf Hitler nel palazzo della Cancelleria di Berlino. Cinque mesi prima il suo Paese è stato amputato del 15% del territorio (come oggi l’Ucraina): i Sudeti finiscono alla Germania, in base agli accordi di Monaco. Che però non placano l’ingordigia nazista. Il führer fa aspettare Hácha per ore prima di incontrarlo. Poi, entrato nella sala con il ministro degli Esteri, Joachim von Ribbentrop, intima ad Hácha: “Firmi questo foglio per chiedere la protezione del Reich”. Hácha rifiuta (come ieri Volodymyr Zelensky con Donald Trump sulla cessione delle terre rare e le garanzie di sicurezza): “Non posso, devo almeno consultare i miei ministri”. “Non è questo il momento di trattare, ma di prender nota delle irrevocabili decisioni del popolo tedesco!”, gli risponde Hitler. Che firma e se ne va… 

Ribbentrop rivela ad Hácha che quattro ore dopo, alle sei del mattino, l’esercito tedesco invaderà quel che resta della Cecoslovacchia. Al 66enne presidente boemo viene un infarto. Dopo qualche iniezione si riprende, gli viene permesso di telefonare a Praga svegliando qualche suo ministro. Tiene duro fino alle 4 del mattino. Poi capitola. Anche il suo predecessore Edvard Beneš era stato umiliato a Monaco nel settembre ’38: neppure ammesso alle trattative fra i quattro Grandi (proprio come oggi Zelensky).

La rottura di ieri alla Casa Bianca è una primizia della storia mondiale. Mai era successo che uno scontro fra due capi di Stato venisse trasmesso in diretta mondovisione. Finora i vertici internazionali, anche i più burrascosi, erano sempre stati protetti dalla discrezione diplomatica. Quando si litiga lo si fa a porte chiuse, e nel successivo comunicato si scrive che è avvenuto “un franco scambio di vedute”.

Leggendari sono rimasti gli scatti degli statisti più irascibili, come il generale Charles De Gaulle. Hitler e Stalin invece erano gelidi. Il führer perse le staffe solo con l’ammiraglio ungherese Miklós Horthy e con il cancelliere austriaco Engelbert Dolfuss, che poi fece assassinare. Il 5 gennaio 1939 Hitler invita a Berchtesgaden il ministro degli Esteri polacco Jozef Beck con la moglie. Mentre bevono un tè gli intima di cedere Danzica alla Germania. Beck è riluttante. Sappiamo come finì: otto mesi dopo Hitler e Stalin si spartiscono la Polonia. 

Dobbiamo al Kgb la trascrizione della drammatica telefonata di un’ora e venti minuti fra il sovietico Leonid Breznev e il cecoslovacco Alexander Dubček del 13 agosto 1968: “Caro Sasha, devi far smettere gli attacchi anticomunisti dei giornali di Praga”. “Stiamo facendo il possibile”. “Ci avete ingannati, avete sabotato gli accordi”. Il 20 agosto i tank, questa volta dell’Armata rossa, invadono di nuovo la Cecoslovacchia trent’anni dopo i nazisti. 

Lo scontro recente più violento fra occidentali è quello dell'estate 2015 del premier greco Alexis Tsipras contro Angela Merkel e Mark Rutte durante il vertice Ue che costringe Atene a cedere sul proprio debito. Urla, a notte fonda Tsipras abbandona la sala. Poi rientra e all’alba arriva la firma. 

E gli italiani? Notevole il dissidio fra Bettino Craxi e Maggie Thatcher sempre in un summit Ue, a Milano nel 1985. Brutte conseguenze per il presidente Antonio Segni, colpito da ictus il 7 agosto 1964 durante un’accesa discussione col premier Aldo Moro e Giuseppe Saragat (era l’estate del “tintinnar di sciabole”, con pericoli di golpe veri o presunti).

Per il resto, si scivola nella sceneggiata. Come quella dello scontro fra Beppe Grillo e Pier Luigi Bersani a un tavolo in diretta social nel 2013, o ddel “Kapò”, dieci anni prima, lanciato da Silvio Berlusconi al tedesco Martin Schulz nell’Europarlamento. La più memorabile resta il “Che fai, mi cacci?” di Gianfranco Fini a Berlusconi nel 2010. Ieri Zelensky è stato cacciato veramente dalla Casa Bianca trumpiana. Ma questa volta il video dopo dieci minuti era su tutti i cellulari del pianeta. 

Thursday, February 27, 2025

Un würstel va di traverso a Radio radicale

Prima censura nell'emittente libertaria

24 febbraio 2025
Tu quoque, Roberta! Questa mattina Roberta Jannuzzi, la magnifica rassegnista stampa di Radio radicale, ha commesso peccato mortale. Ha detto che non avrebbe detto il titolo principale del quotidiano Libero, perché non vuole scendere al livello dei tabloid.
Cosi, spinto dalla curiosità sono corso in edicola a comprarlo. Delusione: sulla prima pagina del giornale diretto da Mario Sechi campeggia la scritta 'S'è bruciato il würstel', riferito alla 'caduta di Berlino' (nell'occhiello) e al voto tedesco.
Speravo in qualcosa di molto più pruriginoso, un altro accenno alla patata come ai tempi di Virginia Raggi, oltretutto i tuberi sono tipici della Germania. Oppure un urlo politicamente scorrettissimo degno di Daniele Capezzone, già segretario del partito della Jannuzzi e oggi direttore editoriale di Libero. Invece niente. Solo una salsiccia, che dai tempi di Benito Jacovitti non scandalizza più nessuno.
Avrei assolto il peccato di omissione di Roberta, la rassegnista più brava d'Italia, se fosse andato in onda su qualsiasi altra radio o tv. Ma non sull'emittente radicale. Che si vanta a ragione di essere "la voce di tutti", libertaria, sia provocatoria che ecumenica.
Marco Pannella, il suo fondatore, Massimo Bordin, grande direttore e rassegnista, e anche Lino Jannuzzi (nessuna parentela), altro direttore storico, non solo avrebbero dato spazio al würstel, ma ci avrebbero imbastito su un bel dibattito. Per puro spirito di contraddizione.
Non c'è bisogno di scomodare Karl Popper e la necessità, per un liberale, di sottoporre sempre a verifica le proprie opinioni, arrivando alla loro 'falsificazione' ("e se fosse vero il contrario?"). Basta essere un po' rompiballe o possedere curiosità intellettuale.
"Nel 1946, sedicenne, al liceo compravo due copie del giornale Risorgimento liberale", raccontava Pannella, "una per me e una per suscitare dibattito fra i compagni di classe", molto più a sinistra di lui.
Uno dei miei massimi piaceri di pannellologo (sì, ho all'attivo tre biografie non autorizzate su Marco, una vera mania) era scrivere articoli che punzecchiavano i radicali, per poi ascoltare la mattina dopo Bordin insultarmi sarcasticamente in rassegna stampa, e a volte incassare pure gli improperi di Pannella che non resisteva alle critiche e si collegava in diretta.
Insomma, cara Roberta, non ti ho mai incontrato né parlato, ma la tua voce soffice e precisa accompagna da anni i miei risvegli fino a ingelosire mia moglie, nonostante l'auricolare per non disturbarla o forse proprio per questo.
Quindi per favore non costringermi a comprare giornali solo perché colpiti dalle tue dolci e insensate censure. E poi cos'hai contro i tabloid? Sono quelli con i titoli più divertenti: quando lavoravo a New York leggevo sempre il popolare, volgare e irridente New York Post prima del sussiegoso Times di stoca' per farmi una bella risata.
Gli stessi titoli icastici di Libero, d'altronde, li verga da anni il Manifesto, magari più sofisticati ma sempre liberatori. Perciò coraggio: non temere la diversità, la destra e i würstel.

Saturday, February 15, 2025

Dite a Vance che la libertà di parola nasce a sinistra

Il movimento per il Free speech nacque nel 1964, vent'anni prima di lui, nella California di sinistra detestata allora come oggi dai suoi simili, i populisti di destra

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it , 15 febbraio 2025 

Qualcuno spieghi al vicepresidente Usa J.D. Vance, autonominatosi apostolo della libertà di parola, che il movimento per il Free speech nacque nel 1964, vent'anni prima di lui, nella California di sinistra detestata allora come oggi dai suoi simili populisti di destra.
 
Cominciò infatti tutto il 2 dicembre di quell'anno a Berkeley: la contestazione studentesca e antimilitarista, il Free speech movement, la rivoluzione giovanile degli anni '60 con la musica pop-rock, gli hippies e l'amore libero. 
Merito fra l'altro di un italiano, il figlio di poveri immigrati Mario Savio che durante il primo sit-in di massa all'università nella baia di San Francisco salì su un'auto e pronunciò un discorso memorabile: "Non vogliamo essere solo rotelle del Sistema".

Poi arrivarono i poliziotti e arrestarono centinaia di giovani. Senza manganelli o scene alla 'Fragole e sangue': nonviolenti e disciplinati, gli studenti si fecero trascinar via cantando "We shall overcome", vinceremo. 
Molti di loro erano reduci dall'estate dei diritti civili: arrivati in bus negli stati meridionali degli Usa ancora razzisti, si sedettero assieme ai loro coetanei neri nei bar proibiti dall'apartheid, e li accompagnarono a farsi registrare per le elezioni. Nel Sud ci furono morti, cantati da Bob Dylan.
Ma ormai nel luglio '64 il presidente Lyndon Johnson aveva firmato la legge per i diritti civili. E il 28 agosto tutti a Washington per il discorso di Martin Luther King: "I have a dream". 

Con l'autunno gli attivisti antisegregazionisti tornarono nei campus, e aprirono i loro tavolini di propaganda nei viali davanti alle aule. Ma il rettore dall'università di Berkeley commise un errore: li proibì. Dimenticando che il Primo emendamento della costituzione americana garantisce la libertà di parola. Sacra. Così cominciarono le proteste, che culminarono in quel 2 dicembre.

Il Free speech movement californiano aveva già un suo martire-eroe: il comico Lenny Bruce. Ogni volta che si esibiva veniva arrestato, perché aveva l'insopprimibile tendenza a pronunciare la parola proibita: "Fuck". In quei mesi era finito addirittura in carcere per reato d'opinione.
 
Ricordate il film Woodstock? In una delle scene più famose il cantante Country Joe urla alla folla del concerto rock: "Give me an F, give me a U... What does it spell?" Nel 1969, cinque anni dopo Berkeley, quella parola era ancora tabù. Nel frattempo Lenny Bruce era morto, ma non nell'immaginario dei figli dei fiori: Grace Slick, cantante dei Jefferson Airplane, gli dedicò una canzone. E, soprattutto, nel 1974 risorse interpretato magistralmente da Dustin Hoffman nel film Lenny. 

La differenza è che negli anni '60 erano i bigotti di destra come Vance a punire parolacce e pareri dissenzienti. Mentre oggi è la sinistra del politicamente corretto a scandalizzarsi e proibire qualche termine considerato eccessivo. Permettendo così ai Vance e ai Trump di salire sulla cattedra della libertà, e di sentirsi perfino autorizzati a impartire lezioni a noi europei.

Quello che ho fatto mentre voi guardavate Sanremo, e di come ne ho giovato assai

Non abbiamo nulla contro chi guarda Sanremo. Anzi, siamo perfino amici e parenti di vari fra loro. Ma codesti dodici milioni di sventurati ignorano che i mille canali delle nostre tv hanno offerto appetibili alternative al mainstream. Il quale poi a ben vedere maggioritario non è: otto italiani su dieci risultano infatti felicemente festival-free, e sette su dieci non hanno neanche acceso la tv

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 15 febbraio 2025

Benedetta controprogrammazione. Grazie a lei, i 47 milioni di italiani su 60 che evitano Sanremo si sono fatti una scorpacciata di superbi film. Io ho cominciato martedì sera ammirando la bellezza di un 29enne John Cassavetes nel western 'Lo sperone insanguinato' del 1958 su Iris. Durante gli spot ho intravisto la Juve battere 2-1 gli olandesi della Philips in Champions, ma soprattutto il Real Madrid vincere sul City.

Mercoledì Rai Storia ci ha regalato uno stupendo documentario su Ennio Flaiano. Finito il quale sono andato su Sky, che ha recuperato 'Palombella rossa' di Nanni Moretti, rarità in tv. Incredibile sia uscito due mesi prima del crollo del comunismo nell'89. La crisi del funzionario Pci interpretato dal genio di Monteverde continua peraltro 36 anni dopo: ci sono politici pd che parlano ancora come lui, stessa inflessione, tic verbali, incredulità verso la realtà che li maltratta.

Noi che non ci facciamo maltrattare dal simpatico Carlo Conti ci eravamo dimenticati che nella colonna sonora di 'Palombella rossa' spiccano una delle canzoni più belle di Bruce Springsteen, 'I'm on fire', oltre che 'E ti vengo a cercare' di Battiato. Quindi la nostra razione giornaliera di musica di qualità, latitante sulla riviera dei fiori, ci è stata assicurata. 

Giovedì sera era difficile scegliere fra due capolavori: 'Gli ultimi giorni di Hitler' con Bruno Ganz su Rai3 e 'JFK' di Oliver Stone su Raimovie. D'attualità quest'ultimo dopo che Donald Trump ha ordinato la pubblicazione degli ultimi documenti sull'assassinio di John Kennedy, ancora inopinatamente tenuti segreti.

Confesso però che alle 22 e trenta non ho resistito: ho guardato i Duran Duran al festival. Spiazzante la loro versione di 'Psychokiller' dei Talking Heads: ragazzi, già il vostro repertorio risale a 40 anni fa, e voi infierite con musica ancor più vecchia, di quasi mezzo secolo?

Che ci sia vita fuori Sanremo lo ha confermato la serata di venerdì. Forse la meno inguardabile del festival, data l'assenza delle canzoni in gara e la presenza di Geppi Cucciari. Ma la concorrenza della cineteca diffusa sugli altri canali si è dimostrata di nuovo irresistibile. In prime time la 'Congiura degli innocenti' di Alfred Hitchcock con una debuttante Shirley MacLaine su Raimovie. 

E poi 'Le belve' (2012), ancora di Oliver Stone su Italia 1, dove Salma Hayek nei panni di una boss della droga risulta improbabile quanto l'attuale Emilia Perez, narcoboss che cambia sesso e minaccia di vincere l'Oscar fra due settimane. Il film di Stone è godibile perché meno campato in aria del nuovo, sgangherato musical lgbtq con l'attrice protagonista trans che forse si è mangiata l'Oscar per alcuni suoi tweet di cinque anni fa contro l'Islam, accusati chissà perché di razzismo.

Noi invece non siamo razzisti, non abbiamo nulla contro chi guarda Sanremo. Anzi, siamo perfino amici e parenti di vari fra loro. Ma codesti dodici milioni di sventurati ignorano che i mille canali delle nostre tv hanno offerto appetibili alternative al mainstream. Il quale poi a ben vedere maggioritario non è: otto italiani su dieci risultano infatti felicemente festival-free, e sette su dieci non hanno neanche acceso la tv.

Thursday, February 13, 2025

Noa e Mira spiegate a Ghali e a quelli come lui

Perché, della coppia che ha cantato a Sanremo, dire che non è costituita da un’israeliana e una palestinese ma da due israeliane non ha molto senso

di Mauro Suttora

13 febbraio 2025 

Tutti contro Mira Awad. Sui social si è sviluppata una curiosa convergenza fra proPal di sinistra e israeliani di destra nel criticare l’esibizione a Sanremo della cantante palestinese. Che in coppia con la israeliana ebrea Noa ha cantato l'inno pacifista Imagine di John Lennon.

“Non è una vera palestinese!”, protestano gli opposti estremisti, fra cui il cantante Ghali, italiano di origini tunisine. “È cittadina israeliana”, dicono i proPal. “È un'araba israeliana”, dicono i sionisti. Tutto vero. Ma è vero anche che Mira Awad ci tiene a essere considerata palestinese. Il che non è in contraddizione con le altre definizioni. A meno che non si voglia toglierle il diritto all’identità individuale.

In Israele infatti vivono due milioni di palestinesi, cittadini di religione islamica o cristiana con eguali diritti rispetto agli otto milioni di religione ebraica. Possono votare per i loro partiti, che sono rappresentati alla Knesset e hanno anche governato fino a due anni fa, prima di Benjamin Netanyahu. Uno di loro, Issawi Frej, è stato ministro della Cooperazione regionale per il partito di sinistra Meretz fino al dicembre 2022, nel governo del premier Yair Lapid. Come tutte le democrazie, infatti, Israele è uno Stato multietnico. 

Sarebbe peraltro difficile trovare una donna palestinese cantante proveniente da Gaza: Hamas, alla pari di tutti i fondamentalisti islamici, proibisce la musica. Quanto ai fondamentalisti ebrei, loro sono infastiditi dalla definizione “palestinesi” per gli arabi israeliani, perché allude a un futuro in cui essi potrebbero farsi valere con la forza dei numeri. Ma sono questioni nominalistiche.

Insomma, nel complicato intreccio del conflitto Israele/Palestina le distinzioni si possono stiracchiare a piacimento. Due cose però sono certe: che i palestinesi di cittadinanza israeliana come Mira sono fra gli arabi che godono di maggior libertà al mondo (anche quella di collaborare con una cantante ebrea senza essere minacciati né ostracizzati come collaborazionisti); e che la canzone di Mira e Noa a Sanremo è stata un bel messaggio di pace. Non inzaccheriamolo con accuse fantasiose di ziotommismo. 

Monday, February 10, 2025

Giorno del Ricordo. L’autodafé di un esule

Un libro di Diego Zandel  racconta le fucilazioni degli antifascisti. “Mi pento di aver fatta mia la narrazione di un parte politica che ha infangato la sofferenza di un popolo”. Se una delle etnie istriana fosse stata di colore, “saremmo tutti mulatti”. Enorme complessità delle foibe

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 Febbraio 2025

Alle otto di mattina del 3 maggio 1945 il capo della polizia segreta di Fiume (Rijeka), Oskar Piškulić, irrompe nella casa dell’antifascista Giuseppe Sincich assieme alla sua compagna Avjanka Margetić e a quattro partigiani armati di mitra che lo trascinano via. Il cane lupo dei Sincich riconosce Avjanka, le va incontro e lei, in divisa di partigiana, gli fa una carezza.

"Ho visto allontanarsi mio papà", racconta Antonia, figlia di Sincich, "ma dopo alcuni passi è tornato indietro. Per salutarmi mi ha dato un bacio, freddo, pallido, per poi tornare sotto la scorta di quegli sgherri che gli dicevano in croato 'aide, aide', muoviti. Dopo un quarto d’ora ho sentito una sventagliata di mitra. Il suo cadavere, crivellato di colpi, fu poi trovato da mio fratello davanti all’entrata del cantiere navale di Cantrida, poco lontano da casa nostra".

Lo scrittore Diego Zandel racconta questo episodio nel suo ultimo libro, Autodafé di un esule (ed.Rubbettino): “È una filiazione del più dirompente memoir antitotalitario della nostra letteratura, Uscita di sicurezza di Ignazio Silone”, scrive Andrea Di Consoli nella prefazione.

Zandel, 76 anni, è uno dei non tanti esuli istriani di sinistra. I più noti: lo scrittore Fulvio Tomizza, il cantautore Sergio Endrigo, Livio Labor presidente Acli e senatore del Psi, Rossana Rossanda fondatrice de Il manifesto.

“Non mi pento di aver aderito al socialismo”, dice. “Le tradizioni operaie nelle nostre terre, nelle città portuali e cantieristiche come Fiume e Pola, erano radicate. Ma non impedirono ai fiumani e agli istriani di andarsene dopo la loro annessione alla Jugoslavia comunista. È fondamentale precisare ‘comunista’, perché probabilmente una Jugoslavia democratica, liberale, rispettosa delle libertà individuali, non avrebbe provocato il terremoto che c’è stato nel 1945-47, sconvolgendo equilibri secolari. Mi pento, invece, di aver fatto anche mia una narrazione messa in piedi da una parte politica che, avendo grandi responsabilità, non ha esitato a infangare le sofferenze e la tragedia di un intero popolo, dipingendo l’esodo come la reazione di una massa di furfanti fascisti che scappavano dalle maglie della giustizia socialista, messi in fuga dalla lotta popolare antifascista. Mentre era una messa in salvo dal terrore – foibe, intimidazioni, minacce, espropri, licenziamenti, sfratti – imposto dal maresciallo Tito”.

L’altra narrazione della sinistra italiana era, spiega Zandel, la giustificazione di quelle azioni: ritorsioni degli slavi per l’aggressione fascista dei Balcani nel 1941, le stragi, i campi di concentramento, l’italianizzazione forzata del ventennio. Tutte cose che ci possono stare. Ma che non sono da mettere in corrispondenza diretta con il popolo istriano, fiumano e dalmata, che aveva una secolare tradizione di convivenza tra etnie diverse, con incroci ad ogni livello. Zandel stesso è di famiglia mista. Dice il fiumano Andor Brakus, nato in un campo profughi pugliese nel 1952: “Se una delle etnie presenti sul nostro territorio fosse stata di colore, la stragrande maggioranza di noi sarebbe mulatta”.

Piškulić è stato processato dal 1994 al 2002 a Roma per tre omicidi di antifascisti italiani. Oltre a Sincich, Nevio Skull (colpo alla nuca) e Mario Blasich (strangolato nel suo letto): dirigenti autonomisti che si erano rifiutati, fin dai primi incontri nel 1944 con gli emissari di Tito, di accettare l’annessione di Fiume alla Jugoslavia.

Gli autonomisti propugnavano lo Stato libero di Fiume già a fine Ottocento, nei confronti del regno d’Ungheria di cui questa città cosmopolita era il porto; nel 1919 si opposero all’annessione sia alla neonata Jugoslavia sia all’Italia, mettendosi poi anche contro Gabriele D’Annunzio e la sua Reggenza del Carnaro. E finita l’avventura dannunziana nel Natale 1920, fu istituito lo Stato libero di Fiume con Riccardo Zanella presidente. Fino a quando un golpe guidato dal fascista triestino Francesco Giunta non rovesciò Zanella il quale, come altri capi autonomisti, scelse l’esilio.

Nel 1924 Fiume fu spartita fra Italia e Jugoslavia. Tuttavia gli autonomisti continuarono ad essere popolari in città, per cui nel 1944 Tito cercò di coinvolgerli nel suo progetto annessionistico. Quelli rifiutarono, e furono eliminati senza pietà. Oltre alle tre vittime di Piškulić, agghiacciante anche la fine di Angelo Adam: ebreo, antifascista, riparato a Parigi per sfuggire ai fascisti ma lì raggiunto dall’occupazione nazista nel 1940, internato a Dachau, commise l’errore di tornare a casa. Sparì. E con lui la figlia, che era andata a chiederne notizie alle autorità comuniste.

Seguirono anni di violenze con centinaia di omicidi: una stagione di terrore che fece scappare anche i genitori di Zandel, nonostante il padre fosse stato partigiano e l’etnia croata della madre.

“Fra maggio 1945 e dicembre 1947, in tempo di pace, solo a Fiume furono 543 le persone delle quali non si seppe più nulla”, denuncia Zandel. Nel 1946 cominciò l’emorragia dei fiumani. Se ne andarono in 32 mila, il 90 per cento degli abitanti italiani. La pulizia etnica fu completa.

Piškulić, ormai 70enne, è stato giudicato in contumacia dall’Italia dopo il crollo della Jugoslavia. Ma viene assolto per “difetto di giurisdizione”. Sentenza incredibile perché, quando commise i suoi crimini, Fiume era ancora de jure sotto l’Italia. Lui ha ricevuto la pensione Inps fino alla morte. Il 10 febbraio serva almeno per ricordare i nomi delle sue vittime.  

Friday, February 07, 2025

La guerra dei cessi. Ovvero perché vince Donald Trump

Conferenza sull'intelligenza artificiale a Londra, politicamente correttissima: cibo vegano, bagni gender neutral. Però nel centro congressi ci sono solo bagni tradizionali per uomini e per donne. Quindi come si fa?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 7 febbraio 2025

Ecco perché vince Donald Trump. Il mio amico Vittorio Bertola è a Londra per una conferenza sull'intelligenza artificiale politicamente correttissima: cibo vegano, bagni gender neutral. Però nel centro congressi di quest'anno, racconta, ci sono solo bagni tradizionali per uomini e per donne. Quindi come si fa? La scelta è stata quella di lasciare il bagno delle donne come tale, e di etichettare come neutro quello degli uomini.

Però, c'è un problema: il bagno degli uomini, ovviamente, ha gli urinali. Allora, cosa succede se nel bagno neutro entra una persona non binaria che non vuole mostrare i genitali, che magari non sono maschili, oppure si sente turbata dalla presenza nel corridoio di persone di sesso biologico maschile con il pisello di fuori? 

La soluzione è stata di dichiarare tutti gli urinali fuori uso, costringendo a usare soltanto le toilette chiuse. Certo, così durante le pause si forma una discreta coda, ma l'identità mingitoria di tutti è salvaguardata. 

Il maggiore risultato concreto, tuttavia, è che come sempre i maschi hanno mirato male, pisciando qualche goccia fuori dal vaso. Non hanno pulito i bordi del vaso con carta igienica come raccomandava Berlusconi agli iscritti di Forza Italia ("Avete il cesso sporco? Invitate un forzista a casa vostra, lo pulisce lui!", scrisse Cuore nel 1994) e quindi dopo un po' c'era una puzza orribile.

Monday, February 03, 2025

Beatles e Stones premiati ai Grammy. Stavolta il rock è davvero morto

Se infatti occorre assegnare premi postumi resuscitando John Lennon, autore di Now and Then, o premiare ultraottuagenari sgambettanti come Mick Jagger, non è più vero che il "rock and roll will never die", come cantava Neil Young

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 3 febbraio 2025

Beatles e Rolling Stones incredibilmente assieme dopo 60 anni. Hanno vinto il Grammy (l'Oscar della musica), i primi per la 'migliore performance rock' con Now and Then, i secondi per il 'miglior album rock' con Hackney Diamonds. Ma questi due trionfi sanciscono la morte del rock. Se infatti occorre assegnare premi postumi resuscitando John Lennon, autore di Now and Then, o premiare ultraottuagenari sgambettanti come Mick Jagger, non è più vero che il "rock and roll will never die", come cantava Neil Young.

Il rock è morto perché ormai esprime poco o nulla. In mancanza degli unici gruppi che avrebbero potuto rivaleggiare con i vecchi mostri sacri, U2 e Coldplay, i nominati infatti erano altri signori di mezza età su piazza da decenni: Green Day, Jack White, Pearl Jam, Black Crowes. Anche gli Idles sono +40. Gli unici giovani sono i Fontaines, ma anche loro con sei album alle spalle. 

Così, per sopravvivere, il rock deve affidarsi a mummie come gli Stones che hanno appena cancellato il loro tour europeo, o a rifacimenti con l'intelligenza artificale di canzoncine tirate fuori dal cassetto di Yoko Ono, vedova Lennon. 

Nessuno nega la loro grandezza, probabilmente Paul McCartney è stato il maggiore musicista del '900. Ma ormai è da un quarto di secolo che siamo entrati nel nuovo millennio, e continuare a premiare i Beatles è desolante. Se poi a tanto vecchiume aggiungiamo il (bellissimo) film sull'83enne Bob Dylan, 'A Complete Unknown', che fra tre settimane spazzolerà premi Oscar, lo stato comatoso del rock attuale è certificato definitivamente.

 

Già nel 1959 il giorno in cui morirono in un incidente aereo i protorocker Buddy Holly e Ritchie Valens fu definito "the day the music died". Oggi siamo in grado di confermarlo.