Wednesday, October 16, 2024

Fare figli: un dibattito gravido di ridicolo

di Mauro Suttora

La surreale lite fra Bucci e Orlando (candidati alla presidenza della Liguria), e tifoserie al seguito, sul moltiplicarsi e il successo della società. Già pronti al secondo round, con grado di suscettibilità non minore: le politiche per gli animali

Huffingtonpost.it, 16 ottobre 2024  

Far figli è di destra o di sinistra? I liguri hanno undici giorni di tempo per deciderlo, prima di votare alle regionali. Gli schieramenti si sono delineati durante un dibattito tra i candidati alla presidenza Marco Bucci (centrodestra) e Andrea Orlando (centrosinistra).

Forse per ingraziarsi i padroni di casa, visto che la sfida era promossa dalla diocesi di Genova nella sala Quadrivium (fortunatamente non Trivium), Bucci ha osato dire: “Chi fa figli contribuisce al successo della nostra società. Vorrei che tutti quanti facessero e avessero fatto figli”.

Orlando, che non ha figli, ha allora criticato la criminalizzazione di chi non ha potuto averli: “Oggi fare un figlio costa, serve welfare per aiutare le donne a non dover scegliere tra il lavoro e la famiglia, perché è sulle donne che si scarica il lavoro di cura in una famiglia che resta organizzata ancora secondo vecchi schemi”.

Alé, ecco che subito piovono reazioni. Le candidate della coalizione progressista insieme alla Conferenza delle Democratiche, per una volta unite, hanno addirittura stilato un indignato comunicato ufficiale: “Non si risolve la crisi demografica criminalizzando chi non può avere figli. Gravi e inadeguate le parole di Bucci, non tengono in alcun modo in considerazione la complessità della questione e risultano discriminatorie nei confronti di chi, per ragioni personali, mediche o economiche, non ha potuto o non ha voluto avere figli”.

La questione è complessa, compagni: ricordo che alle assemblee del liceo così dicevano quelli del Pci quando non sapevano bene cosa dire. E oggi che va di moda la discriminazione aggiungiamoci pure quella, che male non fa.

Ma il frasifrattese esige un accenno alle colpe della società. “Dove sono le istituzioni?”, urla indignato quel comico della Gialappa's. Proseguono quindi le donne progressiste: “In una regione in cui il divario salariale fra uomini e donne è in crescita, in controtendenza con i dati del resto del nord ovest, in cui le donne guadagnano meno del 30% degli uomini e hanno accesso principalmente a lavori precari e a bassa retribuzione, dove solo tre bambini su dieci hanno un posto all’asilo nido garantito, le parole di Bucci su chi non ha figli suonano profondamente sbagliate”.

Ecco aggiungersi al coro le donne M5s, che si candidano divise ma colpiscono unite: “Ci sentiamo profondamente offese dalle dichiarazioni di Bucci, che riducono il valore delle persone e in particolare delle donne al fatto di avere o meno figli. Affermare che solo chi ha figli contribuisce al 'successo della nostra società’ è un messaggio pericoloso, discriminatorio e indiscutibilmente inaccettabile. Qualcuno informi Bucci che siamo nel Terzo Millennio".

Si aggiunge la deputata pd Valentina Ghio: “Bucci dovrebbe chiedere scusa a tutte le donne. Chi si candida a governare una regione dovrebbe avere rispetto e la capacità di proporre ricette per sostenere la natalità e le donne in percorsi di vita e lavoro sempre più complicati. Dovrebbe parlare di superamento del gender pay gap, di congedi paritari retribuiti, di rafforzamento dei servizi di welfare”.

Poteva mancare la segretaria confederale della Cgil, Lara Ghiglione? “Anche Bucci, come la destra al governo, pensa di contrastare la denatalità colpevolizzando chi non ha figli, anziché indicare come soluzione gli investimenti in servizi pubblici a supporto della genitorialità e il lavoro stabile ed equamente retribuito, soprattutto per le madri lavoratrici che pagano il prezzo più caro dopo la nascita di un figlio”.

Travolto dalle reazioni, Bucci dopo qualche ora risponde: “Pura speculazione di chi travisa le parole. Ho soltanto detto che vorrei che tutti avessero figli. Credo che sia l’augurio di tutti, anche di chi purtroppo non può averli, ma vorrebbe. Anzi, immaginiamo un supporto anche per chi ha queste difficoltà. Noi vogliamo una Liguria giovane, dinamica, rispettosa delle generazioni. Senza giovani, anzi, senza figli, la Liguria non può esserci. Orlando e il Pd soffrono di vittimismo e non hanno argomenti con i quali parlare ai liguri”.

Lo spalleggia Lorenza Rosso, assessora e candidata: “Bucci ha detto che vuole una Liguria giovane, che abbia un futuro. Che si augura che tutti abbiano figli. E allora? Come si fa a non essere d’accordo? Cosa c’è di male in questa affermazione? Da donna non posso che essere d’accordo con lui. Da Medioevo è piuttosto sfruttare il dolore di chi non può avere figli per un uso propagandistico. Il sostegno a tutte le famiglie e ai giovani deve essere un preciso compito della politica”.

Sente il bisogno di esprimersi anche la candidata di centrodestra Stefania Cosso, che la butta sul cuore: “Sono allibita nel leggere che Bucci è finito sotto accusa per aver detto che vorrebbe che tutti abbiano figli. È un auspicio bellissimo, un augurio che non si può non condividere. A meno di guardare tutto con gli occhi della negatività, con il cuore prevenuto. Credevo che chiunque auspicasse per tutti i liguri la gioia dei figli. Evidentemente non è così. Credo proprio che per primo chi, purtroppo, non può avere figli, non possa condannare un augurio positivo”.

Nel dibattito interviene infine l'assessora al Commercio di Genova, Paola Bordilli, candidata per la Lega: “Appartengo a quel gruppo di donne che non hanno ‘potuto avere figli’, per citare le parole di Orlando. Nel mio caso, non potrò mai averne a causa di importanti motivi di salute. Non ne faccio mistero e non ne faccio schermo. Nondimeno, non mi sento minimamente ‘discriminata’, sempre per usare le parole di Orlando, perché continuo a dare ugualmente il contributo alla società in cui vivo. Parlare di maternità e di natalità è un tema troppo complicato da poter liquidare in una replica. Come donna non mi sento offesa da Bucci: c’è chi ha il dono di poter avere figli e chi ha ricevuto altri doni e talenti. Ho frequentato le scuole presso le suore e non credo che le consorelle abbiano dato di meno rispetto alle mamme”.

Bene, ogni aspetto della questione è stato sviscerato. Nessun riferimento a Mussolini, perché in realtà destra e sinistra sono unite nell’auspicare più figli. Ma nessun politico può permettersi di aggiungere alle numerosissime cause sociologiche della denatalità, che so, la voglia di viaggiare e di spendere in vacanze invece che in pannolini. Protesterebbero gli albergatori, che in Liguria sono tanti e votano. O le giovani coppie accusate di egoismo.

Quanto al prossimo tema fondamentale di dibattito, già lo preannuncia Bucci: “Nel programma di Orlando non c’è nulla sugli animali”. Prepariamoci ad altre suscettibilità irrimediabilmente ferite. 

Sunday, October 13, 2024

Milano ha la sua quinta metro, Roma solo ritardi e stazioni saltate. Il Terzo mondo funziona meglio

Nuova Delhi ha appena completato le dieci linee della nuova metropolitana iniziate nel 1999: 24 anni. Altro che Capitale

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 13 ottobre 2024
Ieri è stata inaugurata la quinta linea della metropolitana di Milano. Anzi la sesta, considerato il passante ferroviario. Si chiama M4 perché era stata progettata prima della 5, aperta però in anticipo per via dell'Expo 2015. Quindi, sessant'anni dopo il primo metrò, quello rosso del 1964, ecco aggiunte altre 21 fermate del blu che collega Milano da est a ovest: dall'aeroporto di Linate direttamente in centro (San Babila, Policlinico, Santa Sofia, Vetra, De Amicis, Sant'Ambrogio) per poi allungarsi verso i quartieri Giambellino e Lorenteggio.

Nella giusta euforia delle cerimonie odierne nessuno parla del macigno finanziario che graverà sul comune di Milano nei prossimi vent'anni: i tre miliardi e mezzo del costo di questi 15 chilometri, infatti, dovrà ripagarli al ritmo di 174 milioni annui. E già oggi i ben 2,20€ del prezzo del biglietto coprono solo la metà del bilancio Atm (Azienda trasporti milanesi). Ci vorrà quindi un aiuto statale. Ma Milano se lo merita, perché almeno le metropolitane le fa. Mentre Roma si dibatte in ritardi da terzo mondo.

Il confronto è impietoso. La prima metro (che nella capitale è femmina) fu iniziata dal fascismo per collegare la stazione Termini all'Eur. La galleria fino a Piramide servì da rifugio antiaereo durante la guerra. Finita nel 1955, è stata prolungata fino a Rebibbia e Montesacro. La seconda linea è del 1980. Poi più nulla fino a dieci anni fa, quando si aprì la linea C ma solo nel tratto fino a San Giovanni. Progettata nel 1990 per il giubileo del 2000, la terza linea romana è diventata leggendaria: non sarà pronta neanche per i giubilei 2025 e 2033.

Ma il tratto Colosseo-Farnesina è entrato nel guinness dei primati anche perché sarà la prima metro al mondo senza fermate in centro. Da piazza Venezia a San Pietro, infatti, sono state cancellate le stazioni di largo Argentina e piazza Risorgimento. Resta solo quella di Chiesa Nuova, su corso Vittorio. Ma è distante ben un chilometro e 200 metri da piazza Venezia. Disperati, tre mesi fa alcuni consiglieri comunali hanno chiesto di spostarla verso le piazze Navona, Farnese e Campo dei Fiori, per farla diventare più “baricentrica”.

Una delle regole fondamentali delle metropolitane è che ci sia una fermata almeno ogni 400 metri, al massimo mezzo chilometro. Altrimenti non servono a nulla, bisogna camminare troppo. 
La stazione Argentina è saltata 16 anni fa per il ritrovamento di reperti archeologici. Il problema è che tutto il centro ha sottoterra le rovine dell'antica Roma. Quindi, se si rimane prigionieri della smania conservazionista, non si può scavare da nessuna parte. E chi se ne importa se i reperti rimarranno comunque sepolti, perché non si possono certo abbattere le case per 'valorizzarli', come fece Mussolini con i Fori imperiali e gli altri quartieri sventrati.

Insomma, alla fine ci vorrà mezzo secolo per completare la terza linea metro di Roma, contro i nove anni per la sesta di Milano. Costerà sei miliardi e forse più, rispetto ai due previsti. Ma al comune non importa molto, perché con la scusa dei giubilei e delle varie leggi per Roma Capitale a pagare è lo stato, e non la città come a Milano. Intanto, Nuova Delhi ha appena completato le dieci linee del nuovo metro iniziate nel 1999: 24 anni. Quindi ci scusiamo: il paragone di Roma col Terzo mondo è errato.

Thursday, October 10, 2024

Come si manganella l’uomo di sinistra che pubblica un post filoisraeliano

Ricordate Marco Boato? Su Facebook condivide il pensiero di una donna araba che si sente libera perché vive in Israele. Reazioni (anche da compagni di partito e affini): assetati di sangue, colonialisti, gente di m., servo dei razzisti, servo dei suprematisti e così via.

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 ottobre 2024

Povero Marco Boato. Monumento vivente dell'ecologismo, a 80 anni è presidente dei verdi italiani, resuscitati grazie al 7% alle europee in Avs (Alleanza verdi sinistra). Fondatore di Lotta continua nel 1968, sei legislature alle spalle, la prima con i radicali nel 1979: in totale 60 anni di politica.

Sempre attivissimo, ieri ha pubblicato su Facebook questo post: “Sono una donna araba, posso andare all’università, posso essere una dottoressa, posso candidarmi per una carica, perché io vivo in Israele”.

È stato subissato di insulti, anche da parte di compagni di partito, tanto che ha risposto: “A questo post, non mio ma semplicemente da me condiviso, vedo che sono seguiti oltre 150 commenti. Qualcuno/a ha chiesto di rimuoverlo, cosa che mi guardo bene dal fare, anche se il tenore insultante nei miei confronti di qualche commento mi indurrebbe a farlo. Ognuno/a ha detto la sua, attribuendo a questo semplice post intenzioni fuorvianti e allargando la discussione oltre ogni misura. Sono per la libertà di pensiero e di parola e ripudio ogni forma di censura, anche di eventuale auto-censura.

Certo che questo clima di odio mi fa orrore. Si invoca la pace, ma si usano parole di guerra. Per questo ho evitato di intervenire ulteriormente. Mi dispiace per qualche amico/a che evidentemente non lo capisce. Non vorrei essere diventato anch’io un ‘nemico’ per qualcuno/a, ma mi sottraggo a questa dinamica per me inaccettabile. Rispetto”.

Ecco un florilegio dei commenti ricevuti.

Anna Merlino: “Che persone orrende hai cooptato in questo post, Marco Boato: il peggio del razzismo coloniale, negazionisti dell’orrore, gente che gode ad eliminare fisicamente un’intera popolazione, accecati dalla loro presunta superiorità. Che gente di m.”.

“Sempre assetati di sangue, ma vi rilassate ogni tanto? Vi piace così tanto fare i colonialisti? Sono più di 70 anni che martoriate un’intera area, in nome di un non precisato diritto divino. Basta!”.

Valeria Manna: “Mi domando proprio perché abbia pubblicato una pubblicità così assurda di Israele. Davvero”.

Anna Merlino bis: “Evidentemente la pensa proprio così, si scoprono cose nuove, anche se condivido la militanza nello stesso partito, resto stupita dalla vera natura di certi ‘compagni’”.

Chiara Santacroce: “Ti rendi conto che hai postato una boiata, che in questo momento è persino criminale (come lo Stato di Israele)? Sì? Allora levala, va”.

Stefano Apuzzo, già deputato verde, candidato Avs alle europee 2024: “Marco, fallo per la tua lucidità e onestà intellettuale, leva sta merda!”.

“[Questa donna] può anche essere massacrata impunemente dall’esercito suprematista bianco e fascio sionista, con tutti i suoi figli e figlie piccole, in Gaza, Cisgiordania, Libano, Iraq, Siria, Iran. Può anche essere considerata una sub umana, cittadina di serie C nello Stato teocratico, razzista e colonialista d'Israele!”.

Cesare Manca: “Come sei caduto un basso Marco Boato vergogna”.

Rita Barbieri, ex assessore municipale Sel a Milano: “Post penoso e stupido! Ma alla sua età ha ancora bisogno di accreditarsi come servo dell’impero suprematista e razzista? Spero in una risposta a tono dalle donne palestinesi”.

Danilo Zappitelli: “Si deve far perdonare il suo passato. Anche lui tiene famiglia. Da lotta continua a famiglia continua”.

Maria Teresa Murgia: “Sei un influencer di Israele per caso?”

Friday, October 04, 2024

L'eterna storia delle accise, da Mussolini a Meloni

di Mauro Suttora

La premier fino a due anni fa voleva imitare la generosità del duce, l'unico ad averle diminuite nella storia d'Italia, e registrò un simpatico video cabaret di propaganda che le procurò parecchi voti. La dura realtà dei conti da far quadrare l'ha costretta a defascistizzarsi

Huffingtonpost.it, 4 ottobre 2024

L'unico che ha diminuito le accise nella storia d'Italia fu Benito Mussolini: nel 1925 dimezzò quella sulla benzina, da 60 a 30 lire al quintale. Fu una delle mosse che consolidarono la dittatura fascista. Altro dimezzamento nel 1936, per festeggiare la nascita dell'impero. Nel frattempo però l'aveva decuplicata, con la scusa della depressione del 1929 e poi della guerra in Etiopia.

Giorgia Meloni fino a due anni fa voleva imitare la generosità del duce, e registrò un simpatico video cabaret di propaganda che le procurò parecchi voti.

La dura realtà dei conti da far quadrare l'ha costretta a defascistizzarsi. Quindi niente diminuzione delle accise, né tantomeno abolizione come aveva populisticamente promesso. E ora siamo all'inversione a U: l'accisa sui carburanti aumenterà. Poche ore dopo averlo annunciato, ha dovuto fare di nuovo marcia indietro. Le proteste hanno trasformato la stangata in una "rimodulazione". Nessuno sa cosa significhi. Probabilmente l'accisa sul gasolio aumenterà di dieci centesimi al litro, per pareggiare quella sulla benzina a 72 cent. 

È da quando siamo piccoli che le accise ci perseguitano. Leggendari gli aumenti con il pretesto della crisi di Suez nel 1956, poi del Vajont (1963) e dell'alluvione di Firenze (1966). Ma almeno erano solo dieci lire in più al litro. Invece il terremoto in Friuli ci costò cento lire al litro, e da allora ogni sisma ha fatto aumentare il prezzo della benzina, fino a quello in Emilia nel 2012. 

E le missioni Onu? Quando facciamo il pieno ricordiamoci che stiamo pagando i nostri soldati in Libano dal 1982. Loro sono ancora lì, e pure le 200 lire in più, e le 22 lire per i caschi blu in Bosnia dal '95. Devono ringraziare le pompe di benzina anche i ferrotranvieri per il loro contratto del 2004, e fra i più balzani motivi di aumento ci sono acquisti di bus ecologici, l'arrivo di migranti libici e finanziamenti alla cultura. 

Il risultato di questo variopinto minestrone è che oggi, come mostrava la vispa Giorgia nel suo video, su ogni litro di benzina vanno allo stato un euro e sei centesimi (quasi i due terzi del prezzo finale). Perché oltre all'accisa di 72 cent c'è l'Iva di 34. Su un totale di 71 miliardi annui che sborsiamo per i carburanti, 38 sono le tasse. Cosicché abbiamo il gasolio più costoso d'Europa, e per la benzina siamo superati solo da Danimarca, Olanda e Grecia.

 Gli unici a fregarsene sono i maggiori consumatori di carburante: le compagnie aeree, esentasse per il loro kerosene, e i camionisti, beneficiari di sconti sulle accise per vari miliardi annui.

Ogni volta che, anche per motivi ecologici, si cerca di far pagare agli inquinanti tir almeno lo stesso prezzo dei normali automobilisti, scoppia la rivoluzione. Le lobbies degli autotrasportatori sono potentissime, nel 1973 fecero cadere più loro che Pinochet il governo Allende. E il povero presidente francese Emmanuel Macron si è visto bruciare gli Champs-Élysées dai gilet gialli quando ha provato a imporre loro la carbon tax nel 2018.

 Quindi è probabile che qualsiasi aumento delle accise ci venga fatto ingoiare, travestito da "riallineamento", sarà giustificato dal governo con le solite accuse contro Europa, verdi e Green deal. Per poi sprecare i maggiori introiti in bonus, clientele e regalie varie. Almeno il duce usò i soldi delle accise per uno scopo concreto: conquistare Addis Abeba.

Tuesday, October 01, 2024

Dov'era l'Onu in questi decenni? Non si può chiedere a Israele di fermarsi, ora

C'era una risoluzione da far rispettare e che non prevedeva la presenza di Hezbollah in un'area che doveva essere "priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell'esercito libanese e delle forze Unifil"












di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 ottobre 2024 

I venti chilometri di Libano fra il fiume Litani e Israele sono fra i più belli del Mediterraneo: i castelli di Tebnin e Beaufort, le dolci colline coltivate, il quadrimillenario porto di Tiro. Chi viaggia qui o nella vicina valle della Bekaa - come mi è capitato - si stupisce per la distanza fra l'immagine orrenda delle cronache giornalistiche e l'idilliaca tranquillità che sembra regnarvi.

Da 46 anni l'Onu si è incaricato di mantenere la pace (peacekeeping) in questa zona, cercando di smilitarizzarla dopo il primo attacco nel 1978 di un commando palestinese contro kibbutz israeliani, e la risposta di Tel Aviv. 

Missione fallita più volte: nel 1982, quando la rappresaglia israeliana si spinse fino a Beirut, occupando mezzo Libano; nel 2000, quando al ritiro israeliano non corrispose un simmetrico ritiro delle milizie di Hezbollah; nel 2006, quando scoppiò la seconda guerra del Libano; e infine oggi. Quasi mezzo secolo scandito da tante risoluzioni Onu che hanno determinato i compiti dei caschi blu Unifil (United Nations interim force in Lebanon, e interim non è uno scherzo). 

L'ultima nel 2006, la numero 1701. Leggiamola: "Il Consiglio di sicurezza chiede a Israele e Libano l'adozione di misure atte a prevenire la ripresa delle ostilità, che preveda l'istituzione nella zona compresa tra la Linea Blu [la frontiera libano-israeliana, ndr] e il fiume Litani di un'area priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell'esercito libanese e delle forze Unifil

- la piena attuazione degli accordi di Taif e delle risoluzioni 1559 del 2004 e1680 del 2006, che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano, cosicché non possano esserci armi o autorità in Libano se non quelle dello Stato libanese

- l'istituzione di un embargo internazionale sulla vendita di armi e materiali al Libano". 

Non v'è chi non veda che invece anche negli ultimi vent'anni Hezbollah ha imbottito questa teorica zona cuscinetto con centinaia di missili e tunnel. Gallerie larghe non pochi metri come quelle di Hamas a Gaza, ma anche dieci metri, in cui passano camion. Tre mesi fa il partito di Dio (ripetiamo: il partito di Dio) ha imprudentemente pubblicato video in cui orgoglioso mostrava questi 'manufatti' underground. Quanto allo stato e all'esercito libanese, è notorio che non esistono.

Sorgono quindi spontanee due provocatorie domande: dov'erano i soldati Onu in questi decenni? E perché sembra essere Israele, adesso, l'unico a far rispettare la risoluzione 1701, seppure coi suoi metodi spicci?  

Non è una critica ai 10mila militari Unifil, fra i quali i nostri 1.200 italiani. La missione Onu ha avuto 334 morti in Libano in questi 46 anni (sette italiani). È quindi comprensibile che le regole d'ingaggio, decise a New York, non prevedessero di opporsi ai miliziani Hezbollah quando, presumibilmente di notte, scavavano e installavano i razzi iraniani a ridosso d'Israele. Quieto vivere, quieta non movere (cit. Andreotti). In fondo, c'è differenza fra peace keeping e peace enforcing (imposizione della pace).  

Ma davanti a una violazione così patente della risoluzione Onu, c'è da chiedersi se la sua lunga e costosa missione di pace abbia fatto qualcosa di utile, o se sia stata platealmente presa per il naso da Iran e Hezbollah.

Così adesso, all'abituale e un po' stucchevole coro contro gli israeliani che dovrebbero fermarsi subito, loro potrebbero rispondere con una canzone dei Carpenters: "We've only just begun", abbiamo appena cominciato.

Thursday, September 12, 2024

Cinquanta anni fa, l'Etiopia: uno dei peggiori genocidi del Novecento














Quanto a ferocia, Menghistu non è stato secondo a nessuno. Forse solo Pol Pot in Cambogia ha fatto più morti di lui. Amnesty International stima in 500mila le vittime del 'terrore rosso' scatenato contro gli oppositori, per l'Auhrm 700mila morti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 12 settembre 2024

Mezzo milione di morti: esattamente cinquant'anni fa iniziò in Etiopia uno dei peggiori genocidi del '900. Il 12 settembre 1974, un anno dopo il golpe cileno contro Salvador Allende del generale Augusto Pinochet, un altro militare cacciò il sovrano della dinastia più antica del pianeta: Hailé Selassié, negus negesti (re dei re) etiope.

Il giovane ufficiale Menghistu Hailé Mariam era uno dei golpisti del Derg, movimento comunista nazionalista che poi governò l'Etiopia fino al 1991, dopo il crollo del Muro. Ma, differentemente dal Cile, il colpo di stato di Addis Abeba è quasi dimenticato. Già allora, nessun complesso Inti Etiopiani si esibì nelle nostre piazze.

Eppure, quanto a ferocia, Menghistu non è stato secondo a nessuno. Forse solo Pol Pot in Cambogia ha fatto più morti di lui. Amnesty International stima in 500mila le vittime del 'terrore rosso' scatenato da Menghistu contro gli oppositori. L'Auhrm (African union human rights memorial) aumenta il bilancio a 700mila morti. Cifre che fanno impallidire perfino quelle degli efferati massacri compiuti dagli italiani durante il breve dominio coloniale sull'Etiopia (1936-41): dopo il fallito attentato contro il viceré Rodolfo Graziani la nostra rappresaglia fece tremila vittime secondo Angelo Del Boca, 19mila per uno storico inglese. 

Come Muammar Gheddafi cinque anni prima, anche Menghistu all'inizio era soltanto un primus inter pares fra gli ufficiali golpisti appoggiati da Mosca. Ma nel giro di pochi mesi fece fuori quasi tutti i compagni. Micidiale la sparatoria durante una riunione dei dirigenti del Derg, con decine di ammazzati. 

Il mite imperatore 82enne Hailé Selassié, che la leggenda voleva discendente dopo 225 generazioni dal re ebraico Salomone e dalla regina di Saba, venne imprigionato nel suo palazzo. Ma dopo un anno Menghistu lo fece soffocare con un cuscino e seppellire di nascosto tre metri sotto il pavimento di un bagno adiacente al proprio ufficio. Solo nel 2000 i resti del negus furono trasferiti nella cattedrale di Addis Abeba. E pensare che Menghistu, come tanti ufficiali etiopi, aveva trascorso anni di addestramento nelle accademie militari Usa. Ma dell'America assorbì soprattutto il Black power, cosicché tornato a casa virò a sinistra. Sovietici e cubani lo armarono nella guerra dell'Ogaden contro la Somalia. Negli anni '80 pure l'Italia lo aiutò, per lenire la tremenda carestia del Tana Beles.

Durante i 17 anni del regime di Menghistu il centro del terrore era il carcere di Alem Bekagn, dove furono torturati e uccisi migliaia di dissidenti. Anche comunisti: particolare acribia il dittatore utilizzò nello sterminare gli aderenti ai partiti marxisti non fedeli alla sua linea. Il patriarca della chiesa etiope Teofilo fu segretamente strangolato in carcere tre anni dopo il suo arresto.

Era la stessa prigione di Addis Abeba dove i ribelli etiopi erano stati internati dagli italiani, e poi i nazionalisti eritrei dagli etiopi. Nel 2007 l'edificio è stato rasa al suolo per far posto al nuovo palazzo dell'Ua (Unione africana).

Soltanto nel 2008 l'Etiopia ha condannato a morte Menghistu per genocidio, dopo un processo durato ben dodici anni. Ma il dittatore giá nel 1991 era fuggito nello Zimbabwe, protetto dal suo amico Robert Mugabe. E si trova ancora lì, a 87 anni. Neanche il nuovo governo di Harare lo vuole estradare in Etiopia, dopo la morte di Mugabe. Così probabilmente Menghistu morirà tranquillo nel proprio letto, come il satrapo ugandese Idi Amin Dada o il cannibale centrafricano Jean-Bedel Bokassa. Almeno Pinochet finì i suoi giorni agli arresti domiciliari. 

Thursday, September 05, 2024

Le donne afghane cantano, e cantano Bella Ciao


di Mauro Suttora

Contro la tirannia dei talebani, come le donne iraniane contro quella degli ayatollah. Un canto dalle origini misteriose che ormai è l’inno di resistenza in tutto il mondo (solo in Italia ci si litiga sopra)

Huffingtonpost.it, 5 settembre 2024

E con l'Afghanistan ha fatto l'en plein. La nostra canzone Bella Ciao è diventata indiscutibilmente l'inno per la libertà più celebre del mondo, dopo che perfino le ragazze afghane lo hanno adottato per protestare contro l'ultimo decreto dei talebani. 

Due settimane fa il loro capo Hibatullah Akhundzada ha promulgato 35 articoli che vietano alle donne di avventurarsi fuori casa da sole: perfino sui bus devono essere accompagnate da un tutore. Ma, soprattutto, non possono più parlare nei luoghi pubblici. Né leggere ad alta voce. E men che meno cantare.

Si è scatenata allora la loro rivolta. Che si sparge nel mondo tramite i social, con il canto collettivo di Bella Ciao tradotto nella lingua pashtun.

La fortuna internazionale del brano è abbastanza recente. Ma non c'è manifestazione politica degli anni 2000 che non l'abbia scelta come propria bandiera. Dai turchi contro il presidente Erdogan ai curdi di Kobane, dai greci antiUe ai Fridays for Future verdi, fino ai francesi colpiti dagli attentati al Bataclan, agli argentini, o alle giovani iraniane torturate dagli ayatollah. 

Al successo planetario ha contribuito la serie spagnola La casa di carta, trasmessa da Netflix. E poi il remix del dj di Marsiglia Hugel, che dal 2018 ha ottenuto solo su YouTube 200 milioni di visualizzazioni. Così Bella Ciao ha soppiantato tutti gli altri canti da manifestazione: Marsigliese, Internazionale, Blowin' in the Wind, Imagine. 

Una bella soddisfazione per noi italiani. Che però non ne conosciamo le origini. Inno della Resistenza antifascista? Falso. "Non l'abbiamo mai cantata", assicurò Giorgio Bocca. Al quale però la cantarono i compagni partigiani al suo funerale nel 2011. 

Perché nel frattempo Bella Ciao era stata adottata dagli antifascisti, a ogni 25 aprile. Pare che la canzone sia stata presentata per la prima volta fuori d'Italia a un Festival internazionale dei giovani comunisti a Praga nel 1947: un successone. 

Ma ancora negli anni '50 le raccolte degli inni della Resistenza la ignoravano. La data spartiacque è il 1964, quando l'orecchiabilissimo ed entusiasmante motivo fu presentato al colto festival di Spoleto dal gruppo folk Canzoniere Italiano. 

Da allora ogni corteo di sinistra in Italia l'ha intonata a squarciagola, con tanto di battimani nel ritornello. Ma anche i democristiani, dopo il congresso che elesse segretario il partigiano Benigno Zaccagnini nel 1975. 

Personalmente ricordo i cortei di noi liceali udinesi che negli anni '70 la cantavamo quando arrivavamo all'altezza di viale Ungheria, i cui alti palazzi producevano un fantastico effetto rimbombo (poi urlavamo anche "Ce n'est qu'un debut, continuons le combat!", che però la cadenza friulana trasformava in un incomprensibile "Senné Zandegù...", dal nome di un famoso campione di ciclismo). 

Ma allora, se all'inizio non era un canto partigiano, da dove viene Bella Ciao? La prima melodia simile fu incisa nel 1913 da un musicista tzigano, e in effetti l'atmosfera è quella dei brani yiddish: un po' slavi, un po' ebraici, sicuramente europei orientali. 

Nella valanga di ricostruzioni storiche non mancano le canzoni delle mondine, i partigiani della Maiella e le musiche dalmate. Con annesse dispute su diritti d'autore, accuse di plagio e appropriazioni indebite. Ma alla fine nessun autore né paroliere riconosciuto: una canzone popolare appartiene al popolo.  

Forse è giusto che sia così. Le origini dei miti hanno da essere un po' nebulose, altrimenti si perde l'alone del mistero che crea la leggenda. E magari ci si riduce ad attribuire a Yoko Ono il testo della splendida Imagine del povero John Lennon.