Thursday, September 04, 2025

Recensione Green di Archiviostorico.info

Mauro Suttora

Green

Da Celentano a Greta, storia avventurosa degli ecologisti

Neri Pozza, pagg.256, € 20

 https://www.archiviostorico.info/libri-e-riviste/10802-green 

Con "Green" Mauro Suttora compie un tentativo riuscito di articolare una narrazione storica complessiva del movimento ambientalista con particolare riferimento all'evoluzione italiana, pur in costante dialogo con il contesto internazionale. Giornalista di lungo corso con esperienza diretta sui principali fronti geopolitici e ambientali dell'ultimo quarantennio, Suttora adotta una prospettiva dichiaratamente "popolare", che tuttavia non pregiudica la qualità documentaria dell'opera, né la sua coerenza analitica. Il volume si propone come una sintesi storica accessibile ma metodologicamente sorvegliata, capace di restituire la complessità di un movimento eterogeneo, mobile e attraversato da profonde trasformazioni culturali e politiche.

  Il racconto si apre nel 1966, con il riferimento simbolico al brano "Il ragazzo della via Gluck", interpretato da Adriano Celentano al Festival di Sanremo: una scelta che, al di là del valore aneddotico, segna l'ingresso della sensibilità ecologica nella cultura di massa italiana. Pochi mesi più tardi, la fondazione della sezione italiana del WWF a opera di Fulco Pratesi costituirà un punto di svolta più formalizzato nella nascita di un ambientalismo organizzato. Già nel 1955, tuttavia, l'associazione Italia Nostra si era posta l'obiettivo di difendere il patrimonio culturale e paesaggistico nazionale, anticipando alcuni degli assunti metodologici del successivo movimento ecologista, con un'attenzione particolare alla pianificazione urbanistica e alla conservazione del territorio.

  Il percorso tracciato da Suttora si sviluppa secondo una scansione cronologica che copre oltre sei decenni di storia ambientale, mantenendo una costante attenzione al nesso fra crisi ecologica, mutamenti economici globali e rappresentanza politica. Centrale, in questo senso, è la riflessione sul Rapporto "The Limits to Growth" (1972), commissionato dal Club di Roma e realizzato da un'équipe del MIT sotto la direzione di Donella e Dennis Meadows. L'autore ne coglie la portata paradigmatica: non solo in termini di diffusione dell'idea di "limiti biofisici" alla crescita economica, ma anche per il suo ruolo nel riformulare l'intero impianto epistemologico delle politiche di sviluppo.

  Il volume prosegue con l'analisi delle diverse fasi di istituzionalizzazione dell'ambientalismo, a partire dalla formazione dei primi partiti verdi europei. In Italia, la nascita delle Liste Verdi nel 1987 rappresenta un episodio cruciale, benché il consenso elettorale non abbia mai superato la soglia del 6% a livello nazionale (elezioni europee del 1989). Suttora non elude le criticità strutturali che hanno ostacolato il radicamento dell'ecologismo politico nel panorama italiano: l'eccessiva frammentazione organizzativa, l'incapacità di elaborare una proposta coerente oltre la dimensione protestataria, la tendenza alla subalternità nei confronti di coalizioni maggiori.

  Il disastro di Černobyl' del 1986 viene correttamente individuato come catalizzatore di un'opposizione al nucleare che in Italia trovò una traduzione politica diretta nel referendum abrogativo del 1987, il cui esito sancì il progressivo disimpegno del Paese dall'energia atomica. L'autore ricostruisce con precisione il contesto internazionale, inserendo il caso italiano all'interno di una più ampia ondata antinucleare che ha attraversato l'Europa negli anni Ottanta. Similmente, la Conferenza di Rio del 1992 viene analizzata come momento di passaggio verso una nuova fase dell'ambientalismo, sempre più orientata al problema delle emissioni climalteranti e del riscaldamento globale, con il conseguente spostamento dell'attenzione dal localismo originario alla dimensione planetaria della crisi ecologica.

  Degna di nota è la parte dedicata ai riconoscimenti istituzionali ottenuti da figure simboliche del nuovo ambientalismo globale. La keniota Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement, prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la Pace (2004), incarna un'ecologia profondamente intrecciata con le istanze di giustizia sociale e di emancipazione femminile. Similmente, il Nobel assegnato ad Al Gore nel 2007, in seguito alla diffusione del documentario "An Inconvenient Truth" (2006), segnala l'emersione di una sensibilità ecologista nel cuore stesso delle élite transnazionali.

  Suttora dedica particolare attenzione anche alla svolta contemporanea rappresentata dall'attivismo giovanile, con l'irruzione sulla scena pubblica di Greta Thunberg nel 2018 e la nascita del movimento Fridays for Future. La trattazione è equilibrata e scevra da entusiasmi retorici: l'autore ne riconosce la capacità di catalizzare l'attenzione mediatica e riattivare la mobilitazione collettiva, ma non tace i limiti dell'azione simbolica, né le difficoltà strutturali nel tradurre la protesta in cambiamento legislativo stabile. L'analisi tocca anche i casi controversi di disobbedienza civile e vandalismo a fini dimostrativi, collocandoli all'interno di una riflessione più ampia sulle tensioni fra urgenza climatica e legittimità democratica delle forme di lotta.

  L'ultima parte del volume affronta con competenza il quadro normativo internazionale, dal Protocollo di Kyoto (1997) all'Accordo di Parigi (2015), per giungere al Green Deal europeo, che sancisce l'impegno dell'Unione verso una transizione climatica strutturale. Suttora evidenzia con lucidità le contraddizioni di tale processo, in particolare gli effetti redistributivi della transizione energetica, che rischiano di accentuare diseguaglianze sociali e squilibri economici. Particolare rilievo è dato al fenomeno del "negazionismo di Stato", esemplificato dal ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sotto la presidenza di Donald Trump, poi revocato con l'insediamento di Joe Biden.

  L'autore attinge a una vasta gamma di materiali – documenti istituzionali, articoli giornalistici, interviste, dati statistici – selezionati con attenzione e contestualizzati criticamente. Lo stile, pur narrativo, mantiene un registro sobrio e scorrevole, adatto a una lettura colta ma non specialistica.

  Nel complesso, il volume si configura come un contributo significativo alla storiografia sull'ambientalismo, colmando una lacuna nella saggistica italiana recente.

La Redazione, 2 settembre 2025

Tuesday, September 02, 2025

Sì è genocidio. Lo hanno deciso genocidiologi autonominati

La bizzarra pronuncia della Iags, che ha votato la sentenza su Israele fra i suoi membri. Si diventa tali se ci si dichiara attivisti dei diritti umani e si paga una quota. La giuria di Ponzio Pilato dava più garanzie

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 2 settembre 2025 

Lo ha deciso la Iags, International association of genocide scholars: Israele è colpevole di genocidio a Gaza. Scansatevi, corti internazionali dell’Aia che un anno fa avete aperto inchieste e disposto l’arresto di Bibi Netanyahu, ma non avete ancora concluso niente. La sentenza è arrivata ieri, inappellabile, emessa dall’Associazione internazionale degli studiosi di genocidio. I quali ammontano a ben 500, e l’86 per cento di loro ha votato contro Israele. 

Incuriositi, siamo andati a vedere chi sono i membri di questo consesso. Definito da qualcuno “il più autorevole al mondo”. Può darsi, anche perché è l'unico a occuparsi della triste materia. 

Abbiamo così scoperto che chiunque può iscriversi all’Associazione: basta dichiararsi “attivista dei diritti umani” e pagare online una quota dai 35 dollari annui a 135, a seconda del reddito. Sconto a chi si iscrive per due anni: 50-210 dollari. L’elenco soci sul sito mostra una prevalenza di arabi e terzomondisti, studenti di materie come “studi anticoloniali”, “storia dei movimenti di liberazione in Africa e Sudamerica”, ecc.

Curioso ribaltamento, per un organismo fondato nel 1994 dallo psicologo Israel Charny, dalla sociologa ebrea americana Helen Fein e dal sopravvissuto all’Olocausto Robert Melson. Fino ad allora il dibattito era sull’equiparazione del genocidio armeno a quello ebraico, con molti studiosi trincerati sull’unicità di quest’ultimo. Difficile ottenere lo status di genocidio anche per l’Holomodor ucraino del 1933 e per quello cambogiano del 1975-78. 

Poi, con lo sterminio dei tutsi ruandesi e la strage di Srebrenica nel 1995, il concetto di genocidio si è ampliato. E si sono moltiplicate le cattedre sull’argomento nelle università di tutto il mondo. Cosicché oggi i soci dell’Associazione spaziano dai curdi che chiedono un riconoscimento per i loro supplizi agli appassionati di giustizia di transizione, riparativa, di popoli indigeni, autoritarismo, gender, terapia del trauma, diritti 2SLGBTQI+. Insomma, quel tipo di studi accademici finiti nel mirino della presidenza Trump.

Nell’elenco dei membri Iags abbiamo trovato due soli italiani: i docenti universitari Flavia Lucenti, non più attiva, e Stefano Saluzzo, che insegna diritto internazionale all’ateneo del Piemonte orientale.

Fra un mese l’Associazione terrà il suo congresso biennale in Sud Africa. Sede appropriata, visto che è stato il governo di Johannesburg a chiedere l’incriminazione di Israele per genocidio a Gaza.

Quale valore giuridico ha il pronunciamento dei “genocidiologi”? Zero. Quanto al peso politico di questa primizia di sentenza planetaria “democratica”, emessa tramite sondaggio online da studiosi autonominati, probabilmente la giuria della piazza cui Ponzio Pilato fece scegliere fra Gesù e Barabba era più equilibrata. 

Wednesday, August 20, 2025

Fatevi da parte, vi aspetta il livello 11.988 di Candy Crush!

Che cosa spinge i due cacicchi a perpetuare la loro vita politica? Non sanno che in pensione si possono leggere libri, vedere film, fare gite e appagare l’ozio come pare – e cioè tutte cose meravigliose?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 20 agosto 2025

Alcuni dogi veneziani furono accecati alla fine del loro mandato, affinché non cercassero di riconquistare il potere con la forza.

Destino meno crudele ma egualmente ingiusto per Bill Clinton e Barack Obama: costretti alla pensione a 54 e 55 anni dal limite Usa di otto anni per i presidenti. E il francese Emmanuel Macron ne avrà appena 50 quando dovrà andarsene, fra due anni.

Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, invece, sono riottosi. Non vogliono pensionarsi, dopo trenta e vent’anni rispettivamente alla guida (pare eccellente) di Salerno, Bari, Campania e Puglia.

Estirpare i cacicchi dai loro feudi un tempo era facile: bastava regalar loro un ministero a Roma o un euroseggio a Bruxelles. Ma il Pd oggi è impossibilitato a offrire tali sontuosi scivoli: non è alle viste un cambio di governo in Italia, e il prossimo voto europeo sarà nel 2029.

Quindi il 76enne Vincenzo e il 66enne Michele si agitano, non ne vogliono sapere di abbandonare la scena. Chiedono successioni dinastiche (De Luca jr segretario campano del Pd) o una candidatura da consigliere regionale (ma così Emiliano farebbe ombra al candidato presidente Antonio Decaro).

La domanda come sempre è: cosa spinge i politici a reputarsi indispensabili? E quale horror vacui temono, una volta restituiti agli affetti familiari?

Lasciamo perdere le banalità antipolitiche e qualunquiste sull'invincibile piacere del potere, droga che trasforma in cozze. Non conosciamo il numero di nipotini del duo dinamico meridionale. Ma altri prepensionati più illustri di loro hanno dimostrato che “reinventarsi” non è solo un luogo comune per consolare gli ex, privati di risarcimento. Massimo D’Alema si è dedicato a barche, vino, consulenze belliche sudamericane e alti studi di politica estera. Walter Veltroni, fra libri, film, editoriali e interviste subìte o inflitte, risulta onnipresente.

E comunque, chi ha detto che gli anziani devono “darsi da fare”? Godersi la liquidazione significa anche andare al cinema, al teatro e al ristorante, viaggiare, guardare ottimi film in tv, leggere libri stupendi. In una parola: divertirsi.

Naturalmente consigliamo a Vincenzo e Michele di compulsare gli eterni saggi consigli sulla senectute di Cicerone e Seneca, o almeno quelli contemporanei di Beppe Severgnini. Oppure di ascoltare la canzone di Charles Aznavour Devi sapere (lasciar la tavola dopo il dessert). C’è chi si riempie la vita anche solo guardando un tramonto, per non parlare dello sport visto e praticato.

Ma la principale amica del post tfr è la pigrizia. Un ozio creativo probabilmente sconosciuto a Vincenzo&Michele, e che invece impreziosisce la vita. Questo articolo, per esempio, non lo avrei mai scritto se il direttore Mattia Feltri non me lo avesse chiesto, strappandomi alle interminabili partite di CandyCrush (in dieci anni sono arrivato allo stadio 11.988), alla lettura di HuffPost e dei giornali, e al cazzeggio colto di Facebook su Ucraina e Gaza. Ho appena postato su Instagram le foto della gita di lunedì a Sighignola, belvedere fra Como e Lugano.

Ma ora vi devo lasciare, perché mi aspetta l'ultimo film con John Malkovich e Fanny Ardant al cinema Colosseo di Milano. Alle ore 15, per usufruire dello sconto +65 al primo spettacolo dei giorni feriali. 

Friday, August 08, 2025

Resort a Gaza? C'era già, e io ci ho dormito

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it , 8 agosto 2025

Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza. Il più grande, Gush Katif, era enorme: si estendeva per ben dieci chilometri sulla costa sud della Striscia, dal confine egiziano di Rafah. Ci abitavano e lavoravano 7mila coloni, stretti fra le spiagge del mar Mediterraneo e il campo profughi di Khan Yunis.

Quando lo visitai nel gennaio 2001, unico giornalista italiano, Sharon aveva appena scatenato la seconda Intifada con la sua passeggiata nella spianata delle moschee a Gerusalemme. Era considerato un criminale quanto oggi Bibi Netanyahu  perché aveva permesso la strage di Sabra e Chatila nel 1982 in Libano. 

Accanto a questa provocazione, però, Sharon decise di abbandonare le colonie di Gaza. Non per fare un favore ai palestinesi: semplicemente, costava troppo proteggerle dopo la fine dell'occupazione israeliana di Gaza (1967-1994). E solo lui, duro di estrema destra, poteva permettersi una simile ritirata.

Ecco la cronaca della mia visita a Gush Katif, e in particolare al suo villaggio più grande, Neve Dekalim, assieme a Gianni Gelmi, fotografo del settimanale Oggi:


Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli. [Gli attentati in quei mesi erano all'ordine del giorno, ndr].

Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.

Accettiamo e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, sapeva già della nostra visita; promette di venire a prenderci con la sua auto.

Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (la guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1994, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano agli insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’94. [Oggi sono 350mila, ndr].

Arriva Vanunu, laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in gran maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. 

E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per poterci sparare”, si lamenta Vanunu.

Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”. 

[Notevoli quantità del latte israeliano prodotto a Gaza andava anche al Cairo, ma ci chiesero di non scriverlo per non rovinare i buoni rapporti con l'Egitto, ndr].

Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto priva di vermi. Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.

Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. I giovani israeliani vi praticavano il surf. 

Ora è protetto da soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commandos palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.

Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.

La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”

La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.

Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate quindici famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.

A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?

“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”

Resort a Gaza? C'era già, e io ci ho dormito

di Mauro Suttora

Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza

Huffington Post, 8 agosto 2025


Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza. Il più grande, Gush Katif, era enorme: si estendeva per ben dieci chilometri sulla costa sud della Striscia, dal confine egiziano di Rafah. Ci abitavano e lavoravano 7mila coloni, stretti fra le spiagge del mar Mediterraneo e il campo profughi di Khan Yunis.

Quando lo visitai nel gennaio 2001, unico giornalista italiano, Sharon aveva appena scatenato la seconda Intifada con la sua passeggiata nella spianata delle moschee a Gerusalemme. Era considerato un criminale quanto oggi Bibi Netanyahu  perché aveva permesso la strage di Sabra e Chatila nel 1982 in Libano. 

Accanto a questa provocazione, però, Sharon decise di abbandonare le colonie di Gaza. Non per fare un favore ai palestinesi: semplicemente, costava troppo proteggerle dopo la fine dell'occupazione israeliana di Gaza (1967-1994). E solo lui, duro di estrema destra, poteva permettersi una simile ritirata.

Ecco la cronaca della mia visita a Gush Katif, e in particolare al suo villaggio più grande, Neve Dekalim, assieme a Gianni Gelmi, fotografo del settimanale Oggi:

Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli. [Gli attentati in quei mesi erano all'ordine del giorno, ndr].

Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.

Accettiamo e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, sapeva già della nostra visita; promette di venire a prenderci con la sua auto.

Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (la guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1994, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano agli insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’94. [Oggi sono 350mila, ndr].

Arriva Vanunu, laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in gran maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. 

E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per poterci sparare”, si lamenta Vanunu.

Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”. 

[Notevoli quantità del latte israeliano prodotto a Gaza andava anche al Cairo, ma ci chiesero di non scriverlo per non rovinare i buoni rapporti con l'Egitto, ndr].

Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto priva di vermi. Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.

Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. I giovani israeliani vi praticavano il surf. 

Ora è protetto da soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commandos palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.

Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.

La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”

La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.

Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate quindici famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.

A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?

“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”

Dall’altra parte dei muri di cemento che fanno da fragile frontiera per questi coloni ebrei ci sono i campi profughi di Gaza, Khan Yuinis, Rafah. Vere e proprie bidonvilles dove i fondamentalisti islamici arruolano facilmente giovani esaltati pronti a farsi martirizzare. 

A pochi metri di distanza, così, si toccano fisicamente la disperazione del Terzo mondo e la supertecnologia degli israeliani. L’assurdo labirinto delle enclaves ebraiche è una spina insopportabile nel fianco dei palestinesi. La prossima settimana andremo a sentire anche le loro ragioni.

E così facemmo, con il risultato che all'aeroporto di Tel Aviv, prima di imbarcarci per l'Italia, subimmo un interrogatorio di terzo grado da parte di giovani ispettori dei servizi segreti israeliani. La nostra colpa? Non aver avvisato il ministero dell'Informazione del nostro viaggio a Gaza. E, ancora peggio: essere andati a intervistare anche i palestinesi dopo i coloni ebrei.

Nel Ferragosto di quattro anni dopo, Gush Katif e Neve Dekalim furono sgomberate. I soldati israeliani rasero tutto stupidamente al suolo, affinché i palestinesi non si impossessassero di case, sinagoghe, scuole e ambulatori. 

Il presidente ebreo statunitense della Banca mondiale, James Wolfensohn, riuscì a finanziare personalmente con mezzo milione di dollari soltanto il salvataggio delle serre, per consegnarle e farle coltivare dai palestinesi. Che però finirono saccheggiate e distrutte anch'esse, perché i poliziotti dell'Anp (Autorità nazionale palestinese) non riuscirono a proteggerle da ladri e vandali. 

Due anni dopo, nel 2007, tutta la Anp fu travolta da Hamas, dopo aver perso le elezioni. E oggi alcuni dei ragazzi che surfavano sulle onde di Gush Katif, o che frequentavano il resort nelle loro vacanze, ci sono tornati come soldati della nuova, ennesima guerra.

Thursday, July 17, 2025

Esuli italiani

Finalmente una mostra, forse persino senza polemiche

di Mauro Suttora

Il ministro Giuli domani annuncia “Frontiera adriatica”, che apre a ottobre al Vittoriano a Roma. Un’idea di Sangiuliano che può prendere dimensioni impreviste. Il problema della parola “foibe” e il frastuono di liti di minoranza

Huffingtonpost.it , 17 luglio 2025

Venerdì 18 luglio il ministro della Cultura Alessandro Giuli presenta alla stampa estera la mostra 'Frontiera adriatica: storie di esuli italiani', che aprirà il 5 ottobre al Vittoriano. Attenzione alle parole: non esuli 'istriani, giuliani, fiumani, dalmati', ovvero i 350mila che abbandonarono le loro case dal 1944 al 1954. Gli organizzatori hanno intelligentemente allargato la definizione, chiamandoli semplicemente 'italiani'.

Ma basterà questo annacquamento semantico a sopire le polemiche sulle foibe, facendo finalmente conquistare a quell'esodo lo status di memoria condivisa super partes?

Fu il precedente ministro Gennaro Sangiuliano, un anno fa, a concedere alla Federazione degli esuli guidata da Giuseppe De Vergottini e Renzo Codarin la prestigiosa sede del complesso monumentale dedicato a Vittorio Emanuele II nel centro di Roma.

L'istituto Vive (Vittoriano e palazzo Venezia) ha messo a disposizione della mostra spazi ristrutturati accanto al museo del Risorgimento. 

Secondo Sangiuliano, però, la manifestazione doveva essere solo "il primo passo verso la realizzazione del Museo del Ricordo qui a Roma, dedicato alla memoria dei martiri italiani delle foibe, massacrati dalla cieca violenza comunista titina. L'esposizione accenderà, in un luogo altamente simbolico e centrale per l'identità nazionale, un faro potente sul buco nero della memoria legata all'esodo. Restituiamo, dopo troppo silenzio, la dovuta visibilità e la giusta dignità alla tragedia delle foibe".

Parole destinate a riaccendere il dibattito, perché a sinistra qualcuno non condivide l'apertura bipartisan con cui anche Giorgio Napolitano, Piero Fassino e Luciano Violante promossero nel 2004 l'istituzione del Giorno del Ricordo, proposto dall'ex missino Roberto Menia. 

Da allora, ogni anno il 10 febbraio (data in cui nel 1947 fu firmata la cessione di Istria, Fiume, isole del Quarnaro e Zara alla Jugoslavia) una manciata di nostalgici comunisti e fascisti rinfocola le polemiche. Ovviamente aumentate con il centrodestra al governo.

A placare gli animi dovrebbe essere la dicitura 'temporanea' apposta alla mostra. Ma non v'è chi non veda che l'ambizione è quella di farla durare almeno fino all'80esimo anniversario della strage sulla spiaggia Vergarolla (Pola), nell'agosto 1946, che spinse migliaia di famiglie terrorizzate a fuggire in Italia. Per poi magari prolungarla fino al 10 febbraio 2027, anniversario a cifra tonda del trattato di Parigi. E giunti a quel punto, perché smontarla? Trasformata in permanente, ecco pronto il museo auspicato da Sangiuliano.

Così, nel cuore di Roma, verrà ricordato un crimine del comunismo. E quelli del fascismo? Basterà a chi vuole coltivare anche la memoria dei partigiani il museo della Liberazione in via Tasso, dove le SS di Herbert Kappler ed Erich Priebke incarcerarono i futuri presidenti Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, e torturarono centinaia di antifascisti come il ministro Giuliano Vassalli?

A Milano, zona porta Volta, è in costruzione il museo della Resistenza. Doveva costare 25 milioni, ora ce ne vogliono altri sei e il sindaco Beppe Sala è andato a chiederli al ministro Giuli. Potrebbe essere questo il prezzo da pagare per pareggiare i conti col museo romano dell'Esodo. 

Intanto, però, c'è chi storce il naso perfino sulla data di inaugurazione della mostra al Vittoriano. Il 5 ottobre 1943 infatti venne infoibata dai partigiani jugoslavi Norma Cossetto, studentessa istriana 23enne con l'unica colpa di avere un padre fascista. 

È diventata il simbolo dei 15mila italiani uccisi o desaparecidos in quegli anni tremendi. Nonostante il presidente Carlo Azeglio Ciampi l'abbia insignita della medaglia d'oro alla memoria, capita ancora che qualche sciagurato insozzi le targhe delle vie a lei dedicate in tutta Italia.

Tuesday, July 15, 2025

Garibaldi fu ferito

Forward #29, 27 marzo 2023

Certo, l’eroe dei due mondi non deve aver preso bene la decisione assunta da Cavour di regalare Nizza alla Francia per convincerla a combattere la seconda guerra di indipendenza a fianco dei piemontesi. I Bianchi diventano Le Blanc e i De Ponti sono Du Pont dall’oggi al domani. 

Quelli che non cambiano mai nome, pur vivendo costantemente in luoghi di frontiera, sono i mercenari: loro e i monaci, spiega Mauro Suttora in “Confini”, sono “gli unici global medievali senza confini”. 

Annibale coi suoi elefanti sembra abbia passato le Alpi al colle delle Traversette del Monginevro, come D’Artagnan nel 1664. I confini infatti sono legati ai monti. Ma non sempre: ogni regola esiste per essere disattesa, cosicché la piccola val Cramariola contesa tra Italia e Svizzera fu assegnata alla prima da un imparziale giudice statunitense nel 1864, l’ambasciatore di Abraham Lincoln George Marsh: riconoscendo nella storia i diritti italiani, il territorio passò di mano senza alcun indennizzo né economico né geografico.

Anche i fiumi sono confini naturali, ma non sempre. Tra Italia e Svizzera il Gaggiolo diventa Clivio, poi Lanza e sfocia nell’Olona. E il Tresa è maschile in Italia e femminile in Svizzera. 

A Gorizia, ma anche tra Turchia e Siria, la frontiera la fa una ferrovia. Tra Italia e Slovenia è stato per decenni il confine più temperato della guerra fredda: oggi sul Collio sloveno verso l’Italia c’è un parco della Pace. Anche per non scordare i cinquantamila soldati italiani e trentacinquemila austriaci morti nell’agosto del 1916 per conquistare la città o per difenderla. Da parte italiana erano i sardi della Brigata Sassari, ragazzi circondati da un mare che non è mai un confine. 

Questo e molto altro è nel libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora, edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2021

Thursday, July 10, 2025

Srebrenica e Gaza

Evoluzione e tradimento del termine "genocidio"

di Mauro Suttora

Per qualificare la mattanza di trent’anni fa, si estese il concetto di genocidio coniato sull’eliminazione degli armeni e applicato a Norimberga. L’ulteriore slittamento per la strage dei palestinesi però non regge (l’autogol del diritto umanitario)

Huffington Post

10 luglio 2025

Fino all’11 luglio 1995 (strage di Srebrenica) per fare un genocidio ci volevano milioni di morti. O almeno qualche centinaio di migliaia. Quindi, in ordine cronologico: armeni, ucraini (Holomodor anni 30), ebrei, cambogiani, etiopi, ruandesi tutsi. Andando indietro, indiani degli Usa, maya, aztechi e incas: genocidi di successo, civiltà quasi sparite.

Tutti sappiamo che l'etimo di genocidio è “uccisione di una razza”. E che la parola fu coniata nel 1944 da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin, per dire l’indicibile e applicarlo al processo di Norimberga.

Dopo Srebrenica, tuttavia, i giuristi in àmbito Onu hanno allargato il significato del neologismo. Per dirla in penalistese, hanno valorizzato l’elemento soggettivo del reato. Quindi ora non c’è più bisogno che un genocidio intacchi significativamente la consistenza numerica di un popolo, di una razza, di una religione: è sufficiente la “volontà” genocidiaria. 

Il generale Ratko Mladic e i presidenti Slobodan Milosevic (Serbia) e Radovan Karadzic (serbi di Bosnia) ammazzarono a sangue freddo 8mila prigionieri bosgnacchi (bosniaci musulmani). Ma se avessero potuto ne avrebbero uccisi molti di più, visto che il loro intento dichiarato era la pulizia etnica.

Esiste però un numero minimo per “integrare la fattispecie del reato” di genocidio? Perché poco prima di Srebrenica si verificarono altri massacri come quello di Tuzla, con decine di vittime. Ma, anche se tutte “concorrevano al medesimo disegno criminoso” (l’eliminazione dei bosniaci croati e islamici), il tribunale internazionale per la ex Jugoslavia non comminò l’ergastolo ai comandanti serbi responsabili.

Vale anche il ragionamento inverso: i numeri dei morti possono essere più alti (12mila le vittime dell’assedio serbo a Sarajevo), ma poiché furono centellinati in quattro anni (1992-96) non sono diventati il “nuovo genocidio” che invece debuttò a Srebrenica.

E oggi? È plausibile accusare Israele di genocidio per Gaza? A parte qualche frase dei gentiluomini Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir (12% alle elezioni del 2022 per la loro estrema destra) nessuno in Israele dichiara una volontà genocidiaria verso i palestinesi. 

Non lo dicono però lo fanno egualmente? I 56mila morti denunciati da Hamas in due anni sono meno dei 65mila civili italiani bombardati dagli alleati nel biennio 1943-45: vittime di guerre tremende, non di uno sterminio preordinato. E infatti non ci sono state accuse di genocidio per le mattanze di Aleppo e Mosul lo scorso decennio. Né risultano esecuzioni a freddo di prigionieri palestinesi da parte israeliana, come accadde a Srebrenica.

Il paradosso è che lo slittamento semantico del genocidio iniziato trent’anni fa in Bosnia fu il risultato dell’applicazione del diritto umanitario. Ovvero della volontà, da parte di benemeriti difensori dei diritti umani come Bernard Kouchner o Emma Bonino, di sancire un “diritto-dovere d’intervento” negli affari interni di un Paese da parte della comunità internazionale, nei casi estremi di patente violazione del diritto alla vita. Di qui l’istituzione del Tribunale penale internazionale.

Mai avrebbero pensato, l’allora ministro francese e la commissaria Ue, che la loro interpretazione estensiva del genocidio avrebbe un giorno armato la propaganda proPal di attiviste come Rula Jebreal o Francesca Albanese.