Wednesday, November 10, 2004
Barbara Bacci e Dominique Green
Lei gli aveva scritto una cartolina. Lui aveva risposto chiedendole aiuto. Da allora Barbara Bacci è diventata la sua migliore amica. E ha voluto stargli vicino. Fino all'ultimo istante
dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora
Oggi, 10 novembre 2004
"Hanno sdraiato e legato Dominique con le mani e i piedi a un letto a forma di croce. Le braccia erano aperte, il corpo tutto coperto. Perfino le mani gli hanno nascosto con un panno, per non far vedere gli spasimi della morte. Solo la parte di un braccio era libera, con le vene dove gli avrebbero iniettato il veleno.
All'interno della stanza c'era un microfono, per far sentire a noi testimoni le sue ultime parole e i rantoli della morte. Lo Stato del Texas prevede che venga resa pubblica perfino la registrazione con la trascrizione di queste frasi. Dominique però parlava con grande difficoltà, per lui era terribile perché non voleva morire.
Era confuso, si sforzava di non piangere, aveva poco fiato. Per noi era molto difficile capire le sue parole. Nessuno riusciva a comprenderne il significato. Gli hanno praticato una prima iniezione, che lo ha reso insensibile. Poi quella con il veleno, che gli ha paralizzato poco a poco il cuore e i polmoni.
Per fortuna la sua agonia è durata soltanto pochi minuti, è morto in fretta. Abbiamo assistito a tre rantoli, poi nella stanzetta è entrato un dottore che ha constatato la morte. Un cappellano gli ha toccato un piede. È stata una scena di una bassezza umana incredibile".
Barbara Bacci, 42 anni, una signora di Cuneo che da anni vive e lavora a Roma come traduttrice, racconta la morte del suo amico Dominique Green. Un ragazzo trentenne di colore giustiziato alle otto di sera di martedì 26 ottobre alla periferia di Houston.
Houston, la città del Texas diventata famosa negli anni Sessanta perché ospita la Nasa, e nei collegamenti da lì i giornalisti di tutto il mondo raccontavano emozionati lo sbarco sulla Luna. Il Texas è lo Stato americano che uccide di più: 18 condannati a morte quest'anno e 331 dal 1977, quando gli Stati Uniti ripristinarono la pena capitale. Più di un terzo del totale, quindi, che è 938. Quest'anno l'America ha giustiziato 53 persone. L'unica notizia positiva è che il numero si è ridotto della metà rispetto a tre anni fa.
Barbara Bacci, sposata con Luis Moriones, spagnolo e traduttore a Roma anche lui, ha conosciuto Dominique per caso dieci anni fa, quando lesse una sua lettera disperata sul quotidiano italiano La Stampa.
Nel 1991 Green era stato arrestato con l'accusa di aver ucciso un uomo nel drugstore di una stazione di servizio, alle cinque del mattino: "Era l'appello di un ragazzo imprigionato nel braccio della morte che cercava qualcuno con cui corrispondere", ricorda Barbara, "e noi rispondemmo con una semplice cartolina, senza pensarci troppo, spinti dalla pietà.
Lui replicò subito con una lettera lunghissima in cui ci raccontava la storia della sua vita. Era nato a Houston, il padre era sempre stato assente dalla sua vita e probabilmente faceva uso di droga. Lo ha visto per l'ultima volta al momento della condanna a morte nel '92. Cinque anni fa abbiamo assoldato un investigatore per trovarlo, promise che sarebbe andato a trovarlo in carcere, ma non lo ha mai fatto. Gli ha solo scritto".
E la madre? "Alcolizzata, drogata, con problemi mentali gravissimi, una personalità multipla al limite della schizofrenia. Dominique non voleva vederla, l'ultima volta che lei andò a trovarlo in carcere fu un anno e mezzo fa. Ma ogni volta che s'incontravano c'erano problemi, cosicché lui la tolse dalla lista delle persone che potevano visitarlo. Al processo aveva pronunciato parole terribili contro di lui, al momento dell'arresto disse addirittura ai poliziotti: "Fate bene a toglierlo dalla circolazione".
In effetti la vita del ragazzo aveva preso una brutta piega. Completamente sbandato, a 18 anni era stato già arrestato per droga e aveva scontato due anni in riformatorio. Naturalmente frequentava cattive compagnie. Come quella di due ragazzi di colore e un bianco che scorrazzavano in auto facendo rapine. Cose di poco conto, bottini da venti dollari, ma alla fine c'è scappato il morto.
Il ragazzo bianco non s'è fatto neppure un giorno di galera, gli altri due hanno accusato lui all'unisono. Green nega di aver sparato, ma non sa chi può essere stato e quindi non fa nomi. Una perizia balistica sul pistolone che sparò, ritrovato nella macchina, non trova impronte di Dominique.
"Nel dicembre '94 dovevo andare negli Stati Uniti", racconta Barbara Bacci, "e quindi ne approfittai per raggiungere anche Houston e vedere in faccia il mio nuovo "amico di lettera". Trovai una persona intelligente, interessante, sensibile. Allora era ottimista, pensava che con un altro avvocato avrebbe potuto risolvere le cose. Ma per me fu una visita scioccante, perché fino ad allora non mi ero resa bene conto di cosa vuol dire essere condannati alla pena di morte: vivere per anni e anni dentro a un carcere in completo isolamento, aspettando di essere uccisi".
Fra la donna italiana e il ragazzo americano nasce l'amicizia. Lui negli Stati Uniti aveva pochi appoggi: soprattutto David Atwood, direttore del Comitato per l'abolizione della pena di morte nel Texas.
"Ma la triste verità è che anche in una città abbastanza grande come Houston", spiega la signora Bacci, "quando c'è un'esecuzione si trovano soltanto pochissime persone disposte a protestare di fronte al carcere: sette, otto, al massimo dieci. Tanto che ad assistere alla fine di Dominique eravamo solo in cinque: due avvocati, Atwood, io e una signora newyorkese, Lorna Kelly, che Dominique aveva conosciuto di recente".
Insomma, anche se del caso Green si sono interessati in Spagna, Francia, Svezia e Germania, l'unica grossa solidarietà è arrivata dall'Italia, con una cinquantina di milioni raccolti per pagare gli avvocati.
E l'animatrice a volte solitaria del comitato per la liberazione di Dominique è stata Barbara Bacci, che è andata in Texas due, tre, anche quattro volte all'anno per dieci anni: "Gli unici appoggi", rivela, "li ho avuti dalla comunità di Sant'Egidio e dalla organizzazione radicale contro la pena di morte Nessuno tocchi Caino, il cui segretario, Sergio D'Elia, è venuto una volta a trovare Dominique".
Ma Green era colpevole o innocente? "Noi siamo contro la pena capitale in ogni caso", risponde la signora Bacci, "ma in questa vicenda particolare sono convinta che Dominique non sia stato quello che ha sparato".
E proprio poche ore prima dell'esecuzione della sentenza, un giudice, con il classico colpo di scena dei film americani, aveva chiesto la riapertura del caso per controllare 280 scatole di documenti riguardanti la vicenda, rinvenute al commissariato.
Niente da fare. Anche questa volta il governatore del Texas si è dimostrato irremovibile. Così come peraltro lo era il suo predecessore George Bush junior, poi diventato presidente. E pensare che nel caso di Green perfino i parenti della vittima, la moglie Bernadette Luckett Lastrapes e i due figli, hanno firmato un appello per la grazia.
"Per me è stato naturale fare quello che ho fatto in questi dieci anni", conclude la signora Bacci, "e purtroppo non è finita qui. Perché io a Houston vengo ospitata nella casa di un altro condannato a morte, Anthony Fuentes, che dovrebbe essere giustiziato fra tre settimane. Era il migliore amico di Dominique, dormiva nella cella attigua e assieme a lui giocava a pallacanestro in cortile: ma solo in due, numero massimo consentito. C'era un terzo loro amico. È stato ammazzato tre settimane fa. Queste sono cose inumane, e spero che il nostro impegno per salvare Dominique sia servito a qualcosa".
Mauro Suttora
Saturday, October 09, 2004
Zalmay Khalilzad
di Mauro Suttora
Il Foglio, sabato 9 ottobre 2004
New York. Nel 1968 un afghano diciassettenne
sbarcò negli Stati Uniti con una
borsa di studio Afs (American Field Service).
Frequentò l’ultimo anno di high
school, giocò a pallacanestro, s’innamorò
dell’America, ma poi dovette tornare a Kabul
a finire il liceo. Zalmay Khalilzad però
era così fissato con gli Usa e il basket che
riuscì a convincere i genitori a iscriverlo a
un’università a stelle e strisce. Unico compromesso:
quella più vicina a casa. L’American
University di Beirut, quindi.
Intanto gli era cresciuta la barba, Nixon gli
era antipatico, contestava. Ma studiava,
era bravo, e quindi eccolo sbarcare all’università
di Chicago: dottorato in scienze
politiche. Basta basket, e amicizia con
Paul Wolfowitz fresco di Ph.D. Ma quando
nel ’79 ci arriva lui, al Ph.D., i sovietici invadono
l’Afghanistan. Così Zalmay agguanta
un posto di assistant professor alla
Columbia e rimane negli Usa. Diventa un
esperto prezioso per l’Amministrazione
Reagan, che negli anni 80 arma la resistenza
anticomunista dei mujaheddin.
Consulente del dipartimento di Stato, fonda
il Centro per gli studi mediorientali alla
Rand Corporation e diventa vicesegretario
alla Difesa nel ’91, quando Dick Cheney
è capo del Pentagono. Durante una cena
ufficiale del dicembre ’97, a Houston,
Khalilzad litiga con il ministro della Cultura
talebano. Spinto da sua moglie, la
scrittrice femminista austriaca Cheryl Benard,
gli contesta il carcere per le donne
senza burqa. Quello si mette a citare il Corano,
Zalmad alza la voce e cambia idea:
coi talebani non si può trattare, bisogna
combatterli. Peccato che Michael Moore,
che ha inserito nel suo “Fahrenheit 9/11”
immagini di quella delegazione afghana
invitata in Texas dalla Unocal per il progetto
di un oleodotto, non abbia filmato
anche lo storico alterco.
Intanto Khalilzad, insieme a Cheney, Rumsfeld, Fukuyama,
Forbes, Kagan, Podhoretz, Armitage, Bolton,
Kristol, Perle, Woolsey e tanti altri, firma
gli appelli del Pnac (Project for the
New American Century) per la promozione
delle libertà politiche nel mondo e il ripristino
della leadership militare degli
Stati Uniti. Con la vittoria di Bush torna al
Pentagono da consulente, e dopo l’11 settembre
2001 passa all’azione. Coordina la
parte politica della campagna d’Afghanistan,
poi si occupa anche un po’ d’Iraq, ma
alla fine si concentra su Kabul come plenipotenziario
presidenziale. Un anno fa
viene nominato ambasciatore. E oggi può
festeggiare: per la prima volta in cinquemila
anni, come scrive lui stesso in un editoriale
sul Wall Street Journal, i suoi compatrioti
eleggono direttamente il loro capo dello Stato.
“Su dieci miglia ne abbiamo percorse tre”
Raggiungiamo Khalilzad in videoconferenza
da New York. E’ ottimista, ma guardingo:
“Ci vorranno come minimo altri
cinque anni di nostra presenza qui per ricostruire
la nazione e lo stato di diritto.
Forse anche di più: direi che su un cammino
di dieci miglia ne abbiamo percorse
tre”. Il che vuol dire sette anni.
Non vuole fare propaganda, ammette: “I signori
della guerra, i potentati locali, l’oppio, il
controllo del territorio non completo: tutto
vero. Ma questa è una battaglia che
dobbiamo vincere, e resteremo qui tutto il
tempo che occorre per vincerla. I nostri
nemici non s’illudano. Tre milioni di profughi
sono tornati, altre centinaia di migliaia
parteciperanno alle elezioni, se ne
sono registrati 700 mila solo in Pakistan.
La stragrande maggioranza della gente è
felice della nostra presenza qui, sperano
in un futuro di tranquillità e prosperità
dopo un quarto di secolo di disastri. Questa
volta non li abbandoneremo. Non ripeteremo
l’errore della metà degli anni
90, quando ce ne andammo e lasciammo
che nel vuoto di potere s’installassero gli estremisti”.
Gli oppositori di Bush lo definiscono
vicerè e proconsole, dicono che
il presidente Hamid Karzai non conta, è
una sua marionetta, e che è lui il vero capo
dell’Afghanistan. “Saranno i dieci milioni
di afghani che si sono registrati e
che voteranno liberamente a scegliere il
loro presidente. Certo, in Afghanistan c’è
ancora bisogno dei soldati della Nato e
degli Stati Uniti per mantenere la pace.
Ma le cose migliorano. Capisco anche i nostri
nemici, capisco che ci vogliano attaccare
sanguinosamente in questo periodo,
perché se riusciamo a far funzionare le
cose qui sarà un fatto rivoluzionario per
tutta l’area dal Marocco al Pakistan. Avremo
ancora giorni difficilissimi davanti a
noi. Ma ce la faremo”.
Mauro Suttora
Friday, September 17, 2004
parla Martin Scorsese
di Mauro Suttora
New York, 17 settembre 2004
“Devo tutto al cinema italiano, da De Sica a Rossellini a Fellini, da Bertolucci al Pasolini di Accattone. I miei nonni arrivarono negli Usa nel 1910, ma a casa mia tutti continuavano a vedere i film italiani negli anni Quaranta e Cinquanta [i film negli Usa non sono doppiati, hanno i sottotitoli, ndr], e il vostro cinema ha continuato a essere fortissimo fino agli anni Settanta, anche Ottanta. Gli italiani, assieme ai francesi, hanno reinventato il cinema in quel periodo”.
Le organizzazioni degli italiani d’America protestano spesso contro la nom ea di mafiosi che continua a rimanere appiccicata loro addosso, dai Soprano a De Niro a Steven Spielberg, produttore del nuovo cartone animato Shark Tale in cui tutti i pesci cattivi parlano con l’accento italiano. Che ne pensa?
“Ai miei familiari italiani piaceva la satira anche contro se stessi, che è sempre stata una caratteristica dei film italiani. La capivano e la apprezzavano. I film di Pietro Germi e certi personaggi interpretati da Marcello Mastroianni erano veramente tremendi nei confronti dell’Italia contemporanea.
Quanto a me, a volte è la realtà a imitare la fantasia: sono rimasto stupefatto quando ho saputo che Brusca, il mafioso pentito che fece arrestare l’allora capo dei capi, Totò Riina, dichiarò che il loro mondo, il loro tremendo livello di violenza era proprio come nei Goodfellas, il mio film del 1990”.
Cosa manca al cinema italiano di oggi per ripetere i fasti di quello del passato?
“I film non nascono dal nulla: sono il prodotto della situazione sociale, politica ed economica di una nazione. Ogni società crea il proprio cinema. Il neorealismo nacque dalla devastazione provocata dalla Seconda guerra mondiale. L’Italia si era unita da meno di cent’anni, l’industrializzazione è avvenuta soltanto negli anni Cinquanta...
Da allora molte microculture sono sparite: ho visto un bellissimo documentario di Vittorio De Seta, Banditi ad Orgosolo, ho seguito le polemiche di Pasolini contro il consumismo, conosco abbastanza bene l’Italia. In una scena della versione originale di Mean Streets, quella lunga due ore e mezzo inserita nei nuovi dvd, Robert De Niro improvvisa una scena con Harvey Keitel e sembra proprio di essere a Elizabeth Street, nel cuore di Little Italy a New York.
Ma oggi non vivo in Italia, quindi non so rispondere a questa domanda. Bertolucci una volta mi ha detto che i giovani registi hanno sempre paura di misurarsi con la grandezza dei vecchi.
Ma io e i miei amici, John Cassavetes, Brian De Palma, bruciavamo dalla voglia di raccontare le storie che avevamo in mente quando eravamo giovani, negli anni Sessanta.
Certo è che non auguro all’Italia un’altra catastrofe come la Seconda guerra mondiale affinchè ne possa scaturire di nuovo del grande cinema.
Un altro mini-documentario di De Seta descrive la Pasqua dei contadini di Lipari, le loro tradizioni. Se tutto ciò sparisce, perdiamo qualcosa di noi, della nostra cultura”.
Come sarà The Aviator, il suo prossimo film che uscirà a Natale, due anni dopo The Gangs of New York?
“The Aviator è un film su Hollywood: Leonardo DiCaprio recita la parte di Howard Hughes, il leggendario miliardario eccentrico appassionato di aerei. A me non piace volare, quindi è proprio per questo che gli aerei mi affascinano. In quell’epoca gli aerei su cui volava Hughes erano impressionantemente fragili, come una sedia con due ali. Hughes era il fuorilegge di Hollywood. Nel film ci sono anche Kate Blanchett nel ruolo di Katharine Hepburn e Jude Law”.
Sta preparando anche un documentario su Bob Dylan?
“Sì, lo sto scrivendo, lo finiremo verso la metà del 2005. Descrive la carriera di Dylan, ma soltanto fino al 1966. Sarà un film sul cambiamento: la musica di Dylan si evolveva a una velocità tale che quando un suo disco veniva pubblicato lui era già da un’altra parte. Sarà un’opera molto interessante, spero, anche perchè abbiamo avuto accesso agli archivi personali di Dylan”.
Lei ha un rapporto molto stretto con la musica: nel 1969 è stato aiuto regista in Woodstock, nel 1978 ha filmato L’Ultimo Valzer sull’addio ai concerti della Band, il gruppo che accompagnava Dylan, e recentemente è stato coinvolto in una serie di documentari sulla storia del blues. Cosa pensa delle colonne sonore?
“Ovviamente la musica in un film è importantissima. Ma troppo spesso negli ultimi tempi noto che Hollywood usa le colonne sonore per spiegare, letteralmente, agli spettatori quali sentimenti devono provare mentre guardano una scena: ora è il momento di piangere, ora di commuoversi, ora di ridere... Un tempo la musica si limitava a suggerire”.
Mauro Suttora
Thursday, September 16, 2004
Berlusconi Goes on Holiday
September 20, 2004
By Mauro Suttora
Newsweek International
Yes, under his leadership Italy's public debt has soared to 1.5 trillion euros, the third largest in the world. Yes, he controls six TV channels, monopolizing 90 percent of Italian television. And no, he hasn't solved his various conflicts of interest: he doesn't want to give up his media empire and sees no reason why as prime minister he shouldn't meddle on its behalf. But whatever you think about his politics, Silvio Berlusconi is fun.
Just last month I was enjoying a cocktail in a cafe in Porto Cervo, the tony resort in Sardinia where he also holidays. Suddenly the whole town square erupted in shouts. "Berlusconi! Blair! Here they come!" Everybody rushed to a corner of the piazzetta, where the Italian and British prime ministers were walking, loosely protected by a very few bodyguards in spite of all the terrorism alerts. Berlusconi had this incredible white bandanna wrapped around his balding pate, looking like a weird cross between Janis Joplin and Steven Van Zandt. The guy is 68, and though reportedly multilifted, his face definitely shows his age. Yet he was so happy and smiling that the crowd broke into spontaneous applause.
Spontaneity: exactly what his so-serious political adversaries lack. As it happened, another guy in a bandanna was visiting Porto Cervo that day: Johnny Depp, star of "Pirates of the Caribbean." He didn't meet Berlusconi and Blair, even though he was hanging out just steps away at the fashionable Nikki Beach club. (Bad sign, when Italians borrow names from St-Tropez.) Half of Italy regards Berlusconi as a modern pirate, doing his dirty business. But to me he's got the swashbuckling appeal of Depp. Or maybe James Bond. Cruising off the Costa Smeralda one day, I noticed an immense scaffolding rising from the water. A friend explained that it was a "secret" port, being cut into the cliff below Berlusconi's immense villa. The better for clandestine arrivals, I imagine. Or getaways.
Berlusconi's "bandanna mystery" was headline news, of course. Turns out that Il Cavaliere was shielding a new hair transplant from the sun, not to mention prying eyes. Italy under Silvio lifts your spirit. You think you're living a perpetual joke. And he loves to joke. I didn't overhear his conversation with Tony and Cherie, but I'm sure he was full of corny stories. No doubt after dinner he treated them to one of his Neapolitan love songs, which he writes for his beautiful wife, Veronica.
The ex-actress was the talk of the town some months ago, as all Italy gossiped about her alleged (and again "secret") love affair with a handsome leftist philosopher. My God, the enemy (a communist) in bed! How did jovial Berlusconi respond? During a press conference with the Danish prime minister, he chirped: "I'll introduce you to my wife, poor woman." So he defused the rumors.
Veronica has just published her autobiography, second only to the pope's on Italy's best-seller list. She denies everything, except that her man (Silvio) talks in his sleep. But Berlusconi, like Ben Stiller in "Meet the Parents," has a mother-in-law too. The lady spent a miserable summer, confined in a little apartment in Porto Rotondo, far from Berlusconi's numerous Sardinian villas. (One for himself, one for his brother, one for his mother, others for his children.) Generous and grandiose with his guests, the doting Mr. B "forgot" to include her in his swishy Sardinian summering. He really is one of us.
If any problem clouded his horizon apart from dodging his community-property taxes it was the way locals retaliated by not cleaning the water-treatment facility near his villa. It stank. The Blairs noticed. What a show!
© 2004 Newsweek, Inc.
Tuesday, August 31, 2004
Convention repubblicana
Oggi, agosto 2004
New York (Stati Uniti). «Combatteremo i terroristi su tutta la Terra. Non per orgoglio, non per potere, ma perchè è in gioco la vita dei nostri cittadini. Attacchiamo i terroristi all'estero per non doverli affrontare qui a casa nostra. Vogliamo far avanzare la libertà in Medio oriente perchè solo la libertà porterà un futuro di speranza, la pace che tutti vogliamo. E vinceremo. Niente ci fermerà».
Il presidente degli Stati Uniti George Bush junior non indietreggia di un millimetro. Afghanistan e Iraq restano in fiamme, i soldati americani uccisi sono ormai mille (neanche uno morì invece nella guerra in Kosovo), metà dei cittadini statunitensi non pensano che andare a Bagdad sia stata una buona idea, l’odio contro l’America è aumentato nel mondo. Ma lui, nel discorso di chiusura della Convention repubblicana in cui ha accettato la nomination, tiene duro: «I regimi assassini di Saddam Hussein e dei Talebani sono finiti, cinquanta milioni di persone sono state liberate, la democrazia sta arrivando in Medio oriente. Abbiamo guidato la coalizione, molti si sono uniti a noi, e oggi tutti siamo più sicuri».
Silvio Berlusconi è stato ringraziato solennemente da Bush, assieme all’inglese Tony Blair e agli altri leader dei Paesi con truppe in Iraq: «Non dimenticheremo che italiani, britannici, australiani, polacchi, olandesi e tanti altri alleati sono al nostro fianco».
Si è concluso così, in una pioggia di palloncini, coriandoli e stelle filanti, il congresso repubblicano. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Neanche Osama Bin Laden era riuscito a far scappare così tanta gente da New York. La settimana scorsa la città si è svuotata come mai a memoria d'uomo. I ricchi si sono rifugiati nelle loro villone agli Hamptons (quelle immortalate nel film Il Grande Gatsby con Robert Redford), i poveri hanno smesso di arrivare a Manhattan in metro per lavorare e sono rimasti nei loro ghetti di Harlem, Brooklyn, Bronx.
La «città che non dorme mai» è piena tutto l'anno, anche nell'insopportabile caldo-umido di agosto. Ma la paura suscitata dal congresso del partito del presidente l'ha lasciata in mano ai repubblicani e ai loro oppositori. Paura per attacchi di Al Qaeda, ma anche fastidio per il clima da occupazione militare che ha bloccato tante strade. Me ne sono accorto già la sera di venerdì 27 agosto, tre giorni prima che la Convention iniziasse. Camminavo nella Seconda Avenue, quando improvvisamente il traffico si è fermato. Migliaia di giovani ciclisti anti-Bush avevano invaso Manhattan. Poi in centinaia si sono fatti docilmente arrestare (per manifestazione non autorizzata) sotto un minaccioso elicottero che incombeva
con un faro tipo Apocalypse Now. Soltanto dopo due ore le auto hanno potuto
ripartire. Moltissimi ragazzi hanno dormito all'aria aperta nel parco della
chiesa Saint Mark. Ma è stata solo la prima di centinaia di manifestazioni,
grandi e piccole, che hanno punteggiato tutta la settimana. Alla fine gli
arresti (tutti senza violenza, con rilascio dopo poche ore) sono ammontati a
duemila.
Dall'altra parte della città invece le strade sono rimaste spettralmente
libere. Transenne ovunque, poliziotti in assetto di guerra, mitra in
evidenza. Il palasport Madison Square Garden, che noi italiani abbiamo
cominciato ad amare appena lo aprirono nel '68 perchè il pugile Nino
Benvenuti ci venne per battere Emile Griffith, era come una fortezza
assediata. Il rapporto fra personale di sicurezza e partecipanti (cinquemila
delegati da tutti gli Stati Uniti, diecimila giornalisti da tutto il mondo)
era di uno a uno. «Qualche volta penso che questo vecchio mondo/ sia come il
cortile di una grande prigione/ alcuni di noi sono prigionieri/ il resto
guardie», cantava Bob Dylan. Sono passati trent'anni, e ormai ci siamo.
Grazie Osama. Ma i delegati repubblicani, in maggioranza gente simpatica di
mezza età vestita chiassosamente, hanno sopportato stoicamente sia gli
sberleffi dei newyorkesi (che in otto su dieci sono democratici, anche se
poi eleggono sindaci repubblicani come Rudy Giuliani o l'attuale, il
miliardario Michael Bloomberg), sia le code per farsi perquisire prima di
entrare, più estenuanti di quelle degli aeroporti.
Sabato sera mi hanno invitato a un pre-Gala nelle nuove Torri gemelle della
Time Warner: un centro commerciale dove i ristoranti piu' famosi di New York
(Le Cirque di Sirio Maccioni, Patsy's - il preferito di Frank Sinatra - e il
nippobrasiliano Sushisamba) sfamavano ai loro banchetti migliaia di
giornalisti e delegati, presto ubriacati dall'alcol offerto gratis senza
limiti.
Domenica ho assistito per strada a un altro corteo contro Bush, poi in un
teatro di Broadway a una commedia satirica contro il suo rivale John Kerry e
la moglie Teresa Heinz (proprietaria dell'omonima multinazionale del
ketchup), infine sono andato a ritirare l'accredito per entrare al Madison
Square Garden. Lì, oltre alla tessera plasticata, mi hanno consegnato una
borsa-regalo per giornalisti che conteneva una scatola di Cheese Macaroni,
ovvero «pasta al formaggio» confezionata apposta dalla Kraft per il partito
repubblicano, un «podometro» per misurare i passi (dimagrire col footing è
l'attività più importante oggi negli Usa), schede telefoniche, caramelle
m&m, «Listerine» (strisce da succhiare per rinfrescare l'alito), una
macchina fotografica usa-e-getta e una guida turistica di New York.
I congressi politici negli Stati Uniti sono molto più divertenti di quelli
italiani. Perchè in realtà qui i partiti non esistono: ogni quattro anni,
prima delle elezioni presidenziali, si formano dei comitati elettorali in
ogni stato, i candidati vengono scelti con le primarie, e alla fine si
riuniscono le Convention, che sono più che altro fiere (o «extravaganzas»
come le chiamano in inglese) con un sacco di feste, riunioni, cene e regali.
Domenica sera sono andato alla festa delle figlie gemelle di Bush, le 22enni
neolaureate Jenna e Barbara, dove però non hanno fatto entrare i giornalisti
dopo averli invitati. Potevamo soltanto stazionare fuori dalla sala da ballo
Roseland sulla 52esima Strada, aspettando che le ragazze arrivassero sul
tappeto rosso e sperando che dicessero qualcosa. Dopo un po' me ne sono
andato, e non ho perso niente: le «first daughters» hanno solo sorriso ai
fotografi, mute.
Di giorno i delegati sono liberi di scorrazzare per la città da turisti (i
democratici lo hanno fatto a Boston un mese fa), perchè le sedute plenarie
hanno luogo soltanto dalle 19 alle 23, in coincidenza con la prima serata
Tv. E i discorsi importanti - non più di due ogni sera - vengono pronunciati
verso le dieci, per coprire tutti i fusi orari degli Stati Uniti (a
quell'ora sono le sette in California). La prima sera ha parlato Giuliani,
il sindaco italoamericano che ha ripulito New York dal crimine e che
vienedato come candidato presidenziale nel 2008, quando Bush anche se
vincerà non potrà più ricandidarsi. Ha fra l'altro accusato l'Italia di
essere stata debole con i terroristi nel 1985, quando lasciammo scappare il
capo dei dirottatori della nave Achille Lauro.
Martedì ho assistito al duetto semicomico delle gemelle Bush: «Nostra nonna
Barbara [moglie di George Bush senior, vice di Ronald Reagan e presidente
dall'88 al '92, ndr] pensa che Sex and the City [il serial Tv più famoso
d'America] sia qualcosa che fanno solo gli adulti, e di cui non si parla
mai...». Poi è salita sul palco la loro mamma Laura con i suoi bellissimi
occhi azzurri da gatta, e ha spiegato cosa significa essere «conservatori
compassionevoli», lo slogan del congresso. Ma quello che ha fatto esplodere
la platea è stato Arnold Schwarzenegger, l'attore eletto l'anno scorso
governatore della California: «L'America è un grande Paese, perchè permette
a uno come me che a vent'anni non sapeva ancora parlare inglese di arrivare
dove sono arrivato... Gli Stati Uniti sono sempre il sogno di tutti gli
immigranti del mondo... Non siamo imperialisti, perchè vogliamo esportare
solo democrazia, libertà e diritti umani».
Nel pomeriggio di martedì ho scoperto che la sempre bella Bo Derek, 47 anni
(l'attrice per cui Dudley Moore perse la testa nel film 10, ormai un quarto
di secolo fa), una dei pochi personaggi di Hollywood che appoggia Bush,
partecipava a una riunione in un club esclusivo all'ultimo piano di uno dei
più famosi grattacieli di Manhattan, il MetLife (l'ex Pan Am che taglia in
due Park Avenue). Un incontro molto particolare: di repubblicani pro-libertà
di aborto. Hanno partecipato anche Bloomberg, il governatore dello stato di
New York George Pataki, ed è abortista perfino l'ex presidente Gerald Ford.
Esistono pure loro nel grande partito presidenziale, che riesce a tenere
assieme proibizionisti e libertari sulla droga, fautori del pareggio di
bilancio e «spendaccioni», e che su una questione scottante come i matrimoni
gay vede in disaccordo addirittura il presidente Bush (il quale vuole
vietarli con legge costituzionale) e il suo vice Dick Cheney, disposto a
delegare a ciascuno dei 50 stati la decisione perchè ha una figlia lesbica.
L'unico tema su cui i repubblicani sono veramente uniti è la guerra in Iraq:
non esiste alcun pacifista al loro interno. Dopo la strage dell'11 settembre 2001 Bush ha aumentato gli stanziamenti militari da 300 a 500 miliardi di dollari annui: gli Stati Uniti spendono in armi più di tutti gli altri stati del mondo messi assieme.
Insomma, finchè si scherza si scherza. Questa Convention è stata una grande
fiera, ma alla fine si sceglie l'uomo più potente del mondo, che può
deciderne le sorti. Appuntamento fra sette settimane e mezzo, quando martedì
2 novembre gli statunitensi eleggeranno o il repubblicano Bush, o il
democratico Kerry.
Mauro Suttora
Wednesday, May 12, 2004
Che emozione recitare a New York con la Kidman
Sunday, May 09, 2004
Newsweek: My Big Date With Nicole
LETTER FROM NEW YORK; Page 11
By Mauro Suttora
https://www.newsweek.com/my-big-date-nicole-127681
"I had dinner with Nicole Kidman." Hmm... I hadn't known my friend Christian, an Italian journalist, was a celebrity hound. Like most New Yorkers, we make a point of ignoring such people. "Where?" I asked. "At the Mercer Kitchen." What did you talk about, I wanted to know. And how did a poor schmuck like Christian meet Nicole? Well, he explained, "we weren't at the same table. Just next to each other. But I was as close as possible."
Christian's boast came to mind when I received this e-mail from another friend, a casting agent: "Looking for protesters on Sunday. Movie: The Interpreter with Nicole Kidman and Sean Penn. Location: the United Nations. All ethnicities welcome. Pay: $75. Bring photo I.D."
Why not? It was my day off. I was curious. And for the rest of my life I'd be able to say I acted with Nicole Kidman. Besides, "The Interpreter" would be an international blockbuster. My mother in Italy would love it, and Christian would die of envy.
That Saturday night I could hardly sleep. Nicole! I rose before dawn, showered, shaved and headed out into the rainy darkness of my new career. Outside a rundown building on 44th Street, not far from the United Nations, a van was unloading doughnuts, and a queue of several hundred would-be extras wound out the front door. We were ushered into a huge room on the third floor, overlighted and full of grubby plastic chairs. Sadly, this was not going to be an intimate thing between Nicole and me. I spent the morning filling out forms.
Around midday, a chorus of less-than-courteous young men and women began shouting that it was time for "the talent" (meaning us) to get out on the set. It had stopped raining, so they herded us into Dag Hammarskjold Plaza. We were issued signs to wave around and told to demonstrate. Nearby, a little group of real demonstrators huddled in a tent, campaigning for a free Tibet. Tourists glared, furious that because of us they couldn't visit the United Nations. "You are the only ones who get TV coverage, huh?" one muttered, eyeing the microphones and the cameras focused on us instead of the soggy Tibetans. "Be professional," a fierce little assistant director barked. The problem was that Sean Penn had shown up, along with legendary director Sydney Pollack. In the movie Penn plays a secret agent, incognito in our midst. Right. Who wouldn't crane their necks to look at him?
After a couple of hours, we were ordered back to our holding pen, where we were again scolded--this time for jumping too enthusiastically on the buffet of turkey sandwiches. Extras may be artists, I learned, but it takes sharp elbows to get your share of free food. During the afternoon shoots, I was selected as a passerby who refuses the leaflets handed out by the protesters. I hope Pollack didn't notice; otherwise, my face will be edited out of close-ups of the demo itself. Either I protest, or I don't give a damn, but I shouldn't be permitted to switch sides so swiftly. I mean, this is not Italian politics--nor Italian B-movies of the '50s, in which Roman slaves could be seen wearing wristwatches.
At 7 p.m. we queued to get our pay. But instead of money we got another form to fill out: "No signature, no pay!" Two weeks later I received a check for $62, after federal, state and city taxes. I calculated that Nicole and Sean every day make 20 times more than all 600 extras combined. My pay amounted to $4 an hour. My maid makes $15. And I got only a glimpse of Nicole. Don't tell Christian.
© 2004 Newsweek
Wednesday, May 05, 2004
Niall Ferguson al Cfr
Il Foglio, mercoledi 5 maggio 2004
"Anglobalizzazione". Dr. Ferguson invita gli Stati Uniti a essere imperialisti (per il bene dell'"Anglobalizzazione", come la chiama il prof scozzese)
New York. "Anglobalizzazione", la chiama lo scozzese Niall Ferguson, 40 anni ma gia' professore a Oxford e alla New York University, nonche' senior fellow della Hoover Institution a Stanford (Palo Alto, California). Lui ne va entusiasta: "Al mondo farebbe bene un lungo periodo di semina delle istituzioni anglosassoni: gli Stati Uniti hanno la responsabilità di continuare l'opera civilizzatrice dell'impero britannico".
Ma i suoi interlocutori al Cfr (Council on Foreign Relations) di New York, dove presenta il suo ultimo libro ("Colossus: the Price of the American Empire") non ne sono convinti: "L'America non e' un impero coloniale, anche se ringraziamo Ferguson per le sue stimolanti provocazioni polticamente scorrette", lo liquida educatamente Alan Brinkley, rettore della Columbia University.
Eppure Ferguson, senza essere un neocon, possiede argomenti che lasciano il segno, e sfidano quel misto di ipocrisia, dissimulazione e falsita' che gli americani chiamano "denial": "Non potete negarlo, ormai anche commentatori di sinistra come Michael Ignatieff ammettono che il vostro e' un impero. La parola ha perso il suo connotato negativo. Ma certo, non e' detto che gli Stati Uniti vogliano essere all'altezza della sfida che viene loro lanciata: quella di raccogliere l'eredita dell'impero liberale britannico, durato tre secoli."
L'autore di libri scorrevoli come "La Prima guerra mondiale: il più grande errore della storia mondiale" (pubblicato in Italia da Corbaccio) e "Soldi e potere nel mondo moderno. 1700-2000" (Ponte alle Grazie) constata l'ovvio: "Mai prima d'ora, nella storia umana, una nazione si era trovata cosi' davanti alle altre in tutti i campi: politico, economico, culturale, militare. In politica estera gli Stati Uniti mirano esplicitamente a cambiare i regimi e a ricostruire nazioni. In economia il modello del libero mercato non ha alternative. La cultura pop americana, dal cinema alla musica, e' amata universalmente. E le vostre forze armate hanno una capacita' di dominio globale. Perche' non chiamarlo impero?"
Il pudore nel pronunciare questa parola, sostiene Ferguson, viene da lontano: da quando le tredici colonie ribelli dell'impero che oggi hanno sostituito s'imbarcarono nell'annessione di mezzo continente: "Gli americani si sono sempre considerati messaggeri di liberta'. E se oggi se ne vergognano, e' un brutto segno. Perche' se non esiste la consapevolezza di essere un potere imperiale, con tutti i suoi diritti e i suoi doveri, si resta vittima della cronica disattenzione per le cose del mondo che e' il maggior difetto della classe dirigente statunitense oggi".
Ferguson accusa gli americani di non impegnarsi abbastanza, in sostanza di non essere abbastanza imperialisti, di non possedere la mentalita' coloniale: "Contrariamente agli inglesi di uno e due secoli fa, pochissimi fra i vostri migliori laureati vogliono partire verso i Paesi in via di sviluppo per aiutarli a crescere. Oggi a Bagdad quasi nessun americano conosce l'arabo. Ne' fra i giovani universitari e' aumentato l'interesse verso l'Islam dopo l'11 settembre. Gli americani, quando invadono un Pese, dicono: 'Ce ne andremo il piu' presto possibile'. Invece sarebbe necessario l'esatto contrario: l'Inghilterra pianificava secoli di permanenza, e tutte le sue ex colonie oggi ne godono i frutti. Anche gli Stati Uniti, hanno ottenuto risultati solo nei luoghi dove sono rimasti a lungo: in Giappone sette anni, in Germania dieci, in Corea addirittura per combatterci un'altra guerra. E le truppe americane stazionano ancora in questi tre fortunati Paesi, dopo piu' di mezzo secolo. Viceversa, dov'e' stata adottata la tecnica del mordi e fuggi i risultati sono stati negativi: Libano, Liberia, Cambogia, Somalia. Haiti e' stata occupata dal 1915 al '34, poi di nuovo nel '94: un disastro. E cosi' nella Repubblica Dominicana, amministrata dal 1916 al '24. Per far attecchire concetti come stato di diritto, legalita', sistemi fiscali equi, dipendenti pubblici onesti, separazione dei poteri, liberta' di stampa e istituzioni forti che li proteggano, occorrono decenni, se non secoli. Democrazia non e' improvvisare un'elezione".
Un interlocutore nella platea del Cfr obietta che il mondo islamico non ha mai accettato colonizzazioni, e porta l'esempio delle rivolte algerina contro la Francia, libica contro l'Italia e irachena contro il governo filoinglese nel '58: "Ma l'Indonesia islamica e' stata amministrata per secoli dall'Olanda", risponde Ferguson, "e negli altri Paesi la trasformazione e' stata troppo superficiale per produrre benefici. Londra ha comunque influito sull'Iraq dal 1918 al '58: magari gli Stati Uniti durassero quarant'anni! Invece voi ragionate in termini di cicli elettorali: al massimo quattro anni. E questa e' la miglior ricetta per il disastro. Certo, anche gli imperi liberali commettono errori. La strage britannica di Amritsar in India contro i gandhiani, per esempio: 300 morti. Ma domandiamoci anche qual era la misura degli altri massacri in quegli stessi anni: i centomila morti della strage di Nanchino commessa dai giapponesi nel '37?".
Mauro Suttora
Saturday, April 24, 2004
Il neocon Kagan fa marcia indietro
SAPER FARE LE ALLEANZE
Il Foglio, 24 aprile 2004
di Mauro Suttora
Ora il neocon Kagan dice che Rumsfeld se ne deve andare, e che Bush sa affrontare i nemici ma non gli amici
New York. Robert Kagan, 46 anni, autore del manifesto neocon "Paradiso e potere", ribadisce la sua richiesta: "Donald Rumsfeld se ne deve andare". Ma accanto al segretario della Difesa mette pure il segretario di Stato: "Dopo l'uscita del libro di Bob Woodward anche la posizione di Colin Powell è diventata insostenibile".
Gran folla l'altra sera alla Japan Society per un dibattito fra le due K più prestigiose nella politica estera americana: Kagan e il clintoniano Charles Kupchan, autore nel 2002 di "The End o f the American Era".
"È vero", ammette subito Kagan, "Bush non sta facendo un buon lavoro in Iraq. È stato bravo nell'affermare il diritto alla difesa preventiva, nel sollecitare la riforma del mondo arabo e nell'affrontare con realismo la questione palestinese. Ma non riesce a gestire bene il nuovo mondo unipolare, una situazione confusa e senza precedenti dai tempi dell'impero romano. Occorre coltivare le alleanze, anche con accordi e compromessi, perchè la questione della legittimità conta molto in politica estera: è importante ciò che il mondo pensa di noi, non possiamo ignorarlo. Dobbiamo riconciliare il nostro potere con l'ordine internazionale, per riassicurare coloro che normalmente starebbero dalla nostra parte".
Parole di moderazione sorprendenti in bocca a un neocon, ma anche Kagan deve fare i conti con gli scricchiolii della Coalizione dei volenterosi: dopo la Spagna, anche la Polonia si è messa a borbottare. "Gli europei comunque non si illudano", avverte, "anche con un eventuale presidente Kerry non sarà automatico trovare un accordo. Ormai fra Europa e America c'è una grande divisione. E prima o poi ci ritroveremo davanti i problemi di Iran e Corea del Nord: rimandarli non significa risolverli. Chi oggi tanto invoca Onu e Consiglio di sicurezza sa bene che questi organismi non hanno mai funzionato. Insomma, si accusa l'amministrazione Bush di aver distrutto una trama di relazioni internazionali che in realtà non era stata mai tessuta, a cominciare dall'intervento in Kosovo non autorizzato dall'Onu".
"Il più grosso equivoco nel quale si cullano gli europei", dice Kagan, "è che la politica estera americana sia improvvisamente caduta in mano a un gruppetto di estremisti. In realtà il desiderio di cacciare Saddam è enormemente condiviso, è sempre esistito un consenso bipartisan su questo. E non c'è voluto l'11 settembre per convincerci. Andate a rileggervi i discorsi di Clinton dal '97 al '99: avrebbe potuto pronunciarli chiunque, nell'attuale amministrazione. E' inutile domandarsi chi scatena le guerre, perchè la risposta non è mai univoca. Chi provocò la guerra contro la Spagna del 1898, per esempio? Teddy Roosevelt, William Randolph Hearst? No, tutti gli Stati Uniti la volevano, non era solo l'isteria di qualcuno, e il presidente William McKinley era popolarissimo. Stesso discorso su Pearl Harbor o il Vietnam, che non fu certo un'avventura solitaria di Robert McNamara".
"Quella del Kosovo fu una guerra illegale ma legittima, questa in Iraq è legale ma illegittima", ribatte Kupchan, "e mi spiego: avrei voluto che l'asticella del livello di pericolo necessario per attaccare preventivamente l'Iraq fosse messa più in alto. La minaccia non era così imminente. Insomma, il concetto di guerra preventiva è giusto, ma è stato sbagliato inaugurarlo con l'Iraq, discreditandolo. Ci siamo bruciati le dita, e ora sarebbe molto più difficile attaccare, che so, la Corea del Nord. Gli Stati Uniti non sono più visti come la soluzione ma come il problema, perchè l'unipolarismo funziona solo se il polo unico è considerato legittimo. La nostra arma principale non sono le portaerei o gli aerei F16, ma il prestigio. Non è vero che è meglio essere temuti che amati".
Anche Kupchan converge al centro e ammette: "Bush ha fatto cose buone, per esempio l'antiterrorismo non militare: è notevole che da due anni e mezzo non ci siano attentati negli Stati Uniti, anche se prima o poi mi sembra inevitabile che qualcosa accada. Un altro punto su cui Bush ha ragione è che l'Onu limita il nostro potere. È vero, ma è esattamente questo il motivo per cui al resto del mondo l'Onu piace. Cosa ci costava, per esempio, avvertire preventivamente Xavier Solana del nostro sì all'ultimo piano di pace di Ariel Sharon? Dimostriamo una straordinaria assenza di tatto... Ma dò ragione a Kagan: con Kerry non cambierà molto. L'internazionalismo liberal del nordest è ormai tramontato, negli Stati Uniti. E dall'Iraq non possiamo andarcene".
Mauro Suttora
Monday, April 12, 2004
Mauro of Manhattan
Wednesday, January 28, 2004
Sandra Savaglio a Baltimora
Wednesday, January 14, 2004
Duccio Macchetto e il telescopio Hubble
Thursday, January 01, 2004
Il sexyconiglio compie 50 anni e mette all' asta le conigliette vip
New York (Stati Uniti)
Hugh Hefner era un furbo ragazzotto di 27 anni quando mezzo secolo fa, nel 1953, stampò le prime 50 mila copie del mensile Playboy: "Sulla copertina non scrissi neanche "numero 1", tanto ero sicuro che non mi avrebbero permesso di arrivare al secondo", ricorda oggi. Bisogna immaginare cos'erano gli Stati Uniti allora: una nazione bigotta dove i negri non potevano salire sugli autobus dei bianchi, dove chi era accusato di essere comunista perdeva il lavoro, e dove perfino i cattolici venivano discriminati dalla maggioranza protestante (l'elezione del primo presidente cattolico John Kennedy nel ' 60 fu storica anche per questo). Figurarsi pubblicare la foto di un'attricetta nuda sconosciuta: tale Marilyn Monroe...
Ma il motivo della mancata indicazione della data sulla copertina era anche un altro, più pratico: la rivista non sarebbe mai scaduta, e infatti fece registrare il tutto esaurito. Il primo trionfo di Marilyn. Ancora oggi, in America Playboy viene venduto sigillato e nascosto dentro una busta di plastica nera. La sua nascita e la sua durata, quindi, possono tranquillamente essere paragonate a una rivoluzione. E la settimana scorsa la celebre casa d' aste Christie's ne ha celebrato il cinquantenario, vendendo più di 400 foto e documenti dal suo archivio. Incasso totale: 2,7 milioni di dollari.
Nonostante la concorrenza (prima Penthouse, il giornale ormai fallito di Bob Guccione, poi Hustler del miliardario Larry Flynt, oggi Maxim e i siti porno di Internet), Playboy gode di buona salute: vende tre milioni e 200 mila copie al mese, la metà rispetto ai massimi di trent' anni fa, ma più di qualsiasi altro mensile maschile. Inoltre le vendite di programmi tv e di video hanno fruttato l'anno scorso 121 milioni di dollari, superando per la prima volta gli introiti della rivista (111 milioni). In totale, l' impero Playboy rende ogni anno a Hefner e a sua figlia Christie, che lo gestisce oggi, la bellezza di 35 milioni di dollari di profitti netti.
Proprio di fronte alla libreria Rizzoli sulla 57ª Strada di Manhattan, e all' ufficio di Oggi da dove scriviamo questo articolo, vediamo il palazzo perennemente illuminato di Playboy. In realtà si chiamerebbe Crown Building, ed è uno dei più prestigiosi di New York: al piano terra c'è la gioielleria Bulgari e davanti l'altra gioielleria Tiffany, sulla Quinta Avenue. Ma tutti in città chiamano il palazzo con il nome del suo più illustre seppur controverso inquilino, che ne occupa vari piani.
Soltanto otto isolati più in là, nel Rockefeller Center, si è svolta l'affollatissima asta di Christie's. E per coloro che associano il nome di Playboy soltanto al pornosoft delle "conigliette" nude è stata una sorpresa. Fra i "pezzi" offerti, infatti, ci sono stati manoscritti del romanziere inglese Ian Fleming, creatore di James Bond, il celeberrimo agente 007, dello scrittore e poeta Jack Kerouac, padre della Beat Generation, e del russo Vladimir Nabokov, autore di Lolita: veri e propri reperti letterari che si sono affiancati alle preziose dodici pagine originali del racconto di Ernest Hemingway Consiglio a un giovanotto pubblicato postumo nel gennaio 1964, e a un articolo di Woody Allen del 1966. Di Fleming era offerto un dattiloscritto originale, con varie correzioni a mano, di Al servizio di Sua Maestà: il documento era stimato tra 18 mila e 24 mila dollari, ma è stato "battuto" per 17 mila.
Tra gli altri pezzi autografi di protagonisti della letteratura contemporanea sono stati messi all'asta testi di Allen Ginsberg, Henry Miller e addirittura del filosofo francese Jean Paul Sartre. Sono state offerte lettere dell'attrice Joan Crawford, del cantante Frank Sinatra e del padre della psichedelia Timothy Leary.
Particolare successo ha riscosso il nudo fotografico di Sophia Loren mentre nuota in piscina: la base d' asta era di mille dollari, ma è stato venduto per il triplo. La fotografia era stata pubblicata nell'agosto 1960, a corredo di un articolo intitolato Sophia la caldissima. Meno fortunata Gina Lollobrigida: Christie' s prevedeva di incassare 1.000 1.500 dollari per una sua foto in bianco e nero pubblicata nel settembre '54, che invece è stata aggiudicata per appena 750 dollari (meno di 600 euro). C'è da dire però che la foto non era granché, anche come misure (24 per 17 centimetri), e che nonostante questa piccola débacle la Lollo continua a essere adorata negli Stati Uniti: ancora tre settimane fa era ospite d'onore, con il cantante Billy Joel, all'inaugurazione di un hotel di lusso, il Mandarin Oriental di New York, nelle nuove Torri Gemelle Time Warner.
Fra le altre immagini storiche che vi riproponiamo, la più famosa resta quella di debutto di Marilyn, stesa su un lenzuolo di tessuto rosso, venduta a 18 mila dollari contro una base d'asta di ottomila. Seconda si è piazzata Bo Derek, con la copertina che nel marzo 1980 definì un'epoca: la foto scattata dal marito John (scomparso cinque anni fa, e autore per Playboy di foto delle sue due altre mogli, Ursula Andress e Linda Evans) è "andata" per 12.000 dollari, contro i 5.000 di base d' asta. Triplicato rispetto alle previsioni l'incasso di un'altra famosa immagine di Marilyn Monroe stampata nel numero del dicembre 1960, subito dopo l' elezione di Kennedy: da 3.000 a 9.500 dollari, per la splendida attrice ritratta mentre fa colazione a letto. Brigitte Bardot, infine, vince su Madonna per 8.500 dollari a 7.000: la fotografia dell' attrice francese apparve nel marzo 1958, quella della cantante statunitense nel settembre 1985.
Hefner, prima di diventare direttore editore di Playboy, era un disegnatore di vignette, e molte ne pubblicò sulla propria rivista. Decine di disegni originali dei migliori cartoonist mondiali sono finiti all' incanto: con tutti quelli pubblicati dal mensile nei suoi 50 anni si potrebbe allestire un museo di quest'arte minore. Anche la miglior musica è stata ottimamente rappresentata su Playboy: articoli, ritratti e foto su jazzisti come Benny Goodman, Louis Armstrong, Dave Brubeck, Chet Baker, lettere di Cole Porter ed Henry Mancini (reduce nel '62 dal successo di Moon River, colonna sonora del film Colazione da Tiffany con Audrey Hepburn), fino ad arrivare ai favolosi Anni Sessanta con gli originali delle interviste ai Beatles (febbraio '65) e a Bob Dylan (marzo '66).
Oltre alle prime immagini erotiche scattate da maestri della fotografia come Helmut Newton e Herb Ritts, l' asta di Playboy ha offerto un cimelio politico: l'intervista al líder máximo Fidel Castro del gennaio ' 67. Nonostante la perdurante antipatia dell'America nei confronti del dittatore cubano, il dattiloscritto originale ha triplicato il proprio valore durante l'asta, raggiungendo i 7.500 dollari. Successo anche per il colloquio con Martin Luther King del '65.
Dopo questa parentesi politica, però, l' asta è tornata su terreni più favorevoli per Playboy, offrendo immagini di "conigliette" di lusso come Nastassja Kinski ritratta da Newton, Joan Collins, Brigitte Nielsen (ex moglie di Sylvester Stallone), Jerry Hall (ex di Mick Jagger), Paulina Porizkova e la top model Cindy Crawford. Ultima divina messa all'asta, Elle MacPherson: la sua foto del maggio del 1994 è un po' il simbolo di tutti gli anni '80 e '90, quando lo scettro della bellezza femminile è passato dalle attrici alle modelle.
Tuesday, December 16, 2003
Convenzione repubblicana 2004 a New York
FALL MEDIA WALK-THROUGH AND RECEPTION
DECEMBER 16, 2003
FALL MEDIA WALK-THROUGH: The 2004 Republican National Convention will host its Fall Media Walk-Through in New York City at Madison Square Garden on December 16, 2003.
Please join us for a briefing session of Convention logistical matters and a tour of proposed media areas of Madison Square Garden and the Farley Post Office Building.
EVENT WHAT: Fall Media Walk-Through
WHEN: Tuesday, December 16, 2003
Registration: 11:30am - 1:00pm
Media Briefing and Tour: 1:00pm - 5:00pm
Final Q&A session: 5:00pm - 5:30pm
WHERE: Registration: Lobby of the Theater at Madison Square Garden
Media Briefing and Tour: Madison Square Garden and the Farley Post Office Building
Final Q&A session: Farley Post Office Building
MEDIA WALK-THROUGH RECEPTION: Media Walk
A private reception will be held at The Sea Grill Restaurant, which overlooks the ice skating rink at Rockefeller Center. and just below the world famous Christmas tree.
Food and drinks will be served and registered guests will also be invited to skate. Fall Media Walk-Through participants will be transported from the Farley Post Office Building at 5:30pm immediately following the briefing and tour.
EVENT WHAT: Fall Media Walk-Through Reception
Food and drinks at The Sea Grill Restaurant
Ice skating at Rockefeller Center (optional)
WHEN: Tuesday, December 16, 2003
6:00pm-9:00pm
WHERE: The Sea Grill Restaurant
19 West 49th Street (between 5th and 6th Avenues)
ACCOMMODATIONS HOTEL: The 2004 Republican National Convention has secured a block of rooms at the Westin New York Times Square Hotel at a rate of $208/ per night (not including taxes). Members of the media who require hotel accommodations should call at the Westin can make reservations by calling (888) 627-7149 no later than December 1st. Members of the media making hotel reservations will need to identify themselves as being with the 2004 Republican National Convention Fall Media Walk-Through to receive the special Media Walk-through hotel rate.
REGISTRATION: Attached is a form to pre-register for both the Fall Media Walk-Through and the reception. Please respond by Friday, December 5, 2003.Registration will be from 11:30am ñ 1:00pm in the lobby of the Theater at Madison Square Garden.
Paid for by the Committee on Arrangements for the 2004 Republican National Convention
310 First Street, Southeast ( Washington, D.C. 20003 ( (202) 863-8800
Not authorized by any candidate or candidate committee.
MEDIA WALK-THROUGH PRE-REGISTRATION FORM
MADISON SQUARE GARDEN
TUESDAY, DECEMBER 16, 2003
Registration 11:30am-1:00pm
Briefing and Tour 1:00pm-5:00pm
Please respond no later than Friday, December 5, 2003
Please email the completed form to: mediawalkthrough@2004nycgop.org
NAME: Mauro Suttora
NEWS ORGANIZATION: Oggi Rizzoli
TITLE: U.S. Bureau Chief
ADDRESS: 31W 57 St., New York, NY 10019
EMAIL ADDRESS: mauro.suttora@rcsnewyork.com
OFFICE NUMBER: 212.418.2308
MOBILE NUMBER: 917.655.7424
Capacity for the Fall Media Walk-Through reception is limited to those registered for the Fall Media Walk-Through. Thank you.
For additional information please contact 212-356-2225 or email HYPERLINK "mailto:mediawalkthrough@2004nycgop.org" mediawalkthrough@2004nycgop.org
Paid for by the Committee on Arrangements for the 2004 Republican National Convention
310 First Street, Southeast ( Washington, D.C. 20003 ( (202) 863-8800
Not authorized by any candidate or candidate committee. Media Walk-Through Information and Pre-Registration FormRe mediawalkthrough@2004nycgop.org mediawalkthrough200 J.'ı
Wednesday, November 12, 2003
Morandi alla maratona di NY
Gianni Morandi, in America per la maratona, stupisce tutti
"Abbiamo pensato di sposarci qui, dove si può fare in quattro e quattr'otto", rivela il cantante, "ma alla fine abbiamo deciso di rimandare, però solo di qualche mese..." "Che gioia fare il papà a tempo pieno !"
di Mauro Suttora
Oggi, 12 novembre 2003
New York (Stati Uniti).
Al terzo tentativo c'è riuscito: quest'anno Gianni Morandi ha convinto la compagna Anna Dan ad accompagnarlo alla maratona di New York. Anche la signora ha corso, con un tempo più che onorevole per una debuttante: cinque ore e 18 minuti. Quattro ore e nove minuti ci ha invece messo Gianni, a coprire i 42 chilometri della corsa più popolare del mondo: i partecipanti sono stati 34 mila, 1.200 dei quali italiani, e fra questi 200 bolognesi.
"E pensare che la prima volta, cinque anni fa", ricorda Morandi, "da Bologna con la squadra "Celeste" eravamo appena in nove, e io ci misi quattro ore e mezzo. L'anno dopo, nel '99, stabilii invece il mio record: tre ore e quaranta".
Ora il cantante sta per compiere 59 anni ed è dovuto rimanere fermo parecchio dopo aver subito operazioni a entrambe le ginocchia: "Non correre più", mi ha detto il mio medico, "se lo fai rischi la protesi". E io gli ho risposto: "Ma con la protesi posso comunque continuare a cantare, no ? E allora rischio".
Incontriamo Morandi al ristorante Sandomenico. Defilata come sempre, c'è la compagna Anna Dan, che non ama mettersi in mostra. "Sì, quest' anno corre anche mia moglie", ci dice. Moglie ? Vi siete sposati ? "Ma guarda che stavamo per farlo proprio qui a New York", scherza, ma non troppo. "Alain Elkann, che è qui per l'inaugurazione della mostra su Fellini al museo Guggenheim, mi ha assicurato che si può fare in quattro e quattr'otto, senza pubblicazioni. È un matrimonio valido, poi lo si fa trascrivere dal consolato americano in Italia. Lui dice che si è sposato così, due anni fa, con Rosi Greco... Comunque io chiamo già "moglie" Anna perché ci sposeremo, probabilmente entro qualche mese".
E vostro figlio Pietro dov'è ? "L'abbiamo lasciato a Bologna dagli zii. Ormai ha sei anni, va a scuola, fa la prima elementare. Frequenta anche i corsi di calcio ogni pomeriggio, e a me piace accompagnarlo. Dopo la fine della trasmissione Uno di noi, lo scorso gennaio, mi sono preso un bel periodo di riposo proprio per passare più tempo assieme a lui. Non bisogna trascurare i figli, perché poi capita che quando finalmente torni a casa ti accorgi che hanno già fatto il servizio militare...".
Be' , non sembra che con gli altri due suoi figli, Marco e Marianna, il risultato sia stato negativo. "No, però quando loro erano piccoli io lavoravo veramente troppo".
È difficile intervistare Morandi, si è continuamente interrotti da amici e fan. Gianni, quanto si è allenato per questa maratona ? "Non molto, ho corso parecchio sull' erba ma non sul duro, che è più faticoso. Mia moglie ha fatto 21 chilometri a Bologna".
Come hai trovato New York quest'anno ? "L'ultima volta che sono venuto, nel '99, prima di tornare in Italia avevo visitato le Torri Gemelle. Sono rimasto molto colpito dall'11 settembre, ma mi pare che la città si sia ripresa bene dopo la depressione".
E New York ha ricompensato Morandi e sua "moglie" con alcune delle sue più belle giornate autunnali. La prima mattina, appena arrivati, i corridori bolognesi del gruppo Celeste, sotto la guida della veterana Laura Fogli (dodici maratone all' attivo, otto delle quali da vera atleta e una volta è arrivata seconda), si sono dati appuntamento alle otto all' entrata del parco, e poi hanno corso fino al Reservoir, il famoso lago attorno al quale correva il Maratoneta Dustin Hoffman nell' omonimo film.
Ma la vera sorpresa arriva il giorno dopo, la mattina di sabato primo novembre, quando al gruppetto dei jogger mattutini di Morandi si aggiunge per una sgambata Romano Prodi. Il presidente dell'Unione europea, anche lui bolognese, è appena arrivato dalla Cina dov'era andato in visita ufficiale con Silvio Berlusconi, e per ritornare in Europa ha preferito proseguire verso Est fino agli Stati Uniti. Incurante del fuso orario, Prodi ha corso e scherzato con Morandi. Ed è lo stesso Gianni a offrire ai lettori di Oggi la foto scoop privata di questo incontro inaspettato a New York.
Il prossimo appuntamento di Morandi con i fan italiani è per gennaio, quando partirà la sua tournée. Intanto in queste settimane su tutte le Tv arriva lo spot (voluto dal ministro del Welfare, Maroni), con la canzone Il mio amico composta da Gianni e dedicata ai disabili: "Il mio amico cammina che sembra un pendolo/ma tu guarda che razza di scherzi ti fa la vita".
Mauro Suttora