Un curioso paradosso: i postfascisti di An più democratici dei «liberali» di Forza Italia: niente «Uomo della provvidenza» nel Popolo della Libertà
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
Il congresso di scioglimento di An passerà forse alla storia perché conclude l'avventura sessantennale del Msi. Ma sicuramente passa alla cronaca per il debutto in pubblico della nuova compagna di Gianfranco Fini, Elisabetta Tulliani. Un cambio non solo simbolico: l'ex moglie di Fini, Daniela, rappresentava infatti il passato anche politico del presidente della Camera, poiché entrambi sono stati militanti neofascisti, con il braccio alzato nel saluto romano.
Ora gli ex di An andranno d'accordo con gli ex di Forza Italia, oppure il Popolo della libertà scricchiolerà nel giro di pochi mesi, com'è capitato al Partito democratico dove ex comunisti ed ex democristiani non si sono amalgamati? Finché c'è Silvio Berlusconi non ci dovrebbero essere problemi. Ma gli ex fascisti sono abituati a una maggiore democrazia interna nel loro partito, rispetto a Forza Italia. Il «culto del Capo» non fa per loro: neppure Giorgio Almirante, come ricorda Italo Bocchino in queste pagine, riusciva a imporre la propria volontà senza discutere.
Avremo così, nel grande partito del centrodestra, dei «liberali» che si affidano all'Uomo della provvidenza di Arcore, mentre gli ex nostalgici dell'Uomo della provvidenza di Predappio pretenderanno voti democratici e dirigenti eletti, non più nominati dall'alto. Lo ha anticipato Fini: «Niente culto della personalità per Berlusconi». Un curioso paradosso.
Thursday, March 26, 2009
I partiti personali
LA CASTINA
E questi privilegi milionari chi li tocca ?
il palazzo degli sprechi non conosce crisi
Fiumi di denaro ad amministratori locali e partiti "inesistenti". Da Nord a Sud. Uno sconsolante viaggio nella cara politica
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
A Roma basta essere consigliere comunale di un partito con un solo eletto per ottenere l' auto blu. E tutti, all' unanimità, dall' estrema destra all' estrema sinistra, si sono appena autoassegnati 75 nuovi portaborse, togliendoli all' anagrafe e ad altri uffici comunali dove rendevano servizi preziosi per i cittadini.
Insomma: i partiti litigano, ma quando si passa a incassare tutti si uniscono magicamente. E anche se Silvio Berlusconi promette di dimezzare i parlamentari, la crisi economica non sembra toccare la casta dei politici di professione. Invece di diminuire, i costi della politica aumentano. I partiti che prendono soldi statali si sono moltiplicati. Le liste regionali, per esempio.
Una volta c'erano solo la Suedtiroler Volkspartei a Bolzano e l' Union Valdotaine ad Aosta. Oggi invece sono 32. Oltre alla trentina di partiti nazionali che continuano a partecipare alle elezioni locali. Una cifra incredibile. Così, un fiume di denaro finanzia tante minicaste locali: solo di stipendi i 1.118 consiglieri regionali ci costano 620 milioni a legislatura.
"E aumentano pure loro", denunciano gli ex senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, autori del libro Il costo della democrazia: "La Campania li ha aumentati da 60 a 80, Lazio e Puglia da 60 a 70, l' Emilia da 50 a 65, Liguria e Abruzzo da 50 a 60". Non solo Roma, quindi. Anzi, gli scandali negli ultimi mesi sono avvenuti lontano dalla capitale: Pescara, Basilicata, Napoli.
Dal 2005 il finanziamento pubblico è stato esteso anche a liste che si presentano in una sola Regione. Grande impulso ai "partiti del presidente": Insieme per Mercedes Bresso in Piemonte (che nel 2007 ha incassato mezzo milione di euro), Per la Liguria Sandro Biasotti (640mila), Per il Veneto con Massimo Carraro (925mila), Cittadini per Riccardo Illy in Friuli Venezia Giulia (425mila), L' Aquilone dell' ex presidente siciliano Totò Cuffaro, che si è dovuto dimettere lo scorso gennaio dopo una condanna a cinque anni per favoreggiamento a Cosa Nostra (1,4 milioni).
Puglia. Anche ad altri governatori la lista personale non ha portato fortuna. La Puglia prima di tutto del ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto è stata fonte solo di guai (oltre che di un finanziamento per oltre 1,6 milioni). Infatti l' ex governatore pugliese è stato accusato di avere preso una tangente di mezzo milione dalla società Tosinvest per un megappalto sanitario da 200 milioni (la gestione di undici residenze per anziani). Fitto non nega che la Tosinvest di Antonio Angelucci (deputato Pdl con il figlio recentemente arrestato per un' altra accusa di tangenti) abbia versato 500mila euro alla lista Puglia prima di tutto. Ma sostiene che era un normale contributo elettorale. Il 30 marzo ci sarà l' udienza preliminare.
In Puglia c' è un altro partitino regionale finanziato dallo Stato: Primavera pugliese. Con appena il 2,3% è riuscita a eleggere due consiglieri per il centrosinistra. Incassano 450mila euro.
Sicilia. Guai giudiziari per la lista Nuova Sicilia dell' ex vicepresidente e assessore regionale Bartolo Pellegrino. Prende 430mila euro, ma il titolare è stato arrestato e ora è sotto processo a Trapani per concorso esterno in associazione mafiosa. Incassa cinque milioni il Mpa (Movimento per l' autonomia) di Raffaele Lombardo, che si è trasformato in partito nazionale.
Lazio. Qui la sfida fra i due governatori (quello uscente di destra Francesco Storace e quello entrante di sinistra Piero Marrazzo) quattro anni fa finì quasi alla pari: 200mila voti e il 7% per entrambe le loro liste personali. Vinse la coalizione di centrosinistra, ed entrambi continuano a incassare 1,6 milioni ciascuno per il proprio partitino. Quello di Storace ha sede nel quartiere Prati. Ma sul citofono non ne risulta traccia: lì c' è solo lo studio del tesoriere della Lista. In compenso, il sito internet di Storace è ben funzionante. Quello di Marrazzo, invece, è aggiornato al 2005: abbandonato dopo il voto. Ma la sede esiste, alla Garbatella. C' è una targa vicino al portone, che però è chiuso: "Ogni tanto viene una signora, qualche ora al pomeriggio", racconta un vicino.
Veneto. Il Progetto Nordest in Veneto con il suo 6 per cento fuori dalle coalizioni provocò un certo sconquasso nel 2005. E l' anno dopo fu addirittura la causa della sconfitta nazionale di Berlusconi, con i voti sottratti al centrodestra. Il fondatore, l' industriale degli infissi Giorgio Panto, è morto due anni fa. Ma i suoi due successori, che stanno incassando i 430mila euro statali, si sono appena alleati con altri movimenti che minacciano la Lega Nord da destra. In Veneto sono finanziati anche due micropartiti: le liste civiche del Nordest e l' Intesa dolomitica di Belluno. Briciole: 28mila euro ciascuna.
Trentino Alto Adige. Qui c' è il record: ben otto partiti locali. La Lista civica del presidente provinciale di Trento Lorenzo Dellai ha preso un milione in cinque anni, mentre la Svp di Bolzano ha incassato sei milioni.
Sardegna. Fortza Paris ha eletto tre consiglieri nel 2004 prendendo 340mila euro. Quattro eletti e 440mila euro hanno avuto i Riformatori liberaldemocratici di Massimo Fantola, aumentati alle ultime elezioni.
Campania. Giuseppe Ossario incassa 370mila euro con i Repubblicani Democrazia Liberale.
Val d' Aosta. Quelli dell' Alleanza autonomista e progressista, poco esperti, un anno fa si sono dimenticati di fare domanda e stavano per perdere i 900mila euro loro assegnati. "Si sono fatti fare una legge apposta per riaprire i termini", mugugnano i rivali dell' Union Valdotaine.
"Insomma, nonostante la crisi i politici continuano a sprecare denaro", commenta Sergio Rizzo, autore del bestseller La Casta con Gian Antonio Stella. "In Spagna il finanziamento statale ai partiti è stato di recente ridotto del 20 per cento. Da noi, niente".
Mauro Suttora
E questi privilegi milionari chi li tocca ?
il palazzo degli sprechi non conosce crisi
Fiumi di denaro ad amministratori locali e partiti "inesistenti". Da Nord a Sud. Uno sconsolante viaggio nella cara politica
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
A Roma basta essere consigliere comunale di un partito con un solo eletto per ottenere l' auto blu. E tutti, all' unanimità, dall' estrema destra all' estrema sinistra, si sono appena autoassegnati 75 nuovi portaborse, togliendoli all' anagrafe e ad altri uffici comunali dove rendevano servizi preziosi per i cittadini.
Insomma: i partiti litigano, ma quando si passa a incassare tutti si uniscono magicamente. E anche se Silvio Berlusconi promette di dimezzare i parlamentari, la crisi economica non sembra toccare la casta dei politici di professione. Invece di diminuire, i costi della politica aumentano. I partiti che prendono soldi statali si sono moltiplicati. Le liste regionali, per esempio.
Una volta c'erano solo la Suedtiroler Volkspartei a Bolzano e l' Union Valdotaine ad Aosta. Oggi invece sono 32. Oltre alla trentina di partiti nazionali che continuano a partecipare alle elezioni locali. Una cifra incredibile. Così, un fiume di denaro finanzia tante minicaste locali: solo di stipendi i 1.118 consiglieri regionali ci costano 620 milioni a legislatura.
"E aumentano pure loro", denunciano gli ex senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, autori del libro Il costo della democrazia: "La Campania li ha aumentati da 60 a 80, Lazio e Puglia da 60 a 70, l' Emilia da 50 a 65, Liguria e Abruzzo da 50 a 60". Non solo Roma, quindi. Anzi, gli scandali negli ultimi mesi sono avvenuti lontano dalla capitale: Pescara, Basilicata, Napoli.
Dal 2005 il finanziamento pubblico è stato esteso anche a liste che si presentano in una sola Regione. Grande impulso ai "partiti del presidente": Insieme per Mercedes Bresso in Piemonte (che nel 2007 ha incassato mezzo milione di euro), Per la Liguria Sandro Biasotti (640mila), Per il Veneto con Massimo Carraro (925mila), Cittadini per Riccardo Illy in Friuli Venezia Giulia (425mila), L' Aquilone dell' ex presidente siciliano Totò Cuffaro, che si è dovuto dimettere lo scorso gennaio dopo una condanna a cinque anni per favoreggiamento a Cosa Nostra (1,4 milioni).
Puglia. Anche ad altri governatori la lista personale non ha portato fortuna. La Puglia prima di tutto del ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto è stata fonte solo di guai (oltre che di un finanziamento per oltre 1,6 milioni). Infatti l' ex governatore pugliese è stato accusato di avere preso una tangente di mezzo milione dalla società Tosinvest per un megappalto sanitario da 200 milioni (la gestione di undici residenze per anziani). Fitto non nega che la Tosinvest di Antonio Angelucci (deputato Pdl con il figlio recentemente arrestato per un' altra accusa di tangenti) abbia versato 500mila euro alla lista Puglia prima di tutto. Ma sostiene che era un normale contributo elettorale. Il 30 marzo ci sarà l' udienza preliminare.
In Puglia c' è un altro partitino regionale finanziato dallo Stato: Primavera pugliese. Con appena il 2,3% è riuscita a eleggere due consiglieri per il centrosinistra. Incassano 450mila euro.
Sicilia. Guai giudiziari per la lista Nuova Sicilia dell' ex vicepresidente e assessore regionale Bartolo Pellegrino. Prende 430mila euro, ma il titolare è stato arrestato e ora è sotto processo a Trapani per concorso esterno in associazione mafiosa. Incassa cinque milioni il Mpa (Movimento per l' autonomia) di Raffaele Lombardo, che si è trasformato in partito nazionale.
Lazio. Qui la sfida fra i due governatori (quello uscente di destra Francesco Storace e quello entrante di sinistra Piero Marrazzo) quattro anni fa finì quasi alla pari: 200mila voti e il 7% per entrambe le loro liste personali. Vinse la coalizione di centrosinistra, ed entrambi continuano a incassare 1,6 milioni ciascuno per il proprio partitino. Quello di Storace ha sede nel quartiere Prati. Ma sul citofono non ne risulta traccia: lì c' è solo lo studio del tesoriere della Lista. In compenso, il sito internet di Storace è ben funzionante. Quello di Marrazzo, invece, è aggiornato al 2005: abbandonato dopo il voto. Ma la sede esiste, alla Garbatella. C' è una targa vicino al portone, che però è chiuso: "Ogni tanto viene una signora, qualche ora al pomeriggio", racconta un vicino.
Veneto. Il Progetto Nordest in Veneto con il suo 6 per cento fuori dalle coalizioni provocò un certo sconquasso nel 2005. E l' anno dopo fu addirittura la causa della sconfitta nazionale di Berlusconi, con i voti sottratti al centrodestra. Il fondatore, l' industriale degli infissi Giorgio Panto, è morto due anni fa. Ma i suoi due successori, che stanno incassando i 430mila euro statali, si sono appena alleati con altri movimenti che minacciano la Lega Nord da destra. In Veneto sono finanziati anche due micropartiti: le liste civiche del Nordest e l' Intesa dolomitica di Belluno. Briciole: 28mila euro ciascuna.
Trentino Alto Adige. Qui c' è il record: ben otto partiti locali. La Lista civica del presidente provinciale di Trento Lorenzo Dellai ha preso un milione in cinque anni, mentre la Svp di Bolzano ha incassato sei milioni.
Sardegna. Fortza Paris ha eletto tre consiglieri nel 2004 prendendo 340mila euro. Quattro eletti e 440mila euro hanno avuto i Riformatori liberaldemocratici di Massimo Fantola, aumentati alle ultime elezioni.
Campania. Giuseppe Ossario incassa 370mila euro con i Repubblicani Democrazia Liberale.
Val d' Aosta. Quelli dell' Alleanza autonomista e progressista, poco esperti, un anno fa si sono dimenticati di fare domanda e stavano per perdere i 900mila euro loro assegnati. "Si sono fatti fare una legge apposta per riaprire i termini", mugugnano i rivali dell' Union Valdotaine.
"Insomma, nonostante la crisi i politici continuano a sprecare denaro", commenta Sergio Rizzo, autore del bestseller La Casta con Gian Antonio Stella. "In Spagna il finanziamento statale ai partiti è stato di recente ridotto del 20 per cento. Da noi, niente".
Mauro Suttora
Wednesday, March 18, 2009
intervista a Yunus
La ricetta anticrisi del banchiere dei poveri
Oggi, 18 marzo 2009
«La ricetta è: cambiare mentalità. Guardare all’economia non solo con gli occhiali del massimo profitto, ma anche con quelli del business solidale. Che non è una predica, non vuol dire “bontà” o disinteresse. Anzi, è nell’interesse di tutti che l’economia funzioni. E il business solidale funziona».
Mohammed Yunus, 69 anni, premio Nobel per la pace nel 2006. Fondatore della Grameen Bank del Bangladesh, che in trent’anni ha erogato cinque miliardi di microprestiti a cinque milioni di persone. «Ma non siamo una cosa solo da Terzo mondo. La nostra filiale di New York aperta un anno fa finanzia iniziative di donne con una media di 2.200 dollari a prestito. E presto arriveremo in Italia, in collaborazione con Unicredit».
Incontriamo Yunus a Roma, ospite della Fondazione Ducci. Arriva da Milano in treno, alla stazione Termini lo riconoscono e applaudono.
«Questa crisi è stata causata da poche persone in pochi Paesi», ci dice il «banchiere dei poveri». «I miliardari stanno perdendo miliardi, ma rimarranno con qualche miliardo. Molte persone, invece, stanno perdendo tutto: lavoro, casa, cibo. Eppure, c’è un lato positivo anche nella crisi: è un’opportunità per cambiare. Le cose che non funzionano si cambiano, no? Prima tutto sembrava andare bene, anche se nel mondo quasi un miliardo di persone soffre ancora la fame. Oggi invece tutti ci rendiamo conto che la regola del massimo profitto non funziona, da sola. Bisogna affiancarle l’economia solidale»
.
Ma il settore no-profit e il volontariato esistono da tempo, anche nel nostro mondo industrializzato.
«Sì, però negli ultimi decenni le banche si sono trasformate quasi in bische per scommesse, e adesso i fondi speculativi stanno facendo pagare il conto a tutti, anche a chi non aveva investito in hedge fund con guadagni colossali. Il loro rischio lo stiamo pagando tutti. Quindi bisogna revisionare il sistema, ormai lo riconosce ogni governo ».
Yunus è un misto di Gesù, Marx e Gandhi. Non una parola d’odio o di contrapposizione esce dalla sua bocca. I suoi slogan sono: fiducia e coinvolgimento.
«Noi non andiamo a protestare sotto le sedi delle multinazionali o ai vertici politici. Cerchiamo di far capire al business tradizionale che è conveniente investire anche nel business solidale. Con la francese Danone, per esempio, produciamo uno yogurt che costa pochissimo e che, arricchito di vitamine, salva da fame e malattie decine di migliaia di nostri bambini. Con la Volkswagen stiamo mettendo a punto un’auto adatta al Terzo mondo, con un motore poco inquinante e soprattutto multi-uso: funziona anche come irrigatore, pompa anti-alluvione, generatore di elettricità e motore per barca. Abbiamo dato un telefonino a 400 mila donne del Bangladesh, e adesso siamo la prima società telefonica del Paese. Domani firmo un accordo con la Basf per una medicina contro la carenza di ferro e per reti antizanzara contro la malaria. Riusciamo a far pagare l’acqua potabile un centesimo ogni quattro litri. E abbiamo proposto ad Adidas di inventare la scarpa che costa un euro: vendendone centinaia di milioni, ci guadagneranno. Ma per tutto questo dobbiamo mettere gli occhiali della creatività e del business solidale».
Lei è un banchiere, e un professore laureato nella prestigiosa università statunitense di Vanderbilt. Perché oggi sono proprio le banche al centro della crisi?
«Perché non hanno fiducia nella gente, e non prestano soldi a chi non ha già. Anche in Italia ci sono milioni di persone escluse dal credito. Perfino nei ricchi Stati Uniti molti lavoratori non possono neppure incassare l’assegno con cui vengono pagati, perché non hanno un conto. Devono andare dalle società che cambiano assegni, e invece di mille dollari ne avranno 800. Eppure le banche possono essere uno strumento di pace, ne ho appena parlato con mister Profumo di Unicredit. Non è vero che i poveri sono debitori inaffidabili, noi abbiamo un tasso di rimborso del prestito di oltre il 90%. Senza garanzie, ipoteche, avvocati. Solo fiducia. La cui mancanza è la causa dell’attuale crisi, tutti lo ammettono».
Quando supereremo la crisi?
«Presto. Sono ottimista. Basta cambiare le cose che l’hanno provocata, e ricostruire il sistema inserendo accanto ai business tradizionali quelli solidali. Spero in Obama, sua madre lavorava proprio nel microcredito, era andata in Indonesia con lui piccolino per svilupparlo. Meglio guadagnare cento in un colpo solo, magari sfruttando, impoverendo e incattivendo qualcun altro, o guadagnare dieci all’anno per dieci anni, con soddisfazione di tutti? La risposta è facile».
Mauro Suttora
Oggi, 18 marzo 2009
«La ricetta è: cambiare mentalità. Guardare all’economia non solo con gli occhiali del massimo profitto, ma anche con quelli del business solidale. Che non è una predica, non vuol dire “bontà” o disinteresse. Anzi, è nell’interesse di tutti che l’economia funzioni. E il business solidale funziona».
Mohammed Yunus, 69 anni, premio Nobel per la pace nel 2006. Fondatore della Grameen Bank del Bangladesh, che in trent’anni ha erogato cinque miliardi di microprestiti a cinque milioni di persone. «Ma non siamo una cosa solo da Terzo mondo. La nostra filiale di New York aperta un anno fa finanzia iniziative di donne con una media di 2.200 dollari a prestito. E presto arriveremo in Italia, in collaborazione con Unicredit».
Incontriamo Yunus a Roma, ospite della Fondazione Ducci. Arriva da Milano in treno, alla stazione Termini lo riconoscono e applaudono.
«Questa crisi è stata causata da poche persone in pochi Paesi», ci dice il «banchiere dei poveri». «I miliardari stanno perdendo miliardi, ma rimarranno con qualche miliardo. Molte persone, invece, stanno perdendo tutto: lavoro, casa, cibo. Eppure, c’è un lato positivo anche nella crisi: è un’opportunità per cambiare. Le cose che non funzionano si cambiano, no? Prima tutto sembrava andare bene, anche se nel mondo quasi un miliardo di persone soffre ancora la fame. Oggi invece tutti ci rendiamo conto che la regola del massimo profitto non funziona, da sola. Bisogna affiancarle l’economia solidale»
.
Ma il settore no-profit e il volontariato esistono da tempo, anche nel nostro mondo industrializzato.
«Sì, però negli ultimi decenni le banche si sono trasformate quasi in bische per scommesse, e adesso i fondi speculativi stanno facendo pagare il conto a tutti, anche a chi non aveva investito in hedge fund con guadagni colossali. Il loro rischio lo stiamo pagando tutti. Quindi bisogna revisionare il sistema, ormai lo riconosce ogni governo ».
Yunus è un misto di Gesù, Marx e Gandhi. Non una parola d’odio o di contrapposizione esce dalla sua bocca. I suoi slogan sono: fiducia e coinvolgimento.
«Noi non andiamo a protestare sotto le sedi delle multinazionali o ai vertici politici. Cerchiamo di far capire al business tradizionale che è conveniente investire anche nel business solidale. Con la francese Danone, per esempio, produciamo uno yogurt che costa pochissimo e che, arricchito di vitamine, salva da fame e malattie decine di migliaia di nostri bambini. Con la Volkswagen stiamo mettendo a punto un’auto adatta al Terzo mondo, con un motore poco inquinante e soprattutto multi-uso: funziona anche come irrigatore, pompa anti-alluvione, generatore di elettricità e motore per barca. Abbiamo dato un telefonino a 400 mila donne del Bangladesh, e adesso siamo la prima società telefonica del Paese. Domani firmo un accordo con la Basf per una medicina contro la carenza di ferro e per reti antizanzara contro la malaria. Riusciamo a far pagare l’acqua potabile un centesimo ogni quattro litri. E abbiamo proposto ad Adidas di inventare la scarpa che costa un euro: vendendone centinaia di milioni, ci guadagneranno. Ma per tutto questo dobbiamo mettere gli occhiali della creatività e del business solidale».
Lei è un banchiere, e un professore laureato nella prestigiosa università statunitense di Vanderbilt. Perché oggi sono proprio le banche al centro della crisi?
«Perché non hanno fiducia nella gente, e non prestano soldi a chi non ha già. Anche in Italia ci sono milioni di persone escluse dal credito. Perfino nei ricchi Stati Uniti molti lavoratori non possono neppure incassare l’assegno con cui vengono pagati, perché non hanno un conto. Devono andare dalle società che cambiano assegni, e invece di mille dollari ne avranno 800. Eppure le banche possono essere uno strumento di pace, ne ho appena parlato con mister Profumo di Unicredit. Non è vero che i poveri sono debitori inaffidabili, noi abbiamo un tasso di rimborso del prestito di oltre il 90%. Senza garanzie, ipoteche, avvocati. Solo fiducia. La cui mancanza è la causa dell’attuale crisi, tutti lo ammettono».
Quando supereremo la crisi?
«Presto. Sono ottimista. Basta cambiare le cose che l’hanno provocata, e ricostruire il sistema inserendo accanto ai business tradizionali quelli solidali. Spero in Obama, sua madre lavorava proprio nel microcredito, era andata in Indonesia con lui piccolino per svilupparlo. Meglio guadagnare cento in un colpo solo, magari sfruttando, impoverendo e incattivendo qualcun altro, o guadagnare dieci all’anno per dieci anni, con soddisfazione di tutti? La risposta è facile».
Mauro Suttora
Wednesday, March 11, 2009
Rottamare le case
Lezione dagli Usa: ricostruire i palazzi dopo 70 anni
di Mauro Suttora
Libero, martedì 10 marzo 2009
Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù, si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.
Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.
A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in “case-polmone” per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.
Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.
Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni ’50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.
Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.
Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano.
Ora la crisi sta mordendo duro nelle città americane. Manhattan non fa eccezione: sono almeno trenta i cantieri di grattacieli bloccati. Ce l’ha fatta per un pelo il palazzone residenziale al numero 15 di Central Park West, accanto a una delle tante torri Trump, sorto sulle rovine di una costruzione fine Ottocento: i costruttori Zeckendorf hanno venduto tutti gli appartamenti poche settimane prima della crisi. Fra gli acquirenti, l’attore Denzel Washington (ha pagato 12 milioni per 300 metri quadri con vista su Central Park) e il cantante Sting. Non così fortunato il nuovo palazzo di Richard Meier, l’architetto della contestata Ara Pacis a Roma: la sua residenza di lusso a Chelsea, con le vetrate che danno sull’Hudson, è piena solo a metà.
Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel ’68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, martedì 10 marzo 2009
Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù, si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.
Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.
A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in “case-polmone” per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.
Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.
Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni ’50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.
Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.
Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano.
Ora la crisi sta mordendo duro nelle città americane. Manhattan non fa eccezione: sono almeno trenta i cantieri di grattacieli bloccati. Ce l’ha fatta per un pelo il palazzone residenziale al numero 15 di Central Park West, accanto a una delle tante torri Trump, sorto sulle rovine di una costruzione fine Ottocento: i costruttori Zeckendorf hanno venduto tutti gli appartamenti poche settimane prima della crisi. Fra gli acquirenti, l’attore Denzel Washington (ha pagato 12 milioni per 300 metri quadri con vista su Central Park) e il cantante Sting. Non così fortunato il nuovo palazzo di Richard Meier, l’architetto della contestata Ara Pacis a Roma: la sua residenza di lusso a Chelsea, con le vetrate che danno sull’Hudson, è piena solo a metà.
Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel ’68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto.
Mauro Suttora
Wednesday, March 04, 2009
Diario di Claretta Petacci, 1938
SEX DUX
A LETTO CON BENITO (COME IN UN LIBRO DI MOCCIA) - L’AMORE totale DELlA “STENOGRAFA” PETACCI PER MUSSOLINI – IL DUCE DOVEVA CHIAMARLA DIECI VOLTE AL GIORNO PER NON FARLA INGELOSIRE -
reso pubblico l’anno 1938 del diario dela grafomane Claretta…
Mauro Suttora per il settimanale 'OGGI'
4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la gelosissima amante Claretta Petacci.
È stato appena reso pubblico l'anno 1938 del diario della Petacci. L'Archivio di Stato, infatti, fa passare settant'anni prima di togliere il segreto. «Il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni private», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci.
Per decenni gli storici hanno sperato che quelle carte provassero una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi.
Il diario del '38 non offre rivelazioni politiche, ma dal punto di vista personale quelle pagine sono una miniera. Claretta era una grafomane, riempiva migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito.
Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il diario, si capisce come pochi anni dopo si sia fatta fucilare con Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. È il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta la fa resocontare parola per parola ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - da anni: l'ha conosciuto nel '32, fanno l'amore dal '36 - sono occupate dall'attesa di parlare con lui. E il resto del tempo la Petacci scrive. È una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel. alle 3 quando torno qui, amore».
Una scena quasi comica
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione, e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato con un'altra.
La prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, non mi sento, non ne ho voglia.
Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (...) Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel. fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - non esco. Non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare spettacolo nello spettacolo. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo ‘bottone' con l'ex ministro ungherese, adesso devo vedere Marinetti. Farò presto».
«7 e 1/2. È stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita").
Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stai attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse...
Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
Queste parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, o appartengono al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. A teatro il suo resoconto si trasforma in cronaca:
«Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso.
Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. (...) Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio».
«Telefonata, 12 e 3/4. Amore, quanto ti ho guardata. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. E per me non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami.
Dentro questo teatro non ci siamo che noi. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima, mi piacevi tanto. Dimmi che mi ami. Pensavo: questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore.
Amore, hai sentito quanto ti amo. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, amore, sei sola nella mia vita. Dormi con la mia voce, le mie parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Sesso a Palazzo Venezia
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938. Lo sai amore, ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui sono folle, domani sarà ancora mia".
Ti vedevo, e quando sei salita ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là, mi dice».
Mauro Suttora
A LETTO CON BENITO (COME IN UN LIBRO DI MOCCIA) - L’AMORE totale DELlA “STENOGRAFA” PETACCI PER MUSSOLINI – IL DUCE DOVEVA CHIAMARLA DIECI VOLTE AL GIORNO PER NON FARLA INGELOSIRE -
reso pubblico l’anno 1938 del diario dela grafomane Claretta…
Mauro Suttora per il settimanale 'OGGI'
4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la gelosissima amante Claretta Petacci.
È stato appena reso pubblico l'anno 1938 del diario della Petacci. L'Archivio di Stato, infatti, fa passare settant'anni prima di togliere il segreto. «Il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni private», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci.
Per decenni gli storici hanno sperato che quelle carte provassero una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi.
Il diario del '38 non offre rivelazioni politiche, ma dal punto di vista personale quelle pagine sono una miniera. Claretta era una grafomane, riempiva migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito.
Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il diario, si capisce come pochi anni dopo si sia fatta fucilare con Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. È il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta la fa resocontare parola per parola ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - da anni: l'ha conosciuto nel '32, fanno l'amore dal '36 - sono occupate dall'attesa di parlare con lui. E il resto del tempo la Petacci scrive. È una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel. alle 3 quando torno qui, amore».
Una scena quasi comica
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione, e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato con un'altra.
La prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, non mi sento, non ne ho voglia.
Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (...) Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel. fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - non esco. Non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare spettacolo nello spettacolo. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo ‘bottone' con l'ex ministro ungherese, adesso devo vedere Marinetti. Farò presto».
«7 e 1/2. È stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita").
Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stai attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse...
Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
Queste parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, o appartengono al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. A teatro il suo resoconto si trasforma in cronaca:
«Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso.
Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. (...) Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio».
«Telefonata, 12 e 3/4. Amore, quanto ti ho guardata. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. E per me non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami.
Dentro questo teatro non ci siamo che noi. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima, mi piacevi tanto. Dimmi che mi ami. Pensavo: questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore.
Amore, hai sentito quanto ti amo. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, amore, sei sola nella mia vita. Dormi con la mia voce, le mie parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Sesso a Palazzo Venezia
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938. Lo sai amore, ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui sono folle, domani sarà ancora mia".
Ti vedevo, e quando sei salita ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là, mi dice».
Mauro Suttora
Inedito: Claretta e Benito
UN GIORNO (E UNA NOTTE) NELLA VITA DI MUSSOLINI
"Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo"
ESCLUSIVO: Il diario 1938 di Claretta Petacci è stato reso pubblico dopo 70 anni. Dentro c’è un delirio amoroso, molta fantasia, poca politica. E sesso…
Roma, 4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Il dittatore italiano nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per questioni di lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la sua giovane e assillante amante Claretta Petacci, gelosissima (con ottime ragioni).
Sono state appena rese pubbliche le pagine sul 1938 del diario della Petacci. L'Archivio centrale dello Stato, che lo conserva, lascia infatti trascorrere un periodo di settant'anni prima di togliere il segreto su quei documenti. Di anno in anno, quindi, il diario di Claretta (che prosegue fino alla sua uccisione assieme a Benito, nel '45) viene messo a disposizione degli storici.
Siamo andati all'Eur nel palazzo (fascista) dell'Archivio, e abbiamo spulciato le «nuove» pagine. Diciamo subito che il diario non contiene decisive rivelazioni storiche. Perlomeno per l'anno 1938.
«Ma anche negli anni successivi il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni molto private, che non aggiungono granché alla comprensione dei tragici fatti di quegli anni», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci, che ha già controllato il prosieguo del diario e le minute delle lettere che Claretta spediva a Mussolini.
APPASSIONATA GRAFOMANE
Per decenni gli storici hanno sperato che da quelle carte saltassero fuori le prove di una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi fascisti in fuga. L'ultimo erede della famiglia Petacci, Ferdinando, 67 anni, che vive negli Stati Uniti, ha sempre reclamato la proprietà del diario e delle lettere. Ma lo Stato italiano gliel'ha negata.
Se politicamente il diario del '38 non offre novità, dal punto di vista privato quelle pagine sono una miniera. Le abbiamo lette con difficoltà, perché la scrittura della Petacci non è semplice da decifrare. Claretta infatti era una vera grafomane, ha riempito migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito. Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il suo diario, si capisce come pochi anni dopo abbia voluto farsi fucilare assieme a Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto alcun senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. E' il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta le impone di resocontare minuziosamente, parola per parola, ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - e ormai da anni, l’ha conosciuto nel ’32, fanno l’amore dal ’36 - sono occupate dall'attesa di una conversazione col Duce. E il resto del tempo la Petacci scrive. Praticamente, è una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel alle 3 quando torno qui amore».
UNA SCENA QUASI COMICA
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne Duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione (anzi, un impero), e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama tronfio al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato nella sala del Mappamondo con un’altra.
La Petacci è tornata a vivere a casa con i suoi, nella residenza del padre Francesco Saverio medico personale del papa, dopo la separazione dal marito aviere. La loro casa non è lontana da villa Torlonia, sulla Nomentana, dove Mussolini vive con la possessiva moglie Rachele e i figli. E dove torna ogni giorno per pranzo.
Preso fra due fuochi di gelosia, la prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, io non mi sento, non ne ho voglia. Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo. Sì, va bene ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (dato che si era inquietato, prima gli ho detto "Non è il caso di bisticciare per questo"). Hai ragione. Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - e non esco. Tu non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare lo spettacolo nello spettacolo. Così va bene. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
IL 'BOTTONE'
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo bottone, adesso devo vedere Marinetti, immagina. Era l'ex ministro ungherese. Adesso farò presto».
«7 e 1/2. E' stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che tu mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita”). Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stati attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse… Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
A TEATRO
Quante parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, e quanto invece appartiene al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. Possiamo solo affidarci al suo resoconto. Che a teatro si trasforma in cronaca: «Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso. Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. Alla mia destra c'è una cinquantenne che lo fissa con l'occhialino, una vecchia amante dev'essere. Lui non so se la vede. Durante lo spettacolo mi guarda tanto con desiderio. Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio. Mi guarda sempre, anch'io».
TELEFONATA NOTTURNA
«Alle 12 e 3/4. Amore, amore, cara, quanto ti ho guardato. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. L'unico, il solo per la mia piccola. E pensavo ancora: per me in questo teatro non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami. Dentro questo teatro non ci siamo che noi, io e lei. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, e guardandoti ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima amore, mi piacevi tanto, davvero era bello. Dimmi che mi ami. Pensavo: domani questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore. Sarà con me domani. Amore, hai sentito quanto ti amo, il mio amore ti avvolgeva. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, Clara, amore, sei sola nella mia vita Clara. Dormi con la mia voce e le mie dolci parole. Queste parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Amore, dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me. Vieni a me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Difficile immaginare che questo sproloquio sdolcinato sia uscito dalla bocca dello sbrigativo e «maschio» dittatore, seppure innamorato o in cerca di perdono per un recente tradimento. Più facile che Claretta scriva di notte per dar sfogo alle proprie fantasie romantiche, per placare la solitudine. E forse anche per lottare contro l'insonnia.
DUCE A LUCI ROSSE
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938, XVI E.F. [era fascista] Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata 3 volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie io sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sarà ancora mia". Ti vedevo, e quando sei salita su ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, io ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là lungo la strada, mi dice. Davvero anche tu pensavi questo?»
Chissà, se il Fuhrer avesse letto le parole di questo inedito «Duce a luci rosse», così poco marziale, forse non avrebbe voluto l'Italia alleata in guerra...
Mauro Suttora
"Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo"
ESCLUSIVO: Il diario 1938 di Claretta Petacci è stato reso pubblico dopo 70 anni. Dentro c’è un delirio amoroso, molta fantasia, poca politica. E sesso…
Roma, 4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Il dittatore italiano nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per questioni di lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la sua giovane e assillante amante Claretta Petacci, gelosissima (con ottime ragioni).
Sono state appena rese pubbliche le pagine sul 1938 del diario della Petacci. L'Archivio centrale dello Stato, che lo conserva, lascia infatti trascorrere un periodo di settant'anni prima di togliere il segreto su quei documenti. Di anno in anno, quindi, il diario di Claretta (che prosegue fino alla sua uccisione assieme a Benito, nel '45) viene messo a disposizione degli storici.
Siamo andati all'Eur nel palazzo (fascista) dell'Archivio, e abbiamo spulciato le «nuove» pagine. Diciamo subito che il diario non contiene decisive rivelazioni storiche. Perlomeno per l'anno 1938.
«Ma anche negli anni successivi il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni molto private, che non aggiungono granché alla comprensione dei tragici fatti di quegli anni», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci, che ha già controllato il prosieguo del diario e le minute delle lettere che Claretta spediva a Mussolini.
APPASSIONATA GRAFOMANE
Per decenni gli storici hanno sperato che da quelle carte saltassero fuori le prove di una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi fascisti in fuga. L'ultimo erede della famiglia Petacci, Ferdinando, 67 anni, che vive negli Stati Uniti, ha sempre reclamato la proprietà del diario e delle lettere. Ma lo Stato italiano gliel'ha negata.
Se politicamente il diario del '38 non offre novità, dal punto di vista privato quelle pagine sono una miniera. Le abbiamo lette con difficoltà, perché la scrittura della Petacci non è semplice da decifrare. Claretta infatti era una vera grafomane, ha riempito migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito. Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il suo diario, si capisce come pochi anni dopo abbia voluto farsi fucilare assieme a Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto alcun senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. E' il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta le impone di resocontare minuziosamente, parola per parola, ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - e ormai da anni, l’ha conosciuto nel ’32, fanno l’amore dal ’36 - sono occupate dall'attesa di una conversazione col Duce. E il resto del tempo la Petacci scrive. Praticamente, è una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel alle 3 quando torno qui amore».
UNA SCENA QUASI COMICA
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne Duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione (anzi, un impero), e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama tronfio al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato nella sala del Mappamondo con un’altra.
La Petacci è tornata a vivere a casa con i suoi, nella residenza del padre Francesco Saverio medico personale del papa, dopo la separazione dal marito aviere. La loro casa non è lontana da villa Torlonia, sulla Nomentana, dove Mussolini vive con la possessiva moglie Rachele e i figli. E dove torna ogni giorno per pranzo.
Preso fra due fuochi di gelosia, la prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, io non mi sento, non ne ho voglia. Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo. Sì, va bene ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (dato che si era inquietato, prima gli ho detto "Non è il caso di bisticciare per questo"). Hai ragione. Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - e non esco. Tu non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare lo spettacolo nello spettacolo. Così va bene. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
IL 'BOTTONE'
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo bottone, adesso devo vedere Marinetti, immagina. Era l'ex ministro ungherese. Adesso farò presto».
«7 e 1/2. E' stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che tu mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita”). Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stati attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse… Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
A TEATRO
Quante parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, e quanto invece appartiene al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. Possiamo solo affidarci al suo resoconto. Che a teatro si trasforma in cronaca: «Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso. Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. Alla mia destra c'è una cinquantenne che lo fissa con l'occhialino, una vecchia amante dev'essere. Lui non so se la vede. Durante lo spettacolo mi guarda tanto con desiderio. Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio. Mi guarda sempre, anch'io».
TELEFONATA NOTTURNA
«Alle 12 e 3/4. Amore, amore, cara, quanto ti ho guardato. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. L'unico, il solo per la mia piccola. E pensavo ancora: per me in questo teatro non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami. Dentro questo teatro non ci siamo che noi, io e lei. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, e guardandoti ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima amore, mi piacevi tanto, davvero era bello. Dimmi che mi ami. Pensavo: domani questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore. Sarà con me domani. Amore, hai sentito quanto ti amo, il mio amore ti avvolgeva. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, Clara, amore, sei sola nella mia vita Clara. Dormi con la mia voce e le mie dolci parole. Queste parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Amore, dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me. Vieni a me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Difficile immaginare che questo sproloquio sdolcinato sia uscito dalla bocca dello sbrigativo e «maschio» dittatore, seppure innamorato o in cerca di perdono per un recente tradimento. Più facile che Claretta scriva di notte per dar sfogo alle proprie fantasie romantiche, per placare la solitudine. E forse anche per lottare contro l'insonnia.
DUCE A LUCI ROSSE
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938, XVI E.F. [era fascista] Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata 3 volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie io sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sarà ancora mia". Ti vedevo, e quando sei salita su ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, io ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là lungo la strada, mi dice. Davvero anche tu pensavi questo?»
Chissà, se il Fuhrer avesse letto le parole di questo inedito «Duce a luci rosse», così poco marziale, forse non avrebbe voluto l'Italia alleata in guerra...
Mauro Suttora
Monday, March 02, 2009
Obama taglia i charity gala
LA BENEFICENZA PRIVATA USA
di Mauro Suttora
Libero, sabato 28 febbraio 2009
Avete presente quei cenoni che si vedono spesso nei film americani, con i tavoli rotondi da dieci posti nei saloni degli alberghi, gli uomini in smoking, le signore in abito lungo e qualcuno che parla dal podio?
Sono i «charity gala», feste di beneficenza privata che negli Stati Uniti compensano il basso livello di welfare pubblico (e di tasse).
Si va lì per gli scopi più vari (raccolta fondi per malattie, bimbi poveri, politici, università, ospedali, chiese, musei) e si contribuisce sia pagando il posto a tavola (dai cento dollari in su), sia partecipando a un’asta.
Ora Obama dà una bella stangata a tutto questo mondo di filantropia: la charity sarà deducibile dalle tasse, ma con un limite massimo del 28%. Il che, per i ricchi (oltre i 370mila dollari annui) la cui aliquota di imposta sul reddito torna dal 35 al 39% per cento pre-Bush, e anche per i benestanti dai 200mila in su (che salgono dall’attuale 33 al 36), rappresenta un discreto disincentivo.
Nel disperato bisogno di fronteggiare la crisi, Obama rischia così di mandare all’aria il modello americano di redistribuzione sociale. Finora infatti gli statunitensi hanno pagato circa la metà delle tasse degli europei. Ma sanità, assistenza, istruzione, religione, arte e cultura vengono finanziate grazie ai contributi spontanei (e detraibili) dei privati. Niente intermediazione parassitaria di burocrati e politici.
Non c’è famiglia ricca che non abbia una sua fondazione. E attorno alle serate di raccolta fondi si organizza anche la vita sociale degli americani. Ogni sera in un solo quartiere come Manhattan vengono organizzate decine di «charity gala». Sono coinvolti centinaia di camerieri, migliaia di invitati, decine di migliaia di fornitori. Si arriva presto, verso le sei, per l’aperitivo. Poi c’è l’asta. Quindi, verso le otto, tutti a tavola.
Durante la cena c’è qualche discorso: parla il benefattore, il beneficiato, e spesso un vip dello spettacolo o della politica invitato per dar lustro all’evento. Infine, dopo le dieci, negli eventi più festaioli si aprono le danze. Ma già alle undici si comincia ad andare a nanna. Non prima di avere raccolto la «goody bag», un sacchetto con i regalini degli sponsor. Durante i miei anni a New York ho ricevuto di tutto: profumi Dior, mutande, cravatte Yves Saint Laurent, pacchi di pasta De Cecco (a un gala della Camera di commercio italoamericana)…
Quella delle charities è una vera e propria industria. I benefit sono infatti organizzati da schiere di professionisti: maghi del fund-raising, funzionari di fondazioni, consulenti di relazioni pubbliche, addetti stampa… Una ragazza italiana che faceva questo mestiere mi ha svelato che i grandi alberghi come il Waldorf-Astoria, il Pierre o il Plaza impongono che ai banchetti si consumi il loro vino, ovviamente a un prezzo triplo. E se per risparmiare si portano le proprie bottiglie, bisogna versare al potente sindacati dei camerieri una considerevole «cork fee» (tariffa di tappo…)
Per le signore dell’alta borghesia la filantropia è spesso l’attività principale della propria esistenza. A seconda dell’entità del contributo versato dai loro mariti miliardari, possono agguantare un posto nel consiglio d’amministrazione di un museo, di una fondazione, di un club, e sedere accanto a un Rockefeller, un Soros, un Kennedy. Spesso sono le aziende che, per obblighi d’immagine, devono comprare interi tavoli per questi gala. A New York, per esempio, la Rai e le multinazionali italiane finanziano il benefit annuale della Fondazione anticancro, quello del Columbus Day del 12 ottobre (festa degli italoamericani), e i gala della scuola italiana o della fondazione per salvare Venezia.
Nella loro allegra generosità, gli americani finanziano le cause più disparate. A nessuno negli Stati Uniti viene in mente di organizzare una festa senza un qualche scopo benefico. In mancanza dell’otto per mille, anche le chiese devono autofinanziarsi. In un tripudio di marketing, ho visto offrire posti di «serafino» a chi versa almeno diecimila dollari, cinquemila per un «cherubino», più abbordabili gli arcangeli e gli angeli semplici. Risultato: la Chiesa cattolica statunitense è la più ricca del pianeta, nonché la principale contribuente del Vaticano.
Insomma, in nome della sussidiarietà, le buone azioni in America sono tutte «tax deductible». Gli attori presenziano ai gala con tariffe fisse. Noi giornalisti accreditati all’Onu riuscimmo ad attrarre gratis Angelina Jolie alla cena del nostro club nel 2005 solo grazie al suo impegno cosmopolita. A Obama non conviene proprio rovinare questo meccanismo, che funziona.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, sabato 28 febbraio 2009
Avete presente quei cenoni che si vedono spesso nei film americani, con i tavoli rotondi da dieci posti nei saloni degli alberghi, gli uomini in smoking, le signore in abito lungo e qualcuno che parla dal podio?
Sono i «charity gala», feste di beneficenza privata che negli Stati Uniti compensano il basso livello di welfare pubblico (e di tasse).
Si va lì per gli scopi più vari (raccolta fondi per malattie, bimbi poveri, politici, università, ospedali, chiese, musei) e si contribuisce sia pagando il posto a tavola (dai cento dollari in su), sia partecipando a un’asta.
Ora Obama dà una bella stangata a tutto questo mondo di filantropia: la charity sarà deducibile dalle tasse, ma con un limite massimo del 28%. Il che, per i ricchi (oltre i 370mila dollari annui) la cui aliquota di imposta sul reddito torna dal 35 al 39% per cento pre-Bush, e anche per i benestanti dai 200mila in su (che salgono dall’attuale 33 al 36), rappresenta un discreto disincentivo.
Nel disperato bisogno di fronteggiare la crisi, Obama rischia così di mandare all’aria il modello americano di redistribuzione sociale. Finora infatti gli statunitensi hanno pagato circa la metà delle tasse degli europei. Ma sanità, assistenza, istruzione, religione, arte e cultura vengono finanziate grazie ai contributi spontanei (e detraibili) dei privati. Niente intermediazione parassitaria di burocrati e politici.
Non c’è famiglia ricca che non abbia una sua fondazione. E attorno alle serate di raccolta fondi si organizza anche la vita sociale degli americani. Ogni sera in un solo quartiere come Manhattan vengono organizzate decine di «charity gala». Sono coinvolti centinaia di camerieri, migliaia di invitati, decine di migliaia di fornitori. Si arriva presto, verso le sei, per l’aperitivo. Poi c’è l’asta. Quindi, verso le otto, tutti a tavola.
Durante la cena c’è qualche discorso: parla il benefattore, il beneficiato, e spesso un vip dello spettacolo o della politica invitato per dar lustro all’evento. Infine, dopo le dieci, negli eventi più festaioli si aprono le danze. Ma già alle undici si comincia ad andare a nanna. Non prima di avere raccolto la «goody bag», un sacchetto con i regalini degli sponsor. Durante i miei anni a New York ho ricevuto di tutto: profumi Dior, mutande, cravatte Yves Saint Laurent, pacchi di pasta De Cecco (a un gala della Camera di commercio italoamericana)…
Quella delle charities è una vera e propria industria. I benefit sono infatti organizzati da schiere di professionisti: maghi del fund-raising, funzionari di fondazioni, consulenti di relazioni pubbliche, addetti stampa… Una ragazza italiana che faceva questo mestiere mi ha svelato che i grandi alberghi come il Waldorf-Astoria, il Pierre o il Plaza impongono che ai banchetti si consumi il loro vino, ovviamente a un prezzo triplo. E se per risparmiare si portano le proprie bottiglie, bisogna versare al potente sindacati dei camerieri una considerevole «cork fee» (tariffa di tappo…)
Per le signore dell’alta borghesia la filantropia è spesso l’attività principale della propria esistenza. A seconda dell’entità del contributo versato dai loro mariti miliardari, possono agguantare un posto nel consiglio d’amministrazione di un museo, di una fondazione, di un club, e sedere accanto a un Rockefeller, un Soros, un Kennedy. Spesso sono le aziende che, per obblighi d’immagine, devono comprare interi tavoli per questi gala. A New York, per esempio, la Rai e le multinazionali italiane finanziano il benefit annuale della Fondazione anticancro, quello del Columbus Day del 12 ottobre (festa degli italoamericani), e i gala della scuola italiana o della fondazione per salvare Venezia.
Nella loro allegra generosità, gli americani finanziano le cause più disparate. A nessuno negli Stati Uniti viene in mente di organizzare una festa senza un qualche scopo benefico. In mancanza dell’otto per mille, anche le chiese devono autofinanziarsi. In un tripudio di marketing, ho visto offrire posti di «serafino» a chi versa almeno diecimila dollari, cinquemila per un «cherubino», più abbordabili gli arcangeli e gli angeli semplici. Risultato: la Chiesa cattolica statunitense è la più ricca del pianeta, nonché la principale contribuente del Vaticano.
Insomma, in nome della sussidiarietà, le buone azioni in America sono tutte «tax deductible». Gli attori presenziano ai gala con tariffe fisse. Noi giornalisti accreditati all’Onu riuscimmo ad attrarre gratis Angelina Jolie alla cena del nostro club nel 2005 solo grazie al suo impegno cosmopolita. A Obama non conviene proprio rovinare questo meccanismo, che funziona.
Mauro Suttora
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