BONINO E L’IMPRESA IMPOSSIBILE DI CONCILIARE DIRITTI E COMMERCI
Il Foglio, pag II, venerdì 10 agosto 2007
Roma. Povero Palden Gyatso, monaco buddista reduce da 33 anni di carcere cinese, che l’altra sera ha camminato dal Colosseo al Campidoglio attorniato dalle fiaccole della marcia per il Tibet. Come in tutte le capitali del mondo, le organizzazioni dei diritti umani ci hanno ricordato che, a un anno dall’inizio delle olimpiadi a Pechino, la repressione in Cina aumenta. “Il governo di Pechino non solo non mantiene le promesse di maggiore libertà fatte al Comitato olimpico internazionale”, avverte da Londra Irene Khan, segretaria di Amnesty International, “ma la polizia usa il pretesto dei giochi per estendere le incarcerazioni senza processo”.
Povero monaco, se avesse letto l’intervista che Emma Bonino, finora massima paladina italiana della democratizzazione mondiale, ha rilasciato proprio l’altro ieri al Sole 24 Ore. Con una clamorosa inversione a U, la ministra ora si dichiara contraria a sanzioni economiche contro le dittature: “Quando si commercia, circolano anche idee e persone”. È l’usurato argomento che, dalla strage di Tian an men dell’89, i sostenitori del business occidentale brandiscono nel perenne dibattito sulle sanzioni. Soprattutto negli Usa, che però mantengono tuttora ben nove classi di restrizioni commerciali e finanziarie contro i gerarchi comunisti di Pechino. A tutto beneficio dell’Europa, che infatti si batte per l’appeasement non solo verso la Cina, ma anche nei confronti dell’Iran (boicottato integralmente da Washington).
È da mesi che la Bonino ha abbracciato la ‘realpolitik’, rinunciando alla lotta nonviolenta dopo essersi seduta sulla poltrona di ministro del commercio estero. “I rapporti tra Italia e Cina non sono mai stati così buoni”, ha annunciato felice in giugno al forum italo-cinese per la promozione dell’export delle piccole e medie imprese, “le nostre esportazioni in Cina sono cresciute del 25 per cento nel 2006”.
È la stessa persona che negli ultimi vent’anni si era battuta contro le repressioni dei Falun Gong, che invitava ai congressi radicali dissidenti cinesi come Wei Jinsheng, che difendeva i separatisti uiguri dello Xinjang, che protestava per le persecuzioni dei cristiani, che premeva perché i premier italiani ricevessero il Dalai Lama a Roma, che andava a farsi arrestare dai talebani a Kabul e a incontrare la Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi a Rangoon? Ma, soprattutto, i radicali non si stanno attualmente battendo come leoni contro la pena di morte? E il 95 per cento delle esecuzioni capitali non avviene proprio in Cina?
La Bonino è molto apprezzata dalla business community come ministro. Attiva ed efficiente, come sempre. Ma il suo nuovo ruolo è inesorabilmente incompatibile con i passati ardori. Se fosse stato per lei, avrebbe scelto addirittura il ministero della Difesa. E lì la contraddizione sarebbe risultata plateale: una gandhiana antimilitarista a capo dei militari?
Fra i radicali c’è imbarazzo. Radio radicale cerca di far ingoiare il nuovo realismo governativo trasmettendo a raffica interviste a personaggi che dicono che sì, in fondo le sanzioni non sono molto efficaci. Il deputato Bruno Mellano (incarcerato pure lui in Laos nel 2001) obietta: “Ci domandiamo in che cosa consista il cosiddetto “dialogo critico” con i regimi dittatoriali. Abbiamo un anno di tempo, prima delle olimpiadi, per ottenere dai cinesi qualche miglioramento delle libertà fondamentali, senza attendere i tempi lunghi di un cambiamento culturale frutto delle aperture al mercato”.
Le sanzioni hanno funzionato in Sudafrica, ammette la Bonino. “Ma non contro i militari in Birmania”, aggiunge. E chi sono gli unici protettori della giunta birmana? Quante settimane durerebbe la giunta di Rangoon senza l’aiuto della Cina? La foto in gigantografia della birmana Aung San è sempre appesa sul Campidoglio. Fanno ormai 17 anni da quando vinse le elezioni e fu arrestata. Il sindaco Veltroni dice che la terrà lì finché non verrà liberata. Ma la martire birmana della democrazia ha perso un’alleata: la ex pasionaria italiana Emma, oggi appassionata soprattutto di made in Italy.
Mauro Suttora
Friday, August 10, 2007
Thursday, August 09, 2007
Cecilia Sarkozy
Oggi, 26 luglio 2007
di Mauro Suttora
Alta e felina, silenziosa e determinata, Cécilia Sarkozy sta facendosi amare e odiare da milioni di francesi. Ad appena tre mesi dall’elezione del marito, lei che diceva di non essere interessata alla politica a tal punto da non avere neppure votato per il suo Nicolas il 6 maggio, è balzata all’onore delle cronache come la salvatrice delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese condannati a morte in Libia.
Missione al femminile.
Con un blitz diplomatico degno di Kissinger è volata da Gheddafi e nel giro di poche ore, con l’aiuto della figlia del colonnello, Aisha, ha ottenuto quello che anni di trattative ufficiali non avevano prodotto, ma che avevano preparato. «Abbiamo votato Nicolas, non sua moglie», protestano i suoi avversari. Che abbondano non solo fra i socialisti, ma anche fra gli stessi compagni di partito di Sarkozy. Lei infatti si è installata all’Eliseo, si è dotata di un’addetta stampa e di un capo di gabinetto, e si comporta come un membro del governo. Proprio lei, che una volta si era imprudentemente vantata di «non avere una goccia di sangue francese nelle vene». Vero: è figlia di un ricco emigrato ebreo-zingaro rumeno e di una belga. Proprio lei, che due anni fa aveva scandalizzato la Francia intera fuggendo a New York con un amante, salvo poi tornare all’ovile. Proprio lei, che ha ravvivato l’immagine polverosa della presidenza francese, dopo due «vecchi» come Mitterrand e Chirac, esibendo con orgoglio nelle manifestazioni ufficiali le due belle figlie ventenni avute dal primo matrimonio, oltre a quello frutto dell’unione ormai quasi ventennale con Nicolas.
l I riflettori su di lei.
Ora, con la scusa degli «interventi umanitari», sembra invece aver preso gusto a recitare un ruolo anche politico. Resta il dilemma: la Francia ha già un presidente (che guida direttamente la politica estera), un ministro degli Esteri (Bernard Kouchner, socialista passato con l’ex avversario) e anche una stupenda viceministra di colore per gli Affari umanitari, Rama Yade, 30 anni. Ma a tutti Cécilia, soprattutto alla Commissiaria europea Benita Ferrero-Waldner, ha rubato i riflettori, scendendo trionfale in maglietta e pantaloni la scaletta dell’aereo con gli ostaggi «salvati». A che prezzo? Pare 420 milioni di euro, uno per ogni bimbo infettato.
l Il ruolo del presidente.
Il marito si è a sua volta precipitato a Tripoli per stringere la mano a Gheddafi, ma soprattutto per vendergli una centrale nucleare. Mossa azzardata, visto che la Libia come l’Iran è ricca di petrolio, ma resta una dittatura. Però anche il tiranno libico dev’essere rimasto folgorato dal piglio di questa francese cinquantenne, che esattamente come Hillary Clinton dieci anni fa si è conquistata un posto in politica senza avere ricevuto neanche un voto.
di Mauro Suttora
Alta e felina, silenziosa e determinata, Cécilia Sarkozy sta facendosi amare e odiare da milioni di francesi. Ad appena tre mesi dall’elezione del marito, lei che diceva di non essere interessata alla politica a tal punto da non avere neppure votato per il suo Nicolas il 6 maggio, è balzata all’onore delle cronache come la salvatrice delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese condannati a morte in Libia.
Missione al femminile.
Con un blitz diplomatico degno di Kissinger è volata da Gheddafi e nel giro di poche ore, con l’aiuto della figlia del colonnello, Aisha, ha ottenuto quello che anni di trattative ufficiali non avevano prodotto, ma che avevano preparato. «Abbiamo votato Nicolas, non sua moglie», protestano i suoi avversari. Che abbondano non solo fra i socialisti, ma anche fra gli stessi compagni di partito di Sarkozy. Lei infatti si è installata all’Eliseo, si è dotata di un’addetta stampa e di un capo di gabinetto, e si comporta come un membro del governo. Proprio lei, che una volta si era imprudentemente vantata di «non avere una goccia di sangue francese nelle vene». Vero: è figlia di un ricco emigrato ebreo-zingaro rumeno e di una belga. Proprio lei, che due anni fa aveva scandalizzato la Francia intera fuggendo a New York con un amante, salvo poi tornare all’ovile. Proprio lei, che ha ravvivato l’immagine polverosa della presidenza francese, dopo due «vecchi» come Mitterrand e Chirac, esibendo con orgoglio nelle manifestazioni ufficiali le due belle figlie ventenni avute dal primo matrimonio, oltre a quello frutto dell’unione ormai quasi ventennale con Nicolas.
l I riflettori su di lei.
Ora, con la scusa degli «interventi umanitari», sembra invece aver preso gusto a recitare un ruolo anche politico. Resta il dilemma: la Francia ha già un presidente (che guida direttamente la politica estera), un ministro degli Esteri (Bernard Kouchner, socialista passato con l’ex avversario) e anche una stupenda viceministra di colore per gli Affari umanitari, Rama Yade, 30 anni. Ma a tutti Cécilia, soprattutto alla Commissiaria europea Benita Ferrero-Waldner, ha rubato i riflettori, scendendo trionfale in maglietta e pantaloni la scaletta dell’aereo con gli ostaggi «salvati». A che prezzo? Pare 420 milioni di euro, uno per ogni bimbo infettato.
l Il ruolo del presidente.
Il marito si è a sua volta precipitato a Tripoli per stringere la mano a Gheddafi, ma soprattutto per vendergli una centrale nucleare. Mossa azzardata, visto che la Libia come l’Iran è ricca di petrolio, ma resta una dittatura. Però anche il tiranno libico dev’essere rimasto folgorato dal piglio di questa francese cinquantenne, che esattamente come Hillary Clinton dieci anni fa si è conquistata un posto in politica senza avere ricevuto neanche un voto.
Infermiere bulgare di Gheddafi
Cinque donne condannate a morte assieme a un medico a Tripoli. Con un’accusa tremenda:
avere infettato con l’Aids più di 400 bambini. Ma dopo otto anni di carcere e torture, bastano poche ore a Madame Sarkozy per far cambiare idea a Gheddafi. Ecco la cronaca dell’incredibile vicenda
Oggi, 26 luglio 2007
«Mi facevano dormire inginocchiato con le braccia ammanettate dietro la schiena. Ogni volta che chinavo la testa un secondino mi prendeva a calci. Ho ancora il corpo pieno di cicatrici, qualsiasi medico può esaminarmi per provare che sono stato torturato. Ma ci hanno trattati tutti come animali, per anni. Ci hanno massacrati con scosse elettriche, con botte, impedendoci di dormire...».
È questo il primo racconto di Achraf Juma Hajouj, viso emaciato e capelli precocemente ingrigiti. Medico palestinese, è stato otto anni in carcere in Libia con cinque infermiere bulgare. Accusati di avere infettato di Aids 426 bambini nell’ospedale di Bengasi (una cinquantina dei quali sono deceduti), i cinque erano stati condannati a morte nel 2004. Ma la scorsa settimana sono stati liberati da Cécilia Sarkozy, la moglie del presidente francese volata a Tripoli per trattare con il dittatore Muammar Gheddafi. Tornati in Bulgaria, ora sono tenuti sotto controllo in una residenza governativa, e tre di loro raccontano la loro allucinante esperienza in una conferenza stampa. Le altre tre infermiere fanno sapere di sentirsi ancora troppo deboli per potere affrontare i giornalisti.
Il loro incubo inizia il 9 febbraio 1999, quando vengono arrestati assieme ad altri 17 medici e infermieri bulgari che lavorano negli ospedali libici. Da anni professionisti della Bulgaria si recavano in Libia, priva di sufficiente personale medico-sanitario. Gli stipendi sono molto più alti di quelli percepiti in gran parte dei Paesi dell’Est. Durante i contratti, di solito biennali, è possibile guadagnare quasi interamente la somma necessaria per acquistare un appartamento in Bulgaria.
Dopo un po’ gli altri vengono liberati. Restano in carcere il medico e le infermiere Cristiana Balcheva, Nasia Nenova, Valentina Siropulo, Valia Cherveniashka e Snezhana Dimitrova. Secondo le autorità libiche sono tutte colpevoli di aver infettato centinaia di bambini dell’ospedale pediatrico di Bengasi. Ma non per sbaglio: ci sarebbe addirittura la premeditazione, e in Libia per queste cose si viene impiccati.
Sui motivi che starebbero dietro al folle gesto, i libici hanno sostenuto diverse ipotesi, ma tutte caratterizzate dal medesimo filo conduttore: un complotto contro il popolo libico. Durante la conferenza mondiale sull’Aids dell’aprile 2001 è il colonnello Gheddafi in persona a spiegare quale sarebbe stato il diabolico movente di infermiere e medico: «È stato chiesto loro di sperimentare gli effetti dell’Hiv sui bambini». E chi li avrebbe incaricati di questo odioso compito? Alcuni dicono la Cia. Altri il Mossad, il servizio segreto israeliano.
Il processo inizia nel giugno 2001. L’accusa si basa su confessioni ottenute sotto tortura, smentite in seguito dagli stessi detenuti. Si è parlato di contenitori con campioni di siero infetto trovati nelle abitazioni dei prigionieri, che però non sono mai stati messi a disposizione per un esame da parte della difesa. Come se non bastasse, fanno da contorno imputazioni meno gravi che vedono alcune delle donne colpevoli di relazioni sessuali illecite, nonché di produzione e consumo in pubblico di alcol.
Nel luglio 2004 il governo libico fornisce alla difesa 218 pagine in lingua araba di motivazioni per la condanna. Ma gli avvocati difensori sostengono e motivano l’innocenza dei propri clienti. Le prove sono fornite dalle testimonianze di Luc Montagnier, uno degli scopritori del virus dell’Aids, e del virologo italiano Vittorio Coalizzi. I due scienziati, incaricati dall’Unesco, avevano esaminato personalmente il caso recandosi all’ospedale Al-Fatih di Bengasi nel 2002. Era stato eseguito un esame genetico del virus, mettendo a confronto il sangue conservato di bambini infettati in anni diversi: nel 1997, nel ’98, nel ’99 e nel periodo successivo all’arrivo delle infermiere nell’ospedale. Le indagini dimostrano che i primi casi di infezione risalgono al ’96-’97, cioè molto prima che i processati giungessero in Libia.
Il virus ha le medesime caratteristiche in ogni campione esaminato, caratteristiche tra l’altro tipiche dell’Africa centrale e occidentale. Non può essere stato importato da altre aree geografiche, come sostengono invece gli accusatori libici. Le cause del propagarsi dell’epidemia sono da ricercarsi, secondo i due scienziati, nelle scarse condizioni igieniche dell’ospedale. La loro relazione dovrebbe cancellare i sospetti che hanno trasformato la vicenda in una cospirazione. Ma di queste prove i giudici libici non hanno tenuto conto.
Dopo infiniti rinvii, la corte di Tripoli delibera la sentenza: infermiere e medico saranno fucilati. Scattano i ricorsi in Appello, finché la Corte suprema tre settimane fa conferma la condanna a morte. In realtà Gheddafi ha sempre cercato di risolvere la questione negoziando e usando i sei prigionieri come ostaggi. In cambio prima voleva il rilascio dell’ufficiale libico condannato per l’attentato all’aereo americano Lockerbie (1988). Poi ha deciso di chiedere il risarcimento da parte della Bulgaria per le famiglie dei bambini rimasti vittime dell’epidemia. Ma il governo bulgaro ha sempre rifiutato ogni forma di baratto: «Le infermiere sono innocenti, quindi accettare di pagare un indennizzo sarebbe come ammettere la loro colpevolezza, e questo è inconcepibile», è stata la posizione ufficiale del governo di Sofia fino a una settimana fa.
Nel frattempo Gheddafi, spaventato dall’invasione americana in Iraq, si ammorbidisce. Nel dicembre 2003 ammette di avere prodotto armi chimiche di distruzione di massa nella fabbrica di Rabta, come accusavano gli Stati Uniti dagli anni Ottanta, e si prende la responsabilità per l’attentato di Lockerbie (260 morti causati da una bomba libica). Si avvia un processo di riavvicinamento della Libia all’Europa, l’Onu toglie le sanzioni economiche e si riaprono le ambasciate occidentali a Tripoli, anche se la Libia resta un’implacabile dittatura dove qualsiasi dissidente viene gettato in carcere. Ma l’Occidente pensa: meglio il laico Gheddafi (al potere da 38 anni, tiranno superato per longevità nel mondo soltanto da Fidel Castro) che non qualche fondamentalista islamico.
La Libia però deve fare i conti anche con i famigliari dei bambini sieropositivi, aizzati dalla Tv e dai giornali di stato libici contro le «streghe» bulgare. Per anni hanno lanciato pietre contro il tribunale gridando «Morte agli assassini«, «Impiccateli!», «La vita dei nostri bambini vale più di quella di un bulgaro». Anche adesso, dopo la liberazione dei sei e la grazia concessa dalla Bulgaria, protestano contro la violazione da parte di Sofia degli accordi presi con la signora Sarkozy, che prevedevano l’estradizione in un carcere bulgaro, ma non la libertà.
L’unico in Libia che negli ultimi tempi ha difeso medico e infermiere è stato il figlio di Gheddafi, Seif Al Islam: «Le autorità libiche devono ammettere la propria responsabilità per il dilagare dell’epidemia. Non credo nella colpevolezza delle infermiere». Anche la bellissima figlia del dittatore, Aisha, trentenne sposatasi l’anno scorso con un cugino, ha aiutato madame Sarkozy nell’opera di mediazione.
Mauro Suttora
avere infettato con l’Aids più di 400 bambini. Ma dopo otto anni di carcere e torture, bastano poche ore a Madame Sarkozy per far cambiare idea a Gheddafi. Ecco la cronaca dell’incredibile vicenda
Oggi, 26 luglio 2007
«Mi facevano dormire inginocchiato con le braccia ammanettate dietro la schiena. Ogni volta che chinavo la testa un secondino mi prendeva a calci. Ho ancora il corpo pieno di cicatrici, qualsiasi medico può esaminarmi per provare che sono stato torturato. Ma ci hanno trattati tutti come animali, per anni. Ci hanno massacrati con scosse elettriche, con botte, impedendoci di dormire...».
È questo il primo racconto di Achraf Juma Hajouj, viso emaciato e capelli precocemente ingrigiti. Medico palestinese, è stato otto anni in carcere in Libia con cinque infermiere bulgare. Accusati di avere infettato di Aids 426 bambini nell’ospedale di Bengasi (una cinquantina dei quali sono deceduti), i cinque erano stati condannati a morte nel 2004. Ma la scorsa settimana sono stati liberati da Cécilia Sarkozy, la moglie del presidente francese volata a Tripoli per trattare con il dittatore Muammar Gheddafi. Tornati in Bulgaria, ora sono tenuti sotto controllo in una residenza governativa, e tre di loro raccontano la loro allucinante esperienza in una conferenza stampa. Le altre tre infermiere fanno sapere di sentirsi ancora troppo deboli per potere affrontare i giornalisti.
Il loro incubo inizia il 9 febbraio 1999, quando vengono arrestati assieme ad altri 17 medici e infermieri bulgari che lavorano negli ospedali libici. Da anni professionisti della Bulgaria si recavano in Libia, priva di sufficiente personale medico-sanitario. Gli stipendi sono molto più alti di quelli percepiti in gran parte dei Paesi dell’Est. Durante i contratti, di solito biennali, è possibile guadagnare quasi interamente la somma necessaria per acquistare un appartamento in Bulgaria.
Dopo un po’ gli altri vengono liberati. Restano in carcere il medico e le infermiere Cristiana Balcheva, Nasia Nenova, Valentina Siropulo, Valia Cherveniashka e Snezhana Dimitrova. Secondo le autorità libiche sono tutte colpevoli di aver infettato centinaia di bambini dell’ospedale pediatrico di Bengasi. Ma non per sbaglio: ci sarebbe addirittura la premeditazione, e in Libia per queste cose si viene impiccati.
Sui motivi che starebbero dietro al folle gesto, i libici hanno sostenuto diverse ipotesi, ma tutte caratterizzate dal medesimo filo conduttore: un complotto contro il popolo libico. Durante la conferenza mondiale sull’Aids dell’aprile 2001 è il colonnello Gheddafi in persona a spiegare quale sarebbe stato il diabolico movente di infermiere e medico: «È stato chiesto loro di sperimentare gli effetti dell’Hiv sui bambini». E chi li avrebbe incaricati di questo odioso compito? Alcuni dicono la Cia. Altri il Mossad, il servizio segreto israeliano.
Il processo inizia nel giugno 2001. L’accusa si basa su confessioni ottenute sotto tortura, smentite in seguito dagli stessi detenuti. Si è parlato di contenitori con campioni di siero infetto trovati nelle abitazioni dei prigionieri, che però non sono mai stati messi a disposizione per un esame da parte della difesa. Come se non bastasse, fanno da contorno imputazioni meno gravi che vedono alcune delle donne colpevoli di relazioni sessuali illecite, nonché di produzione e consumo in pubblico di alcol.
Nel luglio 2004 il governo libico fornisce alla difesa 218 pagine in lingua araba di motivazioni per la condanna. Ma gli avvocati difensori sostengono e motivano l’innocenza dei propri clienti. Le prove sono fornite dalle testimonianze di Luc Montagnier, uno degli scopritori del virus dell’Aids, e del virologo italiano Vittorio Coalizzi. I due scienziati, incaricati dall’Unesco, avevano esaminato personalmente il caso recandosi all’ospedale Al-Fatih di Bengasi nel 2002. Era stato eseguito un esame genetico del virus, mettendo a confronto il sangue conservato di bambini infettati in anni diversi: nel 1997, nel ’98, nel ’99 e nel periodo successivo all’arrivo delle infermiere nell’ospedale. Le indagini dimostrano che i primi casi di infezione risalgono al ’96-’97, cioè molto prima che i processati giungessero in Libia.
Il virus ha le medesime caratteristiche in ogni campione esaminato, caratteristiche tra l’altro tipiche dell’Africa centrale e occidentale. Non può essere stato importato da altre aree geografiche, come sostengono invece gli accusatori libici. Le cause del propagarsi dell’epidemia sono da ricercarsi, secondo i due scienziati, nelle scarse condizioni igieniche dell’ospedale. La loro relazione dovrebbe cancellare i sospetti che hanno trasformato la vicenda in una cospirazione. Ma di queste prove i giudici libici non hanno tenuto conto.
Dopo infiniti rinvii, la corte di Tripoli delibera la sentenza: infermiere e medico saranno fucilati. Scattano i ricorsi in Appello, finché la Corte suprema tre settimane fa conferma la condanna a morte. In realtà Gheddafi ha sempre cercato di risolvere la questione negoziando e usando i sei prigionieri come ostaggi. In cambio prima voleva il rilascio dell’ufficiale libico condannato per l’attentato all’aereo americano Lockerbie (1988). Poi ha deciso di chiedere il risarcimento da parte della Bulgaria per le famiglie dei bambini rimasti vittime dell’epidemia. Ma il governo bulgaro ha sempre rifiutato ogni forma di baratto: «Le infermiere sono innocenti, quindi accettare di pagare un indennizzo sarebbe come ammettere la loro colpevolezza, e questo è inconcepibile», è stata la posizione ufficiale del governo di Sofia fino a una settimana fa.
Nel frattempo Gheddafi, spaventato dall’invasione americana in Iraq, si ammorbidisce. Nel dicembre 2003 ammette di avere prodotto armi chimiche di distruzione di massa nella fabbrica di Rabta, come accusavano gli Stati Uniti dagli anni Ottanta, e si prende la responsabilità per l’attentato di Lockerbie (260 morti causati da una bomba libica). Si avvia un processo di riavvicinamento della Libia all’Europa, l’Onu toglie le sanzioni economiche e si riaprono le ambasciate occidentali a Tripoli, anche se la Libia resta un’implacabile dittatura dove qualsiasi dissidente viene gettato in carcere. Ma l’Occidente pensa: meglio il laico Gheddafi (al potere da 38 anni, tiranno superato per longevità nel mondo soltanto da Fidel Castro) che non qualche fondamentalista islamico.
La Libia però deve fare i conti anche con i famigliari dei bambini sieropositivi, aizzati dalla Tv e dai giornali di stato libici contro le «streghe» bulgare. Per anni hanno lanciato pietre contro il tribunale gridando «Morte agli assassini«, «Impiccateli!», «La vita dei nostri bambini vale più di quella di un bulgaro». Anche adesso, dopo la liberazione dei sei e la grazia concessa dalla Bulgaria, protestano contro la violazione da parte di Sofia degli accordi presi con la signora Sarkozy, che prevedevano l’estradizione in un carcere bulgaro, ma non la libertà.
L’unico in Libia che negli ultimi tempi ha difeso medico e infermiere è stato il figlio di Gheddafi, Seif Al Islam: «Le autorità libiche devono ammettere la propria responsabilità per il dilagare dell’epidemia. Non credo nella colpevolezza delle infermiere». Anche la bellissima figlia del dittatore, Aisha, trentenne sposatasi l’anno scorso con un cugino, ha aiutato madame Sarkozy nell’opera di mediazione.
Mauro Suttora
Monday, August 06, 2007
No Sex in the City
What an Italian Man Thinks of American Women
Read No Sex in the City to unearth what happens when an Italian uomo courts the ladies of New York
by Francesca Di Meglio
Want to get inside the Italian man's head? Well, I've got the book for you. No Sex in the City (Cairo Publishing, 2006) by Mauro Suttora turns the tables on the American television show Sex in the City, which starred Sarah Jessica Parker as Carrie, who - along with her three best girlfriends - searched for love in New York City. Instead, Suttora recounts how he, an Italian man separated from his wife, moves to New York City to work as a journalist - and attract Sex in the City-type women.
He spills everything - from the despicable to the dolce - in his 206-page work. If you can read and understand Italian, No Sex in the City can give you insight into the Italian man's psyche. But be warned: you won't like everything you read, especially ifyou're a woman from New York.
Having lived just about all of my life right over the bridge from Manhattan in New Jersey, I jumped at the chance to get my hands on this book as soon as I read about it in Italy's version of Marie Claire last fall. However, my hopes for gushy tales of an Italian Mr. Big were dashed almost immediately.
Scorned by a lover from New York who dumped him via e-mail, Suttora spends the first few chapters bouncing from one woman to another rarely rounding second base and griping about being sexless in the city. Many of the women had lots of money, mostly thanks to their daddy, and most of them seemed too young for the fortysomething author. He recounts that he had actually met one of the women at an event I happened to attend - a concert Andrea Bocelli hosted for VIPs and journalists at the American Museum of Natural History. I never met the author but enjoyed the six degrees of separation.
Other than that, while reading the early parts of the book, I was completely turned off by Suttora because he didn't seem to think that fidelity in marriage was at all important. Pursuing a flirtatious wife of a diplomat seemed perfectly fine to him. I might have thrown my book across the room once or twice during that chapter. This might be why Italian men have a reputation as philanderers.
Suttora redeemed himself when he met Marsha and settled down with one woman, who he said he loved. He even seemed to give serious thought to marrying her and starting a family. And Marsha's very rich parents, especially her father, adored Suttora. But when Marsha insists on keeping her plans for a girls night out instead of staying with Suttora, he invites another woman to dinner. One thing leads to another, and he's unfaithful with this friend of a friend who he never sees again. First, however, he fantasizes about marrying this one-night stand and living off her money. It sounds like Suttora is turning into one of the women on Sex in the City.
Obviously, this act of infidelity is the beginning of the end for Marsha and him. The end end arrived, I think, because he was not willing to commit to her. He thought she just wanted to get married because marriage - replete with a giant rock of an engagement ring and a ridiculously expensive party - is part of the Manhattan culture. He may have a point here. Weddings certainly are big business in New York, and sometimes even the best women can get swept up in the hoopla. But we don't get Marsha's side of the story, so I don't want to be quick to judge. I know plenty of women in New York who want to marry for love and desire creating a family and home. For them, the wedding is just the beginning of something much bigger.
Accusations that none of the women Suttora met would cook are unfounded. I know plenty of foodies in Manhattan who love to host dinner parties (and cook everything themselves). Some of them even prepare family dinners during the week. Plenty of the bridges and tunnels girls - those of us from New Jersey, Brooklyn, and the Bronx - do just that. I think he was just hanging out with the wrong crowd.
Suttora seemed annoyed that when American women make the time to cook for their loved ones they want some gratitude. Here's a shocker, Mauro, Italian women I know wouldn't mind a thank you once in a while for all the things they do for you - from cooking to cleaning. Give it a try. You'll catch more queen bees with honey, I guarantee it. I know enough Italian women to understand that they are not much different from their New York sisters in this regard; they've just been living in patriarchy so long that they don't bother saying anything about it anymore. In the end, everyone just wants to be appreciated, especially by the ones they love most. That goes for men, too.
Normally, I wouldn't be this judgmental but I feel Suttora's judgmental tone gives me free reign. Like his female American counterparts in Sex in the City Suttora ran with crowds that provide only sex and no love, superficiality over substance, money and power over friendship and loyalty. Sometimes, we continuously seek the wrong kind of people (or flit from one social event to another) because we're simply not ready for the real thing. We don't really want any of these stories to work out. Our own fears and insecurities prevent us from falling in love. It happens to the best of us. Or maybe Suttora just wanted fodder for a book. Ponder that.
Despite his many flaws, Suttora is still an Italian man with charm and verve and wit. You, playing his favorite songs (which he relates to many of his experiences throughout the book) in your head, find yourself engaged in this snip it of his life. He has great taste to boot (Battisti is one of his favorites). And sometimes, he made me laugh out loud at his observations of the American people.
Much like Carrie and company, he left me wanting to know how his love life works out in the end. I'm waiting for the sequel, Lots of Sex in the City. I just hope, for his sake, it's with one kind, loving woman. Now that's a book I won't ever have to throw across the room!
Read No Sex in the City to unearth what happens when an Italian uomo courts the ladies of New York
by Francesca Di Meglio
Want to get inside the Italian man's head? Well, I've got the book for you. No Sex in the City (Cairo Publishing, 2006) by Mauro Suttora turns the tables on the American television show Sex in the City, which starred Sarah Jessica Parker as Carrie, who - along with her three best girlfriends - searched for love in New York City. Instead, Suttora recounts how he, an Italian man separated from his wife, moves to New York City to work as a journalist - and attract Sex in the City-type women.
He spills everything - from the despicable to the dolce - in his 206-page work. If you can read and understand Italian, No Sex in the City can give you insight into the Italian man's psyche. But be warned: you won't like everything you read, especially ifyou're a woman from New York.
Having lived just about all of my life right over the bridge from Manhattan in New Jersey, I jumped at the chance to get my hands on this book as soon as I read about it in Italy's version of Marie Claire last fall. However, my hopes for gushy tales of an Italian Mr. Big were dashed almost immediately.
Scorned by a lover from New York who dumped him via e-mail, Suttora spends the first few chapters bouncing from one woman to another rarely rounding second base and griping about being sexless in the city. Many of the women had lots of money, mostly thanks to their daddy, and most of them seemed too young for the fortysomething author. He recounts that he had actually met one of the women at an event I happened to attend - a concert Andrea Bocelli hosted for VIPs and journalists at the American Museum of Natural History. I never met the author but enjoyed the six degrees of separation.
Other than that, while reading the early parts of the book, I was completely turned off by Suttora because he didn't seem to think that fidelity in marriage was at all important. Pursuing a flirtatious wife of a diplomat seemed perfectly fine to him. I might have thrown my book across the room once or twice during that chapter. This might be why Italian men have a reputation as philanderers.
Suttora redeemed himself when he met Marsha and settled down with one woman, who he said he loved. He even seemed to give serious thought to marrying her and starting a family. And Marsha's very rich parents, especially her father, adored Suttora. But when Marsha insists on keeping her plans for a girls night out instead of staying with Suttora, he invites another woman to dinner. One thing leads to another, and he's unfaithful with this friend of a friend who he never sees again. First, however, he fantasizes about marrying this one-night stand and living off her money. It sounds like Suttora is turning into one of the women on Sex in the City.
Obviously, this act of infidelity is the beginning of the end for Marsha and him. The end end arrived, I think, because he was not willing to commit to her. He thought she just wanted to get married because marriage - replete with a giant rock of an engagement ring and a ridiculously expensive party - is part of the Manhattan culture. He may have a point here. Weddings certainly are big business in New York, and sometimes even the best women can get swept up in the hoopla. But we don't get Marsha's side of the story, so I don't want to be quick to judge. I know plenty of women in New York who want to marry for love and desire creating a family and home. For them, the wedding is just the beginning of something much bigger.
Accusations that none of the women Suttora met would cook are unfounded. I know plenty of foodies in Manhattan who love to host dinner parties (and cook everything themselves). Some of them even prepare family dinners during the week. Plenty of the bridges and tunnels girls - those of us from New Jersey, Brooklyn, and the Bronx - do just that. I think he was just hanging out with the wrong crowd.
Suttora seemed annoyed that when American women make the time to cook for their loved ones they want some gratitude. Here's a shocker, Mauro, Italian women I know wouldn't mind a thank you once in a while for all the things they do for you - from cooking to cleaning. Give it a try. You'll catch more queen bees with honey, I guarantee it. I know enough Italian women to understand that they are not much different from their New York sisters in this regard; they've just been living in patriarchy so long that they don't bother saying anything about it anymore. In the end, everyone just wants to be appreciated, especially by the ones they love most. That goes for men, too.
Normally, I wouldn't be this judgmental but I feel Suttora's judgmental tone gives me free reign. Like his female American counterparts in Sex in the City Suttora ran with crowds that provide only sex and no love, superficiality over substance, money and power over friendship and loyalty. Sometimes, we continuously seek the wrong kind of people (or flit from one social event to another) because we're simply not ready for the real thing. We don't really want any of these stories to work out. Our own fears and insecurities prevent us from falling in love. It happens to the best of us. Or maybe Suttora just wanted fodder for a book. Ponder that.
Despite his many flaws, Suttora is still an Italian man with charm and verve and wit. You, playing his favorite songs (which he relates to many of his experiences throughout the book) in your head, find yourself engaged in this snip it of his life. He has great taste to boot (Battisti is one of his favorites). And sometimes, he made me laugh out loud at his observations of the American people.
Much like Carrie and company, he left me wanting to know how his love life works out in the end. I'm waiting for the sequel, Lots of Sex in the City. I just hope, for his sake, it's with one kind, loving woman. Now that's a book I won't ever have to throw across the room!
Sunday, August 05, 2007
visita dal Papa
Domenica, 5 Agosto 2007
Il Gazzettino di Venezia
redazione di Udine
Recente visita in Vaticano dal cardinale Achille Silvestrini, dal Canonico di S.Pietro monsignor Vittorino Canciani e tradizionale udienza del mercoledì dal S.Padre Papa Benedetto XVI° di tre ex stelliniani: lo scienziato di fama mondiale esperto di nanotecnologia ingegnere Mauro Ferrari, originario di Udine, ma da anni negli Stati Uniti, di Mauro Suttora giornalista di "Oggi", del "New York Observer" e de "Il Foglio" diretto da Giuliano Ferrara, e dell'appena riconfermato sindaco di Varmo, Graziano Vatri.
Hanno frequentato il Liceo Classico "J. Stellini" di Udine diplomandosi nel 1978.
Il Gazzettino di Venezia
redazione di Udine
Recente visita in Vaticano dal cardinale Achille Silvestrini, dal Canonico di S.Pietro monsignor Vittorino Canciani e tradizionale udienza del mercoledì dal S.Padre Papa Benedetto XVI° di tre ex stelliniani: lo scienziato di fama mondiale esperto di nanotecnologia ingegnere Mauro Ferrari, originario di Udine, ma da anni negli Stati Uniti, di Mauro Suttora giornalista di "Oggi", del "New York Observer" e de "Il Foglio" diretto da Giuliano Ferrara, e dell'appena riconfermato sindaco di Varmo, Graziano Vatri.
Hanno frequentato il Liceo Classico "J. Stellini" di Udine diplomandosi nel 1978.
Monday, July 30, 2007
Il nostro McInerney nella citta' dell'eros
Nel suo libro 'No Sex in the City' Mauro Suttora riscopre i metodi degli anni '80
recensione del quotidiano 'Libero', 30 dicembre 2006
di Francesco Specchia
La classe non è acqua. E se lo fosse, potrebbe essere solo l'acqua grigia e vanitosa del fiume Hudson. Che a est taglia il New Jersey; mentre a ovest accarezza Manhattan come un sorso di champagne sprizzato in una flute.
Il suo scrosciare echeggia, lieve, fra i jazz club di Bleecker Street, i negozi di Armani e Calvin Klein, il profumo delle librerie antiquarie e quello dei dollari; fino a insinuarsi negli appartamentini del Village. Dove branchi di intellettuali radical chic ticchettano al computer la loro storia.
Uno di quegli intellettuali è Jay McInerney, l'uomo che nel best seller 'Le mille luci di New York' spogliò la Grande Mela, la rintronò d'alcol e cocaina e ne fece un mito degli anni '80. Un altro (meno intellettuale e - vivaddio - più giornalista) è Mauro Suttora, classe '59, moderatamente single, corrispondente del settimanale Oggi e columnist del New York Observer dal "centro esatto del mondo", ossia lo sterno, le viscere e l'inguine di Manhattan.
I due, Suttora e McInerney, non lo sanno ma si somigliano assai. Il primo è stato titolare d'un posto da cronista in una rivista chic, di tre mogli e due fidanzate, tutte modelle (l'ultima, Helen Bransford, è corsivista di Vogue); di due psicanalisti di fiducia; una passione smodata per Joseph Conrad e le storie dei reietti che galleggiano nei docks e la vodka on the rocks.
Il secondo ha vissuto, vent'anni dopo, tra preconcetti neocon e mostre al Guggenheim, donne-mantidi che lo divoravano in taxi o lo piantavano per email; mogli di ambasciatori che cattolicamente si spogliavano e pretendevano di "non essere penetrate"; riunioni condominiali all'insegna dell'equo canone selvaggio; aspiranti futuri suoceri Upper Eastsiders (abitatori di quartieri molto snob) che ritengono il gioco del golf e l'affitto di elicotteri le più nobili delle occupazioni.
Un'avvertenza. Il sesso - quello, vischioso, nelle feste per mannequin e brokers di McInerney e quello giocoso nel Rizzoli bookstore sulla 57esima Strada di Suttora - in questo tipo di letteratura è solo una scusa. O meglio una lente, un fil rouge che intreccia sapide microstorie, un espediente letterario che finisce per raccontare l'anima di New York stessa, la città più citta di tutte, il crogiuolo etnico che Henry James dichiarava "spaventosa, fantasticamente priva d'eleganza, confusamente orrenda".
New York è il cuore, il cervello, l'estremità, il pinnacolo del Nuovo Mondo. Per molti di noi è l'universo passionale dell'architetto Stanford White e Irving Berlin, di Dorothy Parker e dei coniugi Bernstein nel quale tutti ci muoviamo con confusa dimistichezza, una dimensione già descritta nel cinema di Chaplin, Scorsese, De Niro, Pacino, e dalla televisione di 'Sex and the City', del quale il libello di Suttora è la vera, solidamente virile, risposta italiana. L'ironia che annaffia il tutto, perlomeno, è la stessa.
Quando, ad esempio, parla dell'esemplare di fenotipo femminile un po' frigido dell'Upper East Side, Suttora suggerisce che "utilizza il proprio organo sessuale soprattutto per intrattenerci monologhi. Di qui il devastante successo della pièce teatrale sull'argomento: 'I monologhi della vagina'..."
E, forse senza nemmeno rendersene conto, si riaggancia al McInerney di 'Com'è finita', il cinico narratore di mignotte e prosseneti d'alto bordo, ex portaborse di deputati democratici che si mutano in fenomenali voltagabbana, gente che si giustifica ricordando che "Non è stato Kissinger a dire che il potere è afrodisiaco?"
Certo Suttora è meno politico di McInerney; soprattutto non fa del post-yuppismo una categoria dello spirito, non foss'altro perché sarebbe anacronistico. Dal suo "esilio newyorkese" il cronista vede l'eros come inevitabile compagno d'avventura. Gli dà, quasi, una forma socratica.
Quando, citando un indimenticato apologo di Massimo Fini sulla poesia del fondoschiena femminile, attribuisce agli americani la qualifica rozza e volgarotta di "bosomen" (più portati al seno che al culo, contrapposti ai "bottomen"), egli certifica un'innegabile prevalenza culturale europea; e, al contempo, traccia una mappa dei luoghi cittadini visti da dietro: "Quello fra Upper West Side e Central Park è un fondoschiena intellettuale, colloquiale... Il culo di Carnegie Hill è invece nobile: alto, lungo e appena rilevato... i culi popolari, bassi e larghi, sono purtroppo rari a Manhattan".
Come gli scrittori italiani che davvero sanno corteggiarla.
recensione del quotidiano 'Libero', 30 dicembre 2006
di Francesco Specchia
La classe non è acqua. E se lo fosse, potrebbe essere solo l'acqua grigia e vanitosa del fiume Hudson. Che a est taglia il New Jersey; mentre a ovest accarezza Manhattan come un sorso di champagne sprizzato in una flute.
Il suo scrosciare echeggia, lieve, fra i jazz club di Bleecker Street, i negozi di Armani e Calvin Klein, il profumo delle librerie antiquarie e quello dei dollari; fino a insinuarsi negli appartamentini del Village. Dove branchi di intellettuali radical chic ticchettano al computer la loro storia.
Uno di quegli intellettuali è Jay McInerney, l'uomo che nel best seller 'Le mille luci di New York' spogliò la Grande Mela, la rintronò d'alcol e cocaina e ne fece un mito degli anni '80. Un altro (meno intellettuale e - vivaddio - più giornalista) è Mauro Suttora, classe '59, moderatamente single, corrispondente del settimanale Oggi e columnist del New York Observer dal "centro esatto del mondo", ossia lo sterno, le viscere e l'inguine di Manhattan.
I due, Suttora e McInerney, non lo sanno ma si somigliano assai. Il primo è stato titolare d'un posto da cronista in una rivista chic, di tre mogli e due fidanzate, tutte modelle (l'ultima, Helen Bransford, è corsivista di Vogue); di due psicanalisti di fiducia; una passione smodata per Joseph Conrad e le storie dei reietti che galleggiano nei docks e la vodka on the rocks.
Il secondo ha vissuto, vent'anni dopo, tra preconcetti neocon e mostre al Guggenheim, donne-mantidi che lo divoravano in taxi o lo piantavano per email; mogli di ambasciatori che cattolicamente si spogliavano e pretendevano di "non essere penetrate"; riunioni condominiali all'insegna dell'equo canone selvaggio; aspiranti futuri suoceri Upper Eastsiders (abitatori di quartieri molto snob) che ritengono il gioco del golf e l'affitto di elicotteri le più nobili delle occupazioni.
Un'avvertenza. Il sesso - quello, vischioso, nelle feste per mannequin e brokers di McInerney e quello giocoso nel Rizzoli bookstore sulla 57esima Strada di Suttora - in questo tipo di letteratura è solo una scusa. O meglio una lente, un fil rouge che intreccia sapide microstorie, un espediente letterario che finisce per raccontare l'anima di New York stessa, la città più citta di tutte, il crogiuolo etnico che Henry James dichiarava "spaventosa, fantasticamente priva d'eleganza, confusamente orrenda".
New York è il cuore, il cervello, l'estremità, il pinnacolo del Nuovo Mondo. Per molti di noi è l'universo passionale dell'architetto Stanford White e Irving Berlin, di Dorothy Parker e dei coniugi Bernstein nel quale tutti ci muoviamo con confusa dimistichezza, una dimensione già descritta nel cinema di Chaplin, Scorsese, De Niro, Pacino, e dalla televisione di 'Sex and the City', del quale il libello di Suttora è la vera, solidamente virile, risposta italiana. L'ironia che annaffia il tutto, perlomeno, è la stessa.
Quando, ad esempio, parla dell'esemplare di fenotipo femminile un po' frigido dell'Upper East Side, Suttora suggerisce che "utilizza il proprio organo sessuale soprattutto per intrattenerci monologhi. Di qui il devastante successo della pièce teatrale sull'argomento: 'I monologhi della vagina'..."
E, forse senza nemmeno rendersene conto, si riaggancia al McInerney di 'Com'è finita', il cinico narratore di mignotte e prosseneti d'alto bordo, ex portaborse di deputati democratici che si mutano in fenomenali voltagabbana, gente che si giustifica ricordando che "Non è stato Kissinger a dire che il potere è afrodisiaco?"
Certo Suttora è meno politico di McInerney; soprattutto non fa del post-yuppismo una categoria dello spirito, non foss'altro perché sarebbe anacronistico. Dal suo "esilio newyorkese" il cronista vede l'eros come inevitabile compagno d'avventura. Gli dà, quasi, una forma socratica.
Quando, citando un indimenticato apologo di Massimo Fini sulla poesia del fondoschiena femminile, attribuisce agli americani la qualifica rozza e volgarotta di "bosomen" (più portati al seno che al culo, contrapposti ai "bottomen"), egli certifica un'innegabile prevalenza culturale europea; e, al contempo, traccia una mappa dei luoghi cittadini visti da dietro: "Quello fra Upper West Side e Central Park è un fondoschiena intellettuale, colloquiale... Il culo di Carnegie Hill è invece nobile: alto, lungo e appena rilevato... i culi popolari, bassi e larghi, sono purtroppo rari a Manhattan".
Come gli scrittori italiani che davvero sanno corteggiarla.
Wednesday, July 18, 2007
I conti in rosso delle auto blu
Sprechi d'Italia. Quanto ci costano le vetture di politici e dirigenti
Dieci miliardi di euro l'anno per mantenere il parco macchine di Stato più oneroso del mondo. Tutti i governi promettono di darci un taglio. Ma i privilegi restano. E noi paghiamo
Oggi, 18 luglio 2007
di Mauro Suttora
Roma, Villa Borghese, nove del mattino. In piazzale del Fiocco c' è un viavai continuo di auto blu. In teoria nel parco pubblico dovrebbero passare solo polizia, pompieri, ambulanze, bus e taxi. In pratica, per evitare gli ingorghi, la Casta di politici e dirigenti ministeriali che abitano ai Parioli trovano comodo raggiungere i propri uffici in centro grazie a questa furba scorciatoia.
Quante sono le auto blu (e grigio metallizzate, colore oggi più di moda) in Italia? Esattamente 574.215, ha calcolato due mesi fa l'associazione Contribuenti.it. Cifra tanto minuziosa quanto esagerata, perché ci sono finiti dentro tutti i veicoli di proprietà pubblica. Compresi per esempio i mezzi militari, le auto delle forze dell' ordine o tutte le ambulanze. "Trecentomila", ha sparato il settimanale L'Espresso l'anno scorso, ma includendo anche i veicoli di regioni ed enti locali. Altrimenti, "150-170 mila per le sole auto di ministeri ed enti pubblici non territoriali". La verità è che nessuno sa quante siano.
L'unico dato su cui tutti concordano: sono troppe. "Le auto di rappresentanza non possono essere uno status symbol, ma una risposta a reali necessità", aveva tuonato il premier Romano Prodi nel suo discorso d'insediamento, un anno fa. E si era impegnato a dimezzare le scorte per i politici. Anche perché i confronti con l' estero sono umilianti (vedi la tabella nella pagina precedente). Infatti l'articolo 11 del decreto legge sulla riduzione dei costi politico amministrativi che sta preparando il governo (sull'onda dell'indignazione popolare) prevede appunto una drastica riduzione delle macchine a disposizione dei rappresentanti del popolo. Ma è facile che nei successivi passaggi in Parlamento le buone intenzioni finiscano per rimanere tali.
Siamo troppo pessimisti ? No, citiamo la storia che in questo caso sempre si ripete. Prima di Prodi, in tanti avevano promesso di darci un taglio: "Per ordine del presidente Benito Mussolini tredici vetture su sedici dovranno dismettersi entro domani sera", intimava la lettera ricevuta il 7 marzo 1923 dal ministero degli Interni. Ne rimanevano solo una per il capo della polizia De Bono e due per i sottosegretari Giacomo Acerbo e Aldo Finzi. Il ministro era Mussolini stesso, che però utilizzava l' auto da presidente del Consiglio.
Il governo Andreotti stabilì, nel 1991, che avessero diritto all' auto di Stato solo ministri, sottosegretari e qualche direttore generale. Nulla di fatto. Umberto Bossi tornò alla carica nel ' 93, e dopo di lui il primo governo Prodi quattro anni dopo. Niente. Silvio Berlusconi nel 2001 incaricò il consulente Luigi Cappugi di risolvere infine la questione. L'economista calcolò che ogni auto blu costa al contribuente 70 mila euro l'anno, inclusi autista, benzina e manutenzione. Totale: dieci miliardi e mezzo di euro, una cifra folle. Soluzione draconiana, quindi: togliere l' auto blu a quasi tutti i politici e dirigenti, sostituendole con taxi. Risparmio: sette otto miliardi, tutto il "tesoretto" di cui si parla in questi giorni. Ma ancora una volta la burocrazia ha avuto la meglio.
Ci ha riprovato il deputato di Forza Italia Guido Crosetto nel 2004, facendo approvare nella Finanziaria un taglio del dieci per cento annuo sulla flotta delle auto blu in ogni ministero, per tre anni fino al 2007. "E per evitare trucchi", dice a Oggi, "avevo fatto includere anche quelle in leasing e a noleggio. Conosco i miei polli...".
Il problema è che lo Stato stesso non conosce la consistenza della propria flotta di auto blu. Solo un anno fa, infatti, è arrivata la prima relazione con i numeri che ogni ministero ha svogliatamente contabilizzato (vedi la tabella in alto a destra). Per confondere le acque, però, sono state inserite negli elenchi migliaia di auto che non c' entrano nulla: tutte le 8.489 della Guardia di Finanza, per esempio, senza differenziare fra vetture di rappresentanza per i generali e quelle operative. Più onestamente, il ministero della Difesa ha specificato in 304 le auto blu per gli alti gradi dei Carabinieri. Il ministero degli Interni ha addirittura barato in toto, denunciando 20.444 mezzi della Polizia, 2.523 per i Vigili del fuoco, e nessuna auto blu. Non compare quindi nella nostra tabella.
Il ministero più "sprecone" è quello della Giustizia, con ben 712 auto in "uso esclusivo", cioè assegnate personalmente con autista, a ministro, sottosegretari e magistrati, più altre 1.186 blindate per magistrati in uso non esclusivo (a turno, o temporaneamente). Ma davvero sono così tanti i magistrati nel mirino ? Sia chiaro, nessuno vuole far correre rischi a chi combatte la mafia o i terroristi, ma sarebbe interessante conoscere quante auto blu blindate ci sono nelle regioni a rischio, e quante invece a Roma. Il dato, però, è top secret.
Il ministero più generoso nel concedere le vetture in uso esclusivo (il massimo dello status) è quello di Infrastrutture e Trasporti: ben 69. Un capitolo a parte merita il ministero dell' Istruzione, che fino a un anno fa inglobava anche Università e Ricerca. Ebbene, la sola università di Pisa risulta avere 124 vetture: come quella di Firenze, e più del doppio dell' università La Sapienza di Roma, che però è assai più grande. Di ben 40 auto dispone l' università della Tuscia di Viterbo, nata solo nel ' 69. Perché mai rettori, presidi e professori universitari devono andare in giro con l' autista, visti anche i miseri stipendi dei loro colleghi nelle altre scuole di ogni ordine e grado ?
Nell' elenco, oltre ai ministeri, abbiamo inserito anche tre enti presenti nella relazione al parlamento: Consiglio di Stato e Tar, i tribunali amministrativi regionali, Monopoli e Corte dei conti. Particolarmente imbarazzante la situazione di quest' ultima: su 51 auto blu in dotazione, ben 41 sono in uso esclusivo. È una percentuale più alta di qualsiasi ministero. Spetta proprio alla Corte dei conti vigilare sugli sprechi di denaro pubblico, ma forse la Corte i controlli dovrebbe cominciare a farli su se stessa... "Quel che più allarma, in tutto questo spreco", ci dice Franca Rame, senatrice dell' Italia dei Valori, "è l' aumento degli ultimi anni".
La presidenza del Consiglio nel 2005 ha speso per 115 auto blu 2,1 milioni di euro: più del doppio rispetto a quattro anni prima. La Camera dei deputati, oltre alle 37 auto blu per presidente, vicepresidenti e tutti i presidenti di commissione, l' anno scorso ha pagato per il noleggio di auto con autista il 357 per cento in più del 2001 (da 28 a 140 mila euro). Quanto al Senato, negli ultimi cinque anni la spesa per il noleggio di veicoli si è impennata del 36 per cento, ben oltre l' inflazione (da 309 a 460 mila), mentre, in parallelo, il costo della "gestione autoparco" (da 116 a 220 mila euro) veniva quasi raddoppiato e contemporaneamente aumentavano del 122 per cento gli "acquisti di autoveicoli" (da 41 a 100 mila).
Ma lo scandalo non riguarda solo Roma. Tutte le Regioni, sia di destra sia di sinistra, fanno a gara nel regalare auto ai propri assessori. La Campania spende ogni anno più di due milioni di euro per le sue 80 vetture, provvedendo anche ai Telepass. La Lombardia nel 2005 ha sborsato 1,2 milioni di euro, otto volte di più che nel 2000. Il Friuli ha rinnovato una flotta auto "vecchie" di appena due anni con dodici Lancia Thesis e Alfa 166 superaccessoriate (dieci altoparlanti hi fi, interni in pelle).
In Lazio ben 76 auto blu sono destinate a giunta, presidenti di commissione e a qualche dirigente: più di quelle di Camera e Senato messe insieme. Nei primi cinque mesi della giunta di Piero Marrazzo sono stati spesi 37 mila euro solo in benzina, 20 mila in manutenzione ordinaria e 3 mila in lavaggi. Assicurazioni e bolli costano alla regione Lazio quasi 100 mila euro annui. In Veneto gli assessori hanno in uso auto persino di cilindrata 3.000!
Casi limite si verificano dappertutto: da Palermo, dove in auto gratis vanno tutti i presidenti dei consigli di quartiere, all'apice del potere a Roma, dove il diritto viene mantenuto a vita da tutti gli ex giudici costituzionali. Il comune di Napoli ha un parco veicoli per sindaco, assessori e dirigenti di 120 vetture. Esiste perfino un'associazione, il Siar (Sindacato italiano autisti rappresentanza), con duemila soci e un segretario nazionale, Andrea Vignotto, che due mesi fa ha fatto chiedere da deputati di An l'istituzione di un albo nazionale degli chauffeur.
Si può almeno invertire la tendenza all'aumento continuo di auto blu ? I provvedimenti per ridurle si sono risolti finora in grida manzoniane. Tutti i ministeri hanno chiesto "esenzioni" alla diminuzione del 10 per cento prevista nel 2004. Ora il governo torna alla carica con il disegno di legge contro gli sprechi presentato dal ministro Giulio Santagata. "Ma non sono ottimista", confessa Franca Rame. Anche perché il governo non può imporre nulla agli altri organi dello Stato: parlamento, regioni, Corte costituzionale, il Quirinale (una grande istituzione, certo, ma in fondo con 27 auto per una persona sola: il presidente della Repubblica).
Eppure, basterebbe una legge con cinque sole parole: "Da domani tutti in taxi". E, visti i 1.600 miliardi di debito pubblico dell'Italia, per risparmiare qualcuno potrebbe pure prendere l' autobus, come fanno certi ministri a Stoccolma e Copenaghen. Con 15 mila auto blu in meno, il traffico di Roma scorrerebbe meglio. In fondo, perfino il sindaco miliardario di New York Michael Bloomberg va a lavorare in metro.
Mauro Suttora
Dieci miliardi di euro l'anno per mantenere il parco macchine di Stato più oneroso del mondo. Tutti i governi promettono di darci un taglio. Ma i privilegi restano. E noi paghiamo
Oggi, 18 luglio 2007
di Mauro Suttora
Roma, Villa Borghese, nove del mattino. In piazzale del Fiocco c' è un viavai continuo di auto blu. In teoria nel parco pubblico dovrebbero passare solo polizia, pompieri, ambulanze, bus e taxi. In pratica, per evitare gli ingorghi, la Casta di politici e dirigenti ministeriali che abitano ai Parioli trovano comodo raggiungere i propri uffici in centro grazie a questa furba scorciatoia.
Quante sono le auto blu (e grigio metallizzate, colore oggi più di moda) in Italia? Esattamente 574.215, ha calcolato due mesi fa l'associazione Contribuenti.it. Cifra tanto minuziosa quanto esagerata, perché ci sono finiti dentro tutti i veicoli di proprietà pubblica. Compresi per esempio i mezzi militari, le auto delle forze dell' ordine o tutte le ambulanze. "Trecentomila", ha sparato il settimanale L'Espresso l'anno scorso, ma includendo anche i veicoli di regioni ed enti locali. Altrimenti, "150-170 mila per le sole auto di ministeri ed enti pubblici non territoriali". La verità è che nessuno sa quante siano.
L'unico dato su cui tutti concordano: sono troppe. "Le auto di rappresentanza non possono essere uno status symbol, ma una risposta a reali necessità", aveva tuonato il premier Romano Prodi nel suo discorso d'insediamento, un anno fa. E si era impegnato a dimezzare le scorte per i politici. Anche perché i confronti con l' estero sono umilianti (vedi la tabella nella pagina precedente). Infatti l'articolo 11 del decreto legge sulla riduzione dei costi politico amministrativi che sta preparando il governo (sull'onda dell'indignazione popolare) prevede appunto una drastica riduzione delle macchine a disposizione dei rappresentanti del popolo. Ma è facile che nei successivi passaggi in Parlamento le buone intenzioni finiscano per rimanere tali.
Siamo troppo pessimisti ? No, citiamo la storia che in questo caso sempre si ripete. Prima di Prodi, in tanti avevano promesso di darci un taglio: "Per ordine del presidente Benito Mussolini tredici vetture su sedici dovranno dismettersi entro domani sera", intimava la lettera ricevuta il 7 marzo 1923 dal ministero degli Interni. Ne rimanevano solo una per il capo della polizia De Bono e due per i sottosegretari Giacomo Acerbo e Aldo Finzi. Il ministro era Mussolini stesso, che però utilizzava l' auto da presidente del Consiglio.
Il governo Andreotti stabilì, nel 1991, che avessero diritto all' auto di Stato solo ministri, sottosegretari e qualche direttore generale. Nulla di fatto. Umberto Bossi tornò alla carica nel ' 93, e dopo di lui il primo governo Prodi quattro anni dopo. Niente. Silvio Berlusconi nel 2001 incaricò il consulente Luigi Cappugi di risolvere infine la questione. L'economista calcolò che ogni auto blu costa al contribuente 70 mila euro l'anno, inclusi autista, benzina e manutenzione. Totale: dieci miliardi e mezzo di euro, una cifra folle. Soluzione draconiana, quindi: togliere l' auto blu a quasi tutti i politici e dirigenti, sostituendole con taxi. Risparmio: sette otto miliardi, tutto il "tesoretto" di cui si parla in questi giorni. Ma ancora una volta la burocrazia ha avuto la meglio.
Ci ha riprovato il deputato di Forza Italia Guido Crosetto nel 2004, facendo approvare nella Finanziaria un taglio del dieci per cento annuo sulla flotta delle auto blu in ogni ministero, per tre anni fino al 2007. "E per evitare trucchi", dice a Oggi, "avevo fatto includere anche quelle in leasing e a noleggio. Conosco i miei polli...".
Il problema è che lo Stato stesso non conosce la consistenza della propria flotta di auto blu. Solo un anno fa, infatti, è arrivata la prima relazione con i numeri che ogni ministero ha svogliatamente contabilizzato (vedi la tabella in alto a destra). Per confondere le acque, però, sono state inserite negli elenchi migliaia di auto che non c' entrano nulla: tutte le 8.489 della Guardia di Finanza, per esempio, senza differenziare fra vetture di rappresentanza per i generali e quelle operative. Più onestamente, il ministero della Difesa ha specificato in 304 le auto blu per gli alti gradi dei Carabinieri. Il ministero degli Interni ha addirittura barato in toto, denunciando 20.444 mezzi della Polizia, 2.523 per i Vigili del fuoco, e nessuna auto blu. Non compare quindi nella nostra tabella.
Il ministero più "sprecone" è quello della Giustizia, con ben 712 auto in "uso esclusivo", cioè assegnate personalmente con autista, a ministro, sottosegretari e magistrati, più altre 1.186 blindate per magistrati in uso non esclusivo (a turno, o temporaneamente). Ma davvero sono così tanti i magistrati nel mirino ? Sia chiaro, nessuno vuole far correre rischi a chi combatte la mafia o i terroristi, ma sarebbe interessante conoscere quante auto blu blindate ci sono nelle regioni a rischio, e quante invece a Roma. Il dato, però, è top secret.
Il ministero più generoso nel concedere le vetture in uso esclusivo (il massimo dello status) è quello di Infrastrutture e Trasporti: ben 69. Un capitolo a parte merita il ministero dell' Istruzione, che fino a un anno fa inglobava anche Università e Ricerca. Ebbene, la sola università di Pisa risulta avere 124 vetture: come quella di Firenze, e più del doppio dell' università La Sapienza di Roma, che però è assai più grande. Di ben 40 auto dispone l' università della Tuscia di Viterbo, nata solo nel ' 69. Perché mai rettori, presidi e professori universitari devono andare in giro con l' autista, visti anche i miseri stipendi dei loro colleghi nelle altre scuole di ogni ordine e grado ?
Nell' elenco, oltre ai ministeri, abbiamo inserito anche tre enti presenti nella relazione al parlamento: Consiglio di Stato e Tar, i tribunali amministrativi regionali, Monopoli e Corte dei conti. Particolarmente imbarazzante la situazione di quest' ultima: su 51 auto blu in dotazione, ben 41 sono in uso esclusivo. È una percentuale più alta di qualsiasi ministero. Spetta proprio alla Corte dei conti vigilare sugli sprechi di denaro pubblico, ma forse la Corte i controlli dovrebbe cominciare a farli su se stessa... "Quel che più allarma, in tutto questo spreco", ci dice Franca Rame, senatrice dell' Italia dei Valori, "è l' aumento degli ultimi anni".
La presidenza del Consiglio nel 2005 ha speso per 115 auto blu 2,1 milioni di euro: più del doppio rispetto a quattro anni prima. La Camera dei deputati, oltre alle 37 auto blu per presidente, vicepresidenti e tutti i presidenti di commissione, l' anno scorso ha pagato per il noleggio di auto con autista il 357 per cento in più del 2001 (da 28 a 140 mila euro). Quanto al Senato, negli ultimi cinque anni la spesa per il noleggio di veicoli si è impennata del 36 per cento, ben oltre l' inflazione (da 309 a 460 mila), mentre, in parallelo, il costo della "gestione autoparco" (da 116 a 220 mila euro) veniva quasi raddoppiato e contemporaneamente aumentavano del 122 per cento gli "acquisti di autoveicoli" (da 41 a 100 mila).
Ma lo scandalo non riguarda solo Roma. Tutte le Regioni, sia di destra sia di sinistra, fanno a gara nel regalare auto ai propri assessori. La Campania spende ogni anno più di due milioni di euro per le sue 80 vetture, provvedendo anche ai Telepass. La Lombardia nel 2005 ha sborsato 1,2 milioni di euro, otto volte di più che nel 2000. Il Friuli ha rinnovato una flotta auto "vecchie" di appena due anni con dodici Lancia Thesis e Alfa 166 superaccessoriate (dieci altoparlanti hi fi, interni in pelle).
In Lazio ben 76 auto blu sono destinate a giunta, presidenti di commissione e a qualche dirigente: più di quelle di Camera e Senato messe insieme. Nei primi cinque mesi della giunta di Piero Marrazzo sono stati spesi 37 mila euro solo in benzina, 20 mila in manutenzione ordinaria e 3 mila in lavaggi. Assicurazioni e bolli costano alla regione Lazio quasi 100 mila euro annui. In Veneto gli assessori hanno in uso auto persino di cilindrata 3.000!
Casi limite si verificano dappertutto: da Palermo, dove in auto gratis vanno tutti i presidenti dei consigli di quartiere, all'apice del potere a Roma, dove il diritto viene mantenuto a vita da tutti gli ex giudici costituzionali. Il comune di Napoli ha un parco veicoli per sindaco, assessori e dirigenti di 120 vetture. Esiste perfino un'associazione, il Siar (Sindacato italiano autisti rappresentanza), con duemila soci e un segretario nazionale, Andrea Vignotto, che due mesi fa ha fatto chiedere da deputati di An l'istituzione di un albo nazionale degli chauffeur.
Si può almeno invertire la tendenza all'aumento continuo di auto blu ? I provvedimenti per ridurle si sono risolti finora in grida manzoniane. Tutti i ministeri hanno chiesto "esenzioni" alla diminuzione del 10 per cento prevista nel 2004. Ora il governo torna alla carica con il disegno di legge contro gli sprechi presentato dal ministro Giulio Santagata. "Ma non sono ottimista", confessa Franca Rame. Anche perché il governo non può imporre nulla agli altri organi dello Stato: parlamento, regioni, Corte costituzionale, il Quirinale (una grande istituzione, certo, ma in fondo con 27 auto per una persona sola: il presidente della Repubblica).
Eppure, basterebbe una legge con cinque sole parole: "Da domani tutti in taxi". E, visti i 1.600 miliardi di debito pubblico dell'Italia, per risparmiare qualcuno potrebbe pure prendere l' autobus, come fanno certi ministri a Stoccolma e Copenaghen. Con 15 mila auto blu in meno, il traffico di Roma scorrerebbe meglio. In fondo, perfino il sindaco miliardario di New York Michael Bloomberg va a lavorare in metro.
Mauro Suttora
Wednesday, July 04, 2007
Gli orfani di Bagdad
Trattavano i bambini come se fossero bestie
Lo scandalo dell' orfanotrofio lager di Baghdad
Durante un controllo i soldati americani hanno scoperto l' orrore: in un istituto, 24 orfani erano legati e abbandonati nudi per terra. Stavano morendo di fame. Mentre i carcerieri gozzovigliavano nella stanza accanto
di Mauro Suttora
Oggi, 4 luglio 2007
Baghdad
Incredibile: invece di dimettersi o punire immediatamente tutti i colpevoli, il ministro del Lavoro e degli Affari sociali iracheno, lo sceicco sciita Mahmoud Radi, ha accusato le forze americane di avere "fabbricato ed esagerato" le informazioni riguardo alla scoperta di ventiquattro bambini scheletrici distesi in terra o incatenati ai letti in un orfanotrofio di Baghdad. Le forze degli Stati Uniti, in Iraq da più di quattro anni nel disperato tentativo di pacificare il Paese dopo averlo liberato dalla dittatura di Saddam Hussein, nel rendere nota la scoperta fatta il 10 giugno scorso non avevano certo potuto nascondere la realtà: nell' orfanotrofio al Hanan c' erano bambini tra i tre e i quindici anni emaciati, nudi, coperti dai loro stessi escrementi e da mosche. Nello stesso edificio, in magazzino, c' erano abbondanti scorte di cibo e vestiti, mentre i guardiani, alcuni dei quali sono stati poi arrestati per ordine del premier Nuri al Maliki, si trovavano in cucina e si preparavano un lauto pranzo.
Che cosa imputa adesso il ministro Radi agli americani? "L' irruzione dei soldati statunitensi è avvenuta in piena notte, ma mi chiedo quali fossero i motivi umanitari per compiere un simile raid alle due del mattino", ha dichiarato l' uomo politico. Secondo Radi, i bambini erano nudi a causa della mancanza di energia elettrica per alimentare i condizionatori d' aria. Alcuni di loro erano legati al letto, ha aggiunto, perché sono disabili e incapaci di distinguere il cibo dai loro stessi escrementi. "Mi assumo ogni responsabilità per ciò che accade nel mio ministero e anche per gli atti commessi nell' orfanotrofio", ha detto il ministro, che appartiene all' Alleanza sciita di cui fa parte anche il premier Al Maliki.
Radi ha comunque affermato di avere ordinato "un' ispezione generale per investigare sull' incidente. Mi aspetto una procedura legale nei confronti di coloro che ne sono responsabili, chiunque essi siano, e i risultati saranno resi pubblici". Nel 2004 causò un enorme scandalo mondiale la scoperta che nel carcere iracheno di Abu Ghraib alcuni soldati americani molestavano i sospetti terroristi arabi detenuti, denudandoli, aizzando contro di loro i cani e sottoponendoli a sevizie fisiche e psicologiche ai limiti (o ben oltre) della tortura. Anche ora la scoperta è avvenuta per caso. Ma questa volta gli Stati Uniti non c'entrano.
La scena che si sono trovati davanti alcuni militari statunitensi e iracheni che durante una ronda notturna di pattuglia nel centro di Baghdad sono entrati in un orfanotrofio pubblico, era di vero e proprio orrore: davanti ai loro occhi bambini abbandonati a loro stessi da più di un mese, prostrati dalla mancanza di cibo e di cure, alcuni con evidenti segni di maltrattamento. Non si può neanche sostenere che si sia trattato di una ben orchestrata operazione di pubbliche relazioni da parte delle forze occupanti di Washington, come accusano alcuni iracheni, perché oltre alla catena televisiva americana Cbs anche il sito del quotidiano indipendente spagnolo El Mundo ha mostrato le immagini di quello che ai soldati è apparso subito essere un incubo, un inferno.
"Al piano terra c' erano diversi corpi stesi sul pavimento", ha raccontato il sergente Mitchell Gibson. "Pensavamo fossero tutti morti, così abbiamo lanciato una palla da basket per attirare l' attenzione e uno dei ragazzi ha alzato la testa, ha dato uno sguardo e poi è tornato a sdraiarsi per terra. A quel punto ci siamo detti "oh, sono vivi", e abbiamo controllato l' edificio". Il sergente Michael Beale descrive "bambini cui potevi letteralmente contare ogni singolo osso del corpo tanto erano magri: non avevano forze per fare alcun movimento, rimanevano totalmente inespressivi". Molti di loro hanno handicap mentali. Uno dei piccoli era "completamente coperto da mosche, non riusciva a muovere alcuna parte del corpo", ricorda Gibson. E prosegue: "Gli abbiamo tenuto la testa, l' abbiamo smossa per capire se stava bene, ma l' unica cosa che riusciva a muovere erano i bulbi oculari". Solo dopo una settimana di alimentazione adeguata quel bambino è riuscito a sedersi nel lettino con le sue sole forze. Due sorveglianti del centro sono stati arrestati. Il direttore invece è scomparso, così come due delle tre assistenti.
In Iraq, intanto, l'incubo continua. Ormai è guerra civile fra sciiti e sunniti, ogni giorno vengono uccisi soldati americani (sono 3.500 le vittime statunitensi dall'inizio della campagna), mentre le vittime civili sono più di centomila. L' aumento delle truppe statunitensi (da 130 a 150 mila unità), ordinato dal presidente George W. Bush in febbraio, non sembra aver migliorato la situazione. Ora anche il Kurdistan, la regione autonoma del Nord che finora era stata risparmiata dagli attentati, è minacciato dalle bande di terroristi sunniti e di Al Qaida. Quanto agli sciiti, controllano tutto il Sud per conto dell' Iran, e gli squadroni della morte di Moqtada al Sadr (autori della strage dei nostri soldati a Nassiriya) seminano il terrore fra la popolazione civile sunnita.
Lo scandalo dell' orfanotrofio lager di Baghdad
Durante un controllo i soldati americani hanno scoperto l' orrore: in un istituto, 24 orfani erano legati e abbandonati nudi per terra. Stavano morendo di fame. Mentre i carcerieri gozzovigliavano nella stanza accanto
di Mauro Suttora
Oggi, 4 luglio 2007
Baghdad
Incredibile: invece di dimettersi o punire immediatamente tutti i colpevoli, il ministro del Lavoro e degli Affari sociali iracheno, lo sceicco sciita Mahmoud Radi, ha accusato le forze americane di avere "fabbricato ed esagerato" le informazioni riguardo alla scoperta di ventiquattro bambini scheletrici distesi in terra o incatenati ai letti in un orfanotrofio di Baghdad. Le forze degli Stati Uniti, in Iraq da più di quattro anni nel disperato tentativo di pacificare il Paese dopo averlo liberato dalla dittatura di Saddam Hussein, nel rendere nota la scoperta fatta il 10 giugno scorso non avevano certo potuto nascondere la realtà: nell' orfanotrofio al Hanan c' erano bambini tra i tre e i quindici anni emaciati, nudi, coperti dai loro stessi escrementi e da mosche. Nello stesso edificio, in magazzino, c' erano abbondanti scorte di cibo e vestiti, mentre i guardiani, alcuni dei quali sono stati poi arrestati per ordine del premier Nuri al Maliki, si trovavano in cucina e si preparavano un lauto pranzo.
Che cosa imputa adesso il ministro Radi agli americani? "L' irruzione dei soldati statunitensi è avvenuta in piena notte, ma mi chiedo quali fossero i motivi umanitari per compiere un simile raid alle due del mattino", ha dichiarato l' uomo politico. Secondo Radi, i bambini erano nudi a causa della mancanza di energia elettrica per alimentare i condizionatori d' aria. Alcuni di loro erano legati al letto, ha aggiunto, perché sono disabili e incapaci di distinguere il cibo dai loro stessi escrementi. "Mi assumo ogni responsabilità per ciò che accade nel mio ministero e anche per gli atti commessi nell' orfanotrofio", ha detto il ministro, che appartiene all' Alleanza sciita di cui fa parte anche il premier Al Maliki.
Radi ha comunque affermato di avere ordinato "un' ispezione generale per investigare sull' incidente. Mi aspetto una procedura legale nei confronti di coloro che ne sono responsabili, chiunque essi siano, e i risultati saranno resi pubblici". Nel 2004 causò un enorme scandalo mondiale la scoperta che nel carcere iracheno di Abu Ghraib alcuni soldati americani molestavano i sospetti terroristi arabi detenuti, denudandoli, aizzando contro di loro i cani e sottoponendoli a sevizie fisiche e psicologiche ai limiti (o ben oltre) della tortura. Anche ora la scoperta è avvenuta per caso. Ma questa volta gli Stati Uniti non c'entrano.
La scena che si sono trovati davanti alcuni militari statunitensi e iracheni che durante una ronda notturna di pattuglia nel centro di Baghdad sono entrati in un orfanotrofio pubblico, era di vero e proprio orrore: davanti ai loro occhi bambini abbandonati a loro stessi da più di un mese, prostrati dalla mancanza di cibo e di cure, alcuni con evidenti segni di maltrattamento. Non si può neanche sostenere che si sia trattato di una ben orchestrata operazione di pubbliche relazioni da parte delle forze occupanti di Washington, come accusano alcuni iracheni, perché oltre alla catena televisiva americana Cbs anche il sito del quotidiano indipendente spagnolo El Mundo ha mostrato le immagini di quello che ai soldati è apparso subito essere un incubo, un inferno.
"Al piano terra c' erano diversi corpi stesi sul pavimento", ha raccontato il sergente Mitchell Gibson. "Pensavamo fossero tutti morti, così abbiamo lanciato una palla da basket per attirare l' attenzione e uno dei ragazzi ha alzato la testa, ha dato uno sguardo e poi è tornato a sdraiarsi per terra. A quel punto ci siamo detti "oh, sono vivi", e abbiamo controllato l' edificio". Il sergente Michael Beale descrive "bambini cui potevi letteralmente contare ogni singolo osso del corpo tanto erano magri: non avevano forze per fare alcun movimento, rimanevano totalmente inespressivi". Molti di loro hanno handicap mentali. Uno dei piccoli era "completamente coperto da mosche, non riusciva a muovere alcuna parte del corpo", ricorda Gibson. E prosegue: "Gli abbiamo tenuto la testa, l' abbiamo smossa per capire se stava bene, ma l' unica cosa che riusciva a muovere erano i bulbi oculari". Solo dopo una settimana di alimentazione adeguata quel bambino è riuscito a sedersi nel lettino con le sue sole forze. Due sorveglianti del centro sono stati arrestati. Il direttore invece è scomparso, così come due delle tre assistenti.
In Iraq, intanto, l'incubo continua. Ormai è guerra civile fra sciiti e sunniti, ogni giorno vengono uccisi soldati americani (sono 3.500 le vittime statunitensi dall'inizio della campagna), mentre le vittime civili sono più di centomila. L' aumento delle truppe statunitensi (da 130 a 150 mila unità), ordinato dal presidente George W. Bush in febbraio, non sembra aver migliorato la situazione. Ora anche il Kurdistan, la regione autonoma del Nord che finora era stata risparmiata dagli attentati, è minacciato dalle bande di terroristi sunniti e di Al Qaida. Quanto agli sciiti, controllano tutto il Sud per conto dell' Iran, e gli squadroni della morte di Moqtada al Sadr (autori della strage dei nostri soldati a Nassiriya) seminano il terrore fra la popolazione civile sunnita.
Sunday, July 01, 2007
intervista a Giulia Bevilacqua
Oggi, luglio 2007
Tosta come nella sua fiction. Giulia Bevilacqua, 28 anni, l’agente Anna Gori di Distretto di polizia, da sette anni serie regina delle prime serate di Canale 5, intavola subito una trattativa: per la location di questa intervista: «Abito a Monteverde, vieni qui domani?»
La Rizzoli sta a piazza Ungheria. Passa tu qui.
«Facciamo a metà strada. Trastevere?»
Ma Trastevere sarebbe a metà fra Parioli e Monteverde? Ci vediamo a piazza del Popolo, bar Canova.
«Troppo lontano. Campo de’ Fiori».
E va bene. Alle undici.
«Mezzogiorno. Alla vineria d’angolo con via dei Baullari».
Simpatica però, una che dice «vineria» invece di «wine bar». Arriva con addosso due scarpe buffe, tipo pantofolone.
E queste cosa sono?
«Nike col dito separato. Scusa se è poco».
Sei maniaca delle scarpe?
«Sì. Ho un armadio pieno».
Più di cento?
«Credo. Non oso contarle».
Ora state girando?
«Tutta l’estate. Dodici ore al giorno, dalle sette alle sette».
Qui a Roma?
«Sì, da gennaio. I 26 episodi della settima serie, che andrà in onda da settembre».
Lavorate a Ferragosto?
«Una settimana di vacanza».
Dove vai?
«Croazia».
Col tuo fidanzato?
«Sì».
Simone Corrente, attore veterano del Distretto.
«Non voglio parlare di lui».
Dai, non fare la solita attrice che fa finta di non voler parlare del fidanzato.
«Stiamo assieme da quasi due anni».
E..?
«E cosa?»
Dimmi qualcosa di più. Vi vedono in sei milioni ogni settimana. Otto, nella puntata in cui è morto Ricky Memphis. Siete la coppia più «vista» d’Italia.
«Ecchettedevodì? Stiamo bene assieme. Conviviamo».
E i tuoi che dicono?
«Hanno storto un po’ il naso. Ma solo perché è stato tutto molto veloce. I miei sono cattolici, e anche un po’ anziani. Sono l’ultima di quattro figli».
È vero che tuo padre ha progettato sette chiese?
«Sì, fa l’architetto qui a Roma. Anche mia madre e due dei miei fratelli. Pure io ho fatto tre esami d’architettura, dopo il liceo classico. Poi gli ho detto che volevo fare l’attrice, e mi hanno preso per matta».
E invece...
«Sono riuscita a entrare al Centro sperimentale. Solo dodici posti per il corso d’attore ogni anno, con 500 domande».
Dopodiché, tutto in discesa.
«Sono stata fortunata. Nel 2003 mi hanno preso nella serie tv Grandi Domani. E due anni dopo sono approdata al Distretto di Polizia 5».
E hai trovato il fidanzato.
«E dagli».
Qual è la cosa più bella che ti ha detto?
«Non l’ha detta a me, ma al produttore Valsecchi: “Grazie per aver preso Giulia, è stato il regalo più bello della mia vita”».
E la più brutta?
«Che assomiglio a mia madre».
Oddio, è così strega? O solo suocera?
«Ma no, infatti: è una donna stupenda. Le voglio un bene dell’anima, e anche lui. Lo dice solo per criticarmi».
Cosa c’è da criticare?
«Niente, appunto. Diciamo che i miei mi hanno dato un’educazione un po’ rigida, lontana mille miglia dalla cultura dell’apparire, e da un certo mondo dello spettacolo».
Per esempio?
«Non potevo scoprirmi la pancia. E truccarmi, pochissimo».
Soffrivi?
«Macché, anzi. Ero anch’io convinta che le ragazze che si truccano troppo rischiano di apparire un po’... come dire?...»
Zoccolette?
«Ecco».
Questa è la tua terza estate di lavoro a Roma.
«Sì, giriamo tutto l’anno tranne novembre e dicembre. E per la prima volta io romana ho potuto scoprire quant’è bella la città in agosto».
Prima andavi sempre via?
«Sì, i miei ci portavano con loro in viaggio. Mostre in Finlandia, Biennali a Venezia, musei, monumenti. A cinque anni mi portarono al Louvre».
Una tortura.
«No, anzi: sono grata ai miei genitori che mi hanno trasmesso un bagaglio culturale. Oggi mi serve molto».
Quanti altri anni di Distretto di polizia farai?
«Spero tanti: mi piace moltissimo, ormai siamo una grande famiglia. Ma per non fossilizzarmi in un solo ruolo ho anche fatto due film».
Cardiofitness, e poi L’ora di punta di Vincenzo Marra.
«Sì, con Fanny Ardant. Spero che vada a Venezia».
Che fai con il tuo fidanzato nel tempo libero?
«E ridagli. Alla sera siamo così stanchi che ce ne stiamo quasi sempre a casa. Usciamo poco, neanche al cinema».
Ultimo bel film visto?
«Little Miss Sunshine, in dvd. Poetico, ma anche con un suo messaggio morale».
Ultimo bel libro letto?
«Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini. Lo consiglio anche a chi non ama leggere. Ti travolge.Ho pianto sei volte, non mi era mai successo».
Il tuo sogno?
«Un film accanto a Castellitto, con Almodovar regista».
Bene, allora arrivederci a Cannes fra dieci anni.
«Facciamo cinque».
Mauro Suttora
Wednesday, June 27, 2007
Italia, paradiso degli evasori
La cifra è ufficiale: 270 miliardi di tasse non pagate ogni anno. «Un terzo della nostra economia è in nero, anche se tutti fanno finta di niente», denuncia Gian Maria Fara (Eurispes). Intanto gli autonomi contestano i nuovi «studi di settore». E la Guardia di Finanza rintraccia 21 miliardi. Ma lo Stato li incasserà mai?
di Mauro Suttora
Roma, 27 giugno 2007
Adesso è ufficiale: l’evasione fiscale in Italia ammonta all’astronomica cifra di 270 miliardi di euro annui. Quasi un terzo della nostra attività economica è in nero. E quindi chi paga le tasse è costretto a versare quasi il doppio rispetto a una situazione normale. Insomma, se tutti pagassero, l’aliquota massima dell’Irpef potrebbe scendere dal 49 per cento al sospirato 33.
La notizia non è nuova. Che gli evasori siano, assieme a mafia e disoccupazione, la principale piaga d’Italia, è arcinoto. Lo sappiamo tutti, da anni. Il 77 per cento degli italiani ammette, in un sondaggio della Banca d’Italia, che le dichiarazioni fiscali sono false. Ma questa volta non è un istituto di ricerca a stimare le tasse evase: lo fa l’Agenzia delle Entrate, cioè proprio l’ente che, dal suo grattacielo romano dell’Eur, dovrebbe far quadrare i conti pubblici.
«L’aspetto più incredibile è che questa rivelazione non ha avuto alcun seguito», denuncia il professore Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, «perché la principale preoccupazione dei politici - sia di destra sia di sinistra, a seconda di chi è al governo - è quella di descrivere l’Italia o come un paradiso, o come un Paese nel quale tutti i problemi sono sul binario giusto per la loro soluzione».
L’Italia un paradiso? Sì, ma fiscale. Senza bisogno di fuggire a Montecarlo o alle isole Cayman e Bahamas. «La nostra economia sommersa, cioè esentasse, equivale a quella di quattro nazioni medio-grandi messe assieme: Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria», ricorda Fara.
Ora, a proposito dell’extragettito, si parla tanto di «tesoretto», dando l’impressione che le cose siano cambiate. Non è così: anche quest’anno lo Stato italiano sta spendendo più di quello che incassa. Il deficit annuo è calato dal quattro al due per cento, ma è una magra consolazione, visto che va ad aggravare un debito totale di 1.600 miliardi di euro. Sarebbe come se una famiglia indebitata per ventimila euro e che guadagna in un anno egualmente ventimila euro, ne spendesse 20.400 invece di risparmiare.
«Così i nostri governi riescono a farsi criticare contemporaneamente sia dagli evasori, sia da chi è costretto a pagare cifre insopportabili», ci spiega da Genova Victor Uckmar, decano dei fiscalisti italiani, «perché la media del 42 per cento del carico fiscale è come il pollo di Trilussa, non significa nulla. Guardiamo le tasse sui redditi, per esempio: quelli da capitale, cioè azioni, bot e quant’altro, pagano solo il dodici per cento, contro il 35 di quelli da impresa (cioè da attività industriale o commerciale) e addirittura il 49 di quelli da lavoro dipendente e autonomo. E tutto questo per finanziare gli sperperi della “casta” dei politici, in barba al principio della “giusta imposta per giusta spesa”».
Che fare, allora? La lotta all’evasione promessa un anno fa dal governo Prodi sembra procedere bene, visto che anche nei primi mesi del 2007 le entrate sono aumentate del sei per cento. Poi c’è la revisione dei cosiddetti «studi di settore», con cui lo Stato determina da una decina d’anni il reddito presunto di quattro milioni e mezzo di lavoratori autonomi. Dati certi parametri (tipo di attività, città, metratura), chi dichiara la cifra ritenuta «congrua» evita i controlli. Ma la rivalutazione di questa cifra per un totale di tre miliardi di maggiori entrate sta provocando la rivolta delle categorie interessate: «Ciascuno di noi dovrà pagare dai 1.500 ai tremila euro in più all’anno», calcola Giuseppe Bortolussi, segretario degli Artigiani di Mestre.
«Siamo intervenuti soprattutto sui costi detraibili, sulle giacenze in magazzino, sui valori aggiunti per addetto», rispondono al ministero dell’Economia, dove alle Finanze opera il viceministro Vincenzo Visco. Qualche esempio: i corniciai «congrui» denunciano una durata scorte di 632 giorni, quelli non congrui 7.597 (in pratica, questi ultimi terrebbero nel retrobottega cornici per venti anni e più). Oppure ristoranti e bar: il valore aggiunto per addetto (fatturato meno costi diviso per il numero di dipendenti) è 16,3 secondo il nuovo studio di settore, ma comunque la metà rispetto agli indici Istat del 29,8. Per gli alberghi: il ministero «presume» un rendimento per addetto del 15, contro l’Istat al 42.
Insomma, fra congrui e non congrui c’è una bella differenza, e lì sta intervenendo il ministero (vedi tabella sotto). I farmacisti in regola, per esempio, dichiarano 150 mila euro annui, mentre il 20 per cento di non congrui sono a 83 mila. I corniciai sono a 24 mila, ma c’è un 75 per cento che dichiara appena 6.700. Baristi e gelatai: 26 mila euro per quelli in regola, ma il 70 per cento dichiara 11 mila. Agenti immobiliari: i congrui sono a 37 mila, gli altri (52 per cento) a 9 mila.
Ma quanto sono importanti gli studi di settore per stanare gli evasori?
Per capirlo andiamo al Comando generale della Guardia di Finanza a Roma, dove il colonnello Umberto Sirico, capufficio della Tutela finanza pubblica, ci spiega: «Gli studi di settore sono solo uno dei vari strumenti per individuare situazioni patologiche. L’anno scorso la Guardia di Finanza ha accertato evasioni Iva per quattro miliardi di euro, la cifra maggiore degli ultimi dieci anni, e redditi non dichiarati per oltre 17 miliardi. Quest’anno stiamo aumentando gli interventi del 24 per cento rispetto al 2006. E i reparti speciali istituiti di recente a Roma, come quelli sulle entrate e sulla spesa pubblica, forniscono ai reparti territoriali tutte le indicazioni investigative e d’intelligence per agire con precisione chirurgica. Insomma, grazie agli incroci di dati ormai siamo in grado di intervenire quasi a colpo sicuro».
Esempi?
«Le ristrutturazioni edilizie: confrontando le richieste di detrazione del 36 per cento nelle dichiarazioni dei redditi con le fatture emesse, la Guardia di Finanza è in grado di individuare le imprese edili che evadono. E così gli agenti e rappresentanti di commercio che versano contributi Enasarco non combacianti con la realtà, le ditte di autotrasporto quando non dichiarano lavoratori che effettuano consegne per conto terzi, o le frodi sull’Iva comunitaria negli scambi con operatori di San Marino. È importante sfruttare l’effetto deterrenza: nei settori presi di mira l’evasione cala drasticamente».
Insomma, il «conflitto d’interessi», che è un problema in politica, nella lotta agli evasori è invece un ottimo metodo. Infatti, se i clienti possono scaricare le ricevute, smettono di essere complici dei fornitori nell’evadere l’Iva. Per fare «emergere il nero» pochi giorni fa Francesco Rutelli ha proposto di rendere detraibili anche gli affitti.
Quel che le Fiamme Gialle non possono dire, però, è che spesso gran parte del loro lavoro si perde negli arzigogoli della giustizia: fra condoni e ricorsi, il denaro recuperato alla fine è poco. Ma in questo campo decidono i politici. Che sono eletti da tutti noi. Evasori compresi...
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Roma, 27 giugno 2007
Adesso è ufficiale: l’evasione fiscale in Italia ammonta all’astronomica cifra di 270 miliardi di euro annui. Quasi un terzo della nostra attività economica è in nero. E quindi chi paga le tasse è costretto a versare quasi il doppio rispetto a una situazione normale. Insomma, se tutti pagassero, l’aliquota massima dell’Irpef potrebbe scendere dal 49 per cento al sospirato 33.
La notizia non è nuova. Che gli evasori siano, assieme a mafia e disoccupazione, la principale piaga d’Italia, è arcinoto. Lo sappiamo tutti, da anni. Il 77 per cento degli italiani ammette, in un sondaggio della Banca d’Italia, che le dichiarazioni fiscali sono false. Ma questa volta non è un istituto di ricerca a stimare le tasse evase: lo fa l’Agenzia delle Entrate, cioè proprio l’ente che, dal suo grattacielo romano dell’Eur, dovrebbe far quadrare i conti pubblici.
«L’aspetto più incredibile è che questa rivelazione non ha avuto alcun seguito», denuncia il professore Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, «perché la principale preoccupazione dei politici - sia di destra sia di sinistra, a seconda di chi è al governo - è quella di descrivere l’Italia o come un paradiso, o come un Paese nel quale tutti i problemi sono sul binario giusto per la loro soluzione».
L’Italia un paradiso? Sì, ma fiscale. Senza bisogno di fuggire a Montecarlo o alle isole Cayman e Bahamas. «La nostra economia sommersa, cioè esentasse, equivale a quella di quattro nazioni medio-grandi messe assieme: Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria», ricorda Fara.
Ora, a proposito dell’extragettito, si parla tanto di «tesoretto», dando l’impressione che le cose siano cambiate. Non è così: anche quest’anno lo Stato italiano sta spendendo più di quello che incassa. Il deficit annuo è calato dal quattro al due per cento, ma è una magra consolazione, visto che va ad aggravare un debito totale di 1.600 miliardi di euro. Sarebbe come se una famiglia indebitata per ventimila euro e che guadagna in un anno egualmente ventimila euro, ne spendesse 20.400 invece di risparmiare.
«Così i nostri governi riescono a farsi criticare contemporaneamente sia dagli evasori, sia da chi è costretto a pagare cifre insopportabili», ci spiega da Genova Victor Uckmar, decano dei fiscalisti italiani, «perché la media del 42 per cento del carico fiscale è come il pollo di Trilussa, non significa nulla. Guardiamo le tasse sui redditi, per esempio: quelli da capitale, cioè azioni, bot e quant’altro, pagano solo il dodici per cento, contro il 35 di quelli da impresa (cioè da attività industriale o commerciale) e addirittura il 49 di quelli da lavoro dipendente e autonomo. E tutto questo per finanziare gli sperperi della “casta” dei politici, in barba al principio della “giusta imposta per giusta spesa”».
Che fare, allora? La lotta all’evasione promessa un anno fa dal governo Prodi sembra procedere bene, visto che anche nei primi mesi del 2007 le entrate sono aumentate del sei per cento. Poi c’è la revisione dei cosiddetti «studi di settore», con cui lo Stato determina da una decina d’anni il reddito presunto di quattro milioni e mezzo di lavoratori autonomi. Dati certi parametri (tipo di attività, città, metratura), chi dichiara la cifra ritenuta «congrua» evita i controlli. Ma la rivalutazione di questa cifra per un totale di tre miliardi di maggiori entrate sta provocando la rivolta delle categorie interessate: «Ciascuno di noi dovrà pagare dai 1.500 ai tremila euro in più all’anno», calcola Giuseppe Bortolussi, segretario degli Artigiani di Mestre.
«Siamo intervenuti soprattutto sui costi detraibili, sulle giacenze in magazzino, sui valori aggiunti per addetto», rispondono al ministero dell’Economia, dove alle Finanze opera il viceministro Vincenzo Visco. Qualche esempio: i corniciai «congrui» denunciano una durata scorte di 632 giorni, quelli non congrui 7.597 (in pratica, questi ultimi terrebbero nel retrobottega cornici per venti anni e più). Oppure ristoranti e bar: il valore aggiunto per addetto (fatturato meno costi diviso per il numero di dipendenti) è 16,3 secondo il nuovo studio di settore, ma comunque la metà rispetto agli indici Istat del 29,8. Per gli alberghi: il ministero «presume» un rendimento per addetto del 15, contro l’Istat al 42.
Insomma, fra congrui e non congrui c’è una bella differenza, e lì sta intervenendo il ministero (vedi tabella sotto). I farmacisti in regola, per esempio, dichiarano 150 mila euro annui, mentre il 20 per cento di non congrui sono a 83 mila. I corniciai sono a 24 mila, ma c’è un 75 per cento che dichiara appena 6.700. Baristi e gelatai: 26 mila euro per quelli in regola, ma il 70 per cento dichiara 11 mila. Agenti immobiliari: i congrui sono a 37 mila, gli altri (52 per cento) a 9 mila.
Ma quanto sono importanti gli studi di settore per stanare gli evasori?
Per capirlo andiamo al Comando generale della Guardia di Finanza a Roma, dove il colonnello Umberto Sirico, capufficio della Tutela finanza pubblica, ci spiega: «Gli studi di settore sono solo uno dei vari strumenti per individuare situazioni patologiche. L’anno scorso la Guardia di Finanza ha accertato evasioni Iva per quattro miliardi di euro, la cifra maggiore degli ultimi dieci anni, e redditi non dichiarati per oltre 17 miliardi. Quest’anno stiamo aumentando gli interventi del 24 per cento rispetto al 2006. E i reparti speciali istituiti di recente a Roma, come quelli sulle entrate e sulla spesa pubblica, forniscono ai reparti territoriali tutte le indicazioni investigative e d’intelligence per agire con precisione chirurgica. Insomma, grazie agli incroci di dati ormai siamo in grado di intervenire quasi a colpo sicuro».
Esempi?
«Le ristrutturazioni edilizie: confrontando le richieste di detrazione del 36 per cento nelle dichiarazioni dei redditi con le fatture emesse, la Guardia di Finanza è in grado di individuare le imprese edili che evadono. E così gli agenti e rappresentanti di commercio che versano contributi Enasarco non combacianti con la realtà, le ditte di autotrasporto quando non dichiarano lavoratori che effettuano consegne per conto terzi, o le frodi sull’Iva comunitaria negli scambi con operatori di San Marino. È importante sfruttare l’effetto deterrenza: nei settori presi di mira l’evasione cala drasticamente».
Insomma, il «conflitto d’interessi», che è un problema in politica, nella lotta agli evasori è invece un ottimo metodo. Infatti, se i clienti possono scaricare le ricevute, smettono di essere complici dei fornitori nell’evadere l’Iva. Per fare «emergere il nero» pochi giorni fa Francesco Rutelli ha proposto di rendere detraibili anche gli affitti.
Quel che le Fiamme Gialle non possono dire, però, è che spesso gran parte del loro lavoro si perde negli arzigogoli della giustizia: fra condoni e ricorsi, il denaro recuperato alla fine è poco. Ma in questo campo decidono i politici. Che sono eletti da tutti noi. Evasori compresi...
Mauro Suttora
Belpietro, secondino a Peschiera
IL DIRETTORE DE "IL GIORNALE" RACCONTA LA PROPRIA NAIA. E QUELLA VOLTA CHE PANNELLA...
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
L'ultimo carcere militare d'Italia
QUESTA PRIGIONE E' QUASI UN HOTEL DI LUSSO
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Friday, June 22, 2007
Intervista a Sabina Rossa
Parla la figlia del sindacalista-operaio ucciso dalle Br nel 1979
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Monday, June 18, 2007
Grand Hotel Montecitorio
«Dai telepass gratis alla sauna, dai tabacchi alla banca, qua dentro ci danno tutto», dice l’onorevole Donatella Poretti. Che racconta di auto blu a vita e tagli di capelli a prezzi stracciati. E propone: «Riduciamo i seggi da 630 a 100, come all’estero»
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Monday, June 11, 2007
American Academy Roma
LA LITTLE AMERICA E’ SEMPRE PIU’ GRANDE, AMA E STUDIA L’ITALIA, E ORA APRE LA PORTA DI SAN PANCRAZIO
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Monday, May 28, 2007
L'Unità: costi della politica
l'Unita', lunedi' 28 maggio 2007
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
Friday, May 25, 2007
Christie's: asta Savoia
Maria Gabriella di Savoia mette all'asta i gioielli di famiglia
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Wednesday, May 23, 2007
Il nuovo sacco di Roma
Il centro della capitale soffocato dalle sedi dei politici
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
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