Parla la figlia del sindacalista-operaio ucciso dalle Br nel 1979
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
5 comments:
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