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Wednesday, June 27, 2007

L'ultimo carcere militare d'Italia

QUESTA PRIGIONE E' QUASI UN HOTEL DI LUSSO

Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno

Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli

E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.

E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?

«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».

Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.

«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.

«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».

E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.

La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.

Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.

Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.

La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.

Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.

L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.

Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.

A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.

Mauro Suttora