Sunday, March 04, 2001
Il ritorno delle ciccione
di Mauro Suttora
Si chiama Sophie Dahl, ed è la nuova donna immagine del profumo Opium di Yves Saint Laurent. Americana, 23 anni, alta un metro e 80, taglia 48, incanta il mondo tutta nuda e burrosa, con la sua pelle bianco latte e gli occhi chiusi nell’estasi. La supera Barbara, 24 anni, taglia 52: di reggiseno porta la settima misura, e ha posato per il calendario 2001 di Elena Mirò, la linea di moda del gruppo Miroglio destinata alle taglie forti, che fa concorrenza a Max Mara e a Marina Rinaldi.
Poi c’è Ali Stuhlreyer, la grassa modella che è stata immortalata in copertina poche settimane fa da «Amica»: lo sciccoso settimanale ha dedicato un intero numero al «sovrappeso è bello», così come il supplemento femminile «D di Repubblica». Quanto a Kate Moss, un tempo magra da far paura, ultimamente ha mostrato fianchi insolitamente tondi sfilando in costume per Gucci.
Megan Gale, infine: sì, la più concupita dagli italiani è in realtà pure lei bella pienotta, con gambe muscolose (ammirabili mentre si arrampica sulla torre dell’ultimo spot Omnitel) e curve pronunciate, che a ogni sfilata fanno inorridire gli ultimi stilisti rimasti schiavi del mito dell’anoressica. Per non parlare di Gwyneth Paltrow, la secca attrice che nel suo ultimo film si fa ingrassare fino a 150 chili dal computer.
Insomma, grasso è di nuovo bello? E, comunque, sta tramontando l’era delle modelle magrissime, visto che di anoressia lle nostre adolescenti cominciano perfino a morire?
«Andiamoci piano», risponde Gabriella Galluccio Canevari, giornalista di Amica, «perché anche alle ultime sfilate di Milano, Parigi e New York la media delle modelle era, ancora e sempre, sulla misura grissino. È vera piuttosto un’altra cosa: che mentre un tempo la ciccia era completamente out, oggi rappresenta un’alternativa accettabile e presentabile».
E perfino simpatica: anche perché, diciamolo francamente, al di là dei modelli (e delle modelle) imposti dall’industria della moda e dai gusti sovente omosex (e quindi sottilmente ginofobi) degli stilisti, nella realtà di tutti i giorni il trionfo delle maggiorate non è mai cessato. Al cinema, per esempio, sono sempre loro a dettar legge. E non soltanto in Italia, con le sue più che paffute Valeria Marini e Sabrina Ferilli, o con le pettoralmente superdotate Maria Grazia Cucinotta, Manuela Arcuri e Anna Falchi, ma anche nella Francia della quasi omonima di Sophie Dahl, Béatrice Dalle, nell’Inghilterra di Elizabeth Hurley dai garretti sostanziosi, e negli Stati Uniti delle quadratissime Cameron Diaz e Sandra Bullock.
Ma prendiamo anche la più divina e conturbante, Sharon Stone: le avete mai guardato attentamente le gambe? Non assomigliano a quelle di un onesto centromediano di spinta? Nicole Kidman è in perenne lotta con la dieta. Quanto a Kate Winslet, prima e dopo «Titanic» è tutta un tripudio di rotolini.
A difendere lo stendardo del clangore di ossa sembra rimasta soltanto Julia Roberts: per il resto, se non si può dire che il muscolo più o meno flaccido faccia tendenza, certo ha conquistato tolleranza. E quindi, care donne, non angustiatevi più di tanto con le consuete diete primaverili: può darsi che la verità stia nel titolo dell’ultimo libro scritto da Richard Klein per Feltrinelli: «È tutto grasso che vola».
Tuesday, February 13, 2001
La censura si abbatte sui radicali
Wednesday, February 07, 2001
I coloni israeliani a Gaza
Candidati di Bonino e di Di Pietro
Thursday, January 25, 2001
Arlacchi al capolinea
di Mauro Suttora
Il Foglio, 25 gennaio 2001
Chissà se l’onnipotente Enzo Biagi riuscirà a salvare il posto a uno dei suoi innumerevoli datori di lavoro: Pino Arlacchi. Il sociologo calabrese, infatti, sta per perdere la carica di direttore dell’Ufficio antidroga dell’Onu a Vienna.
Nominato quattro anni fa dall’Ulivo (anche per far posto a Tonino Di Pietro come senatore del Mugello), Arlacchi è in scadenza a settembre, ma difficilmente il suo mandato verrà rinnovato. Gran Bretagna, Francia, Germania e Svezia lo hanno già scaricato, e i governi di Parigi e Berlino si sono perfino rifiutati di presentare il Rapporto della sua Agenzia.
Così Arlacchi ha ripiegato mesto su Milano, dove stamane il suo Rapporto 2000 viene esibito in pompa magna nella sala più prestigiosa del palazzo comunale. Presiede Enzino, assieme al suo cardinale pret-à-porter Ersilio Tonini, al ministro dell’Interno Enzo Bianco (che sotto sotto mira alla poltrona di Arlacchi) e alla lobby antidroga di San Patrignano rappresentata da due signore: la giudice dei minori Livia Pomodoro e Letizia Moratti. Anche quest’ultima, come Biagi, è stata «nominata» da Arlacchi «civic ambassador to Italy»: un titolo antidroga tanto vacuo quanto altisonante.
Giornata di gloria per il povero Pino, quindi, che si consola per le sberle che ormai gli piombano addosso quasi ogni giorno. Dopo la sua prima scivolata in dicembre al vertice di Palermo («Ormai la mafia è vinta», disse), è arrivata la denuncia di undici pagine in cui Michael von Schulenburg, numero due dell’Ufficio di Vienna, rimprovera al suo capo una «politica personale» caratterizzata da «indifferenza e disprezzo» per i suoi collaboratori, «programmi annunciati e mai realizzati» e «un grande dispendio di denaro».
Poi i grandi giornali europei si sono scatenati sul caso dei 60 milioni di lire che l’ufficio di Mosca dell’agenzia di Arlacchi ha regalato a Dennis Oren, un simpatico svedese residente nelle isole Canarie. Questo tizio avrebbe dovuto girare il mondo su una barca a vela dispensando ai giovani «informazione sulla droga», argomento sul quale però non possedeva alcuna competenza professionale. Il rappresentante Onu a Mosca non voleva finanziarlo, ma poi è arrivato l’ordine direttamente da Pino. Il quale ora si difende: «No, Oren non è mio amico, l’ho solo incontrato due o tre volte. Ho semplicemnte pensato che la sua fosse una buona idea, e il mio staff ha condiviso la valutazione».
Peccato che lo stesso staff sia trattato da Arlacchi col capriccio del satrapo mesopotamico: «Non riceve il personale, non risponde alle lettere, non si fida di nessuno, ha il culto della segretezza, accentra tutto su di sè», accusa Von Schulenburg. Così ormai siamo arrivati a sette direttori fatti fuori in tre anni.
Uno degli ultimi è l’inglese Tony White, già capo dell’Agenzia Onu per l’applicazione della legge, ed ex dirigente di Scotland Yard: «In 33 mesi sono riuscito a vedere Arlacchi solo una volta. Il suo ufficio privato è un buco nero che si espande sempre più, e ha ridotto la politica delle risorse umane a livelli vergognosi». Tradotto: si fa carriera non per merito, ma solo se si è amici di Pino.
Il trattamento riservato a White ha irritato a tal punto il governo britannico che ora Londra mette in dubbio la prosecuzione del suo finanziamento all’Agenzia di Vienna. Critico anche Jean-François Thony, magistrato francese che doveva organizzare un «Programma globale contro il riciclaggio finanziario». Se n’è andato sbattendo la porta e accusando un consulente italiano nominato da Arlacchi di avere cercato di piazzare una relazione copiata, che l’Onu avrebbe dovuto pagare diecimila dollari.
Infine, perfino l’autore del Rapporto mondiale presentato oggi in Italia ha mollato Pino: il coordinatore Francisco Thaomi si è dissociato dal testo finale, perché Arlacchi lo ha voluto «purgare» pesantemente. Sono stati rimaneggiati soprattutto i capitoli sulle anfetamine e la marijuana, nel tentativo di esagerare i risultati ottenuti da Arlacchi.
In realtà, com’è noto, i principali produttori di oppio (eroina) e coca, cioè Afghanistan, Birmania e Colombia, continuano indisturbati ad aumentare la produzione e la raffinazione. Con i 50 miliardi regalati da Arlacchi i talebani afghani hanno comprato armi. Quanto alla canapa indiana (hashish, marihuana), la stessa Agenzia Onu stima in quasi due milioni di ettari i campi coltivati in ben 120 Paesi, con 144 milioni di consumatori.
Commenta Franco Corleone, sottosegretario alla giustizia: «Arlacchi non perde occasione per glorificare le sorti della “guerra alla droga” e soprattutto per attribuirsi i meriti di successi straordinari nel mondo intero. Ma in tutta Europa le politiche sulla droga si stanno indirizzando verso la depenalizzazione».
Marco Pannella accusa: «Un ex collaboratore russo-georgiano di Arlacchi è sospettato di avere avuto rapporti non chiari con la criminalità: era presente nello stesso albergo di Tblisi nei giorni in cui si teneva una riunione della potentissima mafia georgiana». Antonio Russo, giornalista di Radio radicale che indagava in loco, è stato assassinato misteriosamente tre mesi fa.
Intanto, con una norma inserita alla chetichella nell’ultima finanziaria, l’Italia destina all’Agenzia Onu antidroga il 25 per cento dei beni confiscati ai mafiosi: una boccata d’ossigeno per Arlacchi nel caso che gli altri Paesi europei gli taglino i fondi. Ma che rischia di arrivare quando a Vienna Pino non ci sarà più.
Mauro Suttora
Tuesday, January 23, 2001
Di Pietro arruola il segretario di Sgarbi
Saturday, January 20, 2001
Reportage da Gaza per la seconda Intifada
dall'inviato a Gaza (Palestina) Mauro Suttora
Oggi, 20 gennaio 2001
Nazir Abdel Fattah ha 36 anni e sei figli: le femminucce Ghadir, Nahil, Hadil, Abir, Hannil, e l’unico maschio Abid, di sei anni. Vive da quand’è nato nel campo profughi Sciatt («spiaggia») a Gaza. Suo padre c’è finito in esilio nel 1948, quando gli arabi attaccarono il neonato stato di Israele e persero la guerra.
La casa di famiglia a Esdud (Ashdod in ebraico) non c’è più. La città di Ashdod (sulla costa, poche decine di chilometri a nord di Gaza) era stata assegnata a Israele nel piano Onu di spartizione della Palestina nel ‘47, che i Paesi arabi rifiutarono.
Alla fine della guerra soltanto 160 mila palestinesi accettarono di rimanere sotto Israele. Gli altri 900 mila finirono in esilio: mezzo milione in Cisgiordania, centomila in Libano, 90 mila in Siria. E ben 200 mila qui, nella piccola striscia di Gaza che venne data all’Egitto.
«Nei primi anni la mia famiglia visse sotto una tenda», racconta Nazir, «perché c’era ancora la speranza di tornare a casa entro breve tempo. Solo dopo la seconda guerra contro Israele, nel ‘56, furono costruite le case».
Quelle che Nazir chiama «case» sono catapecchie di un piano addossate l’una all’altra e separate da stretti vicoli senza asfalto, con la sabbia che si trasforma in fango dopo le piogge.
In questa baraccopoli vivono da più di mezzo secolo 50 mila profughi palestinesi. I quali nel frattempo, figliando, da 900 mila sono aumentati fino a tre milioni e mezzo.
Solo Nazir, per esempio, ha sei fratelli. Lui è l’unico rimasto a Gaza con la vecchia mamma, la moglie e i figli. Gli altri si sono trasferiti in Egitto, Libia, Giordania ed Emirati Arabi.
Per questi tre milioni e mezzo di «figli di profughi» i Paesi arabi continuano a reclamare, 53 anni dopo, il «diritto di ritorno» in Israele. Il quale, a sua volta, grazie a massicce immigrazioni ha decuplicato la propria popolazione ebraica: dai 650 mila del 1948 agli attuali sei milioni.
Difficile, quindi, che questo «diritto» possa essere esercitato. Anche perché molti palestinesi, in realtà, non hanno alcuna intenzione di tornare in posti dove non sono nati.
Lei, Nazir, tornerebbe ad Ashdod?
«No, non voglio vivere sotto gli israeliani. Anche se lì guadagnerei sette volte di più. Sono meccanico, e qui a Gaza prendo mille shekel al mese [500 mila lire italiane, ndr]. Facendo lo stesso lavoro in Israele arriverei a settemila shekel. Pensate che perfino gli arabi disoccupati, se sono cittadini israeliani, prendono un sussidio di tremila shekel... Ma io voglio stare qui, con la mia famiglia».
È il mezzogiorno del venerdì. Siamo seduti sotto un albero, nel giardino della casetta di Nazir.
«Io sono fortunato: abbiamo questo spazio di pochi metri quadri, circondato dai muri delle case dei vicini, ma sufficiente a far giocare le mie bambine senza costringerle a stare in strada. Però gli altri abitanti di questo campo vivono in condizioni peggiori. Venite, venite a guardare».
E Nazir ci porta in «tour» nei tuguri dei profughi, fra bambini cenciosi, donne che stendono i panni nei vicoli e ragazzotti nullafacenti. In questa povertà, è facile per gli estremisti della Jihad («Guerra santa») e di Hamas reclutare adepti.
Viene spontaneo pensare ai ricchissimi emiri arabi miracolati dal petrolio che scorrazzano ogni estate fra Cannes e Porto Cervo sui loro megayacht dal lusso sfrenato. E scandaloso, se paragonato alla miseria in cui sono costretti questi loro «fratelli arabi».
Possibile che nessun filantropo saudita pensi a costruire qualche centinaio di case dove sistemare decentemente questa povera gente?
In fondo, è la stessa cosa che fanno i miliardari ebrei americani, assai generosi nei confronti di Israele. Ma il tremendo sospetto è che i satrapi arabi giochino al «tanto peggio, tanto meglio», facendo rimanere apposta i palestinesi nella disperazione per meglio aizzarli contro gli odiati israeliani.
«Guardate, questo muro pochi giorni fa è caduto da solo», ci mostra Nazir, «era fatto di mattoni di sabbia pressata, paglia e fango, come tutte le case qui. Solo per miracolo non c’è rimasto sotto qualche bimbo».
L’unico edificio lussuoso in mezzo alla bidonville è una moschea, costruita quattro anni fa. È l’ora della preghiera, e dagli altoparlanti esce la voce assordante di uno sceicco che predica. Chiediamo di tradurci: «Il profeta Maometto dice che la forza sta nello stare assieme, non separati...»
Non è un mistero che Gaza sia diventata, in questi ultimi sette anni di «autonomia» palestinese, una roccaforte dei fondamentalisti islamici. Con quasi due milioni di abitanti ammassati in pochi chilometri quadri e la disoccupazione al 60 per cento, questo è un terreno fertile per gli integralisti.
Quando siamo arrivati alla frontiera abbiamo chiesto a un doganiere qual è il migliore albergo della città. «Il Tahuna», ci risponde. Così chiediamo al tassista di portarci lì.
Mentre siamo in viaggio, lo chauffeur dice che anche altri hotel sono belli come il Tahuna... Sospettando che ci voglia portare nell’albergo di qualche suo parente, insistiamo per il Tahuna. «Ma è bruciato», ci annuncia.
Arriviamo: è vero, tutto distrutto. Ma chi è stato? «L’Intifada». Come, il proprietario era un collaborazionista degli israeliani? «No». Il tassista non va oltre con le spiegazioni. Domandiamo ad altri notizie sul disastro del Tahuna, ma c’è imbarazzo e omertà. È stata la mafia? «Nooo, a Gaza non c’è mafia», spara un poliziotto.
Alla fine, la triste verità: i fondamentalisti hanno bruciato due mesi fa l’albergo perché osava vendere alcolici nel bar (anche se i clienti erano quasi tutti stranieri).
Insomma, ormai a Gaza è in vigore la legge islamica. Fortunatamente, invece, nell’altra parte della Palestina autonoma (la Cisgiordania) gli integralisti musulmani non sono ancora così forti, anche perché un buon venti per cento dei palestinesi è di religione cristiana.
Dopo gli ultimi scontri, i soldati israeliani hanno bloccato i palestinesi dentro ai loro territori: la frontiera con Israele è chiusa per loro. In più, la striscia di Gaza al suo interno è stata divisa in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro.
Così Montasser El-Tilbani, 27 anni, che lavora a Gaza città ma vive dieci chilometri più a sud, non può neanche tornare a casa la sera e deve dorm ire da amici. E, come lui, centinaia di migliaia di palestinesi hanno la vita privata sconvolta dai tre mesi di «Intifada numero due» (la prima ebbe luogo nell’87/’88).
Montasser parla italiano: due anni fa ha frequentato un corso alla Dante Alighieri di Alessandria d’Egitto, dov’è nato da padre palestinese e madre egiziana. Poi ha lavorato a Sharm el Sheikh, dove ha perfezionato la nostra lingua parlando con turisti italiani.
Ora lavora a Gaza, ma fra tre mesi dovrà tornarsene in Egitto: «Non ho il passaporto, sono “apolide”, senza identità, perché sono nato in Egitto e neanche qui riconoscono i miei diritti».
La sua è una storia tipica di quanto i palestinesi siano vittime, oltre che degli israeliani, anche delle dittature arabe che li «usano» a seconda delle convenienze politiche.
Montasser, infatti, nel 1994 è stato espulso assieme a tutti i palestinesi dalla Libia, dove studiava, perché Gheddafi era contrario all’accordo di pace di Oslo che Arafat aveva firmato con gli israeliani.
La stessa sorte è capitata nel ‘91 ai molti palestinesi che lavoravano nei ricchi Emirati Arabi, perché Arafat appoggiò Saddam nella guerra del Golfo, mentre gli Emirati stavano con gli americani.
Insomma, alla fine le vittime dei giochi politici sono solo i poveri abitanti dei campi profughi come Nazir, e anche i giovani che si danno da fare come Montasser.
Un altro giovane palestinese lo troviamo, in divisa, davanti a un palazzo bombardato, vuoto e imbandierato. Si chiama Mohamed Riad Rohmy, ha 24 anni. «Questa è la sede di Fatah, il partito di Arafat», ci spiega, «in ottobre sono arrivati gli elicotteri di Israele, si sono abbassati e hanno lanciato missili».
Non ci furono vittime solo perché gli israeliani avevano avvertito di evacuare pochi minuti prima. È stata un rappresaglia per il linciaggio dei due poliziotti ebrei a Ramallah, quello in cui la Tv italiana mostrò il corpo di uno degli sventurati che veniva gettato dalla finestra, e l’esultanza isterica di un giovane assassino palestinese che mostrava le proprie mani grondanti del sangue del nemico.
Quanto sia difficile risolvere il conflitto Palestina-Israele lo capiamo subito, appena entrati nella dogana palestinese di Erez. Notiamo appesa al muro una grande cartina: Israele non c’è, tutto è considerato Palestina. Ma il riconoscimento non doveva essere reciproco?
La stessa inquietante cartina campeggia nella hall del nostro albergo sul lungomare, con la poetica scritta «A quelli che sono stati martirizzati per la Terra delle arance tristi», e una promessa di violenza per il futuro: «A quelli che non sono stati ancora martirizzati».
Nell’entrata dell’hotel c’è un ospite straniero sulla cinquantina, con i capelli bianchi. A un certo punto arriva una jeep militare, scendono in fretta quattro soldati palestinesi e lo portano via: «È il pilota personale di Arafat, un austriaco», ci tranquillizza il portiere.
Ma c’è poco da stare tranquilli, in questi giorni a Gaza. Due ore prima che passassimo, alla frontiera gli israeliani hanno freddato un palestinese che si stava arrampicando sulla rete del confine, gridando «Allah ahbar!» (Dio è grande).
E nei due giorni che abbiamo trascorso a Gaza, ci sono state altre due vittime dell’Intifada numero due: ormai il conto dei morti, in tre mesi di conflitto, si avvicina a 400 (in grande maggioranza palestinesi).
I piani di pace crollano uno dopo l’altro. Tutti aspettano le elezioni in Israele, il 6 febbraio. E intanto la famiglia di Nazir Fattah continua a vivere, come da 53 anni, nella catapecchia del campo profughi «Spiaggia» di Gaza.
Mauro Suttora
Wednesday, January 17, 2001
"In questo deserto non c'erano arabi, non glielo daremo mai!"
I nostri inviati sono andati nel Medio Oriente insanguinato per scoprire come vivono i coloni israeliani assediati dall’Intifada palestinese
di Mauro Suttora
foto di Gianni Gelmi
Neve Dekalim è una striscia di dieci chilometri in mezzo a un territorio nemico. “Non abbiamo portato via la terra a nessuno, qui c’era solo sabbia, noi abbiamo creato un ‘paradiso’ e non ce ne andremo”, dicono gli abitanti. “Siamo in mezzo alla guerra, ma ci siamo abituati”
Oggi, 17 gennaio 2001
Israele è un striscia di 300 chilometri circondata da arabi. Gaza è una striscia di 40 chilometri in mezzo agli israeliani. E a sua volta Neve Dekalim, come in un gioco di matrioske, è una striscia di dieci chilometri ficcata fra i palestinesi di Gaza.
Siamo quindi venuti qui, proprio nell’epicentro della guerra infinita fra Israele e Palestina che si trascina da più di mezzo secolo, per capire le ragioni degli uni e degli altri. Neve Dekalim infatti, secondo gli accordi di pace discussi in questi giorni, dovrebbe sparire. Ma i 7mila coloni ebrei che ci lavorano da trent’anni ovviamente non sono d’accordo. E preferiscono vivere nel terrore quotidiano di essere attaccati dal milione di palestinesi di Gaza che li assediano, piuttosto che andarsene.
Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, l’unico che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.
In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli.
Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.
Accettiamo lo stesso, e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, promette di venire a prenderci con la sua auto.
Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).
Qui fino al 1967 (guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1993, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.
Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano a 140 insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’93 in poi.
Arriva Vanunu, un simpatico ragazzo laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in grande maggioranza palestinesi.
“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per potersi sparare”, si lamenta Vanunu.
Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.
Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”.
Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, ma soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.
Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto assolutamente priva di vermi.
Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.
Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. Ora è protetto dai soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commando palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.
Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.
I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.
La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”
La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.
Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?
“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate 15 famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.
A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’.
Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.
La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?
“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”
Dall’altra parte dei muri di cemento che fanno da fragile frontiera per questi coloni ebrei ci sono i campi profughi di Gaza, Khan Yuinis, Rafah. Vere e proprie bidonvilles dove i fondamentalisti islamici arruolano facilmente giovani esaltati pronti a farsi martirizzare. A pochi metri di distanza, così, si toccano fisicamente la disperazione del Terzo mondo e la supertecnologia degli israeliani. L’assurdo labirinto delle enclaves ebraiche è una spina insopportabile nel fianco dei palestinesi. La prossima settimana andremo a sentire anche le loro ragioni.
Mauro Suttora
1 - continua
Sunday, December 31, 2000
Friday, October 20, 2000
Antonio Russo ucciso in Cecenia
20 ottobre 2000
di Mauro Suttora
Milano. De mortuis nisi bene? No, si può anche parlar male di Antonio Russo, 40 anni, da Francavilla al Mare (Chieti). Aveva un caratteraccio, sembrava un barbone, un disadattato che vagava per il mondo, non era equilibrato nei suoi giudizi politici, parteggiava sempre sfrenatamente per una delle parti in causa, prima di essere un giornalista era un radicale.
Ma mi piaceva proprio per questo. E anche per un particolare solo apparentemente secondario: non lavorava assieme agli altri giornalisti. «Pour exister il faut qu’ils se mettent à plusieurs»: il gregge stigmatizzato da Jean-Paul Sartre nella Nausea è la triste normalità dei giornalisti italiani sui fronti di guerra. Tutti in gruppo, sempre: un po’ perché è pericoloso, un po’ perché qualcuno non sa bene le lingue, un po’ per non rischiare di prendere buchi. Ma soprattutto per comodità, viltà, pigrizia, conformismo.
Antonio Russo invece era un lupo solitario. Non era un fighetto con la sahariana e le note spese facili: anche perché Radio Radicale non ha i soldi per mandare i suoi reporter negli alberghi a cinque stelle. E neanche in quelli a tre. Cosicché lui si faceva ospitare da qualche abitante del luogo di cui diventava amico, e si infrattava. Nel senso che rimaneva sul posto per mesi. È successo così dappertutto: la Colombia dei narcos, l’Algeria degli sgozzati, il Ruanda dei trucidati, la Sarajevo dei cecchinati.
SENZA TESSERA
Si immedesimava nella vita degli abitanti del posto, perché la condivideva. Dopo quasi un anno trascorso nel Kosovo, aveva perfino imparato l’albanese. Con la sua faccia patibolare, con quella cicatrice rimediata chissà dove, con quegli stracci di vestiti che indossava, era diventato lui stesso un kosovaro. Non per nulla riuscì a nascondersi per molti giorni a Pristina, fra i rastrellamenti serbi e sotto le bombe Nato, e poi scappò in Macedonia sul treno dei deportati senza essere individuato.
Sua madre lo aspettava in Italia, ma lui non aveva mai voglia di tornare. Mandava lunghi reportage per telefono a Radio Radicale, e confesso che quando li ascoltavo di primo mattino a volte mi assopivo, cullato dal suo accento abruzzese. Era buffo quando tentava di applicare al conflitto kosovaro o a quello ceceno (dispute fra bande medievali, essenzialmente) analisi raffinate e usava locuzioni come «si ipotizza in ambienti diplomatici…».
No, lui quegli ambienti proprio non li frequentava, una volta lo cacciarono da una conferenza stampa nel migliore albergo di Pristina perché… sembrava un albanese. E perché non aveva la tessera da giornalista. Come tutti i free lance e i cooperatori delle Ong che sognano di farlo, il giornalista, inseguiva l’iscrizione all’Ordine. Ma poi partiva sempre.
L’ultima volta per la Cecenia: la fine del millennio l’ha festeggiata lì, fra le nevi del Caucaso, attaccato al telefono con Radio Radicale. Dieci mesi dopo era ancora da quelle parti, sempre in quei posti inutili che non fanno più notizia. Ma lui si affezionava a quelli che gli offrivano un letto e un pranzo. E ce li raccontava.
Mauro Suttora