«PANNELLA E’ UN PROFETA CRISTIANO»
Don Baget Bozzo: «Marco ha una visione religiosa, è stato lui a introdurre Gandhi in Italia”
Libero, 28 febbraio 2008
di Mauro Suttora
«Marco Pannella in realtà è una figura interna alla cristianità italiana. Non è un politico. È un profeta». Così commenta con Libero, dalla sua casa di Genova, uno dei più acuti osservatori della politica: don Gianni Baget Bozzo, 82 anni (quattro più di Pannella).
È incredibile come un partitino con non più del due per cento dei voti, e che ha ottenuto da Walter Veltroni meno dell’uno per cento dei parlamentari (nove su 950), riesca a scatenare tante polemiche. Veti, proteste, addirittura paura che un così minuscolo embrione possa trasformare tutti i Democratici in un «partito radicale di massa». A meno che...
«A meno che non si capisca che la visione di Pannella non è solo politica. È una visione religiosa», spiega don Baget. «È stato lui a introdurre il digiuno, la nonviolenza e tutto l’universo di Gandhi in Italia. Pannella trascende la politica: castiga il corpo per elevare l’anima».
Proprio come la senatrice Paola Binetti col suo cilicio: ecco trovato un punto di contatto fra l’anziano anticlericale e la sua più accesa oppositrice nel partito democratico. Ma perfino sul termine «anticlericale» occorre specificare. Perché è sicuramente Pannella l’inventore del micidiale slogan «No Vatican, no taliban». Ma con la continua spiegazione che il «clericalismo» è un vizio della vera religione, che i radicali non hanno nulla di antireligioso, e che anzi pure loro sono «credenti», seppure in «altro».
E cosa sarebbe, quest’«altro»? Secondo don Baget, «Pannella è un impolitico, non guarda al governo: vuole, attraverso la politica, riformare l’orizzonte spirituale degli uomini». Addirittura? «Certo. Pannella punta da sempre a una riforma del cattolicesimo italiano, non inteso come appartenenza ecclesiastica ma come cultura di popolo. Il suo avversario è stata quella convergenza tra cattolicesimo e comunismo che ha avuto il suo massimo risultato nel compromesso storico fra Dc e Pci».
Don Baget si spinge ancora più indietro: «Il compromesso storico rappresenta il rovesciamento del Risorgimento, che voleva introdurre in Italia la laicità dello Stato e la libertà del cittadino. Il ‘libera Chiesa in libero Stato’ di Cavour era l’idea di una riforma del cattolicesimo italiano, la speranza che il mutamento dell’Italia avrebbe determinato il rinnovamento della Chiesa».
E qui si scopre uno dei grandi amori politici di Pannella: don Romolo Murri, il sacerdote che un secolo fa fondò assieme a Sturzo e Toniolo la Fuci e la Democrazia Cristiana, ma che nel 1909 fu deputato radicale. «Murri voleva riformare il cattolicesimo con l’accettazione della libertà di coscienza», spiega don Baget, «e anche Pannella negli anni ’70, quelli di Paolo VI, dà un profilo spirituale alla sua azione. Questa è la sua novità rispetto al liberalismo. Pannella vi introduce la dimensione individuale: la coscienza, il corpo, il sesso. Prima il divorzio, poi l’aborto. E riesce a imporre al Pci e al governo, Dc compresa, le sue proposte».
Baget Bozzo aveva sviluppato questa tesi una dozzina anni fa, su ‘Liberal’. E giungeva a questa conclusione: «I profeti non diventano mai re. I rapporti tra Pannella e gli altri politici sono conflittuali non per differenze di pensiero, ma per differenti vocazioni. Pannella è un profeta. Ma appartiene troppo alla cristianità per poter mai diventare un profeta re».
Non è più esatto definirlo un eretico? «Gli eretici sono dei grandi organizzatori. Nessuno pensa a Calvino come a un profeta, ma come a un grande organizzatore ecclesiastico. Gli eretici non sono profeti, sono vescovi alternativi per una Chiesa alternativa. Ma Pannella non vuole fondare un’istituzione. Non cerca il potere, vuole solo comunicare, quasi in modo ossessivo: è parola continua, un presenzialismo in tutte le sedi. Entra in conflitto con la Chiesa, ma ciò corrisponde alla dinamica della profezia».
Mauro Suttora
Thursday, February 28, 2008
Wednesday, February 27, 2008
Beppe Grillo, primarie a Roma
Beppe Grillo cala su Roma con una Serenetta
Per la corsa al Campidoglio scelta l’ex precaria Serenetta Monti. Che si accontenterebbe del 2-3%
Libero, 27 febbraio 2008
di Mauro Suttora
Beppe Grillo fino a qualche settimana fa stracciava tutti i politici in ogni sondaggio: 60 per cento di consensi, contro il 30-40 degli altri. E minacciava: “Cacceremo i professionisti della politica con le nostre liste civiche”. Ma ora alle elezioni politiche non si presenta. Alle regionali del 13 aprile (Sicilia e Friuli) neppure, e neanche alle provinciali (“Sono enti inutili, vanno aboliti"). Restano i comuni. Roma, soprattutto, che sarà la vetrina più importante per il debutto di Grillo in politica.
L’altra sera si sono svolte le primarie fra gli ‘Amici di Grillo’ della capitale, per eleggere il loro candidato sindaco. Un centinaio di persone sono arrivate al Linux Club, locale del quartiere Ostiense che, in linea con i dettami grilleschi, propugna l’‘open source’ nei computer, contro il monopolio Microsoft-Windows. Sono duemila gli aderenti al cosiddetto ‘Meetup’ romano, il sito internet dove chiunque può registrarsi gratis.
Dopo il Vaffa-day dell’8 settembre c’è stata un’esplosione di adesioni. Quindi il comitato organizzatore, eletto ogni sei mesi, ha prudentemente deciso di limitare le candidature agli ‘antemarcia’, ovvero a chi si era registrato prima dell’8 settembre. “Troppo alto il rischio che dopo siano arrivati opportunisti”, spiega il presidente dell’assemblea, il dentista Dario Tamburrano.
Si sono candidati a sindaco (quindi a capolista) ben quattro ‘organizzatori’ su tredici. Inesistenti le differenze di linea politica. si vota per simpatia. Al ballottaggio arrivano due donne: Serenetta Monti, 36 anni, custode di museo, coordinatrice degli organizzatori da sette mesi, e Roberta Lombardi, 34, impiegata in una società di arredamenti. Vince la prima.
Il suo programma per Roma ovviamente coincide con il Grillo-pensiero, che è in gran parte simile a quello degli ecologisti: raccolta differenziata della spazzatura, no agli inceneritori (o almeno a quelli sospettati di rilasciare diossina), preferenza al trasporto pubblico rispetto alle auto (anche se, come ha fatto notare qualcuno, buona parte dei presenti non è arrivato alla riunione in bus o metro).
Serenetta Monti si autodefinisce “novizia della politica”, Ma inesperta non lo è affatto. Per dieci anni, infatti, ha lottato come precaria. “Abbandonata l'università”, racconta, “ho fatto di tutto: baby sitter, data entry, assistenza agli anziani, pony express. Poi ho seguito un corso per restauratrice. Nel ’97 il sindaco Rutelli istituì i Lavori socialmente utili e assunse al Comune mille persone per 800 mila lire al mese con venti ore settimanali. Io contribuivo a rendere più bello il Pincio, lavorando sui busti degli uomini illustri. Dopo tre anni e mezzo di lotte abbiamo conquistato il posto fisso. In quel periodo la mia vita è trascorsa tra riunioni di lavoratori di tutta Italia, manifestazioni nazionali, locali, incontri politici, commissioni del consiglio comunale, occupazioni del Campidoglio e di tutti gli assessorati di Roma. Alla fine venni assunta nel gruppo Ama [la nettezza urbana, ndr] che si occupava di scritte vandaliche”.
Ma il posto fisso non rasserena Serenetta: “Dal 2000 al 2005 ho fatto denunce al ministero del Lavoro, Asl, Inail, sui giornali, una querela da parte dell’amministratore delegato e un ricorso con richiesta di risarcimento di 25 mila euro. Risultato: due rinvii a giudizio all’amministratore delegato per inadempienze sulla legge per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Mi è stata riconosciuto la malattia professionale: l’utilizzo indiscriminato delle attrezzature mi ha prodotto una sindrome del tunnel carpale a entrambe le mani. Mi sono sparata anche sei mesi di disoccupazione...”
Quanti voti riuscirà a prendere ora Serenetta? Gli stessi Amici di Grillo non nutrono grandi aspettative:“Speriamo di eleggere un rappresentante in consiglio comunale e in ogni municipio”. Cioè appena il 2-3 per cento. Il fenomeno Grillo si è già sgonfiato?
Mauro Suttora
Per la corsa al Campidoglio scelta l’ex precaria Serenetta Monti. Che si accontenterebbe del 2-3%
Libero, 27 febbraio 2008
di Mauro Suttora
Beppe Grillo fino a qualche settimana fa stracciava tutti i politici in ogni sondaggio: 60 per cento di consensi, contro il 30-40 degli altri. E minacciava: “Cacceremo i professionisti della politica con le nostre liste civiche”. Ma ora alle elezioni politiche non si presenta. Alle regionali del 13 aprile (Sicilia e Friuli) neppure, e neanche alle provinciali (“Sono enti inutili, vanno aboliti"). Restano i comuni. Roma, soprattutto, che sarà la vetrina più importante per il debutto di Grillo in politica.
L’altra sera si sono svolte le primarie fra gli ‘Amici di Grillo’ della capitale, per eleggere il loro candidato sindaco. Un centinaio di persone sono arrivate al Linux Club, locale del quartiere Ostiense che, in linea con i dettami grilleschi, propugna l’‘open source’ nei computer, contro il monopolio Microsoft-Windows. Sono duemila gli aderenti al cosiddetto ‘Meetup’ romano, il sito internet dove chiunque può registrarsi gratis.
Dopo il Vaffa-day dell’8 settembre c’è stata un’esplosione di adesioni. Quindi il comitato organizzatore, eletto ogni sei mesi, ha prudentemente deciso di limitare le candidature agli ‘antemarcia’, ovvero a chi si era registrato prima dell’8 settembre. “Troppo alto il rischio che dopo siano arrivati opportunisti”, spiega il presidente dell’assemblea, il dentista Dario Tamburrano.
Si sono candidati a sindaco (quindi a capolista) ben quattro ‘organizzatori’ su tredici. Inesistenti le differenze di linea politica. si vota per simpatia. Al ballottaggio arrivano due donne: Serenetta Monti, 36 anni, custode di museo, coordinatrice degli organizzatori da sette mesi, e Roberta Lombardi, 34, impiegata in una società di arredamenti. Vince la prima.
Il suo programma per Roma ovviamente coincide con il Grillo-pensiero, che è in gran parte simile a quello degli ecologisti: raccolta differenziata della spazzatura, no agli inceneritori (o almeno a quelli sospettati di rilasciare diossina), preferenza al trasporto pubblico rispetto alle auto (anche se, come ha fatto notare qualcuno, buona parte dei presenti non è arrivato alla riunione in bus o metro).
Serenetta Monti si autodefinisce “novizia della politica”, Ma inesperta non lo è affatto. Per dieci anni, infatti, ha lottato come precaria. “Abbandonata l'università”, racconta, “ho fatto di tutto: baby sitter, data entry, assistenza agli anziani, pony express. Poi ho seguito un corso per restauratrice. Nel ’97 il sindaco Rutelli istituì i Lavori socialmente utili e assunse al Comune mille persone per 800 mila lire al mese con venti ore settimanali. Io contribuivo a rendere più bello il Pincio, lavorando sui busti degli uomini illustri. Dopo tre anni e mezzo di lotte abbiamo conquistato il posto fisso. In quel periodo la mia vita è trascorsa tra riunioni di lavoratori di tutta Italia, manifestazioni nazionali, locali, incontri politici, commissioni del consiglio comunale, occupazioni del Campidoglio e di tutti gli assessorati di Roma. Alla fine venni assunta nel gruppo Ama [la nettezza urbana, ndr] che si occupava di scritte vandaliche”.
Ma il posto fisso non rasserena Serenetta: “Dal 2000 al 2005 ho fatto denunce al ministero del Lavoro, Asl, Inail, sui giornali, una querela da parte dell’amministratore delegato e un ricorso con richiesta di risarcimento di 25 mila euro. Risultato: due rinvii a giudizio all’amministratore delegato per inadempienze sulla legge per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Mi è stata riconosciuto la malattia professionale: l’utilizzo indiscriminato delle attrezzature mi ha prodotto una sindrome del tunnel carpale a entrambe le mani. Mi sono sparata anche sei mesi di disoccupazione...”
Quanti voti riuscirà a prendere ora Serenetta? Gli stessi Amici di Grillo non nutrono grandi aspettative:“Speriamo di eleggere un rappresentante in consiglio comunale e in ogni municipio”. Cioè appena il 2-3 per cento. Il fenomeno Grillo si è già sgonfiato?
Mauro Suttora
Tuesday, February 26, 2008
Josette Sheeran, un'americana a Roma
JOSETTE SHEERAN, UN’AMERICANA A ROMA PER CONTO DI BUSH
Chi è il nuovo direttore del Pam (Programma alimentare mondiale)
Il Foglio, sabato 23 febbraio 2008
di Mauro Suttora
Una delle eredità positive che George Bush lascerà a fine mandato fra un anno si chiama Josette Sheeran. È una bella signora bionda di 53 anni che da nove mesi si è trasferita a Roma per dirigere il Pam (Programma alimentare mondiale, Wfp nell’acronimo inglese), una delle agenzie più efficienti dell’Onu: vanta appena il sette per cento in costi di struttura.
Una decina digiorni fa la Sheeran ha effettuato la sua prima uscita pubblica in Italia. A Milano, dove, assieme al sindaco Letizia Moratti, al giocatore del Milan Ricardo Kakà e al presidente del Ghana, ha lanciato la campagna “Fill the cup” (riempi la tazza), con cui il Pam incita a donare ogni giorno venti centesimi per sconfiggere la piaga della fame nel mondo. “Venti centesimi garantiscono un pasto caldo a ognuno dei venti milioni di bambini che assistiamo, facendoli anche andare a scuola», ha detto Josette Sheeran.
Quest’anno il Pam fornisce aiuto alimentare a oltre 70 milioni di persone in circa 80 paesi. È il più grande organismo umanitario mondiale. Dalla sede di Roma (vicino a Fiumicino) e dalla base operativa di Brindisi (dove stanno i magazzini con le scorte alimentari, e da dove sono pronti a decollare gli aerei per le emergenze) partono gli aiuti che fanno sopravvivere popolazioni intere. Tutto il Darfur, per esempio, da anni ormai purtroppo dipende totalmente dal Pam.
La Sheeran è la più giovane fra le tre donne attualmente alla guida di un’agenzia Onu. Le altre sono le sessantenni Louise Arbour (la canadese ex pm del tribunale internazionale dell’Aia che quattro anni fa soffiò ad Emma Bonino il posto di Alta commissaria per i diritti umani) e Margaret Chang, una cinese alla testa dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità).
Il suo curriculum è interessante. Tutta la sua vita pubblica, infatti, si svolge a destra. Nel 1975 fece notizia, appena ventunenne. Un anno prima di laurearsi all’università del Colorado finì sul settimanale Time perché suo padre denunciò la setta del reverendo coreano Moon (quella della moglie del vescovo Milingo) per avergli plagiato le tre figlie, fra cui Josette. La quale nella setta Moon c’è rimasta ventidue anni, facendo una gran carriera come giornalista. Approdata al quotidiano moonista conservatore Washington Times nell’82, ne è uscita solo nel ’97 con il grado di managing editor (vicedirettrice). Ha ricevuto una nomination per il premio Pulitzer, del quale è stata poi giurata.
Dieci anni fa la rottura con Moon: Sheeran passa alla chiesa episcopale, e contemporaneamente William Bennett, già ministro reaganiano dell’Istruzione, le offre la presidenza del suo think tank di destra Empower America, che oggi si chiama Freedom Works. Slogan: “Meno stato, meno tasse, più libertà”. Nel ’99, un tuffo a Wall Street: la poliedrica Josette diventa managing director di Tis Worldwide, multinazionale informatica con 1.200 dipendenti.
Un’esperienza manageriale che le torna preziosa quando l’amministrazione Bush la richiama a Washington nel 2001, collocandola in posizione di rilievo al Commercio estero. Lì Sheeran fa la sherpa ai vertici G8, familiarizza con la finanza internazionale e diventa numero due. Nel 2005, infine, l’approdo al Dipartimento di stato: sottosegretaria di Condi Rice per gli Affari economici ed agricoli.
Alla fine del 2006 comincia la corsa per l’ambita poltrona di direttore del Pam, che gestisce un bilancio ragguardevole (due miliardi di dollari annui) con ben undicimila dipendenti sparsi nel mondo. Un potente braccio operativo di cui l’allora ambasciatore Usa all’Onu, il falco neocon John Bolton, reclama la guida per gli Stati Uniti. Siamo alla fine del mandato di Kofi Annan. Per sancire il ritorno alla collaborazione Usa-Onu dopo la guerra d’Iraq, cosa di meglio che nominare una statunitense bushiana nell’agenzia meno burocratica delle Nazioni Unite?
Il disgelo passa quindi per Roma, dove Josette Sheeran approda lo scorso maggio e resterà per altri quattro anni. Ironia della sorte: anche il suo nuovo principale si chiama Moon, ed è coreano: Ban ki Moon, nuovo segretario generale dell’Onu. Lei affronta il nuovo incarico con il consueto entusiasmo americano, adora Roma e ormai in città si sente a casa: in un ristorante di via Margutta ha incontrato per caso David Letterman, che cenava in un tavolo vicino.
Chi è il nuovo direttore del Pam (Programma alimentare mondiale)
Il Foglio, sabato 23 febbraio 2008
di Mauro Suttora
Una delle eredità positive che George Bush lascerà a fine mandato fra un anno si chiama Josette Sheeran. È una bella signora bionda di 53 anni che da nove mesi si è trasferita a Roma per dirigere il Pam (Programma alimentare mondiale, Wfp nell’acronimo inglese), una delle agenzie più efficienti dell’Onu: vanta appena il sette per cento in costi di struttura.
Una decina digiorni fa la Sheeran ha effettuato la sua prima uscita pubblica in Italia. A Milano, dove, assieme al sindaco Letizia Moratti, al giocatore del Milan Ricardo Kakà e al presidente del Ghana, ha lanciato la campagna “Fill the cup” (riempi la tazza), con cui il Pam incita a donare ogni giorno venti centesimi per sconfiggere la piaga della fame nel mondo. “Venti centesimi garantiscono un pasto caldo a ognuno dei venti milioni di bambini che assistiamo, facendoli anche andare a scuola», ha detto Josette Sheeran.
Quest’anno il Pam fornisce aiuto alimentare a oltre 70 milioni di persone in circa 80 paesi. È il più grande organismo umanitario mondiale. Dalla sede di Roma (vicino a Fiumicino) e dalla base operativa di Brindisi (dove stanno i magazzini con le scorte alimentari, e da dove sono pronti a decollare gli aerei per le emergenze) partono gli aiuti che fanno sopravvivere popolazioni intere. Tutto il Darfur, per esempio, da anni ormai purtroppo dipende totalmente dal Pam.
La Sheeran è la più giovane fra le tre donne attualmente alla guida di un’agenzia Onu. Le altre sono le sessantenni Louise Arbour (la canadese ex pm del tribunale internazionale dell’Aia che quattro anni fa soffiò ad Emma Bonino il posto di Alta commissaria per i diritti umani) e Margaret Chang, una cinese alla testa dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità).
Il suo curriculum è interessante. Tutta la sua vita pubblica, infatti, si svolge a destra. Nel 1975 fece notizia, appena ventunenne. Un anno prima di laurearsi all’università del Colorado finì sul settimanale Time perché suo padre denunciò la setta del reverendo coreano Moon (quella della moglie del vescovo Milingo) per avergli plagiato le tre figlie, fra cui Josette. La quale nella setta Moon c’è rimasta ventidue anni, facendo una gran carriera come giornalista. Approdata al quotidiano moonista conservatore Washington Times nell’82, ne è uscita solo nel ’97 con il grado di managing editor (vicedirettrice). Ha ricevuto una nomination per il premio Pulitzer, del quale è stata poi giurata.
Dieci anni fa la rottura con Moon: Sheeran passa alla chiesa episcopale, e contemporaneamente William Bennett, già ministro reaganiano dell’Istruzione, le offre la presidenza del suo think tank di destra Empower America, che oggi si chiama Freedom Works. Slogan: “Meno stato, meno tasse, più libertà”. Nel ’99, un tuffo a Wall Street: la poliedrica Josette diventa managing director di Tis Worldwide, multinazionale informatica con 1.200 dipendenti.
Un’esperienza manageriale che le torna preziosa quando l’amministrazione Bush la richiama a Washington nel 2001, collocandola in posizione di rilievo al Commercio estero. Lì Sheeran fa la sherpa ai vertici G8, familiarizza con la finanza internazionale e diventa numero due. Nel 2005, infine, l’approdo al Dipartimento di stato: sottosegretaria di Condi Rice per gli Affari economici ed agricoli.
Alla fine del 2006 comincia la corsa per l’ambita poltrona di direttore del Pam, che gestisce un bilancio ragguardevole (due miliardi di dollari annui) con ben undicimila dipendenti sparsi nel mondo. Un potente braccio operativo di cui l’allora ambasciatore Usa all’Onu, il falco neocon John Bolton, reclama la guida per gli Stati Uniti. Siamo alla fine del mandato di Kofi Annan. Per sancire il ritorno alla collaborazione Usa-Onu dopo la guerra d’Iraq, cosa di meglio che nominare una statunitense bushiana nell’agenzia meno burocratica delle Nazioni Unite?
Il disgelo passa quindi per Roma, dove Josette Sheeran approda lo scorso maggio e resterà per altri quattro anni. Ironia della sorte: anche il suo nuovo principale si chiama Moon, ed è coreano: Ban ki Moon, nuovo segretario generale dell’Onu. Lei affronta il nuovo incarico con il consueto entusiasmo americano, adora Roma e ormai in città si sente a casa: in un ristorante di via Margutta ha incontrato per caso David Letterman, che cenava in un tavolo vicino.
Monday, February 25, 2008
I radicali e il Pd
ACCORDO: NOVE PARLAMENTARI E TRE MILIONI DI EURO
di Mauro Suttora
Libero, 22 febbraio 2008
Tre milioni di euro. È l’incredibile cifra che i radicali sono riusciti a strappare a Walter Veltroni in cambio di nulla. Perché se i Democratici non avessero offerto loro nove posti da parlamentare, più questa sontuosa fetta di finanziamento pubblico, i pannelliani sarebbero scomparsi dal parlamento. Impossibile infatti che raggiungano il quattro per cento, quota-ghigliottina per i non apparentati, da soli o magari riesumando la Rosa nel pugno con i socialisti, che due anni fa si fermò mesta al due virgola qualcosa. Oggi i sondaggi unanimi assegnano loro l’uno-due per cento. E nessun altro forno - Berlusconi, Bertinotti - li vuole. Nessuna alternativa, quindi.
Eppure, trattando e lamentandosi, Marco Pannella ed Emma Bonino hanno spuntato condizioni di lusso. Il governo italiano - qualunque governo - dovrebbe nominarli immediatamente plenipotenziari per tutti i negoziati internazionali che aspettano il nostro Paese. Si sono dimostrati più abili di qualsiasi pokerista incallito, trader di Wall Street o vucumprà da spiaggia. Eccezionali.
Pannella, d’altronde, è sempre stato eccezionale. Da quando a quindici anni, nel 1945, comprò la prima copia del giornale di Benedetto Croce, ‘Risorgimento liberale’, e s’innamorò del partito omonimo. Pochi anni dopo lui ed Eugenio Scalfari erano i due galletti più promettenti nel vivaio del Pli. Ma stavano troppo a sinistra per i filo-confindustriali, e allora nel ’55 fondarono il partito radicale. Dopodiché, sono sempre andati a scrocco. Alle politiche si allearono con il Pri, ma presero l’1,4. Nel ’60 si appiccicarono al Psi e andò un po’ meglio: 51 consiglieri comunali radicali eletti in Italia (fra i quali Arnoldo Foà in Campidoglio e Scalfari a Milano, col quadruplo dei voti di un giovane Bettino Craxi).
Poi ci fu un’alleanza a Roma addirittura con i filosovietici dello Psiup: Pannella arrivò terzo ma non fu eletto. La strategia del cuculo funzionò invece nell’89, quando i radicali stabilirono un record mondiale. Riuscirono a candidarsi eurodeputati in ben quattro liste diverse: Pannella con Pri-Pli, Adelaide Aglietta con i verdi, Marco Taradash con gli antiproibizionisti sulla droga. E Giovanni Negri finì nel Psdi, unico non eletto.
Nel ’63 fu il Pci a fare la corte a Pannella, proprio come oggi: Giancarlo Pajetta in persona offrì tre posti da indipendenti di sinistra ai radicali. Ma loro rifiutarono sdegnosamente. Allora se lo potevano permettere, perché nessuno faceva il politico di mestiere: Pannella e Gianfranco Spadaccia erano giornalisti, Angiolo Bandinelli professore, Sergio Stanzani dirigente Iri, Mauro Mellini avvocato.
Oggi, invece, la «baracca» radicale è una piccola multinazionale dei diritti umani con uffici a Bruxelles e New York, una bella sede nel centro di Roma proprio sopra al night Supper club, e un’ottima radio che copre tutta Italia e offre la migliore rassegna stampa ai patiti di politica: quella del direttore Massimo Bordin.
Loro, che si considerano sempre il sale della terra, preferiscono autodefinirsi umilmente “galassia”, e vantano un sacco di associazioni collaterali: da ‘Nessuno tocchi Caino’ che ha appena strappato la moratoria sulle esecuzioni capitali all’Onu alla ‘Luca Coscioni’ che si batte per la libertà della ricerca scientifica e il testamento biologico (caso Welby), dagli ecologisti di ‘Rientro dolce’ agli umanitaristi internazionali di ‘Non c’è pace senza giustizia’.
Il che, molto prosaicamente, vuol dire decine di stipendi che Pannella si trova sul groppone. Ora, grazie a Walter, verranno erogati per altri cinque anni. Quanto a Radio radicale, da decenni riesce nel miracolo di incassare contributi statali sia come organo di partito, sia come emittente super partes delle sedute parlamentari.
Intendiamoci, però: i pannelliani non sono imbroglioni clientelari. La loro radio, per esempio, trasmette con spirito voltairiano convegni e congressi di tutti i partiti. Tanto che, all’ultima assemblea di An, un oratore ha chiesto in extremis la parola a Gianfranco Fini giustificandosi così: «Devo dimostrare a mia moglie in ascolto dalla Sicilia che sono veramente qui».
Nel 1996 fu Berlusconi a trovarsi nei panni di Veltroni. Allora Pannella trattò con lui l’entrata dei radicali nel Polo, chiedendo lo stesso numero di collegi sicuri offerti ai cattolici di Ccd-Cdu. Ma aveva sottovalutato l’abilità di Casini, Mastella e Buttiglione, che alla fine spuntarono cento posti contro i 43 offerti ai radicali. «Non entrerò più nel suk di via dell’Anima!», tuonò Marco, che si vendicò presentando candidati autonomi. Un disastro: nessun deputato, e solo un senatore eletto in Sicilia (Piero Milio) grazie a una desistenza concordata in extremis.
Ammaestrato da quella esperienza, che tenne i radicali fuori da Montecitorio per un decennio, questa volta Pannellik ha bluffato solo fino all’ultimo secondo. Poi i suoi fidatissimi Rita Bernardini e Marco Cappato hanno acchiappato al volo quel che offriva Goffredo Bettini, il generoso (o sprovveduto?) luogotenente di Veltroni, probabilmente anche lui succube del fascino di SuperMarco fin dal ’93, quando assieme architettarono la prima sindacatura romana vincente di Francesco Rutelli.
Chi saranno adesso i nove radicali nel partito democratico? Pro forma è stato convocato un comitato nazionale radicale per il weekend. Però come sempre deciderà Pannella, gran libertario fuori ma leninista all’interno del suo partitino. I due giovani radicali più brillanti, quelli della svolta liberista degli anni Novanta che fruttò l’exploit dell’otto per cento alla lista Bonino nel ’99 (con punte del 15% in alcune città del nord), se ne sono andati con Berlusconi. Benedetto Della Vedova è riuscito a mantenere rapporti cordiali con Marco, mentre con Daniele Capezzone si è passati direttamente dall’amore all’odio. Eppure Pannella è spesso generoso con i suoi. A volte quasi scialacquatore. Due anni fa, per esempio, regalò due seggi che spettavano ai radicali (nell’alleanza con i socialisti) agli ex comunisti Lanfranco Turci e Salvatore Buglio - quest’ultimo unico ex operaio eletto alla Camera.
Molti sono gli ex portaborse radicali che devono essere sistemati. (La definizione non suoni insulto: chi ha portato la borsa a Pannella è destinato a carriere mirabolanti, come Elio Vito in Forza Italia e lo stesso Rutelli). Non ci saranno quindi esterni di lusso, come Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Domenico Modugno. E neanche scandali viventi come Toni Negri o Cicciolina.
Bandinelli, possibile senatore, ha 80 anni come Ciriaco De Mita, ma Veltroni ha un debole per lui: sedettero assieme nel consiglio comunale a Roma di Luigi Petroselli negli anni ’70 (prima carica di Walter). Oggi Bandinelli è un po’ imbarazzato, perché dopo avere scritto sul mitico ‘Mondo’ di Mario Pannunzio negli anni ’50 e ’60 è approdato al ‘Foglio’. Ma la svolta clericale di Giuliano Ferrara lo ha spiazzato, anche se conserva la sua column settimanale in nome della “dissenting opinion”.
Quanto a Pannella, a 78 anni non è un mistero che ambisca a un posto da senatore. A vita, però. Prima o poi, c’è da scommetterlo, riuscirà ad ammaliare anche qualche presidente della Repubblica, che sarà costretto a nominarlo dopo uno sciopero della fame o della sete. Per evitare un’altra bevuta di pipì, come quella che l’incorreggibile inflisse al povero Carlo Azeglio Ciampi nel 2002.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, 22 febbraio 2008
Tre milioni di euro. È l’incredibile cifra che i radicali sono riusciti a strappare a Walter Veltroni in cambio di nulla. Perché se i Democratici non avessero offerto loro nove posti da parlamentare, più questa sontuosa fetta di finanziamento pubblico, i pannelliani sarebbero scomparsi dal parlamento. Impossibile infatti che raggiungano il quattro per cento, quota-ghigliottina per i non apparentati, da soli o magari riesumando la Rosa nel pugno con i socialisti, che due anni fa si fermò mesta al due virgola qualcosa. Oggi i sondaggi unanimi assegnano loro l’uno-due per cento. E nessun altro forno - Berlusconi, Bertinotti - li vuole. Nessuna alternativa, quindi.
Eppure, trattando e lamentandosi, Marco Pannella ed Emma Bonino hanno spuntato condizioni di lusso. Il governo italiano - qualunque governo - dovrebbe nominarli immediatamente plenipotenziari per tutti i negoziati internazionali che aspettano il nostro Paese. Si sono dimostrati più abili di qualsiasi pokerista incallito, trader di Wall Street o vucumprà da spiaggia. Eccezionali.
Pannella, d’altronde, è sempre stato eccezionale. Da quando a quindici anni, nel 1945, comprò la prima copia del giornale di Benedetto Croce, ‘Risorgimento liberale’, e s’innamorò del partito omonimo. Pochi anni dopo lui ed Eugenio Scalfari erano i due galletti più promettenti nel vivaio del Pli. Ma stavano troppo a sinistra per i filo-confindustriali, e allora nel ’55 fondarono il partito radicale. Dopodiché, sono sempre andati a scrocco. Alle politiche si allearono con il Pri, ma presero l’1,4. Nel ’60 si appiccicarono al Psi e andò un po’ meglio: 51 consiglieri comunali radicali eletti in Italia (fra i quali Arnoldo Foà in Campidoglio e Scalfari a Milano, col quadruplo dei voti di un giovane Bettino Craxi).
Poi ci fu un’alleanza a Roma addirittura con i filosovietici dello Psiup: Pannella arrivò terzo ma non fu eletto. La strategia del cuculo funzionò invece nell’89, quando i radicali stabilirono un record mondiale. Riuscirono a candidarsi eurodeputati in ben quattro liste diverse: Pannella con Pri-Pli, Adelaide Aglietta con i verdi, Marco Taradash con gli antiproibizionisti sulla droga. E Giovanni Negri finì nel Psdi, unico non eletto.
Nel ’63 fu il Pci a fare la corte a Pannella, proprio come oggi: Giancarlo Pajetta in persona offrì tre posti da indipendenti di sinistra ai radicali. Ma loro rifiutarono sdegnosamente. Allora se lo potevano permettere, perché nessuno faceva il politico di mestiere: Pannella e Gianfranco Spadaccia erano giornalisti, Angiolo Bandinelli professore, Sergio Stanzani dirigente Iri, Mauro Mellini avvocato.
Oggi, invece, la «baracca» radicale è una piccola multinazionale dei diritti umani con uffici a Bruxelles e New York, una bella sede nel centro di Roma proprio sopra al night Supper club, e un’ottima radio che copre tutta Italia e offre la migliore rassegna stampa ai patiti di politica: quella del direttore Massimo Bordin.
Loro, che si considerano sempre il sale della terra, preferiscono autodefinirsi umilmente “galassia”, e vantano un sacco di associazioni collaterali: da ‘Nessuno tocchi Caino’ che ha appena strappato la moratoria sulle esecuzioni capitali all’Onu alla ‘Luca Coscioni’ che si batte per la libertà della ricerca scientifica e il testamento biologico (caso Welby), dagli ecologisti di ‘Rientro dolce’ agli umanitaristi internazionali di ‘Non c’è pace senza giustizia’.
Il che, molto prosaicamente, vuol dire decine di stipendi che Pannella si trova sul groppone. Ora, grazie a Walter, verranno erogati per altri cinque anni. Quanto a Radio radicale, da decenni riesce nel miracolo di incassare contributi statali sia come organo di partito, sia come emittente super partes delle sedute parlamentari.
Intendiamoci, però: i pannelliani non sono imbroglioni clientelari. La loro radio, per esempio, trasmette con spirito voltairiano convegni e congressi di tutti i partiti. Tanto che, all’ultima assemblea di An, un oratore ha chiesto in extremis la parola a Gianfranco Fini giustificandosi così: «Devo dimostrare a mia moglie in ascolto dalla Sicilia che sono veramente qui».
Nel 1996 fu Berlusconi a trovarsi nei panni di Veltroni. Allora Pannella trattò con lui l’entrata dei radicali nel Polo, chiedendo lo stesso numero di collegi sicuri offerti ai cattolici di Ccd-Cdu. Ma aveva sottovalutato l’abilità di Casini, Mastella e Buttiglione, che alla fine spuntarono cento posti contro i 43 offerti ai radicali. «Non entrerò più nel suk di via dell’Anima!», tuonò Marco, che si vendicò presentando candidati autonomi. Un disastro: nessun deputato, e solo un senatore eletto in Sicilia (Piero Milio) grazie a una desistenza concordata in extremis.
Ammaestrato da quella esperienza, che tenne i radicali fuori da Montecitorio per un decennio, questa volta Pannellik ha bluffato solo fino all’ultimo secondo. Poi i suoi fidatissimi Rita Bernardini e Marco Cappato hanno acchiappato al volo quel che offriva Goffredo Bettini, il generoso (o sprovveduto?) luogotenente di Veltroni, probabilmente anche lui succube del fascino di SuperMarco fin dal ’93, quando assieme architettarono la prima sindacatura romana vincente di Francesco Rutelli.
Chi saranno adesso i nove radicali nel partito democratico? Pro forma è stato convocato un comitato nazionale radicale per il weekend. Però come sempre deciderà Pannella, gran libertario fuori ma leninista all’interno del suo partitino. I due giovani radicali più brillanti, quelli della svolta liberista degli anni Novanta che fruttò l’exploit dell’otto per cento alla lista Bonino nel ’99 (con punte del 15% in alcune città del nord), se ne sono andati con Berlusconi. Benedetto Della Vedova è riuscito a mantenere rapporti cordiali con Marco, mentre con Daniele Capezzone si è passati direttamente dall’amore all’odio. Eppure Pannella è spesso generoso con i suoi. A volte quasi scialacquatore. Due anni fa, per esempio, regalò due seggi che spettavano ai radicali (nell’alleanza con i socialisti) agli ex comunisti Lanfranco Turci e Salvatore Buglio - quest’ultimo unico ex operaio eletto alla Camera.
Molti sono gli ex portaborse radicali che devono essere sistemati. (La definizione non suoni insulto: chi ha portato la borsa a Pannella è destinato a carriere mirabolanti, come Elio Vito in Forza Italia e lo stesso Rutelli). Non ci saranno quindi esterni di lusso, come Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Domenico Modugno. E neanche scandali viventi come Toni Negri o Cicciolina.
Bandinelli, possibile senatore, ha 80 anni come Ciriaco De Mita, ma Veltroni ha un debole per lui: sedettero assieme nel consiglio comunale a Roma di Luigi Petroselli negli anni ’70 (prima carica di Walter). Oggi Bandinelli è un po’ imbarazzato, perché dopo avere scritto sul mitico ‘Mondo’ di Mario Pannunzio negli anni ’50 e ’60 è approdato al ‘Foglio’. Ma la svolta clericale di Giuliano Ferrara lo ha spiazzato, anche se conserva la sua column settimanale in nome della “dissenting opinion”.
Quanto a Pannella, a 78 anni non è un mistero che ambisca a un posto da senatore. A vita, però. Prima o poi, c’è da scommetterlo, riuscirà ad ammaliare anche qualche presidente della Repubblica, che sarà costretto a nominarlo dopo uno sciopero della fame o della sete. Per evitare un’altra bevuta di pipì, come quella che l’incorreggibile inflisse al povero Carlo Azeglio Ciampi nel 2002.
Mauro Suttora
Saturday, February 23, 2008
La fantastica Marianna Madia
di Mauro Suttora
Libero, 23 febbraio 2008
“È urgente ritrovare il tempo delle idee e dell’amore”. C’è una poetessa nel posto di capolista più importante d’Italia per il partito democratico (precederà Walter Veltroni a Roma). Si chiama Marianna Madìa e ha 27 anni.
Ieri si è presentata ai giornalisti e ha assicurato il suo impegno, oltre che per l’amore come promise Cicciolina vent’anni fa, anche per “fare uno scatto portando la femminilità in settori come l'economia senza inseguire modelli maschili”.
Infine, la signorina si preoccuperà per “la Terra e il suo stato di salute”. Nientedimenoche. Infatti Marianna ha scoperto che è proprio questo “uno degli elementi di precarietà per le nuove generazioni”.
Altro che precarietà del lavoro: no, non è quella ad angustiare i giovani secondo Marianna. Anche perché lei un posto già ce l’ha. Anzi, tre. Il primo è presso un ente la cui inutilità è direttamente proporzionale alla lunghezza del nome: Segreteria tecnica dell’Osservatorio per la piccola e media impresa del Dipartimento per lo Sviluppo delle Economie Territoriali della Presidenza del Consiglio (uffici in centro a Roma, via della Mercede).
Il secondo lavoro di Marianna è conduttrice Rai: proprio la scorsa notte l’abbiamo potuta ammirare subito dopo Marzullo, come ogni venerdì da ottobre, per una mezz’oretta nel suo programma eCubo.
Infine Marianna collabora con l’Arel, il centro studi economici democristiano fondato da Beniamino Andreatta.
Insomma, fra una consulenza e l’altra la ragazza appare già bene incistata nella nomenklatura pariolo-democratica: figlia dell’attore Stefano Madia, già consigliere comunale a Roma nella Lista per Veltroni (purtroppo deceduto tre anni fa), è protetta sia dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta (che dell’Arel è segretario generale), sia da Veltroni, il quale si dichiara pazzo di lei: «Marianna ha un’intensità e una luminosità interiore che considero una ricchezza», si è lanciato ieri.
Ma l'intensa Madia in fatto di pigmalioni incassa l'en plein: è stato infatti Giovanni Minoli, a sua volta leggendario biraccomandato (Psi come craxiano, Dc come marito della figlia del direttore generale Rai Bernabei), ad affidarle il programma su Raiuno. Lei li ha ringraziati tutti nella conferenza stampa, senza imbarazzo.
Letta? “Mi ha preso che ero una ragazzina non ero ancora laureata”. Veltroni? “Ha accolto la dote che posso offrire, la mia straordinaria inesperienza”. Minoli? “Maestro di vita e di pensiero”.
Intimoriti da tante iperboli e litoti, ci inchiniamo di fronte alla nuova generazione di politici del centrosinistra. Dopo la conferenza stampa il sito Dagospia ha subito rilanciato un’indiscrezione messa in rete dal perfido blog ‘nullo.ilcannocchiale.it’:
“Nella sua disperata rincorsa dell’antipolitica, Veltroni cerca di contrastare il risentimento contro ‘i soliti noti’ candidando una ragazza qualunque. Peccato però che Marianna Madia Veltroni non l’abbia trovata in fila al supermercato: no, Marianna Madia è la figlia di Stefano Madia. Lei non è solo giovane, donna, figlia di un suo amico morto, collaboratrice di Minoli ed Enrico Letta (a proposito, dalle parti di Letta fanno sapere che la Madia non sarà un loro candidato: ci tengono a dire che è in quota Veltroni). Marianna Madia è anche la ex del figlio del presidente della Repubblica: sembra infatti che la storia con Giulio Napolitano, quarantenne professore di diritto pubblico all’Università della Tuscia, sia finita.”
Questi sono i giovani meritevoli secondo Veltroni. Viva il merito, abbasso le raccomandazioni.
Mauro Suttora
Wednesday, February 20, 2008
Raoul Bova: nessuno tocchi Caino!
Nel suo nuovo film, che aiuta l'associazione Nessuno Tocchi Caino, l'attore denuncia la barbarie della pena di morte. Perche' l'orrore continua, nonostante la moratoria
di Mauro Suttora
Oggi, 20 febbraio 2008
Dopo aver sbancato i botteghini con il film 'Scusa ma ti chiamo amore', Raoul Bova torna all’impegno politico. Sta finendo di girare un cortometraggio contro la pena di morte. Ha dichiarato Raoul: «Dopo l’approvazione da parte dell’Onu della moratoria internazionale, ritengo che sia importantissimo realizzare un film con forte potenziale civile, capace di offrire a ogni spettatore occasioni di dibattito».
Non è la prima volta che Bova contribuisce in prima persona alla lotta contro la pena capitale, assieme all’associazione «Nessuno tocchi Caino»: «È una questione che mi coinvolge come cittadino e uomo. Su questo tema prediligo film come 'Un condannato a morte è fuggito' di Robert Bresson, 'Porte aperte' di Gianni Amelio, con il quale vorrei tanto lavorare, 'Arrivederci ragazzi' di Louis Malle, 'Dead Man Walking' di Tim Robbins».
Oggi negli Stati Uniti la Corte suprema ha decretato che il metodo dell’iniezione letale è disumano. E per questo le esecuzioni sono ferme da mesi. Erano comunque calate a una sessantina all’anno, quasi tutte nel Texas. Il governo di Washington ha però annunciato di voler chiedere la pena di morte per sei detenuti nel carcere di Guantanamo, accusati di aver partecipato direttamente alle stragi dell’11 settembre 2001.
E nel resto del mondo, a che punto siamo nella lotta contro la pena di morte?
«La risoluzione per la moratoria universale è stata approvata dall’Assemblea generale dell’Onu lo scorso 18 dicembre con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti», spiega a Oggi Elisabetta Zamparutti, dirigente di «Nessuno tocchi Caino». «Prevede, oltre alla richiesta rivolta ai Paesi che ancora praticano la pena di morte di introdurre una moratoria in vista dell’abolizione, un altro punto molto importante: gli Stati devono fornire al segretario generale dell’Onu informazioni sull’uso della pena capitale, per redarre un rapporto sull’attuazione della risoluzione che verrà presentato alla prossima Assemblea generale».
Insomma, la moratoria proclamata dall’Onu è solo un invito, non un obbligo. Per questo la campagna continua: «La richiesta di informazioni è assai importante per gli stati totalitari e illiberali come Cina, Iran o Pakistan, in molti dei quali la pena di morte è segreto di Stato, e che sono responsabili per il 98 per cento delle esecuzioni nel mondo», aggiunge la Zamparutti.
In Cina le stime su quante siano le condanne ogni anno variano di molto: si va dalle quattro alle novemila. «In vista dei Giochi Olimpici in agosto verranno coinvolti atleti perché sostengano la moratoria e l’abolizione del segreto».
Un altro Paese dove le cose non vanno bene è l’Iran. Dopo l’approvazione della moratoria all’Onu il regime degli ayatollah ha addirittura aumentato le esecuzioni, compiacendosi di esibire pubblicamente le macabre impiccagioni dalle gru. Ed è addirittura ritornato in voga, lì come in Arabia Saudita e in altri Paesi islamici, il barbaro costume di lapidare con pietre le donne accusate di adulterio.
In Africa invece le cose procedono piuttosto bene: «In quel continente c’è il maggior numero di Paesi abolizionisti di fatto, ventuno stati su 33 non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni», dice Zamparutti, «quindi la situazione è matura per attuare la moratoria della pena di morte e, in alcuni casi, per abolirla completamente. Quest’anno condurremo una campagna per la moratoria nella Repubblica democratica del Congo e in altri Paesi dove l’evoluzione del processo democratico può portare all’abolizione della pena di morte. In Congo organizzeremo una conferenza a sostegno dell’abolizione, dopo che la pena capitale non è stata contemplata dalla nuova costituzione del 2005 e dopo l’impegno assunto - e mantenuto - dal presidente Joseph Kabila con Emma Bonino a non giustiziare nessuno, neppure gli assassini di suo padre, fino a che sulla questione non si fosse pronunciato il Parlamento.
E per quanto riguarda l’Asia, «Nessuno tocchi Caino» organizzerà un secondo seminario, dopo quello del 2006, in Kazakistan. Lì il presidente Nursultan Nazarbayev nel dicembre 2003 ha introdotto una moratoria sulla pena di morte, fino alla prevista abolizione».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 20 febbraio 2008
Dopo aver sbancato i botteghini con il film 'Scusa ma ti chiamo amore', Raoul Bova torna all’impegno politico. Sta finendo di girare un cortometraggio contro la pena di morte. Ha dichiarato Raoul: «Dopo l’approvazione da parte dell’Onu della moratoria internazionale, ritengo che sia importantissimo realizzare un film con forte potenziale civile, capace di offrire a ogni spettatore occasioni di dibattito».
Non è la prima volta che Bova contribuisce in prima persona alla lotta contro la pena capitale, assieme all’associazione «Nessuno tocchi Caino»: «È una questione che mi coinvolge come cittadino e uomo. Su questo tema prediligo film come 'Un condannato a morte è fuggito' di Robert Bresson, 'Porte aperte' di Gianni Amelio, con il quale vorrei tanto lavorare, 'Arrivederci ragazzi' di Louis Malle, 'Dead Man Walking' di Tim Robbins».
Oggi negli Stati Uniti la Corte suprema ha decretato che il metodo dell’iniezione letale è disumano. E per questo le esecuzioni sono ferme da mesi. Erano comunque calate a una sessantina all’anno, quasi tutte nel Texas. Il governo di Washington ha però annunciato di voler chiedere la pena di morte per sei detenuti nel carcere di Guantanamo, accusati di aver partecipato direttamente alle stragi dell’11 settembre 2001.
E nel resto del mondo, a che punto siamo nella lotta contro la pena di morte?
«La risoluzione per la moratoria universale è stata approvata dall’Assemblea generale dell’Onu lo scorso 18 dicembre con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti», spiega a Oggi Elisabetta Zamparutti, dirigente di «Nessuno tocchi Caino». «Prevede, oltre alla richiesta rivolta ai Paesi che ancora praticano la pena di morte di introdurre una moratoria in vista dell’abolizione, un altro punto molto importante: gli Stati devono fornire al segretario generale dell’Onu informazioni sull’uso della pena capitale, per redarre un rapporto sull’attuazione della risoluzione che verrà presentato alla prossima Assemblea generale».
Insomma, la moratoria proclamata dall’Onu è solo un invito, non un obbligo. Per questo la campagna continua: «La richiesta di informazioni è assai importante per gli stati totalitari e illiberali come Cina, Iran o Pakistan, in molti dei quali la pena di morte è segreto di Stato, e che sono responsabili per il 98 per cento delle esecuzioni nel mondo», aggiunge la Zamparutti.
In Cina le stime su quante siano le condanne ogni anno variano di molto: si va dalle quattro alle novemila. «In vista dei Giochi Olimpici in agosto verranno coinvolti atleti perché sostengano la moratoria e l’abolizione del segreto».
Un altro Paese dove le cose non vanno bene è l’Iran. Dopo l’approvazione della moratoria all’Onu il regime degli ayatollah ha addirittura aumentato le esecuzioni, compiacendosi di esibire pubblicamente le macabre impiccagioni dalle gru. Ed è addirittura ritornato in voga, lì come in Arabia Saudita e in altri Paesi islamici, il barbaro costume di lapidare con pietre le donne accusate di adulterio.
In Africa invece le cose procedono piuttosto bene: «In quel continente c’è il maggior numero di Paesi abolizionisti di fatto, ventuno stati su 33 non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni», dice Zamparutti, «quindi la situazione è matura per attuare la moratoria della pena di morte e, in alcuni casi, per abolirla completamente. Quest’anno condurremo una campagna per la moratoria nella Repubblica democratica del Congo e in altri Paesi dove l’evoluzione del processo democratico può portare all’abolizione della pena di morte. In Congo organizzeremo una conferenza a sostegno dell’abolizione, dopo che la pena capitale non è stata contemplata dalla nuova costituzione del 2005 e dopo l’impegno assunto - e mantenuto - dal presidente Joseph Kabila con Emma Bonino a non giustiziare nessuno, neppure gli assassini di suo padre, fino a che sulla questione non si fosse pronunciato il Parlamento.
E per quanto riguarda l’Asia, «Nessuno tocchi Caino» organizzerà un secondo seminario, dopo quello del 2006, in Kazakistan. Lì il presidente Nursultan Nazarbayev nel dicembre 2003 ha introdotto una moratoria sulla pena di morte, fino alla prevista abolizione».
Mauro Suttora
Sant'Egidio, 40 anni di pace
Il compleanno della comunità romana: ecco perché piacciono a papi e popi, Clinton e Bush, destra e sinistra
Oggi, 20 febbraio 2008
Sono fra i pochi sessantottini che hanno fatto sul serio la rivoluzione. E l’hanno pure vinta. I loro coetanei di sinistra, inneggianti a Lenin, Stalin e Mao, oggi sono in gran parte accomodati sulle stesse poltrone delle autorità che allora contestavano. I giovani di Sant’Egidio, invece, nel febbraio 1968 cominciarono ad andare per baraccopoli. Quella accanto all’ex cinodromo dell’Ostiense, per esempio, dove fondarono la loro prima «scuola popolare». Davano ripetizioni e insegnavano a leggere e scrivere ai poveri.
«Volevamo anche noi fare la rivoluzione», ricorda Mario Marazziti, 55 anni, dirigente Rai, «ma senza violenza. Nel nome di Gesù, con lo spirito dei primi cristiani, di San Francesco e del Concilio Vaticano II». Erano giovani «bene», abitavano nei quartieri della ottima borghesia (per esempio, Andrea Riccardi, oggi 57enne professore universitario di storia, era figlio del presidente di una banca e frequentava il liceo Virgilio). La loro ricetta era semplice: «Per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi», dice Riccardi.
Hanno fatto entrambe le cose, in questi quarant’anni. E continuano a lavorare: nessuno ha ridotto la politica, la carità o il volontariato a mestiere a tempo pieno. Nelle ore libere e con i propri soldi aiutano ancora i poveri di Roma (che non sono più i «borgatari», ma gli immigrati; danno loro da mangiare gratis nella mensa di via Dandolo). Ma si sono allargati al mondo intero: oggi sono cinquantamila, presenti in 70 Paesi.
Nel 1992 hanno fatto fare la pace dopo decenni di guerriglia ai mozambicani. Idem in Guatemala quattro anni dopo. Hanno provato e non ci sono riusciti in Algeria. Hanno aiutato i kosovari nel ’98. Hanno raccolto milioni di firme contro la pena di morte e due mesi fa sono riusciti a far approvare la moratoria all’Onu. Ma essi stessi si sono trasformati in una piccola Onu, grazie alle loro capacità di mediatori («costruttori di pace», come dice il Vangelo): «Le Nazioni Unite di Trastevere», scherzano.
Il miracolo americano
Hanno messo d’accordo non solo militari e guerriglieri del Terzo mondo, ma anche democratici e repubblicani degli Stati Uniti. Li ha lodati sia Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Bill Clinton, sia il presidente George Bush, che ha voluto incontrarli a Roma l’anno scorso.
Quanto alla religione, sono ormai ventun anni che organizzano i principali vertici ecumenici del mondo, cui partecipano papi cattolici, popi ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici, lama buddisti e imam musulmani. Sono diventati i beniamini di papa Wojtyla fin dal loro primo incontro, nel ’79. E il feeling continua con Papa Ratzinger, che pochi mesi fa ha partecipato a un loro megaraduno a Napoli.
All’inizio qualche monsignore di curia storceva un po’ il naso: chi sono questi ragazzotti che pretendono di fare concorrenza alle millenarie doti diplomatiche del Vaticano? Che si limitino ad assistere i barboni a Roma e i malati di Aids in Africa, che alle cose serie pensiamo noi.
Oggi, invece, la messa solenne per il loro quarantesimo compleanno l’ha voluta celebrare il segretario di Stato in persona, il cardinale Tarcisio Bertone. In prima fila c’erano politici di destra e sinistra: Gianni Letta e Rocco Buttiglione, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Piero Fassino e Romano Prodi. Il numero due del Vaticano ha divertito tutti citando Woody Allen addirittura in omelia: «Marx è morto, Dio sta male e neppure io mi sento troppo bene...»
Sulla porticina della loro sede, convento di suore di clausura fino al 1970, non c’è neppure una targa. Piazza Sant’Egidio ogni sera si trasforma in un carnevale a cielo aperto come tutta Trastevere, con studenti di tutto il mondo che si ubriacano di birra. Ma basta suonare il campanello e si entra in un altro mondo: chiostri, cortili e silenzi.
Mi accoglie un distinto portinaio di mezza età. Scoprirò che anche lui è docente universitario: come tutti fa il volontario a turno durante le ore di tempo libero. «Il nostro bilancio annuale ufficiale è di 20 milioni di euro», mi spiega Marazziti, «ma calcolando il valore di tutta l’attività gratuita dei nostri aderenti nel mondo questa cifra si decuplica. Quasi tutti i nostri dirigenti che vanno in Africa, per esempio, usufruiscono di ferie o aspettative non retribuite, e si pagano le spese di viaggio».
Donazioni a buon fine
Solo un terzo di quei venti milioni proviene da aiuti pubblici. Tutto il resto sono donazioni private. Così Sant’Egidio evita la disgrazia che purtroppo colpisce molti enti benefici e ong (organizzazioni non governative): la burocrazia. «Le spese di struttura sono del 4 per cento», assicura Marazziti. Insomma, 96 euro su cento dati a Sant’Egidio finiscono direttamente ai bisognosi. «Il vertice dei Paesi africani ad Abuja nel 2006 ha decretato che i due programmi anti-Aids più efficienti sono il nostro e quello della fondazione di Bill Gates».
All’inizio il gruppo di Sant’Egidio gravitava attorno a Comunione e liberazione. Fu in quel periodo che Buttiglione si avvicinò a loro. Poi, negli anni ’70, veniva assimilato alle comunità di base e ai cristiani del dissenso (contrari al referendum sul divorzio voluto dalle gerarchie vaticane). Cattocomunisti, insomma. Negli anni ’80, pacifisti. E nel 2003, contrari alla guerra in Iraq. Ma Riccardi, Marazziti e oggi il presidente Marco Impagliazzo sono riusciti sempre a sfuggire alle etichette ideologiche, grazie al loro impegno concreto: il servizio ai poveri.
Il primo prete che li accolse in una parrocchia romana, don Vincenzo Paglia, è diventato vescovo di Terni. Di Riccardi si sussurra addirittura un incarico da ministro degli Esteri in un ipotetico governo Veltroni. Ma per ora la misura del successo della loro rivoluzione nonviolenta sta nel trasloco che ha dovuto effettuare la loro preghiera comunitaria (ogni sera alle 20.30, il sabato Messa): dalla chiesetta di Sant’Egidio alla vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Per mancanza di spazio.
Mauro Suttora
riquadro:
LA DIPLOMAZIA DEI POVERI
Sono passati quindici anni, ma nel palazzo della Farnesina se lo ricordano ancora quel giorno del 1992, quando nei corridoi felpati del ministero degli Esteri irruppe una folla festante per celebrare l’accordo di pace fra governo del Mozambico e guerriglieri. Nella foto qui sopra si vede l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo fra i due firmatari, ma a destra in prima fila ad applaudire c’era anche Mario Marazziti della comunità di Sant’Egidio, la vera artefice delle trattative.
Grazie ai suoi numerosi contatti nei Paesi del Terzo mondo e alla fiducia conquistata con le opere di solidarietà, Sant’Egidio ha provato spesso a mediare fra le parti di guerre e guerriglie che devastano molti Paesi. Un altro successo c’è stato nel ‘96 in Guatemala, mentre in Algeria i tentativi sono stati infruttuosi. Non sempre questa «diplomazia parallela» viene apprezzata dagli ambasciatori di professione, alcuni dei quali considerano i volontari di Sant’Egidio come dei dilettanti allo sbaraglio. Ma i risultati ci sono stati, ed è questo quello che conta.
«La guerra è la “madre di tutte le povertà”», spiegano loro, «perché distrugge l’impegno umanitario per il futuro di interi popoli. La guerra è anche assenza di ogni giustizia, come si vede in tanti Paesi dove il conflitto rende impossibile la difesa dei diritti umani basilari».
Mauro Suttora
Oggi, 20 febbraio 2008
Sono fra i pochi sessantottini che hanno fatto sul serio la rivoluzione. E l’hanno pure vinta. I loro coetanei di sinistra, inneggianti a Lenin, Stalin e Mao, oggi sono in gran parte accomodati sulle stesse poltrone delle autorità che allora contestavano. I giovani di Sant’Egidio, invece, nel febbraio 1968 cominciarono ad andare per baraccopoli. Quella accanto all’ex cinodromo dell’Ostiense, per esempio, dove fondarono la loro prima «scuola popolare». Davano ripetizioni e insegnavano a leggere e scrivere ai poveri.
«Volevamo anche noi fare la rivoluzione», ricorda Mario Marazziti, 55 anni, dirigente Rai, «ma senza violenza. Nel nome di Gesù, con lo spirito dei primi cristiani, di San Francesco e del Concilio Vaticano II». Erano giovani «bene», abitavano nei quartieri della ottima borghesia (per esempio, Andrea Riccardi, oggi 57enne professore universitario di storia, era figlio del presidente di una banca e frequentava il liceo Virgilio). La loro ricetta era semplice: «Per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi», dice Riccardi.
Hanno fatto entrambe le cose, in questi quarant’anni. E continuano a lavorare: nessuno ha ridotto la politica, la carità o il volontariato a mestiere a tempo pieno. Nelle ore libere e con i propri soldi aiutano ancora i poveri di Roma (che non sono più i «borgatari», ma gli immigrati; danno loro da mangiare gratis nella mensa di via Dandolo). Ma si sono allargati al mondo intero: oggi sono cinquantamila, presenti in 70 Paesi.
Nel 1992 hanno fatto fare la pace dopo decenni di guerriglia ai mozambicani. Idem in Guatemala quattro anni dopo. Hanno provato e non ci sono riusciti in Algeria. Hanno aiutato i kosovari nel ’98. Hanno raccolto milioni di firme contro la pena di morte e due mesi fa sono riusciti a far approvare la moratoria all’Onu. Ma essi stessi si sono trasformati in una piccola Onu, grazie alle loro capacità di mediatori («costruttori di pace», come dice il Vangelo): «Le Nazioni Unite di Trastevere», scherzano.
Il miracolo americano
Hanno messo d’accordo non solo militari e guerriglieri del Terzo mondo, ma anche democratici e repubblicani degli Stati Uniti. Li ha lodati sia Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Bill Clinton, sia il presidente George Bush, che ha voluto incontrarli a Roma l’anno scorso.
Quanto alla religione, sono ormai ventun anni che organizzano i principali vertici ecumenici del mondo, cui partecipano papi cattolici, popi ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici, lama buddisti e imam musulmani. Sono diventati i beniamini di papa Wojtyla fin dal loro primo incontro, nel ’79. E il feeling continua con Papa Ratzinger, che pochi mesi fa ha partecipato a un loro megaraduno a Napoli.
All’inizio qualche monsignore di curia storceva un po’ il naso: chi sono questi ragazzotti che pretendono di fare concorrenza alle millenarie doti diplomatiche del Vaticano? Che si limitino ad assistere i barboni a Roma e i malati di Aids in Africa, che alle cose serie pensiamo noi.
Oggi, invece, la messa solenne per il loro quarantesimo compleanno l’ha voluta celebrare il segretario di Stato in persona, il cardinale Tarcisio Bertone. In prima fila c’erano politici di destra e sinistra: Gianni Letta e Rocco Buttiglione, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Piero Fassino e Romano Prodi. Il numero due del Vaticano ha divertito tutti citando Woody Allen addirittura in omelia: «Marx è morto, Dio sta male e neppure io mi sento troppo bene...»
Sulla porticina della loro sede, convento di suore di clausura fino al 1970, non c’è neppure una targa. Piazza Sant’Egidio ogni sera si trasforma in un carnevale a cielo aperto come tutta Trastevere, con studenti di tutto il mondo che si ubriacano di birra. Ma basta suonare il campanello e si entra in un altro mondo: chiostri, cortili e silenzi.
Mi accoglie un distinto portinaio di mezza età. Scoprirò che anche lui è docente universitario: come tutti fa il volontario a turno durante le ore di tempo libero. «Il nostro bilancio annuale ufficiale è di 20 milioni di euro», mi spiega Marazziti, «ma calcolando il valore di tutta l’attività gratuita dei nostri aderenti nel mondo questa cifra si decuplica. Quasi tutti i nostri dirigenti che vanno in Africa, per esempio, usufruiscono di ferie o aspettative non retribuite, e si pagano le spese di viaggio».
Donazioni a buon fine
Solo un terzo di quei venti milioni proviene da aiuti pubblici. Tutto il resto sono donazioni private. Così Sant’Egidio evita la disgrazia che purtroppo colpisce molti enti benefici e ong (organizzazioni non governative): la burocrazia. «Le spese di struttura sono del 4 per cento», assicura Marazziti. Insomma, 96 euro su cento dati a Sant’Egidio finiscono direttamente ai bisognosi. «Il vertice dei Paesi africani ad Abuja nel 2006 ha decretato che i due programmi anti-Aids più efficienti sono il nostro e quello della fondazione di Bill Gates».
All’inizio il gruppo di Sant’Egidio gravitava attorno a Comunione e liberazione. Fu in quel periodo che Buttiglione si avvicinò a loro. Poi, negli anni ’70, veniva assimilato alle comunità di base e ai cristiani del dissenso (contrari al referendum sul divorzio voluto dalle gerarchie vaticane). Cattocomunisti, insomma. Negli anni ’80, pacifisti. E nel 2003, contrari alla guerra in Iraq. Ma Riccardi, Marazziti e oggi il presidente Marco Impagliazzo sono riusciti sempre a sfuggire alle etichette ideologiche, grazie al loro impegno concreto: il servizio ai poveri.
Il primo prete che li accolse in una parrocchia romana, don Vincenzo Paglia, è diventato vescovo di Terni. Di Riccardi si sussurra addirittura un incarico da ministro degli Esteri in un ipotetico governo Veltroni. Ma per ora la misura del successo della loro rivoluzione nonviolenta sta nel trasloco che ha dovuto effettuare la loro preghiera comunitaria (ogni sera alle 20.30, il sabato Messa): dalla chiesetta di Sant’Egidio alla vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Per mancanza di spazio.
Mauro Suttora
riquadro:
LA DIPLOMAZIA DEI POVERI
Sono passati quindici anni, ma nel palazzo della Farnesina se lo ricordano ancora quel giorno del 1992, quando nei corridoi felpati del ministero degli Esteri irruppe una folla festante per celebrare l’accordo di pace fra governo del Mozambico e guerriglieri. Nella foto qui sopra si vede l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo fra i due firmatari, ma a destra in prima fila ad applaudire c’era anche Mario Marazziti della comunità di Sant’Egidio, la vera artefice delle trattative.
Grazie ai suoi numerosi contatti nei Paesi del Terzo mondo e alla fiducia conquistata con le opere di solidarietà, Sant’Egidio ha provato spesso a mediare fra le parti di guerre e guerriglie che devastano molti Paesi. Un altro successo c’è stato nel ‘96 in Guatemala, mentre in Algeria i tentativi sono stati infruttuosi. Non sempre questa «diplomazia parallela» viene apprezzata dagli ambasciatori di professione, alcuni dei quali considerano i volontari di Sant’Egidio come dei dilettanti allo sbaraglio. Ma i risultati ci sono stati, ed è questo quello che conta.
«La guerra è la “madre di tutte le povertà”», spiegano loro, «perché distrugge l’impegno umanitario per il futuro di interi popoli. La guerra è anche assenza di ogni giustizia, come si vede in tanti Paesi dove il conflitto rende impossibile la difesa dei diritti umani basilari».
Mauro Suttora
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