La cifra è ufficiale: 270 miliardi di tasse non pagate ogni anno. «Un terzo della nostra economia è in nero, anche se tutti fanno finta di niente», denuncia Gian Maria Fara (Eurispes). Intanto gli autonomi contestano i nuovi «studi di settore». E la Guardia di Finanza rintraccia 21 miliardi. Ma lo Stato li incasserà mai?
di Mauro Suttora
Roma, 27 giugno 2007
Adesso è ufficiale: l’evasione fiscale in Italia ammonta all’astronomica cifra di 270 miliardi di euro annui. Quasi un terzo della nostra attività economica è in nero. E quindi chi paga le tasse è costretto a versare quasi il doppio rispetto a una situazione normale. Insomma, se tutti pagassero, l’aliquota massima dell’Irpef potrebbe scendere dal 49 per cento al sospirato 33.
La notizia non è nuova. Che gli evasori siano, assieme a mafia e disoccupazione, la principale piaga d’Italia, è arcinoto. Lo sappiamo tutti, da anni. Il 77 per cento degli italiani ammette, in un sondaggio della Banca d’Italia, che le dichiarazioni fiscali sono false. Ma questa volta non è un istituto di ricerca a stimare le tasse evase: lo fa l’Agenzia delle Entrate, cioè proprio l’ente che, dal suo grattacielo romano dell’Eur, dovrebbe far quadrare i conti pubblici.
«L’aspetto più incredibile è che questa rivelazione non ha avuto alcun seguito», denuncia il professore Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, «perché la principale preoccupazione dei politici - sia di destra sia di sinistra, a seconda di chi è al governo - è quella di descrivere l’Italia o come un paradiso, o come un Paese nel quale tutti i problemi sono sul binario giusto per la loro soluzione».
L’Italia un paradiso? Sì, ma fiscale. Senza bisogno di fuggire a Montecarlo o alle isole Cayman e Bahamas. «La nostra economia sommersa, cioè esentasse, equivale a quella di quattro nazioni medio-grandi messe assieme: Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria», ricorda Fara.
Ora, a proposito dell’extragettito, si parla tanto di «tesoretto», dando l’impressione che le cose siano cambiate. Non è così: anche quest’anno lo Stato italiano sta spendendo più di quello che incassa. Il deficit annuo è calato dal quattro al due per cento, ma è una magra consolazione, visto che va ad aggravare un debito totale di 1.600 miliardi di euro. Sarebbe come se una famiglia indebitata per ventimila euro e che guadagna in un anno egualmente ventimila euro, ne spendesse 20.400 invece di risparmiare.
«Così i nostri governi riescono a farsi criticare contemporaneamente sia dagli evasori, sia da chi è costretto a pagare cifre insopportabili», ci spiega da Genova Victor Uckmar, decano dei fiscalisti italiani, «perché la media del 42 per cento del carico fiscale è come il pollo di Trilussa, non significa nulla. Guardiamo le tasse sui redditi, per esempio: quelli da capitale, cioè azioni, bot e quant’altro, pagano solo il dodici per cento, contro il 35 di quelli da impresa (cioè da attività industriale o commerciale) e addirittura il 49 di quelli da lavoro dipendente e autonomo. E tutto questo per finanziare gli sperperi della “casta” dei politici, in barba al principio della “giusta imposta per giusta spesa”».
Che fare, allora? La lotta all’evasione promessa un anno fa dal governo Prodi sembra procedere bene, visto che anche nei primi mesi del 2007 le entrate sono aumentate del sei per cento. Poi c’è la revisione dei cosiddetti «studi di settore», con cui lo Stato determina da una decina d’anni il reddito presunto di quattro milioni e mezzo di lavoratori autonomi. Dati certi parametri (tipo di attività, città, metratura), chi dichiara la cifra ritenuta «congrua» evita i controlli. Ma la rivalutazione di questa cifra per un totale di tre miliardi di maggiori entrate sta provocando la rivolta delle categorie interessate: «Ciascuno di noi dovrà pagare dai 1.500 ai tremila euro in più all’anno», calcola Giuseppe Bortolussi, segretario degli Artigiani di Mestre.
«Siamo intervenuti soprattutto sui costi detraibili, sulle giacenze in magazzino, sui valori aggiunti per addetto», rispondono al ministero dell’Economia, dove alle Finanze opera il viceministro Vincenzo Visco. Qualche esempio: i corniciai «congrui» denunciano una durata scorte di 632 giorni, quelli non congrui 7.597 (in pratica, questi ultimi terrebbero nel retrobottega cornici per venti anni e più). Oppure ristoranti e bar: il valore aggiunto per addetto (fatturato meno costi diviso per il numero di dipendenti) è 16,3 secondo il nuovo studio di settore, ma comunque la metà rispetto agli indici Istat del 29,8. Per gli alberghi: il ministero «presume» un rendimento per addetto del 15, contro l’Istat al 42.
Insomma, fra congrui e non congrui c’è una bella differenza, e lì sta intervenendo il ministero (vedi tabella sotto). I farmacisti in regola, per esempio, dichiarano 150 mila euro annui, mentre il 20 per cento di non congrui sono a 83 mila. I corniciai sono a 24 mila, ma c’è un 75 per cento che dichiara appena 6.700. Baristi e gelatai: 26 mila euro per quelli in regola, ma il 70 per cento dichiara 11 mila. Agenti immobiliari: i congrui sono a 37 mila, gli altri (52 per cento) a 9 mila.
Ma quanto sono importanti gli studi di settore per stanare gli evasori?
Per capirlo andiamo al Comando generale della Guardia di Finanza a Roma, dove il colonnello Umberto Sirico, capufficio della Tutela finanza pubblica, ci spiega: «Gli studi di settore sono solo uno dei vari strumenti per individuare situazioni patologiche. L’anno scorso la Guardia di Finanza ha accertato evasioni Iva per quattro miliardi di euro, la cifra maggiore degli ultimi dieci anni, e redditi non dichiarati per oltre 17 miliardi. Quest’anno stiamo aumentando gli interventi del 24 per cento rispetto al 2006. E i reparti speciali istituiti di recente a Roma, come quelli sulle entrate e sulla spesa pubblica, forniscono ai reparti territoriali tutte le indicazioni investigative e d’intelligence per agire con precisione chirurgica. Insomma, grazie agli incroci di dati ormai siamo in grado di intervenire quasi a colpo sicuro».
Esempi?
«Le ristrutturazioni edilizie: confrontando le richieste di detrazione del 36 per cento nelle dichiarazioni dei redditi con le fatture emesse, la Guardia di Finanza è in grado di individuare le imprese edili che evadono. E così gli agenti e rappresentanti di commercio che versano contributi Enasarco non combacianti con la realtà, le ditte di autotrasporto quando non dichiarano lavoratori che effettuano consegne per conto terzi, o le frodi sull’Iva comunitaria negli scambi con operatori di San Marino. È importante sfruttare l’effetto deterrenza: nei settori presi di mira l’evasione cala drasticamente».
Insomma, il «conflitto d’interessi», che è un problema in politica, nella lotta agli evasori è invece un ottimo metodo. Infatti, se i clienti possono scaricare le ricevute, smettono di essere complici dei fornitori nell’evadere l’Iva. Per fare «emergere il nero» pochi giorni fa Francesco Rutelli ha proposto di rendere detraibili anche gli affitti.
Quel che le Fiamme Gialle non possono dire, però, è che spesso gran parte del loro lavoro si perde negli arzigogoli della giustizia: fra condoni e ricorsi, il denaro recuperato alla fine è poco. Ma in questo campo decidono i politici. Che sono eletti da tutti noi. Evasori compresi...
Mauro Suttora
Wednesday, June 27, 2007
Belpietro, secondino a Peschiera
IL DIRETTORE DE "IL GIORNALE" RACCONTA LA PROPRIA NAIA. E QUELLA VOLTA CHE PANNELLA...
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
L'ultimo carcere militare d'Italia
QUESTA PRIGIONE E' QUASI UN HOTEL DI LUSSO
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Friday, June 22, 2007
Intervista a Sabina Rossa
Parla la figlia del sindacalista-operaio ucciso dalle Br nel 1979
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Monday, June 18, 2007
Grand Hotel Montecitorio
«Dai telepass gratis alla sauna, dai tabacchi alla banca, qua dentro ci danno tutto», dice l’onorevole Donatella Poretti. Che racconta di auto blu a vita e tagli di capelli a prezzi stracciati. E propone: «Riduciamo i seggi da 630 a 100, come all’estero»
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Monday, June 11, 2007
American Academy Roma
LA LITTLE AMERICA E’ SEMPRE PIU’ GRANDE, AMA E STUDIA L’ITALIA, E ORA APRE LA PORTA DI SAN PANCRAZIO
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Monday, May 28, 2007
L'Unità: costi della politica
l'Unita', lunedi' 28 maggio 2007
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
Friday, May 25, 2007
Christie's: asta Savoia
Maria Gabriella di Savoia mette all'asta i gioielli di famiglia
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Wednesday, May 23, 2007
Il nuovo sacco di Roma
Il centro della capitale soffocato dalle sedi dei politici
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Thursday, May 10, 2007
intervista a Dario Fo
Il premio Nobel per il Coraggio Laico
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Family Day: parla Pezzotta
Oggi, 10 maggio 2007
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Wednesday, May 09, 2007
Le stelle del Piper
La rivoluzione pop degli Anni 60 in un film dei Vanzina su Canale 5
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
Friday, April 27, 2007
Foto Berlusconi
COMMENTI DI POLITICI
Oggi, 24 aprile 2007
Daniele Capezzone, deputato radicale:
«Immagino che queste foto procureranno a Berlusconi ulteriori fastidi familiari. Ma alla lunga si riveleranno un successo mediatico, come l’immagine della bandana. L’idea che un signore settantenne si intrattenga con cinque belle ragazze, infatti, piacerà sia ai suoi coetanei, che ai giovani. I quali lo apprezzeranno, o lo invidieranno, checchè ne dicano certi salotti benpensanti».
Nando dalla Chiesa, sottosegretario all’Università e Ricerca (Margherita):
«Queste foto sono di una comicità involontaria ma irresistibile. Ho scritto libri e portato a teatro le gesta di Berlusconi, “eroe di un'Italia vera ma apparentemente inverosimile”. Ma è lui stesso un’inesauribile miniera di gag, che lasciano sempre un passo indietro anche il comico più irriverente e fantasioso. Insomma, la realtà supera la fantasia. Trovo sublime, poi, che una delle ragazze, la rossa mi pare, si autodefinisca “opinionista”, seppure di Buona Domenica...»
Gabriella Carlucci, deputata Forza Italia:
«Sono foto prese di sguincio fra molte altre persone. Non ci vedo niente di male, Berlusconi apre spesso le porte della sua villa a ospiti, anche semplici sostenitori del partito. La scorsa estate invitò tutti noi parlamentari, avrei potuto esserci anch’io in quelle immagini. Per par condicio, però, avrei pubblicato anche le foto di Sircana. Oppure né Sircana, né Berlusconi».
Elisabetta Casellati, vicepresidente senatori FI:
«Si è verificata una forte lesione della privacy. Queste incursioni nella vita privata delle persone sono inaccettabili, anche per personalità pubbliche. Pubblicare immagini di questo tipo, estrapolandole dal contesto in cui sono avvenute, è come entrare a gamba tesa nella vita di una persona. Equivale a isolare una parola o una frase da un libro, per poi ricamarci sopra».
Silvana Mura, dep. Italia Valori:
«Nei panni della signora Lario non sarei assolutamente contenta, quindi le sono vicina. Va detto però che Berlusconi era a casa sua, quindi mi sembra sia stata violata la sua privacy, che dovrebbe essere sacra e inviolabile per tutti i cittadini. Comunque sono foto che non mi stupiscono: fanno parte del suo personaggio, gli piace dare l’immagine di uomo che affascina le ragazze».
Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), dep. FI:
«Non mi sembrano foto così sconvenienti: lui è un personaggio pubblico, ma era nel suo giardino, non in strada. Rispettiamo quindi la sua vita privata».
Giorgia Meloni, vicepres. Camera, AN:
«Un politico dovrebbe incarnare i valori di riferimento del suo partito. Quindi diventa rilevante, interessa ai cittadini, sapere come si comporta anche nella propria vita privata chi sbandiera i valori della famiglia. Io, per esempio, ho firmato la proposta di Casini per sottoporre ad antidoping i politici: così vediamo chi sono i veri proibizionisti sulla droga.
Detto questo, si può anche passeggiare e parlare con cinque donne senza suscitare malignità. E rispetto al caso Sircana avete adottato due pesi e due misure diverse».
Marina Sereni, vicepres. deputati Ulivo (Ds):
«Chi ha scelto di fare politica sa di essere esposto più di altri a invadenze nella vita privata. L’interesse giornalistico c’è sempre, ma per fortuna non sono un giudice per decidere se queste foto violino la privacy di Berlusconi. Non tutte le curiosità del pubblico, comunque, possono o devono essere soddisfatte: la nostra vita privata non è quasi mai rilevante per gli elettori».
Oggi, 24 aprile 2007
Daniele Capezzone, deputato radicale:
«Immagino che queste foto procureranno a Berlusconi ulteriori fastidi familiari. Ma alla lunga si riveleranno un successo mediatico, come l’immagine della bandana. L’idea che un signore settantenne si intrattenga con cinque belle ragazze, infatti, piacerà sia ai suoi coetanei, che ai giovani. I quali lo apprezzeranno, o lo invidieranno, checchè ne dicano certi salotti benpensanti».
Nando dalla Chiesa, sottosegretario all’Università e Ricerca (Margherita):
«Queste foto sono di una comicità involontaria ma irresistibile. Ho scritto libri e portato a teatro le gesta di Berlusconi, “eroe di un'Italia vera ma apparentemente inverosimile”. Ma è lui stesso un’inesauribile miniera di gag, che lasciano sempre un passo indietro anche il comico più irriverente e fantasioso. Insomma, la realtà supera la fantasia. Trovo sublime, poi, che una delle ragazze, la rossa mi pare, si autodefinisca “opinionista”, seppure di Buona Domenica...»
Gabriella Carlucci, deputata Forza Italia:
«Sono foto prese di sguincio fra molte altre persone. Non ci vedo niente di male, Berlusconi apre spesso le porte della sua villa a ospiti, anche semplici sostenitori del partito. La scorsa estate invitò tutti noi parlamentari, avrei potuto esserci anch’io in quelle immagini. Per par condicio, però, avrei pubblicato anche le foto di Sircana. Oppure né Sircana, né Berlusconi».
Elisabetta Casellati, vicepresidente senatori FI:
«Si è verificata una forte lesione della privacy. Queste incursioni nella vita privata delle persone sono inaccettabili, anche per personalità pubbliche. Pubblicare immagini di questo tipo, estrapolandole dal contesto in cui sono avvenute, è come entrare a gamba tesa nella vita di una persona. Equivale a isolare una parola o una frase da un libro, per poi ricamarci sopra».
Silvana Mura, dep. Italia Valori:
«Nei panni della signora Lario non sarei assolutamente contenta, quindi le sono vicina. Va detto però che Berlusconi era a casa sua, quindi mi sembra sia stata violata la sua privacy, che dovrebbe essere sacra e inviolabile per tutti i cittadini. Comunque sono foto che non mi stupiscono: fanno parte del suo personaggio, gli piace dare l’immagine di uomo che affascina le ragazze».
Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), dep. FI:
«Non mi sembrano foto così sconvenienti: lui è un personaggio pubblico, ma era nel suo giardino, non in strada. Rispettiamo quindi la sua vita privata».
Giorgia Meloni, vicepres. Camera, AN:
«Un politico dovrebbe incarnare i valori di riferimento del suo partito. Quindi diventa rilevante, interessa ai cittadini, sapere come si comporta anche nella propria vita privata chi sbandiera i valori della famiglia. Io, per esempio, ho firmato la proposta di Casini per sottoporre ad antidoping i politici: così vediamo chi sono i veri proibizionisti sulla droga.
Detto questo, si può anche passeggiare e parlare con cinque donne senza suscitare malignità. E rispetto al caso Sircana avete adottato due pesi e due misure diverse».
Marina Sereni, vicepres. deputati Ulivo (Ds):
«Chi ha scelto di fare politica sa di essere esposto più di altri a invadenze nella vita privata. L’interesse giornalistico c’è sempre, ma per fortuna non sono un giudice per decidere se queste foto violino la privacy di Berlusconi. Non tutte le curiosità del pubblico, comunque, possono o devono essere soddisfatte: la nostra vita privata non è quasi mai rilevante per gli elettori».
Sunday, April 22, 2007
Benvenuti a radioVespa
Bruno Vespa e il figlio Federico conducono un programma di storia su Rtl
Roma, 17 aprile 2007 - Oggi
Vanno d’accordo su tutto tranne la Roma e l’Afghanistan. Vespa padre e figlio: 63 anni Bruno, 28 Federico, 35 in mezzo. Raccontano e discutono di storia italiana ogni venerdì mattina sulla radio Rtl 102.5, dalle 8 alle 9. Un anno alla settimana. Hanno cominciato con il 1979, quand’è nato Federico, ora sono al 1984. Andranno quindi avanti per parecchi mesi.
Li incontriamo a casa Vespa, un attico stupendo vicino a Trinità dei Monti, terrazza con vista fra le più belle di Roma. «L’ho presa in affitto da ottobre, prima stavamo sul Lungotevere dei Mellini», dice Bruno. Sono le nove del mattino, lui è in giacca blu e cravatta rosa, telegenico e già pronto per il suo Porta a Porta serale (che viene registrato poche ore prima dell’andata in onda).
Il figlio Federico invece comincia alle 11 il turno giornaliero di otto ore alla radio, dov’è stato assunto da poco con un contratto temporaneo. La sera prima la sua Roma ha perso sette a uno col Manchester, l’umore è quello che è. Papà Bruno sorride: «Oggi mi sento molto solidale con lui anche se, essendo nato all’Aquila, sono juventino. Gli abruzzesi tifano prevalentemente per le squadre del Nord: Roma e Lazio per noi non esistono».
Si affaccia in sala per un attimo mamma Vespa: Augusta Iannini, magistrato, direttore generale al ministero della Giustizia. Saluta, le proponiamo di unirsi per qualche foto. Declina sorridendo e scappa via. L’altro figlio Alessandro, 26 anni, è a Londra a studiare l’inglese.
«Quando mio padre mi ha chiesto se mi andava di fare un programma radio con lui, pensavo scherzasse», racconta Federico. «Più che un’idea all’inizio era un gioco», precisa Bruno. «Credevo che lui mi mandasse subito a pedalare. Invece, con mia grande sorpresa, l’ha condivisa. E per me è stato un graditissimo ritorno al primo amore, la radio, dove avevo cominciato a lavorare subito dopo avere vinto il concorso Rai del 1968».
Padre e figlio che si confrontano sulla storia contemporanea: evento unico per una radio a livello europeo, forse mondiale. All’età di Federico, Bruno Vespa era già un giornalista affermato, e pochi anni dopo si sarebbe confrontato con l’evento più difficile e doloroso della sua carriera: il delitto Moro del ’78.
«Per fortuna abbiamo cominciato questa nostra trasmissione con l’anno seguente», dice Bruno, «anche se al rapimento Moro abbiamo accennato di sfuggita. Finora l’avvenimento che ha suscitato il maggior interesse negli ascoltatori, con un numero di telefonate pari a quello per i Mondiali di Spagna, è stato l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa dell’82. C’è ancora un grande ricordo per quel generale, che ha sorpreso anche me».
Federico si è laureato in legge nel 2005: «Volevo fare l’avvocato, ho cominciato la pratica legale in uno studio. Contemporaneamente, però, continuavo con l’hobby di sempre: commentare il calcio a Radio Spazio Aperto, due ore al giorno con Ennio Abbondanza. Dopo sei mesi mi sono accorto che il lavoro di penalista non fa per me: troppi rinvii ed espedienti tecnici. In aula a pronunciare una bella arringa si arriva solo tre-quattro volte all’anno, tutto il resto è routine. Così ho insistito con la radio, e devo ringraziare sia Radio 101 che mi fece esordire con le cronache delle partite della Roma, sia Rtl dove dopo un anno e mezzo mi hanno offerto il primo contratto nella redazione di Roma. Quanto al mio cognome, tutti pensano che sia stato assunto per questo. E fanno bene a pensarlo, lo penserei anch’io se non sapessi che sono passato attraverso la gavetta per dimostrare di essere valido».
«Gli ho fatto un lavaggio del cervello durato anni per dissuaderlo dal fare il giornalista», dice papà Bruno, «perché è un mestiere complicato e con molte frustrazioni. Ma, giustamente, i consigli dei padri sono fatti per non essere seguiti...». E oggi come giudica suo figlio, professionalmente? «Possiede un buon ritmo radiofonico, da radiocronista, anche se ha il difetto di parlare troppo veloce». E nella vita? «È allo stesso tempo generoso ed egoista, caratteristiche che non sono in contraddizione: generoso con gli altri, ma a casa si mette sempre al centro delle attenzioni domestiche».
E infatti il quasi trentenne Federico, come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei italiani, nonostante l’indipendenza economica raggiunta con lo stipendio si guarda bene dal lasciare la cuccia di mamma e papà: «Se con i genitori ci si trova bene, in un ambiente caldo e protetto, perché andarsene prima di avere trovato la donna con cui iniziare un’altra famiglia?».
Il tipico mammone italiano. Vespa senior lo inviterebbe a Porta a Porta se non fosse suo figlio, in una puntata sui giovani? «Mah, gran parte dei nostri ospiti sono predeterminati, quasi obbligati. E poi anche lui, come quasi tutti i suoi coetanei, schematizza molto: ha opinioni coinvolgenti ma poco approfondite».
Per esempio? «Nella puntata della nostra trasmissione sul 1980, strage di Bologna, Federico era convinto che i terroristi condannati siano in realtà innocenti. Hai voglia a spiegargli che le sentenze, finché ci sono, vanno rispettate...». «Ma quella è solo una verità: quella giudiziaria», replica subito Vespa junior.
Un altro tema caldo è quello delle guerre in Iraq e Afghanistan. Federico Vespa è nettamente contrario: «E non perché sia di sinistra, anzi non ho neppure votato Prodi. Ma sono convinto che da Kabul sia meglio andarsene: sarebbe una soluzione pratica e dignitosa per non farsi ricattare. E anche in Libano, non c’è proprio bisogno dei nostri soldati. Non abbiamo motivo di stare in terre altrui, dando ai terroristi pretesti per attaccarci».
La lite più furibonda a casa Vespa, però, si è consumata quella mattina in cui Federico si rifiutò di alzarsi per andare al liceo: «Decisi che non ne potevo più di greco e latino, che volevo lavorare». Come finì? «Lo presi in parola, e chiesi subito al benzinaio di piazza Mazzini se aveva bisogno di un aiuto», racconta Bruno, «poi ripiegai su un idraulico che stava lavorando nel nostro palazzo». Risultato: «Quando l’idraulico mi disse che l’orario di lavoro era dalle sei del mattino alle otto di sera, tentennai», confessa Federico, «e alla fine optai per un trasferimento dal liceo classico allo scientifico. Scoprendo che matematica e chimica erano ancora peggio di greco e latino».
Ma i due Vespa la guardano Porta a Porta, a casa la sera? Bruno: «No, non mi riguardo quasi mai. E sbaglio, perché mi accorgerei dei miei errori». Federico: «Raramente. Certo non quando si parla di diete. Solo se ci fosse un bel dibattito, a livello D’Alema-Fini. Altrimenti, meglio i gialli di Carlo Lucarelli».
E i libri annuali di Vespa senior, ti servono almeno per la trasmissione? «Ammetto che di mio padre ho letto soltanto la Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. E solo perché devo prepararmi per Rtl...».
Mauro Suttora
Roma, 17 aprile 2007 - Oggi
Vanno d’accordo su tutto tranne la Roma e l’Afghanistan. Vespa padre e figlio: 63 anni Bruno, 28 Federico, 35 in mezzo. Raccontano e discutono di storia italiana ogni venerdì mattina sulla radio Rtl 102.5, dalle 8 alle 9. Un anno alla settimana. Hanno cominciato con il 1979, quand’è nato Federico, ora sono al 1984. Andranno quindi avanti per parecchi mesi.
Li incontriamo a casa Vespa, un attico stupendo vicino a Trinità dei Monti, terrazza con vista fra le più belle di Roma. «L’ho presa in affitto da ottobre, prima stavamo sul Lungotevere dei Mellini», dice Bruno. Sono le nove del mattino, lui è in giacca blu e cravatta rosa, telegenico e già pronto per il suo Porta a Porta serale (che viene registrato poche ore prima dell’andata in onda).
Il figlio Federico invece comincia alle 11 il turno giornaliero di otto ore alla radio, dov’è stato assunto da poco con un contratto temporaneo. La sera prima la sua Roma ha perso sette a uno col Manchester, l’umore è quello che è. Papà Bruno sorride: «Oggi mi sento molto solidale con lui anche se, essendo nato all’Aquila, sono juventino. Gli abruzzesi tifano prevalentemente per le squadre del Nord: Roma e Lazio per noi non esistono».
Si affaccia in sala per un attimo mamma Vespa: Augusta Iannini, magistrato, direttore generale al ministero della Giustizia. Saluta, le proponiamo di unirsi per qualche foto. Declina sorridendo e scappa via. L’altro figlio Alessandro, 26 anni, è a Londra a studiare l’inglese.
«Quando mio padre mi ha chiesto se mi andava di fare un programma radio con lui, pensavo scherzasse», racconta Federico. «Più che un’idea all’inizio era un gioco», precisa Bruno. «Credevo che lui mi mandasse subito a pedalare. Invece, con mia grande sorpresa, l’ha condivisa. E per me è stato un graditissimo ritorno al primo amore, la radio, dove avevo cominciato a lavorare subito dopo avere vinto il concorso Rai del 1968».
Padre e figlio che si confrontano sulla storia contemporanea: evento unico per una radio a livello europeo, forse mondiale. All’età di Federico, Bruno Vespa era già un giornalista affermato, e pochi anni dopo si sarebbe confrontato con l’evento più difficile e doloroso della sua carriera: il delitto Moro del ’78.
«Per fortuna abbiamo cominciato questa nostra trasmissione con l’anno seguente», dice Bruno, «anche se al rapimento Moro abbiamo accennato di sfuggita. Finora l’avvenimento che ha suscitato il maggior interesse negli ascoltatori, con un numero di telefonate pari a quello per i Mondiali di Spagna, è stato l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa dell’82. C’è ancora un grande ricordo per quel generale, che ha sorpreso anche me».
Federico si è laureato in legge nel 2005: «Volevo fare l’avvocato, ho cominciato la pratica legale in uno studio. Contemporaneamente, però, continuavo con l’hobby di sempre: commentare il calcio a Radio Spazio Aperto, due ore al giorno con Ennio Abbondanza. Dopo sei mesi mi sono accorto che il lavoro di penalista non fa per me: troppi rinvii ed espedienti tecnici. In aula a pronunciare una bella arringa si arriva solo tre-quattro volte all’anno, tutto il resto è routine. Così ho insistito con la radio, e devo ringraziare sia Radio 101 che mi fece esordire con le cronache delle partite della Roma, sia Rtl dove dopo un anno e mezzo mi hanno offerto il primo contratto nella redazione di Roma. Quanto al mio cognome, tutti pensano che sia stato assunto per questo. E fanno bene a pensarlo, lo penserei anch’io se non sapessi che sono passato attraverso la gavetta per dimostrare di essere valido».
«Gli ho fatto un lavaggio del cervello durato anni per dissuaderlo dal fare il giornalista», dice papà Bruno, «perché è un mestiere complicato e con molte frustrazioni. Ma, giustamente, i consigli dei padri sono fatti per non essere seguiti...». E oggi come giudica suo figlio, professionalmente? «Possiede un buon ritmo radiofonico, da radiocronista, anche se ha il difetto di parlare troppo veloce». E nella vita? «È allo stesso tempo generoso ed egoista, caratteristiche che non sono in contraddizione: generoso con gli altri, ma a casa si mette sempre al centro delle attenzioni domestiche».
E infatti il quasi trentenne Federico, come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei italiani, nonostante l’indipendenza economica raggiunta con lo stipendio si guarda bene dal lasciare la cuccia di mamma e papà: «Se con i genitori ci si trova bene, in un ambiente caldo e protetto, perché andarsene prima di avere trovato la donna con cui iniziare un’altra famiglia?».
Il tipico mammone italiano. Vespa senior lo inviterebbe a Porta a Porta se non fosse suo figlio, in una puntata sui giovani? «Mah, gran parte dei nostri ospiti sono predeterminati, quasi obbligati. E poi anche lui, come quasi tutti i suoi coetanei, schematizza molto: ha opinioni coinvolgenti ma poco approfondite».
Per esempio? «Nella puntata della nostra trasmissione sul 1980, strage di Bologna, Federico era convinto che i terroristi condannati siano in realtà innocenti. Hai voglia a spiegargli che le sentenze, finché ci sono, vanno rispettate...». «Ma quella è solo una verità: quella giudiziaria», replica subito Vespa junior.
Un altro tema caldo è quello delle guerre in Iraq e Afghanistan. Federico Vespa è nettamente contrario: «E non perché sia di sinistra, anzi non ho neppure votato Prodi. Ma sono convinto che da Kabul sia meglio andarsene: sarebbe una soluzione pratica e dignitosa per non farsi ricattare. E anche in Libano, non c’è proprio bisogno dei nostri soldati. Non abbiamo motivo di stare in terre altrui, dando ai terroristi pretesti per attaccarci».
La lite più furibonda a casa Vespa, però, si è consumata quella mattina in cui Federico si rifiutò di alzarsi per andare al liceo: «Decisi che non ne potevo più di greco e latino, che volevo lavorare». Come finì? «Lo presi in parola, e chiesi subito al benzinaio di piazza Mazzini se aveva bisogno di un aiuto», racconta Bruno, «poi ripiegai su un idraulico che stava lavorando nel nostro palazzo». Risultato: «Quando l’idraulico mi disse che l’orario di lavoro era dalle sei del mattino alle otto di sera, tentennai», confessa Federico, «e alla fine optai per un trasferimento dal liceo classico allo scientifico. Scoprendo che matematica e chimica erano ancora peggio di greco e latino».
Ma i due Vespa la guardano Porta a Porta, a casa la sera? Bruno: «No, non mi riguardo quasi mai. E sbaglio, perché mi accorgerei dei miei errori». Federico: «Raramente. Certo non quando si parla di diete. Solo se ci fosse un bel dibattito, a livello D’Alema-Fini. Altrimenti, meglio i gialli di Carlo Lucarelli».
E i libri annuali di Vespa senior, ti servono almeno per la trasmissione? «Ammetto che di mio padre ho letto soltanto la Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. E solo perché devo prepararmi per Rtl...».
Mauro Suttora
Wednesday, April 11, 2007
Momo
NE' FOLLETTO NE' GNOMO, SONO SOLO MOMO
Intervista con la cantante di "Fondanela"
Oggi, 5 aprile 2007
Eccoci nel regno di Momo. Il quartiere romano di San Lorenzo, accanto alla stazione Termini: qui la rivelazione del Festival di Sanremo è nata e cresciuta artisticamente. Nella vita reale no: è di Lanciano in provincia di Chieti, e da lì sono venuti i suoi genitori, Vittorio e Licia Cipollone, entrambi 77enni, per applaudirla nella sua prima esibizione pubblica dopo il festival. Un trionfo: teatro della Garbatella strapieno, e il giorno dopo quotidiani che strabordano di articoli positivi. «Momo non è soltanto la cantante-autrice di Fondanela, svelata da Piero Chiambretti all’ultimo Sanremo. È molto di più: è l’ultima reincarnazione della Gelsomina felliniana, è la sfida disarmata della fantasia alla violenza del nostro mondo», la loda Cesare Romana, critico musicale del Giornale.
Gli articoli li tiene in un sacchetto di plastica della spesa Antonella, amica giornalista che aiuta Momo a fronteggiare la fama improvvisa delle ultime settimane. Tutti, papà, mamma, produttore, coautori, parenti e amici, sono seduti al tavolino di un bar in via dei Volsci. «Il pianoforte dove Momo ha imparato a suonare a cinque anni me lo regalò la Zanussi come premio per aver venduto caldaie», ricorda papà Vittorio. Sono i primi che Momo ringrazia nella copertina del disco appena uscito, i genitori. Che l’adottarono orfanella, e che l’hanno sempre aiutata da quando si mise in testa di fare la cantante.
Una gavetta interminabile, durata 17 anni: «Subito dopo il diploma magistrale Momo è emigrata a Roma con un solo chiodo fisso: la musica», ci dice il signor Cipollone, «e noi l’abbiamo sempre assecondata. Ricordo che quando un giornale locale abruzzese la intervistò, quindici anni fa, disse che il suo obiettivo era Sanremo. Una decina d’anni fa siamo venuti a Roma per vederla in un concerto al teatro Colosseo, con Sabina Guzzanti...»
Ma insomma, fino a sei settimane fa Momo con la musica proprio non ci campava: qualche serata nei locali di Roma, qui a San Lorenzo, ma soldi pochi o niente. Quindi per mantenersi lavorava: lavapiatti, cameriera, baby-sitter. Negli ultimi tre anni ha tenuto a bada un bambino, Ludovico, che ha appena compiuto undici anni ed è venuto pure lui a festeggiarla al concerto romano: «Ma ormai è grande, non ha più bisogno di me», dice Momo.
Momo è popolarissima fra i bambini. Ce ne accorgiamo quando usciamo dal bar per andare a fotografarla nella giocheria L’Orbita, visto che il suo primo disco si chiama Il Giocoliere. Quelli del quartiere la conoscono, la fermano sul marciapiede. «Oggi in classe abbiamo letto con la maestra l’articolo del giornale su di te», le dice uno. Lei si ferma, è gentile con tutti, si china a parlare, alcuni li conosce per nome.
«Ora Momo verrà a suonare al teatro Centrale di Lanciano», pregusta orgogliosa mamma Licia. Il 26 aprile ci sarà un primo concerto al Juxtap di Sarzana (La Spezia), il locale del produttore Simone Grassi. Poi, in maggio, all’Hiroshima di Torino. Stanno fioccando le prenotazioni per l’estate: tutti vogliono Momo. A Giffoni (Salerno) il 14 luglio, al festival Gaber di Viareggio. Infine, in autunno, la prima tournée in giro per l’Italia.
Momo è accompagnata da musicisti che suonano strumenti strani, come un circo ambulante di altri tempi: Ludovica Valori, nipote di Bice, è al bombardino; al mandolino c’è Desirée Infascelli; al contrabbasso Daniele, tanto alto quanto Momo è minuta. Riescono a creare un’atmosfera magica, la stessa che ha ammaliato gli spettatori del dopoFestival fin dalla prima volta che Momo ha intonato la sua Fondanela. «Che poi sarebbe la “fontanella” dell’energia», spiega lei, «come la pronunciava l’osteopata cinese Wang facendo fare esercizi a me e alla mia amica pianista Alessandra. Eravamo andate da lui perché avevamo la schiena bloccata, e quando siamo tornate a casa abbiamo riso così tanto su quella “fondanela” che è nata la canzone, con i suoi buffi movimenti d’anca».
Movimenti che stanno conquistando mezza Italia, come ai tempi della Lambada: ci ha ballato perfino il direttore di questo giornale, Pino Belleri, quand’è andato ospite a Tutti quelli che... il calcio su Raidue. Le altre canzoni di Momo sono difficili da descrivere, bisogna ascoltarle: «Genere inclassificabile», decreta il programma i-Tunes quando infiliamo il disco nel computer. «Ti ispiri a Kurt Weill?», provo a chiederle. E lei, scherzando: «Kurt che...? È francese?», pur conoscendo benissimo il musicista tedesco del teatro di Bertolt Brecht.
L’humour di Momo traspare in molte sue canzoni. In Buon Governo propone di eleggere ministri Mandrake «venditore d’illusioni», Topolino, Pippo, Dylan Dog, Batman, Robin, Paperone alle finanze, Superman «giramondo, con l’Ombra che cammina addetta al terzo mondo», e soprattutto Qui Quo, Qua. In un’altra prende in giro Sanremo, «club de li potenti, solo artisti snob che s’atteggiano ad artisti pop». Canta anche Embè, la canzone contro la maldicenza con cui il suo amico Simone Cristicchi, vincitore quest’anno, l’anno scorso arrivò secondo fra i giovani: «Che bella gente, capisce tutto, ha pistole con proiettili di malignità».
È stato un bel Sanremo 2007 per Roma, per una certa Roma giovane, povera e anticonformista lontana mille miglia dalle vallette Rai e Mediaset: quella di Momo, di Cristicchi, e anche di Pensa di Fabrizio Moro, vincitore giovani. Ma chi è in realtà Momo? «Non sono un folletto, non sono uno gnomo, sono Momo», si autodefinisce lei sul suo sito Internet, www.momoart.it
Surreale, dada, anarchica, hanno scritto. Cesare Romana l’ha paragonata addirittura a Omero. Una sua canzone s’intitola Momosessuale. Sei omosessuale?, le chiediamo. «No», sorride, «sono momosessuale, appunto. Per la libertà». È bastato questo per far titolare a qualcuno «Momo profeta dei Dico», i «Diritti di convivenza», anche gay, attualmente osteggiati dalla Chiesa. Ma lei sfugge a ogni etichetta, non vuole farsi ingabbiare. Momo è solo Momo, con le sue melodie stralunate da cabaret e le rime ermetiche. Prendere o lasciare.
Mauro Suttora
Intervista con la cantante di "Fondanela"
Oggi, 5 aprile 2007
Eccoci nel regno di Momo. Il quartiere romano di San Lorenzo, accanto alla stazione Termini: qui la rivelazione del Festival di Sanremo è nata e cresciuta artisticamente. Nella vita reale no: è di Lanciano in provincia di Chieti, e da lì sono venuti i suoi genitori, Vittorio e Licia Cipollone, entrambi 77enni, per applaudirla nella sua prima esibizione pubblica dopo il festival. Un trionfo: teatro della Garbatella strapieno, e il giorno dopo quotidiani che strabordano di articoli positivi. «Momo non è soltanto la cantante-autrice di Fondanela, svelata da Piero Chiambretti all’ultimo Sanremo. È molto di più: è l’ultima reincarnazione della Gelsomina felliniana, è la sfida disarmata della fantasia alla violenza del nostro mondo», la loda Cesare Romana, critico musicale del Giornale.
Gli articoli li tiene in un sacchetto di plastica della spesa Antonella, amica giornalista che aiuta Momo a fronteggiare la fama improvvisa delle ultime settimane. Tutti, papà, mamma, produttore, coautori, parenti e amici, sono seduti al tavolino di un bar in via dei Volsci. «Il pianoforte dove Momo ha imparato a suonare a cinque anni me lo regalò la Zanussi come premio per aver venduto caldaie», ricorda papà Vittorio. Sono i primi che Momo ringrazia nella copertina del disco appena uscito, i genitori. Che l’adottarono orfanella, e che l’hanno sempre aiutata da quando si mise in testa di fare la cantante.
Una gavetta interminabile, durata 17 anni: «Subito dopo il diploma magistrale Momo è emigrata a Roma con un solo chiodo fisso: la musica», ci dice il signor Cipollone, «e noi l’abbiamo sempre assecondata. Ricordo che quando un giornale locale abruzzese la intervistò, quindici anni fa, disse che il suo obiettivo era Sanremo. Una decina d’anni fa siamo venuti a Roma per vederla in un concerto al teatro Colosseo, con Sabina Guzzanti...»
Ma insomma, fino a sei settimane fa Momo con la musica proprio non ci campava: qualche serata nei locali di Roma, qui a San Lorenzo, ma soldi pochi o niente. Quindi per mantenersi lavorava: lavapiatti, cameriera, baby-sitter. Negli ultimi tre anni ha tenuto a bada un bambino, Ludovico, che ha appena compiuto undici anni ed è venuto pure lui a festeggiarla al concerto romano: «Ma ormai è grande, non ha più bisogno di me», dice Momo.
Momo è popolarissima fra i bambini. Ce ne accorgiamo quando usciamo dal bar per andare a fotografarla nella giocheria L’Orbita, visto che il suo primo disco si chiama Il Giocoliere. Quelli del quartiere la conoscono, la fermano sul marciapiede. «Oggi in classe abbiamo letto con la maestra l’articolo del giornale su di te», le dice uno. Lei si ferma, è gentile con tutti, si china a parlare, alcuni li conosce per nome.
«Ora Momo verrà a suonare al teatro Centrale di Lanciano», pregusta orgogliosa mamma Licia. Il 26 aprile ci sarà un primo concerto al Juxtap di Sarzana (La Spezia), il locale del produttore Simone Grassi. Poi, in maggio, all’Hiroshima di Torino. Stanno fioccando le prenotazioni per l’estate: tutti vogliono Momo. A Giffoni (Salerno) il 14 luglio, al festival Gaber di Viareggio. Infine, in autunno, la prima tournée in giro per l’Italia.
Momo è accompagnata da musicisti che suonano strumenti strani, come un circo ambulante di altri tempi: Ludovica Valori, nipote di Bice, è al bombardino; al mandolino c’è Desirée Infascelli; al contrabbasso Daniele, tanto alto quanto Momo è minuta. Riescono a creare un’atmosfera magica, la stessa che ha ammaliato gli spettatori del dopoFestival fin dalla prima volta che Momo ha intonato la sua Fondanela. «Che poi sarebbe la “fontanella” dell’energia», spiega lei, «come la pronunciava l’osteopata cinese Wang facendo fare esercizi a me e alla mia amica pianista Alessandra. Eravamo andate da lui perché avevamo la schiena bloccata, e quando siamo tornate a casa abbiamo riso così tanto su quella “fondanela” che è nata la canzone, con i suoi buffi movimenti d’anca».
Movimenti che stanno conquistando mezza Italia, come ai tempi della Lambada: ci ha ballato perfino il direttore di questo giornale, Pino Belleri, quand’è andato ospite a Tutti quelli che... il calcio su Raidue. Le altre canzoni di Momo sono difficili da descrivere, bisogna ascoltarle: «Genere inclassificabile», decreta il programma i-Tunes quando infiliamo il disco nel computer. «Ti ispiri a Kurt Weill?», provo a chiederle. E lei, scherzando: «Kurt che...? È francese?», pur conoscendo benissimo il musicista tedesco del teatro di Bertolt Brecht.
L’humour di Momo traspare in molte sue canzoni. In Buon Governo propone di eleggere ministri Mandrake «venditore d’illusioni», Topolino, Pippo, Dylan Dog, Batman, Robin, Paperone alle finanze, Superman «giramondo, con l’Ombra che cammina addetta al terzo mondo», e soprattutto Qui Quo, Qua. In un’altra prende in giro Sanremo, «club de li potenti, solo artisti snob che s’atteggiano ad artisti pop». Canta anche Embè, la canzone contro la maldicenza con cui il suo amico Simone Cristicchi, vincitore quest’anno, l’anno scorso arrivò secondo fra i giovani: «Che bella gente, capisce tutto, ha pistole con proiettili di malignità».
È stato un bel Sanremo 2007 per Roma, per una certa Roma giovane, povera e anticonformista lontana mille miglia dalle vallette Rai e Mediaset: quella di Momo, di Cristicchi, e anche di Pensa di Fabrizio Moro, vincitore giovani. Ma chi è in realtà Momo? «Non sono un folletto, non sono uno gnomo, sono Momo», si autodefinisce lei sul suo sito Internet, www.momoart.it
Surreale, dada, anarchica, hanno scritto. Cesare Romana l’ha paragonata addirittura a Omero. Una sua canzone s’intitola Momosessuale. Sei omosessuale?, le chiediamo. «No», sorride, «sono momosessuale, appunto. Per la libertà». È bastato questo per far titolare a qualcuno «Momo profeta dei Dico», i «Diritti di convivenza», anche gay, attualmente osteggiati dalla Chiesa. Ma lei sfugge a ogni etichetta, non vuole farsi ingabbiare. Momo è solo Momo, con le sue melodie stralunate da cabaret e le rime ermetiche. Prendere o lasciare.
Mauro Suttora
Thursday, April 05, 2007
Invasioni Barbariche
quotidiano Libero, giovedi 5 aprile 2007, pag.31
Gli scrittori spiati dal Grande Fratello
Domani alle 'Invasioni Barbariche' il primo programma verita' dedicato alla letteratura. Tre autori chiusi in un appartamento a parlare di libri erotici.
di MASSIMILIANO PARENTE
Mia cara Daria Bignardi, lo sai. È successo che ieri pomeriggio mi hai sadicamente rinchiuso in un minireality letterario, insieme a Andrea Laffranchi del Corriere della Sera e Mauro Suttora di Oggi, autore di No Sex and The City, per parlare di tre scrittrici erotiche o aspiranti tali: Gisela Scerman, Carolina Cutolo e Clara Sereni.
La “location” era un loft dietro al San Pietro, e sul campanello c’era scritto “vacanze romane” ma non c’era traccia di Audrey Hepburn, e una volta saliti neppure delle tre pornografomani sentimentali. Tuttavia è stato bello vedere Laffranchi infilato nella vasca da bagno a leggere passi del libro della Scerman, edito da Castelvecchi, che infatti sembra l’upgrading di Pulsatilla.
Al povero Suttora, un ragazzone alto, compostissimo e compagno radicale, è toccata Clara Sereni in edizione provvisoria, copertina rossa senza il minimo indizio. Io mi sono scelto d’istinto il libro della Cutolo, attratto dalle coscette lolitesche in copertina, forse della medesima autrice, e già una che si mette in copertina dalla vita in giù promette male. La cosa interessante era che non si capiva più chi leggeva cosa, i tre libri sembravano lo stesso e di tre non ne facevano uno.
Ogni tanto mi alienavo da me e pensavo a quello che stavo facendo, mi avete fatto declamare le paginette della Cutolo come non ho mai fatto pubblicamente neppure con Leopardi. Un amico mi ha scritto «ma chi te lo ha fatto fare?» e devo ancora rispondergli.
Tra l’altro, Daria, ancora con questa storia dei maschi contro le femmine? E io lì dentro a rappresentare i maschi? Non esiste un punto di vista femminile sulla letteratura, non ne esiste neppure uno maschile, e se esiste c’è solo quando manca la letteratura. Proust è maschile o femminile? Kafka è maschile o femminile? Virginia Woolf è maschile o femminile? Il problema interessa solo Loredana Lipperini di Lipperatura, ma siamo di nuovo nei blog, o si parla di quote rosa, ma siamo in politica, o ne parlerete voi che sarete lì domani sera, ma siamo in televisione. I tre libri di queste autrici sono libri femminili, perché non sono letteratura ma diarismi rilegati, e siccome sono libri di casalinghe evolute ma pur sempre casalinghe, devono coniugare il sesso con il sentimento, ma allora perché cercare di farlo venire duro, anche se alla Cutolo piace tanto barzotto?
Non esiste un’erezione d’amore, Daria, solo la Cutolo può costruirsi da sola un vibratore col cuoricino sulla punta, ma come si fa, dietro un simbolo fallico non può esserci un cuore, tantomeno un’anima, solo un altro simbolo fallico, è lì che ha fallicamente fallito il femminismo storico. Come si può dare il culo con amore? E poi la Cutolo si lamenta di ritrovarseli barzotti. Piuttosto Florence Dugas di Dolorosa Soror, lei sì che è una scrittrice, non certo Carolina Cutolo o Clara Sereni o Gisela Scerman, da non confondere con l’unica Sherman importante che conosco, che si chiama Cindy.
Comunque sia, non essendoci niente di letterario di cui parlare, il refrain nascosto di noi tre deportati dell’erotismo che non c’era continuava a essere: ma come saranno queste tre? Intellettualmente non ci fanno né caldo né freddo, ma sono almeno fighe? Cercavamo di scaldarci con un minimo di cameratismo da sfigati. Il più gongolante sembrava Laffranchi, perché aveva una modella in copertina che magari, abbiamo supposto, era la Scerman. Se anche non fosse stata la Scerman sulla quarta c’era scritto che la Scerman ha fatto la modella, lasciando ben sperare. Dopo questa scoperta, quasi invidioso della sua Scerman, ho cercato di smontare Laffranchi, guardando perplesso le mie coscette di Cutolo: «Che ne sai Andrea, magari adesso questa Scerman è in carozzella, senza gambe».
Suttora, serafico e distinto come un lord, sul divano con le gambe incrociate, si teneva stretta la sua copertina rossa anonima, non vedeva l’ora di andarsene, e infatti dopo il pranzo offerto dalla Endemol, e dopo il brindisi «alle scrittrici porno non romantiche» che vedrete domani sulla Sette, si è dileguato e chi s’è visto s’è visto.
E in ogni caso non ho capito, Daria, perché in televisione, dove ormai si sbaciucchiano e si slinguazzano tutti a ogni Grande Fratello, a me mi scaraventi in un mini reality di sei ore dove finisco da solo, sdraiato sul letto matrimoniale, vicino a un altro sfigato nella vasca da bagno, a leggere pensierini sulle candide vaginali di Carolina Cutolo? Neppure nel collegio austriaco di Robert Musil si arrivava a tanta crudeltà sessista. Lele Mora, se ci sei aiutami tu.
La proposta: un happening
Per cui, Daria, ho deciso di proporti un happening fetish o merce di scambio molto terra terra, a cominciare dalle inquadrature: io, oltre a aver reso la tua trasmissione immortale regalandoti la mia illustre presenza, ti faccio pubblicità non occulta e dico «o miei lettori, domani guardate tutti le Invasioni Barbariche con dentro le scrittrici pornoromantiche e Parente e Laffranchi e Suttora segregati come tre imbecilli nel loft romano», e tu in cambio fai togliere le scarpe in diretta alle tre autrici.
Perché? Perché, altro che libri e blog, l’unico modo di distinguere una donna cosciente da una sedicente tale, a maggior ragione se intende diventare scrittrice, è vedere che alluci ha, e questo posso valutarlo lombrosianamente e darwinianamente solo io, e soprattutto se hanno i piedi smaltati di rosso sempre, anche d’inverno, e questo potete vederlo perfino voi e così, su due piedi, mica storie. Ci stai? Ai posteri barbarici di domani l’ardua sentenza.
Massimiliano Parente
Gli scrittori spiati dal Grande Fratello
Domani alle 'Invasioni Barbariche' il primo programma verita' dedicato alla letteratura. Tre autori chiusi in un appartamento a parlare di libri erotici.
di MASSIMILIANO PARENTE
Mia cara Daria Bignardi, lo sai. È successo che ieri pomeriggio mi hai sadicamente rinchiuso in un minireality letterario, insieme a Andrea Laffranchi del Corriere della Sera e Mauro Suttora di Oggi, autore di No Sex and The City, per parlare di tre scrittrici erotiche o aspiranti tali: Gisela Scerman, Carolina Cutolo e Clara Sereni.
La “location” era un loft dietro al San Pietro, e sul campanello c’era scritto “vacanze romane” ma non c’era traccia di Audrey Hepburn, e una volta saliti neppure delle tre pornografomani sentimentali. Tuttavia è stato bello vedere Laffranchi infilato nella vasca da bagno a leggere passi del libro della Scerman, edito da Castelvecchi, che infatti sembra l’upgrading di Pulsatilla.
Al povero Suttora, un ragazzone alto, compostissimo e compagno radicale, è toccata Clara Sereni in edizione provvisoria, copertina rossa senza il minimo indizio. Io mi sono scelto d’istinto il libro della Cutolo, attratto dalle coscette lolitesche in copertina, forse della medesima autrice, e già una che si mette in copertina dalla vita in giù promette male. La cosa interessante era che non si capiva più chi leggeva cosa, i tre libri sembravano lo stesso e di tre non ne facevano uno.
Ogni tanto mi alienavo da me e pensavo a quello che stavo facendo, mi avete fatto declamare le paginette della Cutolo come non ho mai fatto pubblicamente neppure con Leopardi. Un amico mi ha scritto «ma chi te lo ha fatto fare?» e devo ancora rispondergli.
Tra l’altro, Daria, ancora con questa storia dei maschi contro le femmine? E io lì dentro a rappresentare i maschi? Non esiste un punto di vista femminile sulla letteratura, non ne esiste neppure uno maschile, e se esiste c’è solo quando manca la letteratura. Proust è maschile o femminile? Kafka è maschile o femminile? Virginia Woolf è maschile o femminile? Il problema interessa solo Loredana Lipperini di Lipperatura, ma siamo di nuovo nei blog, o si parla di quote rosa, ma siamo in politica, o ne parlerete voi che sarete lì domani sera, ma siamo in televisione. I tre libri di queste autrici sono libri femminili, perché non sono letteratura ma diarismi rilegati, e siccome sono libri di casalinghe evolute ma pur sempre casalinghe, devono coniugare il sesso con il sentimento, ma allora perché cercare di farlo venire duro, anche se alla Cutolo piace tanto barzotto?
Non esiste un’erezione d’amore, Daria, solo la Cutolo può costruirsi da sola un vibratore col cuoricino sulla punta, ma come si fa, dietro un simbolo fallico non può esserci un cuore, tantomeno un’anima, solo un altro simbolo fallico, è lì che ha fallicamente fallito il femminismo storico. Come si può dare il culo con amore? E poi la Cutolo si lamenta di ritrovarseli barzotti. Piuttosto Florence Dugas di Dolorosa Soror, lei sì che è una scrittrice, non certo Carolina Cutolo o Clara Sereni o Gisela Scerman, da non confondere con l’unica Sherman importante che conosco, che si chiama Cindy.
Comunque sia, non essendoci niente di letterario di cui parlare, il refrain nascosto di noi tre deportati dell’erotismo che non c’era continuava a essere: ma come saranno queste tre? Intellettualmente non ci fanno né caldo né freddo, ma sono almeno fighe? Cercavamo di scaldarci con un minimo di cameratismo da sfigati. Il più gongolante sembrava Laffranchi, perché aveva una modella in copertina che magari, abbiamo supposto, era la Scerman. Se anche non fosse stata la Scerman sulla quarta c’era scritto che la Scerman ha fatto la modella, lasciando ben sperare. Dopo questa scoperta, quasi invidioso della sua Scerman, ho cercato di smontare Laffranchi, guardando perplesso le mie coscette di Cutolo: «Che ne sai Andrea, magari adesso questa Scerman è in carozzella, senza gambe».
Suttora, serafico e distinto come un lord, sul divano con le gambe incrociate, si teneva stretta la sua copertina rossa anonima, non vedeva l’ora di andarsene, e infatti dopo il pranzo offerto dalla Endemol, e dopo il brindisi «alle scrittrici porno non romantiche» che vedrete domani sulla Sette, si è dileguato e chi s’è visto s’è visto.
E in ogni caso non ho capito, Daria, perché in televisione, dove ormai si sbaciucchiano e si slinguazzano tutti a ogni Grande Fratello, a me mi scaraventi in un mini reality di sei ore dove finisco da solo, sdraiato sul letto matrimoniale, vicino a un altro sfigato nella vasca da bagno, a leggere pensierini sulle candide vaginali di Carolina Cutolo? Neppure nel collegio austriaco di Robert Musil si arrivava a tanta crudeltà sessista. Lele Mora, se ci sei aiutami tu.
La proposta: un happening
Per cui, Daria, ho deciso di proporti un happening fetish o merce di scambio molto terra terra, a cominciare dalle inquadrature: io, oltre a aver reso la tua trasmissione immortale regalandoti la mia illustre presenza, ti faccio pubblicità non occulta e dico «o miei lettori, domani guardate tutti le Invasioni Barbariche con dentro le scrittrici pornoromantiche e Parente e Laffranchi e Suttora segregati come tre imbecilli nel loft romano», e tu in cambio fai togliere le scarpe in diretta alle tre autrici.
Perché? Perché, altro che libri e blog, l’unico modo di distinguere una donna cosciente da una sedicente tale, a maggior ragione se intende diventare scrittrice, è vedere che alluci ha, e questo posso valutarlo lombrosianamente e darwinianamente solo io, e soprattutto se hanno i piedi smaltati di rosso sempre, anche d’inverno, e questo potete vederlo perfino voi e così, su due piedi, mica storie. Ci stai? Ai posteri barbarici di domani l’ardua sentenza.
Massimiliano Parente
Wednesday, April 04, 2007
Un miliardo in missioni militari
La pace ci costa un miliardo
Quanto spendiamo per le missioni militari italiane all' estero
Occorrono mille milioni all' anno per i nostri soldati nelle aree di crisi. Dai 75 mila euro per 100 semafori a Nassiriya al milione per l'ambasciata a Kabul, ecco tutte le curiosità tratte dal bilancio
Oggi, 04/04/2007, pag. 57/58
Matite, penne, zainetti. Li hanno distribuiti tre settimane fa i nostri soldati in una scuola elementare del Libano, per conto dell' Associazione internazionale regina Elena. Si tratta di un gruppo legittimista monarchico (vuole ufficialmente il ritorno del re in Italia), guidato dal pronipote della suddetta regina: il principe Serge di Jugoslavia, figlio di Maria Pia Savoia. I 2.500 militari della Repubblica italiana in missione in Libano, dunque, distribuiscono la beneficenza di chi auspica il ritorno della monarchia. Curioso. Valeva la pena di mandarli lì con i carri armati per fare regali ai bimbi libanesi ? Non bastavano, per un compito tale, due volontari di una qualsiasi Ong (Organizzazione non governativa) ? Spendiamo quasi mille miliardi all' anno in lire per disarmare i pericolosi hezbollah: questo indica lo scopo ufficiale della missione Onu. Peccato che finora, in sette mesi, non abbiamo sequestrato neppure una pistola ad acqua.
Così i nostri militari si consolano con le attività umanitarie. In Afghanistan, invece, prima dell' escalation di tensione degli ultimi tempi, i nostri militari avrebbero costruito una chiesetta. La notizia, trapelata a Herat, è stata subito smentita per non irritare gli estremisti. Quanto al Kosovo, chi si ricorda che 2.300 nostri soldati ancora languono in una guarnigione, otto anni dopo esserci arrivati per pacificarlo ? Missione compiuta, almeno lì ? Neanche per sogno: "Ci vorranno vent'anni per riportare la calma fra albanesi e serbi", ci dice pessimista Nino Sergi, segretario generale di Intersos (Cooperazione civile). Intanto, però, anche la missione in Kosovo dev'essere rifinanziata. Così è finita pure questa nel calderone del cosiddetto "decreto Afghanistan", votato al Senato martedì 27 marzo. Le polemiche si concentrano sull' opportunità di tenere le nostre truppe nel Paese dei talebani a seimila chilometri di distanza.
Ma il decreto finanzia molte altre missioni militari all' estero , per un totale di un miliardo di euro nel 2007. E, leggendone le 300 pagine, si scoprono molte curiosità. Qualcuno sapeva, per esempio, che tre nostre navi con 105 marinai da anni vagano per il Mediterraneo alla ricerca di "terroristi e pirati" nella missione Active Endeavour ? Il pattugliamento era stato deciso dalla Nato dopo l'11 settembre 2001, quando si temeva qualche altro attacco, questa volta marittimo, o trasporti di armi da parte di Al Qaeda. Ma ancor oggi spendiamo otto milioni all' anno per far navigare la fregata Maestrale e il cacciamine Termoli. Nonché il nuovo sommergibile Todaro, che ha appena terminato il suo primo mese di missione.
Nessuno lo sa, ma abbiamo sei militari di collegamento nel quartier generale americano per l'Afghanistan che sta a Tampa, Florida. Eppure ci avevano detto che si tratta di una missione Nato Onu, non più a guida statunitense. E poi: che ci fanno 95 nostri avieri ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi ? Mantengono tre aerei C 130 per il trasporto truppe da e per l' Afghanistan. Dall' Iraq ce ne siamo andati. Però continuiamo a spendere. Il decreto stila un elenco minuzioso. Cento semafori da installare a Nassiriya, 75 mila euro. Anche mettendone quattro per incrocio, esistono a Nassiriya 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori ? Oppure faranno la fine dei precedenti, che nessuno nelle rotonde caotiche e polverose piene di carretti trainati da asini ha mai rispettato ? E i 500 mila euro per la "mappatura satellitare" dei beni culturali iracheni, serviranno ad ammansire i terroristi ?
Un milione di euro finanzierà un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (ospitati all'Hotel Ovest, quattro stelle). Come se le compagnie petrolifere, la nostra Eni o altre, non fossero abbastanza ricche da poter pagare loro la formazione. E poi: due "esperti" da inviare in Kurdistan per "facilitare la penetrazione commerciale italiana", al modico stipendio annuo di 180 mila euro l' uno. Costerà 300 mila euro l' affitto annuo dell' ambasciata italiana a Kabul. Ma molto più del doppio costerà sorvegliarla: 770 mila euro. Più che per aiutare, insomma, spendiamo per difenderci da chi vorremmo aiutare.
Mauro Suttora
"Dobbiamo rispettare le alleanze"
L' esperto spiega perché bisogna armarsi e partire. Andrea Margelletti, del Centro studi internazionali. Con un debito di 1.500 miliardi che senso ha spendere un miliardo di euro all' anno in missioni militari ? "È necessario impegnarsi perché non si ripeta la follia dei talebani. L' Italia ha il dovere di aiutare i popoli meno fortunati che non hanno nemmeno luce, acqua e strade". I sondaggi, però, dicono che la maggioranza degli italiani vuole il ritiro dall' Afghanistan... "La politica estera non la fa la piazza, ma il Parlamento. Si decide col cervello, non con la pancia". Ma contro i terroristi servono navi e sommergibili ? "Fanno parte di una flotta Nato, ci sono alleanze e strategie da rispettare. Lo sa bene la Germania, per esempio, che pur non avendo sbocco nel Mediterraneo ha inviato una nave da guerra davanti al Libano".
"A Kabul ci credono guerrafondai"
È l' opinione di chi si occupa di Cooperazione civile "L'Afghanistan è una missione nata male". Parola di Nino Sergi di Intersos (organizzazione non governativa presente in Afghanistan). "Nel 2001 gli Stati Uniti rifiutarono l' aiuto Nato, attaccando unilateralmente. Nel 2003 ci coinvolsero perché avevano la guerra anche in Iraq e non ce la facevano più. Ci mettono sempre di fronte al fatto compiuto. Noi diciamo "sì" per ragioni di alleanza, ma come Paesi europei abbiamo anche una certa dignità. Ora stiamo rimediando a errori tragici. Ma ormai siamo dentro a un ingranaggio che non può funzionare". Ma i nostri soldati non servono per proteggere voi cooperanti ? "Al contrario: i militari ci creano problemi. I locali ci confondono con loro, pensano che siamo gli stessi: un giorno in divisa e col mitra, un giorno senza. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto una netta distinzione dei ruoli".
Quanto spendiamo per le missioni militari italiane all' estero
Occorrono mille milioni all' anno per i nostri soldati nelle aree di crisi. Dai 75 mila euro per 100 semafori a Nassiriya al milione per l'ambasciata a Kabul, ecco tutte le curiosità tratte dal bilancio
Oggi, 04/04/2007, pag. 57/58
Matite, penne, zainetti. Li hanno distribuiti tre settimane fa i nostri soldati in una scuola elementare del Libano, per conto dell' Associazione internazionale regina Elena. Si tratta di un gruppo legittimista monarchico (vuole ufficialmente il ritorno del re in Italia), guidato dal pronipote della suddetta regina: il principe Serge di Jugoslavia, figlio di Maria Pia Savoia. I 2.500 militari della Repubblica italiana in missione in Libano, dunque, distribuiscono la beneficenza di chi auspica il ritorno della monarchia. Curioso. Valeva la pena di mandarli lì con i carri armati per fare regali ai bimbi libanesi ? Non bastavano, per un compito tale, due volontari di una qualsiasi Ong (Organizzazione non governativa) ? Spendiamo quasi mille miliardi all' anno in lire per disarmare i pericolosi hezbollah: questo indica lo scopo ufficiale della missione Onu. Peccato che finora, in sette mesi, non abbiamo sequestrato neppure una pistola ad acqua.
Così i nostri militari si consolano con le attività umanitarie. In Afghanistan, invece, prima dell' escalation di tensione degli ultimi tempi, i nostri militari avrebbero costruito una chiesetta. La notizia, trapelata a Herat, è stata subito smentita per non irritare gli estremisti. Quanto al Kosovo, chi si ricorda che 2.300 nostri soldati ancora languono in una guarnigione, otto anni dopo esserci arrivati per pacificarlo ? Missione compiuta, almeno lì ? Neanche per sogno: "Ci vorranno vent'anni per riportare la calma fra albanesi e serbi", ci dice pessimista Nino Sergi, segretario generale di Intersos (Cooperazione civile). Intanto, però, anche la missione in Kosovo dev'essere rifinanziata. Così è finita pure questa nel calderone del cosiddetto "decreto Afghanistan", votato al Senato martedì 27 marzo. Le polemiche si concentrano sull' opportunità di tenere le nostre truppe nel Paese dei talebani a seimila chilometri di distanza.
Ma il decreto finanzia molte altre missioni militari all' estero , per un totale di un miliardo di euro nel 2007. E, leggendone le 300 pagine, si scoprono molte curiosità. Qualcuno sapeva, per esempio, che tre nostre navi con 105 marinai da anni vagano per il Mediterraneo alla ricerca di "terroristi e pirati" nella missione Active Endeavour ? Il pattugliamento era stato deciso dalla Nato dopo l'11 settembre 2001, quando si temeva qualche altro attacco, questa volta marittimo, o trasporti di armi da parte di Al Qaeda. Ma ancor oggi spendiamo otto milioni all' anno per far navigare la fregata Maestrale e il cacciamine Termoli. Nonché il nuovo sommergibile Todaro, che ha appena terminato il suo primo mese di missione.
Nessuno lo sa, ma abbiamo sei militari di collegamento nel quartier generale americano per l'Afghanistan che sta a Tampa, Florida. Eppure ci avevano detto che si tratta di una missione Nato Onu, non più a guida statunitense. E poi: che ci fanno 95 nostri avieri ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi ? Mantengono tre aerei C 130 per il trasporto truppe da e per l' Afghanistan. Dall' Iraq ce ne siamo andati. Però continuiamo a spendere. Il decreto stila un elenco minuzioso. Cento semafori da installare a Nassiriya, 75 mila euro. Anche mettendone quattro per incrocio, esistono a Nassiriya 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori ? Oppure faranno la fine dei precedenti, che nessuno nelle rotonde caotiche e polverose piene di carretti trainati da asini ha mai rispettato ? E i 500 mila euro per la "mappatura satellitare" dei beni culturali iracheni, serviranno ad ammansire i terroristi ?
Un milione di euro finanzierà un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (ospitati all'Hotel Ovest, quattro stelle). Come se le compagnie petrolifere, la nostra Eni o altre, non fossero abbastanza ricche da poter pagare loro la formazione. E poi: due "esperti" da inviare in Kurdistan per "facilitare la penetrazione commerciale italiana", al modico stipendio annuo di 180 mila euro l' uno. Costerà 300 mila euro l' affitto annuo dell' ambasciata italiana a Kabul. Ma molto più del doppio costerà sorvegliarla: 770 mila euro. Più che per aiutare, insomma, spendiamo per difenderci da chi vorremmo aiutare.
Mauro Suttora
"Dobbiamo rispettare le alleanze"
L' esperto spiega perché bisogna armarsi e partire. Andrea Margelletti, del Centro studi internazionali. Con un debito di 1.500 miliardi che senso ha spendere un miliardo di euro all' anno in missioni militari ? "È necessario impegnarsi perché non si ripeta la follia dei talebani. L' Italia ha il dovere di aiutare i popoli meno fortunati che non hanno nemmeno luce, acqua e strade". I sondaggi, però, dicono che la maggioranza degli italiani vuole il ritiro dall' Afghanistan... "La politica estera non la fa la piazza, ma il Parlamento. Si decide col cervello, non con la pancia". Ma contro i terroristi servono navi e sommergibili ? "Fanno parte di una flotta Nato, ci sono alleanze e strategie da rispettare. Lo sa bene la Germania, per esempio, che pur non avendo sbocco nel Mediterraneo ha inviato una nave da guerra davanti al Libano".
"A Kabul ci credono guerrafondai"
È l' opinione di chi si occupa di Cooperazione civile "L'Afghanistan è una missione nata male". Parola di Nino Sergi di Intersos (organizzazione non governativa presente in Afghanistan). "Nel 2001 gli Stati Uniti rifiutarono l' aiuto Nato, attaccando unilateralmente. Nel 2003 ci coinvolsero perché avevano la guerra anche in Iraq e non ce la facevano più. Ci mettono sempre di fronte al fatto compiuto. Noi diciamo "sì" per ragioni di alleanza, ma come Paesi europei abbiamo anche una certa dignità. Ora stiamo rimediando a errori tragici. Ma ormai siamo dentro a un ingranaggio che non può funzionare". Ma i nostri soldati non servono per proteggere voi cooperanti ? "Al contrario: i militari ci creano problemi. I locali ci confondono con loro, pensano che siamo gli stessi: un giorno in divisa e col mitra, un giorno senza. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto una netta distinzione dei ruoli".
Wednesday, March 28, 2007
Impero militare Usa
L’impero delle 737 basi militari
Il Diario, 23 marzo 2007
di Mauro Suttora
Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».
È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.
Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.
Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...
Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».
Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.
Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.
Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.
Il Diario, 23 marzo 2007
di Mauro Suttora
Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».
È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.
Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.
Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...
Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».
Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.
Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.
Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.
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