Pannella, uscito per Algama in formato ebook, più che un instant book è la terza versione allargata di due altri libri di Suttora, uno per decennio: nel 1993 arrivò Pannella, i segreti di un istrione, nel 2001 Pannella & Bonino Spa.
I titoli dei precedenti sono già un programma: nessun intento agiografico, nessuna santificazione. Il libro appena uscito, a dispetto del titolo più neutro, resta un ritratto assolutamente irriverente, poco amante dei giri di parole e della diplomazia.
Intervistato, l’autore lascia trasparire anche una parte importante del suo vissuto (ed è normale: “per molti giovani negli anni ’70 – spiega – la politica è nata nelle discussioni in casa – in cucina, diceva Pannella – pro o contro le idee dei genitori) e analizza anche l’evoluzione e il futuro dei radicali. Che sopravviveranno anche alla scomparsa del loro demiurgo e alle difficoltà economiche, perché "rappresentano l’esigenza eterna della libertà".
Suttora, il suo ultimo libro Pannella può considerarsi una terza stesura dei due volumi del 1993 e del 2001. Come mai l’ha impegnata tanto la figura di Pannella?
Ho sentito parlare di Pannella per la prima volta da mia zia, docente universitaria a Parigi, dove lo aveva conosciuto nei primi anni ’60. Poi confondevo il suo nome con quello di Capanna, leader del ’68. Infine ho incontrato per strada a Bergamo un banchetto radicale per l’obiezione di coscienza nel 1972: avevo 13 anni. Mio padre si abbonò al settimanale Panorama, e probabilmente la Mondadori regalò a Pannella l’indirizzario degli abbonati, perché nel 1973 cominciò ad arrivare a casa gratis il giornale di Pannella Liberazione (la testata che poi cedette a Rifondazione, così come diede generosamente ai verdi il simbolo del Sole che ride). Liberazione era buffo, perché ogni titolo tuonava contro il “regime”.
Lo trovavo interessante ma esagerato: per me i regimi erano ben altri, quelli fascisti in Cile, Spagna, Grecia, Portogallo, e quelli comunisti. Ma per un ginnasiale come me, educato al laicismo dal mio nonno preside e latinista, i radicali furono fondamentali in quell’inverno 1973-74, con la campagna sul divorzio. Quando il prete gesuita della mia parrocchia bergamasca San Giorgio tuonò dal pulpito contro il divorzio, smisi di andare a messa. E nell’estate ’74 mi appassionai allo sciopero della fame di Pannella leggendo l’articolo di Pasolini sul Corriere della Sera e quelli successivi. Ero refrattario ai gruppuscoli marxisti del mio liceo, gli unici contestatori che vedevo moderni erano i radicali, così kennediani e simili alle proteste di Martin Luther King e degli studenti americani…
E poi?
Poi mi trasferii a Udine, e lì nell’estate ’75 fece tappa l’annuale marcia antimilitarista radicale: fu una serata straordinaria, con un concerto in piazza degli allora sconosciuti Napoli Centrale (con Pino Daniele tecnico del suono). Suonavano per i radicali anche Battiato, Bennato e De Gregori. Io però al liceo di Udine ero l’unico radicale. In Friuli c’erano molte caserme e servitù militari, così invitai a un’assemblea studentesca due obiettori che erano finiti in carcere: il radicale Renato Fiorelli di Gorizia e lo storico del Movimento Nonviolento di Vicenza Matteo Soccio. Ogni sabato pomeriggio c’era una riunione nella sede radicale udinese di via Mantica, ma le discussioni mi sembravano un po’ noiose. Inoltre c’erano troppi omosessuali del Fuori, e io al sabato pomeriggio preferivo uscire con le ragazze. Il 6 maggio 1976 finalmente c’era la prima tribuna elettorale del partito radicale: avrei potuto vedere Pannella in tv. Ma alle 9 di sera, pochi minuti prima dell’inizio, ci fu il terremoto del Friuli.
Un incontro mancato quindi… come continua la storia?
Sono stato un convinto attivista radicale fino al 1981. Mi elessero segretario dell’associazione di Udine a 20 anni, perché i giovani erano molto valorizzati. Partecipai al mio primo congresso radicale nel ’79 a Genova, e lì scoprii che Pannella nella vita interna del partito si trasformava da libertario in dittatore. Lo conobbi personalmente, mi invitò nella sua famosa mansarda a Roma, mi corteggiò non corrisposto, al congresso del 1981 a Firenze intervenni usando i miei 5 minuti per suonare con la chitarra una canzone antimilitarista di Donovan tradotta da me (Universal Soldier). Nel frattempo ero diventato segretario nazionale della Lega per il disarmo di Rutelli e dello scrittore Carlo Cassola. Ero molto impegnato nel coordinamento antimilitarista europeo che organizzava una marcia ogni estate: nel 79 la Carovana Bruxelles-Berlino-Varsavia, nell’80 la Lione-La Spezia-Livorno-Lubiana, nell’81 in Olanda contro gli euromissili, nell’82 in Spagna contro il confine bloccato di Gibilterra (mi arrestarono e finii in carcere).
Dopo l’81 che è successo?
Fra Natale e Capodanno 1982 camminammo da Catania a Comiso (Ragusa), dove gli americani volevano installare i missili Cruise atomici contro gli SS20 sovietici. Centinaia di pacifisti da tutta Europa scesero in Sicilia, dormivano in sacco a pelo nelle palestre delle scuole ad Augusta, Siracusa, Noto, Avola, Ragusa. Infine bloccammo i cancelli della base Usa di Comiso, ci furono arresti, finimmo sulle tv di tutto il mondo. Ma Pannella dal 1979 si era fissato con la battaglia contro la fame nel mondo (anzi lo “sterminio” per fame, come lui voleva si dicesse), e pretendeva che i radicali si occupassero soprattutto di quello. Comunque venne alla conferenza stampa iniziale della marcia a Catania, fu l’unico politico nazionale ad appoggiarci. Nel 1983 cominciai a lavorare a tempo pieno come giornalista (Messaggero, Europeo) e smisi di iscrivermi al partito radicale per due motivi: innanzitutto non condividevo molto la linea di Pannella (preferivo Melega); in più, pensavo che i giornalisti non dovessero iscriversi a partiti, per rimanere neutrali. Ciononostante rimasi amico di Pannella e dei radicali. Ogni volta che potevo scrivevo articoli su di loro nell’Europeo: sull’obiettore totale Olivier Dupuis, sul congresso antiproibizionista di Bruxelles del 1988. E nel 1993, quando Pier Luigi Vercesi (allora caporedattore della Stampa, oggi direttore di Sette del Corsera) mi chiese di scrivere una biografia per la sua neonata casa editrice Liber, gli dissi che l’unico politico con una storia non noiosa era Pannella, e la scrissi.
Questo per quanto riguarda la “prima puntata”, e le successive?
Dopo il successo della lista Bonino alle europee 1999 (8%, 12% al nord) proposi una biografia di Emma Bonino ai principali editori italiani, ma tutti rifiutarono tranne Kaos. Per il quale quindi scrissi Pannella & Bonino Spa(2001), aggiungendo la storia di Emma a quella di Marco. Continuai a frequentare i radicali e Pannella, e a scriverne soprattutto sul Foglio. Quando Pannella e Capezzone vennero a New York (dove ho lavorato dal 2002 al 2006) ci vedemmo a cena.
Dopo la morte di Pannella nel maggio 2016 Edoardo Montolli, editore di Algama, mi ha chiesto una sua biografia. Così ho aggiunto gli ultimi 15 anni dal 2001, attingendo soprattutto ai miei articoli sul Foglio, su Oggi (quello del 2006 su Piero Welby) e sul settimanale Diario di Enrico Deaglio.
Nell’introduzione leggo: “Alcuni hanno considerato Pannella un genio, altri un impostore. Per molti è stato un profeta, per qualcuno un buffone. Ma tutti concordano su un giudizio: era un artista della politica e un maestro dello spettacolo”. Questa frase era già presente nell’edizione del 2001 (allora riferita pure a Bonino): in 15 anni per lei il ritratto davvero non è cambiato?
No
Dal suo libro – lei stesso parla alla fine di “biografia imparziale” – emerge un’immagine decisamente composita di Marco Pannella: per lei chi era o com’era? Cosa riconoscerebbe come maggior pregio e come maggior difetto?
Era un politico molto intelligente, colto e onesto, ma assolutamente privo della maggior qualità in un politico: la ricerca del consenso. Non gli interessava raccoglierlo, alle elezioni. La percentuale che otteneva il suo partito radicale gli serviva soltanto come podio per i suoi discorsi. O come batteria per il suo megafono. Purtroppo però anche in politica vale il motto dello sport: “Chi vince ha ragione, chi perde è un coglione”. Il suo maggior pregio? La capacità di provocare: ottima in un giornalista (qual era Pannella) o in un intellettuale, pessima in un politico. Maggior difetto: l’esibizionismo. Ricordo quando verso gli 80 anni cominciò a bere la sua pipì, ad addobbarsi con una canottiera nera e a farsi crescere il codone di capelli bianchi. Magnifico e orrendo.
Per Massimo Fini Pannella era “un prete”, per Gianni Riotta è stato prima “profeta”, poi “papa”: la lettera di “commiato” a Papa Francesco è perfettamente in linea con questo? E’ una lettera “tra pari”?
Purtroppo Pannella negli ultimi anni si considerava alla pari con papi e presidenti. Questo non gli impediva di continuare a parlare con tutti, su piazze e marciapiedi, ma avere come interlocutori Napolitano o papa Francesco lo elettrizzava. Il povero Mattarella si è dovuto sorbire un suo monologo di mezz’ora quando ha avuto la malaugurata idea di invitarlo al Quirinale pochi giorni dopo la sua elezione, nel febbraio 2015.
Ammesso che sia possibile distinguere tra la storia di Pannella e quella radicale, esistono battaglie vinte direttamente da Pannella, più che dal partito?
Il tormentone sullo “sterminio per fame nel mondo” con cui ci fracassò i marroni dal 1979 al 1985, e la battaglia suicida per l’amnistia con cui ha imperversato negli ultimi 10 anni della sua vita (dopo la batosta del referendum sulla fecondazione assistita del 2005), alienandosi tutti i radicali tranne qualche centinaio di “pannellati”, i quali dopo la sua morte hanno cominciato a fare la guerra ai radicali normali (Bonino, Cappato, Spadaccia, Cicciomessere, Staderini, Magi).
Nel libro ricorda che fu Pannella il vero inventore della riforma elettorale maggioritaria (e non Segni): quale rilievo ha questo passaggio, secondo lei?
Un rilievo nullo, come tutte le battaglie interne alla partitocrazia. Il metodo maggioritario sarebbe stato importante prima del crollo del comunismo (1989), per sbloccare il sistema politico italiano ingessato per 45 anni dall’impossibilità del Pci di andare al governo (per ragioni di schieramento internazionale). Dopo, l’alternanza fra schieramenti è venuta automaticamente. E il Parlamento dovrebbe essere lo specchio rappresentativo del Paese, quindi eletto con metodo proporzionale, senza premi di maggioranza che distorcono la volontà popolare. Inoltre, i collegi uninominali maggioritari senza primarie sono una truffa (ricordo il primo voto del 1994, quando tutti gli schieramenti paracadutarono nei collegi amici, colleghi e famigli, nominandoli invece di eleggerli).
La governabilità (garantita automaticamente dal maggioritario che regala la maggioranza a uno schieramento), dev’essere invece assicurata dai politici con trattative per allearsi, dopo voti col metodo proporzionale. E’ il loro mestiere, il compromesso è l’essenza della politica. Infatti i grillini non vogliono allearsi con nessuno, perché sono antipolitici e antidemocratici, intimamente autoritari.
Mi ha colpito leggere che Montanelli disse di Pannella la stessa cosa che una volta disse di (e a) Guareschi: “Non ti spacco la testa solo perché temo di non trovarci nulla”. Mero artificio retorico-giornalistico o c’è qualcosa di più?
Straordinaria frase di Montanelli, che amava-odiava entrambi.
In questo libro il titolo è solo Pannella, ma dalla versione precedente ha mutuato la frase “Una biografia di Pannella non può prescindere dalla Bonino”. Sono davvero figure inscindibili, a dispetto di quanto sarebbe avvenuto negli ultimi due anni?
Sì, perché Bonino rappresenta la parte razionale di Pannella. È falsa la rappresentazione che danno alcuni radicali della divisione, al loro interno, fra ‘radicali-nonviolenti’ (Pannella e quelli che facevano gli scioperi della fame) e ‘radicali-democratici’ (Bonino, Teodori, Melega e tutti quelli alieni da certi metodi da fachiri indiani). In realtà anche Pannella è stato un grande radical-democratico, attentissimo alla “forma” della democrazia, alle procedure interne al partito radicale ed esterne (quelle del sistema politico italiano). Ricordo certi congressi radicali in cui Pannella spaccava il capello in quattro su questioni formali, senza mai scadere nel formalismo. Perché, come lui stesso ripeteva, in politica la forma è sostanza. La Bonino senza Pannella sarebbe una efficiente e banale socialdemocratica. Pannella senza la concretezza della Bonino (e prima di lei di Ernesto Rossi) sarebbe stato un eccentrico santone.
Venendo al partito radicale, nella sua seconda – e più famosa – vita era stato pensato come “uno strumento agile per condurre battaglie su singoli temi”. Cos’è diventato in seguito, cos’è ora e come ha fatto, secondo lei, a diventare così?
Il partito radicale resta quello dello statuto del 1967: partito libertario, senza probiviri, espulsioni, disciplina interna. Ci si iscrive per un anno, e ogni anno il congresso stabilisce una o più priorità. Chi le condivide ci lavora, chi non le condivide non si iscrive, se ne va per un anno, oppure resta preparando una battaglia interna per prevalere al congresso successivo.
Separazione fra eletti e cariche interne. Autofinanziamento.
Dopo la scissione del 1988 fra partito radicale transnazionale transpartito (praticamente una ong) e le varie incarnazioni per la politica interna (lista Pannella, nel 1999-2000 lista Bonino, dal 2001 Radicali italiani, nel 2006 Rosa nel pugno, liste Agl – Amnistia giustizia libertà), il Pr è diventato qualcosa di ideologico (i vaneggiamenti sulla “stella gialla” di un regime simile a quello antiebraico, quello della “peste italiana”). Più laica e potabile la declinazione italiana dei radicali, che però dal 2014 ha messo in minoranza Pannella, causando il dissidio con Bonino.
Come motto del Partito radicale si può scegliere “o ci scegli o ci sciogli”, lanciato da Pannella oltre 50 anni fa (prima ancora della “rifondazione” del Pr) o è meglio scegliere qualcos’altro?
“Se i radicali si sciolgono, da stronzi diventano cacarella”, commentò perfidamente Mastella quando Pannella, come al solito drammatizzando, lanciò il colpevolizzante slogan nel 1986. Lo slogan perfetto per i radicali è “Libertà”. Libertà nei diritti civili (libertari), in economia (liberisti), in politica (liberali), e pure a letto (libertini). Ma agli italiani invece piace arruolarsi in qualche fazione (patrizi/plebei, guelfi/ghibellini, comunisti/fascisti/democristiani, e poi berlusconiani, renziani, grillini) al servizio del buffone di turno (Mussolini, Fanfani, Craxi, Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini).
Nel 1982 Salvatore Sechi scrisse “Il pannellismo ha sepolto il radicalismo”: secondo lei era così e ha continuato a essere così?
Solo in parte. Infatti, nonostante la personalità straordinaria, magnetica e debordante di Pannella (che trattava i suoi con la delicatezza del satrapo mesopotamico), in questi decenni il Pr ha continuato a essere una delle migliori scuole politiche italiane, producendo personalità del livello di Rutelli, Capezzone, Della Vedova, Cappato, Staderini.
Leggendo il suo libro, si ha l’impressione di un partito che ha fatto molto, ma ha capitalizzato poco. È così?
Sì. Se tutti quelli che hanno votato radicale almeno una volta nella vita lo rivoltassero tutti assieme, probabilmente il Pr arriverebbe alla maggioranza relativa. Per decenni i radicali hanno svolto la funzione dei grillini: l’ultima spiaggia prima dello schifo per la politica, e dell’astensione. Ma penso che i radicali ci saranno anche dopo che i grillini saranno spariti, come è già capitato ai sessantottini di Manifesto, Pdup e Dp, ai verdi, alla Rete, ai dipietristi, ai girotondini e a tutti i movimenti di opposizione scomparsi in questi decenni.
La storia di Pannella e dell’area radicale è anche una storia e una carrellata di simboli. Quali sono stati, secondo lei, i più efficaci e i più travagliati? E come illustrerebbe il concetto di “biodegradabilità” dei simboli di cui spesso nella storia radicale si è parlato?
La biodegradabilità è una sciocchezza, perché i simboli devono durare per essere riconoscibili. In questo senso, il simbolo storico dei radicali è la Rosa nel pugno, usata dal 1976 al 1988, e poi nel 2006. Prima c’era la Marianna col berretto frigio della rivoluzione francese, oggi recuperata dall’omonimo movimento del redivivo Giovanni Negri. Le altre invenzioni (liste Pannella, Bonino, Agl) non hanno avuto successo. Il simbolo del partito radicale transnazionale (Gandhi in bianco e nero) non può essere usato in competizioni elettorali, perché perderebbe la sua caratteristica super partes e lo status di accreditamento all’Onu (Ecosoc). Pannella, poi, aveva comprato nel 1977 il marchio del Sole che ride, donandolo agli Amici della Terra, e poi lo regalò ai verdi nel 1985.
Se Pannella, di fatto, è stato il collante che ha mantenuto insieme un gruppo a dispetto della vistosa frattura interna, dopo la sua morte è inevitabile domandarsi: che fine farà il partito e l’area radicale?
Continueranno. Perché i radicali sono gli anarchici della politica, e in una forma o nell’altra rappresentano un’esigenza eterna: quella della libertà, contro i tentacoli dello stato, del conformismo, della disciplina, delle gerarchie, del politicamente corretto.