Sprechi d'Italia. Quanto ci costano le vetture di politici e dirigenti
Dieci miliardi di euro l'anno per mantenere il parco macchine di Stato più oneroso del mondo. Tutti i governi promettono di darci un taglio. Ma i privilegi restano. E noi paghiamo
Oggi, 18 luglio 2007
di Mauro Suttora
Roma, Villa Borghese, nove del mattino. In piazzale del Fiocco c' è un viavai continuo di auto blu. In teoria nel parco pubblico dovrebbero passare solo polizia, pompieri, ambulanze, bus e taxi. In pratica, per evitare gli ingorghi, la Casta di politici e dirigenti ministeriali che abitano ai Parioli trovano comodo raggiungere i propri uffici in centro grazie a questa furba scorciatoia.
Quante sono le auto blu (e grigio metallizzate, colore oggi più di moda) in Italia? Esattamente 574.215, ha calcolato due mesi fa l'associazione Contribuenti.it. Cifra tanto minuziosa quanto esagerata, perché ci sono finiti dentro tutti i veicoli di proprietà pubblica. Compresi per esempio i mezzi militari, le auto delle forze dell' ordine o tutte le ambulanze. "Trecentomila", ha sparato il settimanale L'Espresso l'anno scorso, ma includendo anche i veicoli di regioni ed enti locali. Altrimenti, "150-170 mila per le sole auto di ministeri ed enti pubblici non territoriali". La verità è che nessuno sa quante siano.
L'unico dato su cui tutti concordano: sono troppe. "Le auto di rappresentanza non possono essere uno status symbol, ma una risposta a reali necessità", aveva tuonato il premier Romano Prodi nel suo discorso d'insediamento, un anno fa. E si era impegnato a dimezzare le scorte per i politici. Anche perché i confronti con l' estero sono umilianti (vedi la tabella nella pagina precedente). Infatti l'articolo 11 del decreto legge sulla riduzione dei costi politico amministrativi che sta preparando il governo (sull'onda dell'indignazione popolare) prevede appunto una drastica riduzione delle macchine a disposizione dei rappresentanti del popolo. Ma è facile che nei successivi passaggi in Parlamento le buone intenzioni finiscano per rimanere tali.
Siamo troppo pessimisti ? No, citiamo la storia che in questo caso sempre si ripete. Prima di Prodi, in tanti avevano promesso di darci un taglio: "Per ordine del presidente Benito Mussolini tredici vetture su sedici dovranno dismettersi entro domani sera", intimava la lettera ricevuta il 7 marzo 1923 dal ministero degli Interni. Ne rimanevano solo una per il capo della polizia De Bono e due per i sottosegretari Giacomo Acerbo e Aldo Finzi. Il ministro era Mussolini stesso, che però utilizzava l' auto da presidente del Consiglio.
Il governo Andreotti stabilì, nel 1991, che avessero diritto all' auto di Stato solo ministri, sottosegretari e qualche direttore generale. Nulla di fatto. Umberto Bossi tornò alla carica nel ' 93, e dopo di lui il primo governo Prodi quattro anni dopo. Niente. Silvio Berlusconi nel 2001 incaricò il consulente Luigi Cappugi di risolvere infine la questione. L'economista calcolò che ogni auto blu costa al contribuente 70 mila euro l'anno, inclusi autista, benzina e manutenzione. Totale: dieci miliardi e mezzo di euro, una cifra folle. Soluzione draconiana, quindi: togliere l' auto blu a quasi tutti i politici e dirigenti, sostituendole con taxi. Risparmio: sette otto miliardi, tutto il "tesoretto" di cui si parla in questi giorni. Ma ancora una volta la burocrazia ha avuto la meglio.
Ci ha riprovato il deputato di Forza Italia Guido Crosetto nel 2004, facendo approvare nella Finanziaria un taglio del dieci per cento annuo sulla flotta delle auto blu in ogni ministero, per tre anni fino al 2007. "E per evitare trucchi", dice a Oggi, "avevo fatto includere anche quelle in leasing e a noleggio. Conosco i miei polli...".
Il problema è che lo Stato stesso non conosce la consistenza della propria flotta di auto blu. Solo un anno fa, infatti, è arrivata la prima relazione con i numeri che ogni ministero ha svogliatamente contabilizzato (vedi la tabella in alto a destra). Per confondere le acque, però, sono state inserite negli elenchi migliaia di auto che non c' entrano nulla: tutte le 8.489 della Guardia di Finanza, per esempio, senza differenziare fra vetture di rappresentanza per i generali e quelle operative. Più onestamente, il ministero della Difesa ha specificato in 304 le auto blu per gli alti gradi dei Carabinieri. Il ministero degli Interni ha addirittura barato in toto, denunciando 20.444 mezzi della Polizia, 2.523 per i Vigili del fuoco, e nessuna auto blu. Non compare quindi nella nostra tabella.
Il ministero più "sprecone" è quello della Giustizia, con ben 712 auto in "uso esclusivo", cioè assegnate personalmente con autista, a ministro, sottosegretari e magistrati, più altre 1.186 blindate per magistrati in uso non esclusivo (a turno, o temporaneamente). Ma davvero sono così tanti i magistrati nel mirino ? Sia chiaro, nessuno vuole far correre rischi a chi combatte la mafia o i terroristi, ma sarebbe interessante conoscere quante auto blu blindate ci sono nelle regioni a rischio, e quante invece a Roma. Il dato, però, è top secret.
Il ministero più generoso nel concedere le vetture in uso esclusivo (il massimo dello status) è quello di Infrastrutture e Trasporti: ben 69. Un capitolo a parte merita il ministero dell' Istruzione, che fino a un anno fa inglobava anche Università e Ricerca. Ebbene, la sola università di Pisa risulta avere 124 vetture: come quella di Firenze, e più del doppio dell' università La Sapienza di Roma, che però è assai più grande. Di ben 40 auto dispone l' università della Tuscia di Viterbo, nata solo nel ' 69. Perché mai rettori, presidi e professori universitari devono andare in giro con l' autista, visti anche i miseri stipendi dei loro colleghi nelle altre scuole di ogni ordine e grado ?
Nell' elenco, oltre ai ministeri, abbiamo inserito anche tre enti presenti nella relazione al parlamento: Consiglio di Stato e Tar, i tribunali amministrativi regionali, Monopoli e Corte dei conti. Particolarmente imbarazzante la situazione di quest' ultima: su 51 auto blu in dotazione, ben 41 sono in uso esclusivo. È una percentuale più alta di qualsiasi ministero. Spetta proprio alla Corte dei conti vigilare sugli sprechi di denaro pubblico, ma forse la Corte i controlli dovrebbe cominciare a farli su se stessa... "Quel che più allarma, in tutto questo spreco", ci dice Franca Rame, senatrice dell' Italia dei Valori, "è l' aumento degli ultimi anni".
La presidenza del Consiglio nel 2005 ha speso per 115 auto blu 2,1 milioni di euro: più del doppio rispetto a quattro anni prima. La Camera dei deputati, oltre alle 37 auto blu per presidente, vicepresidenti e tutti i presidenti di commissione, l' anno scorso ha pagato per il noleggio di auto con autista il 357 per cento in più del 2001 (da 28 a 140 mila euro). Quanto al Senato, negli ultimi cinque anni la spesa per il noleggio di veicoli si è impennata del 36 per cento, ben oltre l' inflazione (da 309 a 460 mila), mentre, in parallelo, il costo della "gestione autoparco" (da 116 a 220 mila euro) veniva quasi raddoppiato e contemporaneamente aumentavano del 122 per cento gli "acquisti di autoveicoli" (da 41 a 100 mila).
Ma lo scandalo non riguarda solo Roma. Tutte le Regioni, sia di destra sia di sinistra, fanno a gara nel regalare auto ai propri assessori. La Campania spende ogni anno più di due milioni di euro per le sue 80 vetture, provvedendo anche ai Telepass. La Lombardia nel 2005 ha sborsato 1,2 milioni di euro, otto volte di più che nel 2000. Il Friuli ha rinnovato una flotta auto "vecchie" di appena due anni con dodici Lancia Thesis e Alfa 166 superaccessoriate (dieci altoparlanti hi fi, interni in pelle).
In Lazio ben 76 auto blu sono destinate a giunta, presidenti di commissione e a qualche dirigente: più di quelle di Camera e Senato messe insieme. Nei primi cinque mesi della giunta di Piero Marrazzo sono stati spesi 37 mila euro solo in benzina, 20 mila in manutenzione ordinaria e 3 mila in lavaggi. Assicurazioni e bolli costano alla regione Lazio quasi 100 mila euro annui. In Veneto gli assessori hanno in uso auto persino di cilindrata 3.000!
Casi limite si verificano dappertutto: da Palermo, dove in auto gratis vanno tutti i presidenti dei consigli di quartiere, all'apice del potere a Roma, dove il diritto viene mantenuto a vita da tutti gli ex giudici costituzionali. Il comune di Napoli ha un parco veicoli per sindaco, assessori e dirigenti di 120 vetture. Esiste perfino un'associazione, il Siar (Sindacato italiano autisti rappresentanza), con duemila soci e un segretario nazionale, Andrea Vignotto, che due mesi fa ha fatto chiedere da deputati di An l'istituzione di un albo nazionale degli chauffeur.
Si può almeno invertire la tendenza all'aumento continuo di auto blu ? I provvedimenti per ridurle si sono risolti finora in grida manzoniane. Tutti i ministeri hanno chiesto "esenzioni" alla diminuzione del 10 per cento prevista nel 2004. Ora il governo torna alla carica con il disegno di legge contro gli sprechi presentato dal ministro Giulio Santagata. "Ma non sono ottimista", confessa Franca Rame. Anche perché il governo non può imporre nulla agli altri organi dello Stato: parlamento, regioni, Corte costituzionale, il Quirinale (una grande istituzione, certo, ma in fondo con 27 auto per una persona sola: il presidente della Repubblica).
Eppure, basterebbe una legge con cinque sole parole: "Da domani tutti in taxi". E, visti i 1.600 miliardi di debito pubblico dell'Italia, per risparmiare qualcuno potrebbe pure prendere l' autobus, come fanno certi ministri a Stoccolma e Copenaghen. Con 15 mila auto blu in meno, il traffico di Roma scorrerebbe meglio. In fondo, perfino il sindaco miliardario di New York Michael Bloomberg va a lavorare in metro.
Mauro Suttora
Wednesday, July 18, 2007
Wednesday, July 04, 2007
Gli orfani di Bagdad
Trattavano i bambini come se fossero bestie
Lo scandalo dell' orfanotrofio lager di Baghdad
Durante un controllo i soldati americani hanno scoperto l' orrore: in un istituto, 24 orfani erano legati e abbandonati nudi per terra. Stavano morendo di fame. Mentre i carcerieri gozzovigliavano nella stanza accanto
di Mauro Suttora
Oggi, 4 luglio 2007
Baghdad
Incredibile: invece di dimettersi o punire immediatamente tutti i colpevoli, il ministro del Lavoro e degli Affari sociali iracheno, lo sceicco sciita Mahmoud Radi, ha accusato le forze americane di avere "fabbricato ed esagerato" le informazioni riguardo alla scoperta di ventiquattro bambini scheletrici distesi in terra o incatenati ai letti in un orfanotrofio di Baghdad. Le forze degli Stati Uniti, in Iraq da più di quattro anni nel disperato tentativo di pacificare il Paese dopo averlo liberato dalla dittatura di Saddam Hussein, nel rendere nota la scoperta fatta il 10 giugno scorso non avevano certo potuto nascondere la realtà: nell' orfanotrofio al Hanan c' erano bambini tra i tre e i quindici anni emaciati, nudi, coperti dai loro stessi escrementi e da mosche. Nello stesso edificio, in magazzino, c' erano abbondanti scorte di cibo e vestiti, mentre i guardiani, alcuni dei quali sono stati poi arrestati per ordine del premier Nuri al Maliki, si trovavano in cucina e si preparavano un lauto pranzo.
Che cosa imputa adesso il ministro Radi agli americani? "L' irruzione dei soldati statunitensi è avvenuta in piena notte, ma mi chiedo quali fossero i motivi umanitari per compiere un simile raid alle due del mattino", ha dichiarato l' uomo politico. Secondo Radi, i bambini erano nudi a causa della mancanza di energia elettrica per alimentare i condizionatori d' aria. Alcuni di loro erano legati al letto, ha aggiunto, perché sono disabili e incapaci di distinguere il cibo dai loro stessi escrementi. "Mi assumo ogni responsabilità per ciò che accade nel mio ministero e anche per gli atti commessi nell' orfanotrofio", ha detto il ministro, che appartiene all' Alleanza sciita di cui fa parte anche il premier Al Maliki.
Radi ha comunque affermato di avere ordinato "un' ispezione generale per investigare sull' incidente. Mi aspetto una procedura legale nei confronti di coloro che ne sono responsabili, chiunque essi siano, e i risultati saranno resi pubblici". Nel 2004 causò un enorme scandalo mondiale la scoperta che nel carcere iracheno di Abu Ghraib alcuni soldati americani molestavano i sospetti terroristi arabi detenuti, denudandoli, aizzando contro di loro i cani e sottoponendoli a sevizie fisiche e psicologiche ai limiti (o ben oltre) della tortura. Anche ora la scoperta è avvenuta per caso. Ma questa volta gli Stati Uniti non c'entrano.
La scena che si sono trovati davanti alcuni militari statunitensi e iracheni che durante una ronda notturna di pattuglia nel centro di Baghdad sono entrati in un orfanotrofio pubblico, era di vero e proprio orrore: davanti ai loro occhi bambini abbandonati a loro stessi da più di un mese, prostrati dalla mancanza di cibo e di cure, alcuni con evidenti segni di maltrattamento. Non si può neanche sostenere che si sia trattato di una ben orchestrata operazione di pubbliche relazioni da parte delle forze occupanti di Washington, come accusano alcuni iracheni, perché oltre alla catena televisiva americana Cbs anche il sito del quotidiano indipendente spagnolo El Mundo ha mostrato le immagini di quello che ai soldati è apparso subito essere un incubo, un inferno.
"Al piano terra c' erano diversi corpi stesi sul pavimento", ha raccontato il sergente Mitchell Gibson. "Pensavamo fossero tutti morti, così abbiamo lanciato una palla da basket per attirare l' attenzione e uno dei ragazzi ha alzato la testa, ha dato uno sguardo e poi è tornato a sdraiarsi per terra. A quel punto ci siamo detti "oh, sono vivi", e abbiamo controllato l' edificio". Il sergente Michael Beale descrive "bambini cui potevi letteralmente contare ogni singolo osso del corpo tanto erano magri: non avevano forze per fare alcun movimento, rimanevano totalmente inespressivi". Molti di loro hanno handicap mentali. Uno dei piccoli era "completamente coperto da mosche, non riusciva a muovere alcuna parte del corpo", ricorda Gibson. E prosegue: "Gli abbiamo tenuto la testa, l' abbiamo smossa per capire se stava bene, ma l' unica cosa che riusciva a muovere erano i bulbi oculari". Solo dopo una settimana di alimentazione adeguata quel bambino è riuscito a sedersi nel lettino con le sue sole forze. Due sorveglianti del centro sono stati arrestati. Il direttore invece è scomparso, così come due delle tre assistenti.
In Iraq, intanto, l'incubo continua. Ormai è guerra civile fra sciiti e sunniti, ogni giorno vengono uccisi soldati americani (sono 3.500 le vittime statunitensi dall'inizio della campagna), mentre le vittime civili sono più di centomila. L' aumento delle truppe statunitensi (da 130 a 150 mila unità), ordinato dal presidente George W. Bush in febbraio, non sembra aver migliorato la situazione. Ora anche il Kurdistan, la regione autonoma del Nord che finora era stata risparmiata dagli attentati, è minacciato dalle bande di terroristi sunniti e di Al Qaida. Quanto agli sciiti, controllano tutto il Sud per conto dell' Iran, e gli squadroni della morte di Moqtada al Sadr (autori della strage dei nostri soldati a Nassiriya) seminano il terrore fra la popolazione civile sunnita.
Lo scandalo dell' orfanotrofio lager di Baghdad
Durante un controllo i soldati americani hanno scoperto l' orrore: in un istituto, 24 orfani erano legati e abbandonati nudi per terra. Stavano morendo di fame. Mentre i carcerieri gozzovigliavano nella stanza accanto
di Mauro Suttora
Oggi, 4 luglio 2007
Baghdad
Incredibile: invece di dimettersi o punire immediatamente tutti i colpevoli, il ministro del Lavoro e degli Affari sociali iracheno, lo sceicco sciita Mahmoud Radi, ha accusato le forze americane di avere "fabbricato ed esagerato" le informazioni riguardo alla scoperta di ventiquattro bambini scheletrici distesi in terra o incatenati ai letti in un orfanotrofio di Baghdad. Le forze degli Stati Uniti, in Iraq da più di quattro anni nel disperato tentativo di pacificare il Paese dopo averlo liberato dalla dittatura di Saddam Hussein, nel rendere nota la scoperta fatta il 10 giugno scorso non avevano certo potuto nascondere la realtà: nell' orfanotrofio al Hanan c' erano bambini tra i tre e i quindici anni emaciati, nudi, coperti dai loro stessi escrementi e da mosche. Nello stesso edificio, in magazzino, c' erano abbondanti scorte di cibo e vestiti, mentre i guardiani, alcuni dei quali sono stati poi arrestati per ordine del premier Nuri al Maliki, si trovavano in cucina e si preparavano un lauto pranzo.
Che cosa imputa adesso il ministro Radi agli americani? "L' irruzione dei soldati statunitensi è avvenuta in piena notte, ma mi chiedo quali fossero i motivi umanitari per compiere un simile raid alle due del mattino", ha dichiarato l' uomo politico. Secondo Radi, i bambini erano nudi a causa della mancanza di energia elettrica per alimentare i condizionatori d' aria. Alcuni di loro erano legati al letto, ha aggiunto, perché sono disabili e incapaci di distinguere il cibo dai loro stessi escrementi. "Mi assumo ogni responsabilità per ciò che accade nel mio ministero e anche per gli atti commessi nell' orfanotrofio", ha detto il ministro, che appartiene all' Alleanza sciita di cui fa parte anche il premier Al Maliki.
Radi ha comunque affermato di avere ordinato "un' ispezione generale per investigare sull' incidente. Mi aspetto una procedura legale nei confronti di coloro che ne sono responsabili, chiunque essi siano, e i risultati saranno resi pubblici". Nel 2004 causò un enorme scandalo mondiale la scoperta che nel carcere iracheno di Abu Ghraib alcuni soldati americani molestavano i sospetti terroristi arabi detenuti, denudandoli, aizzando contro di loro i cani e sottoponendoli a sevizie fisiche e psicologiche ai limiti (o ben oltre) della tortura. Anche ora la scoperta è avvenuta per caso. Ma questa volta gli Stati Uniti non c'entrano.
La scena che si sono trovati davanti alcuni militari statunitensi e iracheni che durante una ronda notturna di pattuglia nel centro di Baghdad sono entrati in un orfanotrofio pubblico, era di vero e proprio orrore: davanti ai loro occhi bambini abbandonati a loro stessi da più di un mese, prostrati dalla mancanza di cibo e di cure, alcuni con evidenti segni di maltrattamento. Non si può neanche sostenere che si sia trattato di una ben orchestrata operazione di pubbliche relazioni da parte delle forze occupanti di Washington, come accusano alcuni iracheni, perché oltre alla catena televisiva americana Cbs anche il sito del quotidiano indipendente spagnolo El Mundo ha mostrato le immagini di quello che ai soldati è apparso subito essere un incubo, un inferno.
"Al piano terra c' erano diversi corpi stesi sul pavimento", ha raccontato il sergente Mitchell Gibson. "Pensavamo fossero tutti morti, così abbiamo lanciato una palla da basket per attirare l' attenzione e uno dei ragazzi ha alzato la testa, ha dato uno sguardo e poi è tornato a sdraiarsi per terra. A quel punto ci siamo detti "oh, sono vivi", e abbiamo controllato l' edificio". Il sergente Michael Beale descrive "bambini cui potevi letteralmente contare ogni singolo osso del corpo tanto erano magri: non avevano forze per fare alcun movimento, rimanevano totalmente inespressivi". Molti di loro hanno handicap mentali. Uno dei piccoli era "completamente coperto da mosche, non riusciva a muovere alcuna parte del corpo", ricorda Gibson. E prosegue: "Gli abbiamo tenuto la testa, l' abbiamo smossa per capire se stava bene, ma l' unica cosa che riusciva a muovere erano i bulbi oculari". Solo dopo una settimana di alimentazione adeguata quel bambino è riuscito a sedersi nel lettino con le sue sole forze. Due sorveglianti del centro sono stati arrestati. Il direttore invece è scomparso, così come due delle tre assistenti.
In Iraq, intanto, l'incubo continua. Ormai è guerra civile fra sciiti e sunniti, ogni giorno vengono uccisi soldati americani (sono 3.500 le vittime statunitensi dall'inizio della campagna), mentre le vittime civili sono più di centomila. L' aumento delle truppe statunitensi (da 130 a 150 mila unità), ordinato dal presidente George W. Bush in febbraio, non sembra aver migliorato la situazione. Ora anche il Kurdistan, la regione autonoma del Nord che finora era stata risparmiata dagli attentati, è minacciato dalle bande di terroristi sunniti e di Al Qaida. Quanto agli sciiti, controllano tutto il Sud per conto dell' Iran, e gli squadroni della morte di Moqtada al Sadr (autori della strage dei nostri soldati a Nassiriya) seminano il terrore fra la popolazione civile sunnita.
Sunday, July 01, 2007
intervista a Giulia Bevilacqua
Oggi, luglio 2007
Tosta come nella sua fiction. Giulia Bevilacqua, 28 anni, l’agente Anna Gori di Distretto di polizia, da sette anni serie regina delle prime serate di Canale 5, intavola subito una trattativa: per la location di questa intervista: «Abito a Monteverde, vieni qui domani?»
La Rizzoli sta a piazza Ungheria. Passa tu qui.
«Facciamo a metà strada. Trastevere?»
Ma Trastevere sarebbe a metà fra Parioli e Monteverde? Ci vediamo a piazza del Popolo, bar Canova.
«Troppo lontano. Campo de’ Fiori».
E va bene. Alle undici.
«Mezzogiorno. Alla vineria d’angolo con via dei Baullari».
Simpatica però, una che dice «vineria» invece di «wine bar». Arriva con addosso due scarpe buffe, tipo pantofolone.
E queste cosa sono?
«Nike col dito separato. Scusa se è poco».
Sei maniaca delle scarpe?
«Sì. Ho un armadio pieno».
Più di cento?
«Credo. Non oso contarle».
Ora state girando?
«Tutta l’estate. Dodici ore al giorno, dalle sette alle sette».
Qui a Roma?
«Sì, da gennaio. I 26 episodi della settima serie, che andrà in onda da settembre».
Lavorate a Ferragosto?
«Una settimana di vacanza».
Dove vai?
«Croazia».
Col tuo fidanzato?
«Sì».
Simone Corrente, attore veterano del Distretto.
«Non voglio parlare di lui».
Dai, non fare la solita attrice che fa finta di non voler parlare del fidanzato.
«Stiamo assieme da quasi due anni».
E..?
«E cosa?»
Dimmi qualcosa di più. Vi vedono in sei milioni ogni settimana. Otto, nella puntata in cui è morto Ricky Memphis. Siete la coppia più «vista» d’Italia.
«Ecchettedevodì? Stiamo bene assieme. Conviviamo».
E i tuoi che dicono?
«Hanno storto un po’ il naso. Ma solo perché è stato tutto molto veloce. I miei sono cattolici, e anche un po’ anziani. Sono l’ultima di quattro figli».
È vero che tuo padre ha progettato sette chiese?
«Sì, fa l’architetto qui a Roma. Anche mia madre e due dei miei fratelli. Pure io ho fatto tre esami d’architettura, dopo il liceo classico. Poi gli ho detto che volevo fare l’attrice, e mi hanno preso per matta».
E invece...
«Sono riuscita a entrare al Centro sperimentale. Solo dodici posti per il corso d’attore ogni anno, con 500 domande».
Dopodiché, tutto in discesa.
«Sono stata fortunata. Nel 2003 mi hanno preso nella serie tv Grandi Domani. E due anni dopo sono approdata al Distretto di Polizia 5».
E hai trovato il fidanzato.
«E dagli».
Qual è la cosa più bella che ti ha detto?
«Non l’ha detta a me, ma al produttore Valsecchi: “Grazie per aver preso Giulia, è stato il regalo più bello della mia vita”».
E la più brutta?
«Che assomiglio a mia madre».
Oddio, è così strega? O solo suocera?
«Ma no, infatti: è una donna stupenda. Le voglio un bene dell’anima, e anche lui. Lo dice solo per criticarmi».
Cosa c’è da criticare?
«Niente, appunto. Diciamo che i miei mi hanno dato un’educazione un po’ rigida, lontana mille miglia dalla cultura dell’apparire, e da un certo mondo dello spettacolo».
Per esempio?
«Non potevo scoprirmi la pancia. E truccarmi, pochissimo».
Soffrivi?
«Macché, anzi. Ero anch’io convinta che le ragazze che si truccano troppo rischiano di apparire un po’... come dire?...»
Zoccolette?
«Ecco».
Questa è la tua terza estate di lavoro a Roma.
«Sì, giriamo tutto l’anno tranne novembre e dicembre. E per la prima volta io romana ho potuto scoprire quant’è bella la città in agosto».
Prima andavi sempre via?
«Sì, i miei ci portavano con loro in viaggio. Mostre in Finlandia, Biennali a Venezia, musei, monumenti. A cinque anni mi portarono al Louvre».
Una tortura.
«No, anzi: sono grata ai miei genitori che mi hanno trasmesso un bagaglio culturale. Oggi mi serve molto».
Quanti altri anni di Distretto di polizia farai?
«Spero tanti: mi piace moltissimo, ormai siamo una grande famiglia. Ma per non fossilizzarmi in un solo ruolo ho anche fatto due film».
Cardiofitness, e poi L’ora di punta di Vincenzo Marra.
«Sì, con Fanny Ardant. Spero che vada a Venezia».
Che fai con il tuo fidanzato nel tempo libero?
«E ridagli. Alla sera siamo così stanchi che ce ne stiamo quasi sempre a casa. Usciamo poco, neanche al cinema».
Ultimo bel film visto?
«Little Miss Sunshine, in dvd. Poetico, ma anche con un suo messaggio morale».
Ultimo bel libro letto?
«Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini. Lo consiglio anche a chi non ama leggere. Ti travolge.Ho pianto sei volte, non mi era mai successo».
Il tuo sogno?
«Un film accanto a Castellitto, con Almodovar regista».
Bene, allora arrivederci a Cannes fra dieci anni.
«Facciamo cinque».
Mauro Suttora
Wednesday, June 27, 2007
Italia, paradiso degli evasori
La cifra è ufficiale: 270 miliardi di tasse non pagate ogni anno. «Un terzo della nostra economia è in nero, anche se tutti fanno finta di niente», denuncia Gian Maria Fara (Eurispes). Intanto gli autonomi contestano i nuovi «studi di settore». E la Guardia di Finanza rintraccia 21 miliardi. Ma lo Stato li incasserà mai?
di Mauro Suttora
Roma, 27 giugno 2007
Adesso è ufficiale: l’evasione fiscale in Italia ammonta all’astronomica cifra di 270 miliardi di euro annui. Quasi un terzo della nostra attività economica è in nero. E quindi chi paga le tasse è costretto a versare quasi il doppio rispetto a una situazione normale. Insomma, se tutti pagassero, l’aliquota massima dell’Irpef potrebbe scendere dal 49 per cento al sospirato 33.
La notizia non è nuova. Che gli evasori siano, assieme a mafia e disoccupazione, la principale piaga d’Italia, è arcinoto. Lo sappiamo tutti, da anni. Il 77 per cento degli italiani ammette, in un sondaggio della Banca d’Italia, che le dichiarazioni fiscali sono false. Ma questa volta non è un istituto di ricerca a stimare le tasse evase: lo fa l’Agenzia delle Entrate, cioè proprio l’ente che, dal suo grattacielo romano dell’Eur, dovrebbe far quadrare i conti pubblici.
«L’aspetto più incredibile è che questa rivelazione non ha avuto alcun seguito», denuncia il professore Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, «perché la principale preoccupazione dei politici - sia di destra sia di sinistra, a seconda di chi è al governo - è quella di descrivere l’Italia o come un paradiso, o come un Paese nel quale tutti i problemi sono sul binario giusto per la loro soluzione».
L’Italia un paradiso? Sì, ma fiscale. Senza bisogno di fuggire a Montecarlo o alle isole Cayman e Bahamas. «La nostra economia sommersa, cioè esentasse, equivale a quella di quattro nazioni medio-grandi messe assieme: Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria», ricorda Fara.
Ora, a proposito dell’extragettito, si parla tanto di «tesoretto», dando l’impressione che le cose siano cambiate. Non è così: anche quest’anno lo Stato italiano sta spendendo più di quello che incassa. Il deficit annuo è calato dal quattro al due per cento, ma è una magra consolazione, visto che va ad aggravare un debito totale di 1.600 miliardi di euro. Sarebbe come se una famiglia indebitata per ventimila euro e che guadagna in un anno egualmente ventimila euro, ne spendesse 20.400 invece di risparmiare.
«Così i nostri governi riescono a farsi criticare contemporaneamente sia dagli evasori, sia da chi è costretto a pagare cifre insopportabili», ci spiega da Genova Victor Uckmar, decano dei fiscalisti italiani, «perché la media del 42 per cento del carico fiscale è come il pollo di Trilussa, non significa nulla. Guardiamo le tasse sui redditi, per esempio: quelli da capitale, cioè azioni, bot e quant’altro, pagano solo il dodici per cento, contro il 35 di quelli da impresa (cioè da attività industriale o commerciale) e addirittura il 49 di quelli da lavoro dipendente e autonomo. E tutto questo per finanziare gli sperperi della “casta” dei politici, in barba al principio della “giusta imposta per giusta spesa”».
Che fare, allora? La lotta all’evasione promessa un anno fa dal governo Prodi sembra procedere bene, visto che anche nei primi mesi del 2007 le entrate sono aumentate del sei per cento. Poi c’è la revisione dei cosiddetti «studi di settore», con cui lo Stato determina da una decina d’anni il reddito presunto di quattro milioni e mezzo di lavoratori autonomi. Dati certi parametri (tipo di attività, città, metratura), chi dichiara la cifra ritenuta «congrua» evita i controlli. Ma la rivalutazione di questa cifra per un totale di tre miliardi di maggiori entrate sta provocando la rivolta delle categorie interessate: «Ciascuno di noi dovrà pagare dai 1.500 ai tremila euro in più all’anno», calcola Giuseppe Bortolussi, segretario degli Artigiani di Mestre.
«Siamo intervenuti soprattutto sui costi detraibili, sulle giacenze in magazzino, sui valori aggiunti per addetto», rispondono al ministero dell’Economia, dove alle Finanze opera il viceministro Vincenzo Visco. Qualche esempio: i corniciai «congrui» denunciano una durata scorte di 632 giorni, quelli non congrui 7.597 (in pratica, questi ultimi terrebbero nel retrobottega cornici per venti anni e più). Oppure ristoranti e bar: il valore aggiunto per addetto (fatturato meno costi diviso per il numero di dipendenti) è 16,3 secondo il nuovo studio di settore, ma comunque la metà rispetto agli indici Istat del 29,8. Per gli alberghi: il ministero «presume» un rendimento per addetto del 15, contro l’Istat al 42.
Insomma, fra congrui e non congrui c’è una bella differenza, e lì sta intervenendo il ministero (vedi tabella sotto). I farmacisti in regola, per esempio, dichiarano 150 mila euro annui, mentre il 20 per cento di non congrui sono a 83 mila. I corniciai sono a 24 mila, ma c’è un 75 per cento che dichiara appena 6.700. Baristi e gelatai: 26 mila euro per quelli in regola, ma il 70 per cento dichiara 11 mila. Agenti immobiliari: i congrui sono a 37 mila, gli altri (52 per cento) a 9 mila.
Ma quanto sono importanti gli studi di settore per stanare gli evasori?
Per capirlo andiamo al Comando generale della Guardia di Finanza a Roma, dove il colonnello Umberto Sirico, capufficio della Tutela finanza pubblica, ci spiega: «Gli studi di settore sono solo uno dei vari strumenti per individuare situazioni patologiche. L’anno scorso la Guardia di Finanza ha accertato evasioni Iva per quattro miliardi di euro, la cifra maggiore degli ultimi dieci anni, e redditi non dichiarati per oltre 17 miliardi. Quest’anno stiamo aumentando gli interventi del 24 per cento rispetto al 2006. E i reparti speciali istituiti di recente a Roma, come quelli sulle entrate e sulla spesa pubblica, forniscono ai reparti territoriali tutte le indicazioni investigative e d’intelligence per agire con precisione chirurgica. Insomma, grazie agli incroci di dati ormai siamo in grado di intervenire quasi a colpo sicuro».
Esempi?
«Le ristrutturazioni edilizie: confrontando le richieste di detrazione del 36 per cento nelle dichiarazioni dei redditi con le fatture emesse, la Guardia di Finanza è in grado di individuare le imprese edili che evadono. E così gli agenti e rappresentanti di commercio che versano contributi Enasarco non combacianti con la realtà, le ditte di autotrasporto quando non dichiarano lavoratori che effettuano consegne per conto terzi, o le frodi sull’Iva comunitaria negli scambi con operatori di San Marino. È importante sfruttare l’effetto deterrenza: nei settori presi di mira l’evasione cala drasticamente».
Insomma, il «conflitto d’interessi», che è un problema in politica, nella lotta agli evasori è invece un ottimo metodo. Infatti, se i clienti possono scaricare le ricevute, smettono di essere complici dei fornitori nell’evadere l’Iva. Per fare «emergere il nero» pochi giorni fa Francesco Rutelli ha proposto di rendere detraibili anche gli affitti.
Quel che le Fiamme Gialle non possono dire, però, è che spesso gran parte del loro lavoro si perde negli arzigogoli della giustizia: fra condoni e ricorsi, il denaro recuperato alla fine è poco. Ma in questo campo decidono i politici. Che sono eletti da tutti noi. Evasori compresi...
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Roma, 27 giugno 2007
Adesso è ufficiale: l’evasione fiscale in Italia ammonta all’astronomica cifra di 270 miliardi di euro annui. Quasi un terzo della nostra attività economica è in nero. E quindi chi paga le tasse è costretto a versare quasi il doppio rispetto a una situazione normale. Insomma, se tutti pagassero, l’aliquota massima dell’Irpef potrebbe scendere dal 49 per cento al sospirato 33.
La notizia non è nuova. Che gli evasori siano, assieme a mafia e disoccupazione, la principale piaga d’Italia, è arcinoto. Lo sappiamo tutti, da anni. Il 77 per cento degli italiani ammette, in un sondaggio della Banca d’Italia, che le dichiarazioni fiscali sono false. Ma questa volta non è un istituto di ricerca a stimare le tasse evase: lo fa l’Agenzia delle Entrate, cioè proprio l’ente che, dal suo grattacielo romano dell’Eur, dovrebbe far quadrare i conti pubblici.
«L’aspetto più incredibile è che questa rivelazione non ha avuto alcun seguito», denuncia il professore Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, «perché la principale preoccupazione dei politici - sia di destra sia di sinistra, a seconda di chi è al governo - è quella di descrivere l’Italia o come un paradiso, o come un Paese nel quale tutti i problemi sono sul binario giusto per la loro soluzione».
L’Italia un paradiso? Sì, ma fiscale. Senza bisogno di fuggire a Montecarlo o alle isole Cayman e Bahamas. «La nostra economia sommersa, cioè esentasse, equivale a quella di quattro nazioni medio-grandi messe assieme: Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria», ricorda Fara.
Ora, a proposito dell’extragettito, si parla tanto di «tesoretto», dando l’impressione che le cose siano cambiate. Non è così: anche quest’anno lo Stato italiano sta spendendo più di quello che incassa. Il deficit annuo è calato dal quattro al due per cento, ma è una magra consolazione, visto che va ad aggravare un debito totale di 1.600 miliardi di euro. Sarebbe come se una famiglia indebitata per ventimila euro e che guadagna in un anno egualmente ventimila euro, ne spendesse 20.400 invece di risparmiare.
«Così i nostri governi riescono a farsi criticare contemporaneamente sia dagli evasori, sia da chi è costretto a pagare cifre insopportabili», ci spiega da Genova Victor Uckmar, decano dei fiscalisti italiani, «perché la media del 42 per cento del carico fiscale è come il pollo di Trilussa, non significa nulla. Guardiamo le tasse sui redditi, per esempio: quelli da capitale, cioè azioni, bot e quant’altro, pagano solo il dodici per cento, contro il 35 di quelli da impresa (cioè da attività industriale o commerciale) e addirittura il 49 di quelli da lavoro dipendente e autonomo. E tutto questo per finanziare gli sperperi della “casta” dei politici, in barba al principio della “giusta imposta per giusta spesa”».
Che fare, allora? La lotta all’evasione promessa un anno fa dal governo Prodi sembra procedere bene, visto che anche nei primi mesi del 2007 le entrate sono aumentate del sei per cento. Poi c’è la revisione dei cosiddetti «studi di settore», con cui lo Stato determina da una decina d’anni il reddito presunto di quattro milioni e mezzo di lavoratori autonomi. Dati certi parametri (tipo di attività, città, metratura), chi dichiara la cifra ritenuta «congrua» evita i controlli. Ma la rivalutazione di questa cifra per un totale di tre miliardi di maggiori entrate sta provocando la rivolta delle categorie interessate: «Ciascuno di noi dovrà pagare dai 1.500 ai tremila euro in più all’anno», calcola Giuseppe Bortolussi, segretario degli Artigiani di Mestre.
«Siamo intervenuti soprattutto sui costi detraibili, sulle giacenze in magazzino, sui valori aggiunti per addetto», rispondono al ministero dell’Economia, dove alle Finanze opera il viceministro Vincenzo Visco. Qualche esempio: i corniciai «congrui» denunciano una durata scorte di 632 giorni, quelli non congrui 7.597 (in pratica, questi ultimi terrebbero nel retrobottega cornici per venti anni e più). Oppure ristoranti e bar: il valore aggiunto per addetto (fatturato meno costi diviso per il numero di dipendenti) è 16,3 secondo il nuovo studio di settore, ma comunque la metà rispetto agli indici Istat del 29,8. Per gli alberghi: il ministero «presume» un rendimento per addetto del 15, contro l’Istat al 42.
Insomma, fra congrui e non congrui c’è una bella differenza, e lì sta intervenendo il ministero (vedi tabella sotto). I farmacisti in regola, per esempio, dichiarano 150 mila euro annui, mentre il 20 per cento di non congrui sono a 83 mila. I corniciai sono a 24 mila, ma c’è un 75 per cento che dichiara appena 6.700. Baristi e gelatai: 26 mila euro per quelli in regola, ma il 70 per cento dichiara 11 mila. Agenti immobiliari: i congrui sono a 37 mila, gli altri (52 per cento) a 9 mila.
Ma quanto sono importanti gli studi di settore per stanare gli evasori?
Per capirlo andiamo al Comando generale della Guardia di Finanza a Roma, dove il colonnello Umberto Sirico, capufficio della Tutela finanza pubblica, ci spiega: «Gli studi di settore sono solo uno dei vari strumenti per individuare situazioni patologiche. L’anno scorso la Guardia di Finanza ha accertato evasioni Iva per quattro miliardi di euro, la cifra maggiore degli ultimi dieci anni, e redditi non dichiarati per oltre 17 miliardi. Quest’anno stiamo aumentando gli interventi del 24 per cento rispetto al 2006. E i reparti speciali istituiti di recente a Roma, come quelli sulle entrate e sulla spesa pubblica, forniscono ai reparti territoriali tutte le indicazioni investigative e d’intelligence per agire con precisione chirurgica. Insomma, grazie agli incroci di dati ormai siamo in grado di intervenire quasi a colpo sicuro».
Esempi?
«Le ristrutturazioni edilizie: confrontando le richieste di detrazione del 36 per cento nelle dichiarazioni dei redditi con le fatture emesse, la Guardia di Finanza è in grado di individuare le imprese edili che evadono. E così gli agenti e rappresentanti di commercio che versano contributi Enasarco non combacianti con la realtà, le ditte di autotrasporto quando non dichiarano lavoratori che effettuano consegne per conto terzi, o le frodi sull’Iva comunitaria negli scambi con operatori di San Marino. È importante sfruttare l’effetto deterrenza: nei settori presi di mira l’evasione cala drasticamente».
Insomma, il «conflitto d’interessi», che è un problema in politica, nella lotta agli evasori è invece un ottimo metodo. Infatti, se i clienti possono scaricare le ricevute, smettono di essere complici dei fornitori nell’evadere l’Iva. Per fare «emergere il nero» pochi giorni fa Francesco Rutelli ha proposto di rendere detraibili anche gli affitti.
Quel che le Fiamme Gialle non possono dire, però, è che spesso gran parte del loro lavoro si perde negli arzigogoli della giustizia: fra condoni e ricorsi, il denaro recuperato alla fine è poco. Ma in questo campo decidono i politici. Che sono eletti da tutti noi. Evasori compresi...
Mauro Suttora
Belpietro, secondino a Peschiera
IL DIRETTORE DE "IL GIORNALE" RACCONTA LA PROPRIA NAIA. E QUELLA VOLTA CHE PANNELLA...
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
L'ultimo carcere militare d'Italia
QUESTA PRIGIONE E' QUASI UN HOTEL DI LUSSO
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Friday, June 22, 2007
Intervista a Sabina Rossa
Parla la figlia del sindacalista-operaio ucciso dalle Br nel 1979
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Monday, June 18, 2007
Grand Hotel Montecitorio
«Dai telepass gratis alla sauna, dai tabacchi alla banca, qua dentro ci danno tutto», dice l’onorevole Donatella Poretti. Che racconta di auto blu a vita e tagli di capelli a prezzi stracciati. E propone: «Riduciamo i seggi da 630 a 100, come all’estero»
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Monday, June 11, 2007
American Academy Roma
LA LITTLE AMERICA E’ SEMPRE PIU’ GRANDE, AMA E STUDIA L’ITALIA, E ORA APRE LA PORTA DI SAN PANCRAZIO
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Monday, May 28, 2007
L'Unità: costi della politica
l'Unita', lunedi' 28 maggio 2007
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
Friday, May 25, 2007
Christie's: asta Savoia
Maria Gabriella di Savoia mette all'asta i gioielli di famiglia
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Wednesday, May 23, 2007
Il nuovo sacco di Roma
Il centro della capitale soffocato dalle sedi dei politici
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Thursday, May 10, 2007
intervista a Dario Fo
Il premio Nobel per il Coraggio Laico
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Family Day: parla Pezzotta
Oggi, 10 maggio 2007
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Wednesday, May 09, 2007
Le stelle del Piper
La rivoluzione pop degli Anni 60 in un film dei Vanzina su Canale 5
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
Friday, April 27, 2007
Foto Berlusconi
COMMENTI DI POLITICI
Oggi, 24 aprile 2007
Daniele Capezzone, deputato radicale:
«Immagino che queste foto procureranno a Berlusconi ulteriori fastidi familiari. Ma alla lunga si riveleranno un successo mediatico, come l’immagine della bandana. L’idea che un signore settantenne si intrattenga con cinque belle ragazze, infatti, piacerà sia ai suoi coetanei, che ai giovani. I quali lo apprezzeranno, o lo invidieranno, checchè ne dicano certi salotti benpensanti».
Nando dalla Chiesa, sottosegretario all’Università e Ricerca (Margherita):
«Queste foto sono di una comicità involontaria ma irresistibile. Ho scritto libri e portato a teatro le gesta di Berlusconi, “eroe di un'Italia vera ma apparentemente inverosimile”. Ma è lui stesso un’inesauribile miniera di gag, che lasciano sempre un passo indietro anche il comico più irriverente e fantasioso. Insomma, la realtà supera la fantasia. Trovo sublime, poi, che una delle ragazze, la rossa mi pare, si autodefinisca “opinionista”, seppure di Buona Domenica...»
Gabriella Carlucci, deputata Forza Italia:
«Sono foto prese di sguincio fra molte altre persone. Non ci vedo niente di male, Berlusconi apre spesso le porte della sua villa a ospiti, anche semplici sostenitori del partito. La scorsa estate invitò tutti noi parlamentari, avrei potuto esserci anch’io in quelle immagini. Per par condicio, però, avrei pubblicato anche le foto di Sircana. Oppure né Sircana, né Berlusconi».
Elisabetta Casellati, vicepresidente senatori FI:
«Si è verificata una forte lesione della privacy. Queste incursioni nella vita privata delle persone sono inaccettabili, anche per personalità pubbliche. Pubblicare immagini di questo tipo, estrapolandole dal contesto in cui sono avvenute, è come entrare a gamba tesa nella vita di una persona. Equivale a isolare una parola o una frase da un libro, per poi ricamarci sopra».
Silvana Mura, dep. Italia Valori:
«Nei panni della signora Lario non sarei assolutamente contenta, quindi le sono vicina. Va detto però che Berlusconi era a casa sua, quindi mi sembra sia stata violata la sua privacy, che dovrebbe essere sacra e inviolabile per tutti i cittadini. Comunque sono foto che non mi stupiscono: fanno parte del suo personaggio, gli piace dare l’immagine di uomo che affascina le ragazze».
Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), dep. FI:
«Non mi sembrano foto così sconvenienti: lui è un personaggio pubblico, ma era nel suo giardino, non in strada. Rispettiamo quindi la sua vita privata».
Giorgia Meloni, vicepres. Camera, AN:
«Un politico dovrebbe incarnare i valori di riferimento del suo partito. Quindi diventa rilevante, interessa ai cittadini, sapere come si comporta anche nella propria vita privata chi sbandiera i valori della famiglia. Io, per esempio, ho firmato la proposta di Casini per sottoporre ad antidoping i politici: così vediamo chi sono i veri proibizionisti sulla droga.
Detto questo, si può anche passeggiare e parlare con cinque donne senza suscitare malignità. E rispetto al caso Sircana avete adottato due pesi e due misure diverse».
Marina Sereni, vicepres. deputati Ulivo (Ds):
«Chi ha scelto di fare politica sa di essere esposto più di altri a invadenze nella vita privata. L’interesse giornalistico c’è sempre, ma per fortuna non sono un giudice per decidere se queste foto violino la privacy di Berlusconi. Non tutte le curiosità del pubblico, comunque, possono o devono essere soddisfatte: la nostra vita privata non è quasi mai rilevante per gli elettori».
Oggi, 24 aprile 2007
Daniele Capezzone, deputato radicale:
«Immagino che queste foto procureranno a Berlusconi ulteriori fastidi familiari. Ma alla lunga si riveleranno un successo mediatico, come l’immagine della bandana. L’idea che un signore settantenne si intrattenga con cinque belle ragazze, infatti, piacerà sia ai suoi coetanei, che ai giovani. I quali lo apprezzeranno, o lo invidieranno, checchè ne dicano certi salotti benpensanti».
Nando dalla Chiesa, sottosegretario all’Università e Ricerca (Margherita):
«Queste foto sono di una comicità involontaria ma irresistibile. Ho scritto libri e portato a teatro le gesta di Berlusconi, “eroe di un'Italia vera ma apparentemente inverosimile”. Ma è lui stesso un’inesauribile miniera di gag, che lasciano sempre un passo indietro anche il comico più irriverente e fantasioso. Insomma, la realtà supera la fantasia. Trovo sublime, poi, che una delle ragazze, la rossa mi pare, si autodefinisca “opinionista”, seppure di Buona Domenica...»
Gabriella Carlucci, deputata Forza Italia:
«Sono foto prese di sguincio fra molte altre persone. Non ci vedo niente di male, Berlusconi apre spesso le porte della sua villa a ospiti, anche semplici sostenitori del partito. La scorsa estate invitò tutti noi parlamentari, avrei potuto esserci anch’io in quelle immagini. Per par condicio, però, avrei pubblicato anche le foto di Sircana. Oppure né Sircana, né Berlusconi».
Elisabetta Casellati, vicepresidente senatori FI:
«Si è verificata una forte lesione della privacy. Queste incursioni nella vita privata delle persone sono inaccettabili, anche per personalità pubbliche. Pubblicare immagini di questo tipo, estrapolandole dal contesto in cui sono avvenute, è come entrare a gamba tesa nella vita di una persona. Equivale a isolare una parola o una frase da un libro, per poi ricamarci sopra».
Silvana Mura, dep. Italia Valori:
«Nei panni della signora Lario non sarei assolutamente contenta, quindi le sono vicina. Va detto però che Berlusconi era a casa sua, quindi mi sembra sia stata violata la sua privacy, che dovrebbe essere sacra e inviolabile per tutti i cittadini. Comunque sono foto che non mi stupiscono: fanno parte del suo personaggio, gli piace dare l’immagine di uomo che affascina le ragazze».
Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), dep. FI:
«Non mi sembrano foto così sconvenienti: lui è un personaggio pubblico, ma era nel suo giardino, non in strada. Rispettiamo quindi la sua vita privata».
Giorgia Meloni, vicepres. Camera, AN:
«Un politico dovrebbe incarnare i valori di riferimento del suo partito. Quindi diventa rilevante, interessa ai cittadini, sapere come si comporta anche nella propria vita privata chi sbandiera i valori della famiglia. Io, per esempio, ho firmato la proposta di Casini per sottoporre ad antidoping i politici: così vediamo chi sono i veri proibizionisti sulla droga.
Detto questo, si può anche passeggiare e parlare con cinque donne senza suscitare malignità. E rispetto al caso Sircana avete adottato due pesi e due misure diverse».
Marina Sereni, vicepres. deputati Ulivo (Ds):
«Chi ha scelto di fare politica sa di essere esposto più di altri a invadenze nella vita privata. L’interesse giornalistico c’è sempre, ma per fortuna non sono un giudice per decidere se queste foto violino la privacy di Berlusconi. Non tutte le curiosità del pubblico, comunque, possono o devono essere soddisfatte: la nostra vita privata non è quasi mai rilevante per gli elettori».
Sunday, April 22, 2007
Benvenuti a radioVespa
Bruno Vespa e il figlio Federico conducono un programma di storia su Rtl
Roma, 17 aprile 2007 - Oggi
Vanno d’accordo su tutto tranne la Roma e l’Afghanistan. Vespa padre e figlio: 63 anni Bruno, 28 Federico, 35 in mezzo. Raccontano e discutono di storia italiana ogni venerdì mattina sulla radio Rtl 102.5, dalle 8 alle 9. Un anno alla settimana. Hanno cominciato con il 1979, quand’è nato Federico, ora sono al 1984. Andranno quindi avanti per parecchi mesi.
Li incontriamo a casa Vespa, un attico stupendo vicino a Trinità dei Monti, terrazza con vista fra le più belle di Roma. «L’ho presa in affitto da ottobre, prima stavamo sul Lungotevere dei Mellini», dice Bruno. Sono le nove del mattino, lui è in giacca blu e cravatta rosa, telegenico e già pronto per il suo Porta a Porta serale (che viene registrato poche ore prima dell’andata in onda).
Il figlio Federico invece comincia alle 11 il turno giornaliero di otto ore alla radio, dov’è stato assunto da poco con un contratto temporaneo. La sera prima la sua Roma ha perso sette a uno col Manchester, l’umore è quello che è. Papà Bruno sorride: «Oggi mi sento molto solidale con lui anche se, essendo nato all’Aquila, sono juventino. Gli abruzzesi tifano prevalentemente per le squadre del Nord: Roma e Lazio per noi non esistono».
Si affaccia in sala per un attimo mamma Vespa: Augusta Iannini, magistrato, direttore generale al ministero della Giustizia. Saluta, le proponiamo di unirsi per qualche foto. Declina sorridendo e scappa via. L’altro figlio Alessandro, 26 anni, è a Londra a studiare l’inglese.
«Quando mio padre mi ha chiesto se mi andava di fare un programma radio con lui, pensavo scherzasse», racconta Federico. «Più che un’idea all’inizio era un gioco», precisa Bruno. «Credevo che lui mi mandasse subito a pedalare. Invece, con mia grande sorpresa, l’ha condivisa. E per me è stato un graditissimo ritorno al primo amore, la radio, dove avevo cominciato a lavorare subito dopo avere vinto il concorso Rai del 1968».
Padre e figlio che si confrontano sulla storia contemporanea: evento unico per una radio a livello europeo, forse mondiale. All’età di Federico, Bruno Vespa era già un giornalista affermato, e pochi anni dopo si sarebbe confrontato con l’evento più difficile e doloroso della sua carriera: il delitto Moro del ’78.
«Per fortuna abbiamo cominciato questa nostra trasmissione con l’anno seguente», dice Bruno, «anche se al rapimento Moro abbiamo accennato di sfuggita. Finora l’avvenimento che ha suscitato il maggior interesse negli ascoltatori, con un numero di telefonate pari a quello per i Mondiali di Spagna, è stato l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa dell’82. C’è ancora un grande ricordo per quel generale, che ha sorpreso anche me».
Federico si è laureato in legge nel 2005: «Volevo fare l’avvocato, ho cominciato la pratica legale in uno studio. Contemporaneamente, però, continuavo con l’hobby di sempre: commentare il calcio a Radio Spazio Aperto, due ore al giorno con Ennio Abbondanza. Dopo sei mesi mi sono accorto che il lavoro di penalista non fa per me: troppi rinvii ed espedienti tecnici. In aula a pronunciare una bella arringa si arriva solo tre-quattro volte all’anno, tutto il resto è routine. Così ho insistito con la radio, e devo ringraziare sia Radio 101 che mi fece esordire con le cronache delle partite della Roma, sia Rtl dove dopo un anno e mezzo mi hanno offerto il primo contratto nella redazione di Roma. Quanto al mio cognome, tutti pensano che sia stato assunto per questo. E fanno bene a pensarlo, lo penserei anch’io se non sapessi che sono passato attraverso la gavetta per dimostrare di essere valido».
«Gli ho fatto un lavaggio del cervello durato anni per dissuaderlo dal fare il giornalista», dice papà Bruno, «perché è un mestiere complicato e con molte frustrazioni. Ma, giustamente, i consigli dei padri sono fatti per non essere seguiti...». E oggi come giudica suo figlio, professionalmente? «Possiede un buon ritmo radiofonico, da radiocronista, anche se ha il difetto di parlare troppo veloce». E nella vita? «È allo stesso tempo generoso ed egoista, caratteristiche che non sono in contraddizione: generoso con gli altri, ma a casa si mette sempre al centro delle attenzioni domestiche».
E infatti il quasi trentenne Federico, come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei italiani, nonostante l’indipendenza economica raggiunta con lo stipendio si guarda bene dal lasciare la cuccia di mamma e papà: «Se con i genitori ci si trova bene, in un ambiente caldo e protetto, perché andarsene prima di avere trovato la donna con cui iniziare un’altra famiglia?».
Il tipico mammone italiano. Vespa senior lo inviterebbe a Porta a Porta se non fosse suo figlio, in una puntata sui giovani? «Mah, gran parte dei nostri ospiti sono predeterminati, quasi obbligati. E poi anche lui, come quasi tutti i suoi coetanei, schematizza molto: ha opinioni coinvolgenti ma poco approfondite».
Per esempio? «Nella puntata della nostra trasmissione sul 1980, strage di Bologna, Federico era convinto che i terroristi condannati siano in realtà innocenti. Hai voglia a spiegargli che le sentenze, finché ci sono, vanno rispettate...». «Ma quella è solo una verità: quella giudiziaria», replica subito Vespa junior.
Un altro tema caldo è quello delle guerre in Iraq e Afghanistan. Federico Vespa è nettamente contrario: «E non perché sia di sinistra, anzi non ho neppure votato Prodi. Ma sono convinto che da Kabul sia meglio andarsene: sarebbe una soluzione pratica e dignitosa per non farsi ricattare. E anche in Libano, non c’è proprio bisogno dei nostri soldati. Non abbiamo motivo di stare in terre altrui, dando ai terroristi pretesti per attaccarci».
La lite più furibonda a casa Vespa, però, si è consumata quella mattina in cui Federico si rifiutò di alzarsi per andare al liceo: «Decisi che non ne potevo più di greco e latino, che volevo lavorare». Come finì? «Lo presi in parola, e chiesi subito al benzinaio di piazza Mazzini se aveva bisogno di un aiuto», racconta Bruno, «poi ripiegai su un idraulico che stava lavorando nel nostro palazzo». Risultato: «Quando l’idraulico mi disse che l’orario di lavoro era dalle sei del mattino alle otto di sera, tentennai», confessa Federico, «e alla fine optai per un trasferimento dal liceo classico allo scientifico. Scoprendo che matematica e chimica erano ancora peggio di greco e latino».
Ma i due Vespa la guardano Porta a Porta, a casa la sera? Bruno: «No, non mi riguardo quasi mai. E sbaglio, perché mi accorgerei dei miei errori». Federico: «Raramente. Certo non quando si parla di diete. Solo se ci fosse un bel dibattito, a livello D’Alema-Fini. Altrimenti, meglio i gialli di Carlo Lucarelli».
E i libri annuali di Vespa senior, ti servono almeno per la trasmissione? «Ammetto che di mio padre ho letto soltanto la Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. E solo perché devo prepararmi per Rtl...».
Mauro Suttora
Roma, 17 aprile 2007 - Oggi
Vanno d’accordo su tutto tranne la Roma e l’Afghanistan. Vespa padre e figlio: 63 anni Bruno, 28 Federico, 35 in mezzo. Raccontano e discutono di storia italiana ogni venerdì mattina sulla radio Rtl 102.5, dalle 8 alle 9. Un anno alla settimana. Hanno cominciato con il 1979, quand’è nato Federico, ora sono al 1984. Andranno quindi avanti per parecchi mesi.
Li incontriamo a casa Vespa, un attico stupendo vicino a Trinità dei Monti, terrazza con vista fra le più belle di Roma. «L’ho presa in affitto da ottobre, prima stavamo sul Lungotevere dei Mellini», dice Bruno. Sono le nove del mattino, lui è in giacca blu e cravatta rosa, telegenico e già pronto per il suo Porta a Porta serale (che viene registrato poche ore prima dell’andata in onda).
Il figlio Federico invece comincia alle 11 il turno giornaliero di otto ore alla radio, dov’è stato assunto da poco con un contratto temporaneo. La sera prima la sua Roma ha perso sette a uno col Manchester, l’umore è quello che è. Papà Bruno sorride: «Oggi mi sento molto solidale con lui anche se, essendo nato all’Aquila, sono juventino. Gli abruzzesi tifano prevalentemente per le squadre del Nord: Roma e Lazio per noi non esistono».
Si affaccia in sala per un attimo mamma Vespa: Augusta Iannini, magistrato, direttore generale al ministero della Giustizia. Saluta, le proponiamo di unirsi per qualche foto. Declina sorridendo e scappa via. L’altro figlio Alessandro, 26 anni, è a Londra a studiare l’inglese.
«Quando mio padre mi ha chiesto se mi andava di fare un programma radio con lui, pensavo scherzasse», racconta Federico. «Più che un’idea all’inizio era un gioco», precisa Bruno. «Credevo che lui mi mandasse subito a pedalare. Invece, con mia grande sorpresa, l’ha condivisa. E per me è stato un graditissimo ritorno al primo amore, la radio, dove avevo cominciato a lavorare subito dopo avere vinto il concorso Rai del 1968».
Padre e figlio che si confrontano sulla storia contemporanea: evento unico per una radio a livello europeo, forse mondiale. All’età di Federico, Bruno Vespa era già un giornalista affermato, e pochi anni dopo si sarebbe confrontato con l’evento più difficile e doloroso della sua carriera: il delitto Moro del ’78.
«Per fortuna abbiamo cominciato questa nostra trasmissione con l’anno seguente», dice Bruno, «anche se al rapimento Moro abbiamo accennato di sfuggita. Finora l’avvenimento che ha suscitato il maggior interesse negli ascoltatori, con un numero di telefonate pari a quello per i Mondiali di Spagna, è stato l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa dell’82. C’è ancora un grande ricordo per quel generale, che ha sorpreso anche me».
Federico si è laureato in legge nel 2005: «Volevo fare l’avvocato, ho cominciato la pratica legale in uno studio. Contemporaneamente, però, continuavo con l’hobby di sempre: commentare il calcio a Radio Spazio Aperto, due ore al giorno con Ennio Abbondanza. Dopo sei mesi mi sono accorto che il lavoro di penalista non fa per me: troppi rinvii ed espedienti tecnici. In aula a pronunciare una bella arringa si arriva solo tre-quattro volte all’anno, tutto il resto è routine. Così ho insistito con la radio, e devo ringraziare sia Radio 101 che mi fece esordire con le cronache delle partite della Roma, sia Rtl dove dopo un anno e mezzo mi hanno offerto il primo contratto nella redazione di Roma. Quanto al mio cognome, tutti pensano che sia stato assunto per questo. E fanno bene a pensarlo, lo penserei anch’io se non sapessi che sono passato attraverso la gavetta per dimostrare di essere valido».
«Gli ho fatto un lavaggio del cervello durato anni per dissuaderlo dal fare il giornalista», dice papà Bruno, «perché è un mestiere complicato e con molte frustrazioni. Ma, giustamente, i consigli dei padri sono fatti per non essere seguiti...». E oggi come giudica suo figlio, professionalmente? «Possiede un buon ritmo radiofonico, da radiocronista, anche se ha il difetto di parlare troppo veloce». E nella vita? «È allo stesso tempo generoso ed egoista, caratteristiche che non sono in contraddizione: generoso con gli altri, ma a casa si mette sempre al centro delle attenzioni domestiche».
E infatti il quasi trentenne Federico, come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei italiani, nonostante l’indipendenza economica raggiunta con lo stipendio si guarda bene dal lasciare la cuccia di mamma e papà: «Se con i genitori ci si trova bene, in un ambiente caldo e protetto, perché andarsene prima di avere trovato la donna con cui iniziare un’altra famiglia?».
Il tipico mammone italiano. Vespa senior lo inviterebbe a Porta a Porta se non fosse suo figlio, in una puntata sui giovani? «Mah, gran parte dei nostri ospiti sono predeterminati, quasi obbligati. E poi anche lui, come quasi tutti i suoi coetanei, schematizza molto: ha opinioni coinvolgenti ma poco approfondite».
Per esempio? «Nella puntata della nostra trasmissione sul 1980, strage di Bologna, Federico era convinto che i terroristi condannati siano in realtà innocenti. Hai voglia a spiegargli che le sentenze, finché ci sono, vanno rispettate...». «Ma quella è solo una verità: quella giudiziaria», replica subito Vespa junior.
Un altro tema caldo è quello delle guerre in Iraq e Afghanistan. Federico Vespa è nettamente contrario: «E non perché sia di sinistra, anzi non ho neppure votato Prodi. Ma sono convinto che da Kabul sia meglio andarsene: sarebbe una soluzione pratica e dignitosa per non farsi ricattare. E anche in Libano, non c’è proprio bisogno dei nostri soldati. Non abbiamo motivo di stare in terre altrui, dando ai terroristi pretesti per attaccarci».
La lite più furibonda a casa Vespa, però, si è consumata quella mattina in cui Federico si rifiutò di alzarsi per andare al liceo: «Decisi che non ne potevo più di greco e latino, che volevo lavorare». Come finì? «Lo presi in parola, e chiesi subito al benzinaio di piazza Mazzini se aveva bisogno di un aiuto», racconta Bruno, «poi ripiegai su un idraulico che stava lavorando nel nostro palazzo». Risultato: «Quando l’idraulico mi disse che l’orario di lavoro era dalle sei del mattino alle otto di sera, tentennai», confessa Federico, «e alla fine optai per un trasferimento dal liceo classico allo scientifico. Scoprendo che matematica e chimica erano ancora peggio di greco e latino».
Ma i due Vespa la guardano Porta a Porta, a casa la sera? Bruno: «No, non mi riguardo quasi mai. E sbaglio, perché mi accorgerei dei miei errori». Federico: «Raramente. Certo non quando si parla di diete. Solo se ci fosse un bel dibattito, a livello D’Alema-Fini. Altrimenti, meglio i gialli di Carlo Lucarelli».
E i libri annuali di Vespa senior, ti servono almeno per la trasmissione? «Ammetto che di mio padre ho letto soltanto la Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. E solo perché devo prepararmi per Rtl...».
Mauro Suttora
Wednesday, April 11, 2007
Momo
NE' FOLLETTO NE' GNOMO, SONO SOLO MOMO
Intervista con la cantante di "Fondanela"
Oggi, 5 aprile 2007
Eccoci nel regno di Momo. Il quartiere romano di San Lorenzo, accanto alla stazione Termini: qui la rivelazione del Festival di Sanremo è nata e cresciuta artisticamente. Nella vita reale no: è di Lanciano in provincia di Chieti, e da lì sono venuti i suoi genitori, Vittorio e Licia Cipollone, entrambi 77enni, per applaudirla nella sua prima esibizione pubblica dopo il festival. Un trionfo: teatro della Garbatella strapieno, e il giorno dopo quotidiani che strabordano di articoli positivi. «Momo non è soltanto la cantante-autrice di Fondanela, svelata da Piero Chiambretti all’ultimo Sanremo. È molto di più: è l’ultima reincarnazione della Gelsomina felliniana, è la sfida disarmata della fantasia alla violenza del nostro mondo», la loda Cesare Romana, critico musicale del Giornale.
Gli articoli li tiene in un sacchetto di plastica della spesa Antonella, amica giornalista che aiuta Momo a fronteggiare la fama improvvisa delle ultime settimane. Tutti, papà, mamma, produttore, coautori, parenti e amici, sono seduti al tavolino di un bar in via dei Volsci. «Il pianoforte dove Momo ha imparato a suonare a cinque anni me lo regalò la Zanussi come premio per aver venduto caldaie», ricorda papà Vittorio. Sono i primi che Momo ringrazia nella copertina del disco appena uscito, i genitori. Che l’adottarono orfanella, e che l’hanno sempre aiutata da quando si mise in testa di fare la cantante.
Una gavetta interminabile, durata 17 anni: «Subito dopo il diploma magistrale Momo è emigrata a Roma con un solo chiodo fisso: la musica», ci dice il signor Cipollone, «e noi l’abbiamo sempre assecondata. Ricordo che quando un giornale locale abruzzese la intervistò, quindici anni fa, disse che il suo obiettivo era Sanremo. Una decina d’anni fa siamo venuti a Roma per vederla in un concerto al teatro Colosseo, con Sabina Guzzanti...»
Ma insomma, fino a sei settimane fa Momo con la musica proprio non ci campava: qualche serata nei locali di Roma, qui a San Lorenzo, ma soldi pochi o niente. Quindi per mantenersi lavorava: lavapiatti, cameriera, baby-sitter. Negli ultimi tre anni ha tenuto a bada un bambino, Ludovico, che ha appena compiuto undici anni ed è venuto pure lui a festeggiarla al concerto romano: «Ma ormai è grande, non ha più bisogno di me», dice Momo.
Momo è popolarissima fra i bambini. Ce ne accorgiamo quando usciamo dal bar per andare a fotografarla nella giocheria L’Orbita, visto che il suo primo disco si chiama Il Giocoliere. Quelli del quartiere la conoscono, la fermano sul marciapiede. «Oggi in classe abbiamo letto con la maestra l’articolo del giornale su di te», le dice uno. Lei si ferma, è gentile con tutti, si china a parlare, alcuni li conosce per nome.
«Ora Momo verrà a suonare al teatro Centrale di Lanciano», pregusta orgogliosa mamma Licia. Il 26 aprile ci sarà un primo concerto al Juxtap di Sarzana (La Spezia), il locale del produttore Simone Grassi. Poi, in maggio, all’Hiroshima di Torino. Stanno fioccando le prenotazioni per l’estate: tutti vogliono Momo. A Giffoni (Salerno) il 14 luglio, al festival Gaber di Viareggio. Infine, in autunno, la prima tournée in giro per l’Italia.
Momo è accompagnata da musicisti che suonano strumenti strani, come un circo ambulante di altri tempi: Ludovica Valori, nipote di Bice, è al bombardino; al mandolino c’è Desirée Infascelli; al contrabbasso Daniele, tanto alto quanto Momo è minuta. Riescono a creare un’atmosfera magica, la stessa che ha ammaliato gli spettatori del dopoFestival fin dalla prima volta che Momo ha intonato la sua Fondanela. «Che poi sarebbe la “fontanella” dell’energia», spiega lei, «come la pronunciava l’osteopata cinese Wang facendo fare esercizi a me e alla mia amica pianista Alessandra. Eravamo andate da lui perché avevamo la schiena bloccata, e quando siamo tornate a casa abbiamo riso così tanto su quella “fondanela” che è nata la canzone, con i suoi buffi movimenti d’anca».
Movimenti che stanno conquistando mezza Italia, come ai tempi della Lambada: ci ha ballato perfino il direttore di questo giornale, Pino Belleri, quand’è andato ospite a Tutti quelli che... il calcio su Raidue. Le altre canzoni di Momo sono difficili da descrivere, bisogna ascoltarle: «Genere inclassificabile», decreta il programma i-Tunes quando infiliamo il disco nel computer. «Ti ispiri a Kurt Weill?», provo a chiederle. E lei, scherzando: «Kurt che...? È francese?», pur conoscendo benissimo il musicista tedesco del teatro di Bertolt Brecht.
L’humour di Momo traspare in molte sue canzoni. In Buon Governo propone di eleggere ministri Mandrake «venditore d’illusioni», Topolino, Pippo, Dylan Dog, Batman, Robin, Paperone alle finanze, Superman «giramondo, con l’Ombra che cammina addetta al terzo mondo», e soprattutto Qui Quo, Qua. In un’altra prende in giro Sanremo, «club de li potenti, solo artisti snob che s’atteggiano ad artisti pop». Canta anche Embè, la canzone contro la maldicenza con cui il suo amico Simone Cristicchi, vincitore quest’anno, l’anno scorso arrivò secondo fra i giovani: «Che bella gente, capisce tutto, ha pistole con proiettili di malignità».
È stato un bel Sanremo 2007 per Roma, per una certa Roma giovane, povera e anticonformista lontana mille miglia dalle vallette Rai e Mediaset: quella di Momo, di Cristicchi, e anche di Pensa di Fabrizio Moro, vincitore giovani. Ma chi è in realtà Momo? «Non sono un folletto, non sono uno gnomo, sono Momo», si autodefinisce lei sul suo sito Internet, www.momoart.it
Surreale, dada, anarchica, hanno scritto. Cesare Romana l’ha paragonata addirittura a Omero. Una sua canzone s’intitola Momosessuale. Sei omosessuale?, le chiediamo. «No», sorride, «sono momosessuale, appunto. Per la libertà». È bastato questo per far titolare a qualcuno «Momo profeta dei Dico», i «Diritti di convivenza», anche gay, attualmente osteggiati dalla Chiesa. Ma lei sfugge a ogni etichetta, non vuole farsi ingabbiare. Momo è solo Momo, con le sue melodie stralunate da cabaret e le rime ermetiche. Prendere o lasciare.
Mauro Suttora
Intervista con la cantante di "Fondanela"
Oggi, 5 aprile 2007
Eccoci nel regno di Momo. Il quartiere romano di San Lorenzo, accanto alla stazione Termini: qui la rivelazione del Festival di Sanremo è nata e cresciuta artisticamente. Nella vita reale no: è di Lanciano in provincia di Chieti, e da lì sono venuti i suoi genitori, Vittorio e Licia Cipollone, entrambi 77enni, per applaudirla nella sua prima esibizione pubblica dopo il festival. Un trionfo: teatro della Garbatella strapieno, e il giorno dopo quotidiani che strabordano di articoli positivi. «Momo non è soltanto la cantante-autrice di Fondanela, svelata da Piero Chiambretti all’ultimo Sanremo. È molto di più: è l’ultima reincarnazione della Gelsomina felliniana, è la sfida disarmata della fantasia alla violenza del nostro mondo», la loda Cesare Romana, critico musicale del Giornale.
Gli articoli li tiene in un sacchetto di plastica della spesa Antonella, amica giornalista che aiuta Momo a fronteggiare la fama improvvisa delle ultime settimane. Tutti, papà, mamma, produttore, coautori, parenti e amici, sono seduti al tavolino di un bar in via dei Volsci. «Il pianoforte dove Momo ha imparato a suonare a cinque anni me lo regalò la Zanussi come premio per aver venduto caldaie», ricorda papà Vittorio. Sono i primi che Momo ringrazia nella copertina del disco appena uscito, i genitori. Che l’adottarono orfanella, e che l’hanno sempre aiutata da quando si mise in testa di fare la cantante.
Una gavetta interminabile, durata 17 anni: «Subito dopo il diploma magistrale Momo è emigrata a Roma con un solo chiodo fisso: la musica», ci dice il signor Cipollone, «e noi l’abbiamo sempre assecondata. Ricordo che quando un giornale locale abruzzese la intervistò, quindici anni fa, disse che il suo obiettivo era Sanremo. Una decina d’anni fa siamo venuti a Roma per vederla in un concerto al teatro Colosseo, con Sabina Guzzanti...»
Ma insomma, fino a sei settimane fa Momo con la musica proprio non ci campava: qualche serata nei locali di Roma, qui a San Lorenzo, ma soldi pochi o niente. Quindi per mantenersi lavorava: lavapiatti, cameriera, baby-sitter. Negli ultimi tre anni ha tenuto a bada un bambino, Ludovico, che ha appena compiuto undici anni ed è venuto pure lui a festeggiarla al concerto romano: «Ma ormai è grande, non ha più bisogno di me», dice Momo.
Momo è popolarissima fra i bambini. Ce ne accorgiamo quando usciamo dal bar per andare a fotografarla nella giocheria L’Orbita, visto che il suo primo disco si chiama Il Giocoliere. Quelli del quartiere la conoscono, la fermano sul marciapiede. «Oggi in classe abbiamo letto con la maestra l’articolo del giornale su di te», le dice uno. Lei si ferma, è gentile con tutti, si china a parlare, alcuni li conosce per nome.
«Ora Momo verrà a suonare al teatro Centrale di Lanciano», pregusta orgogliosa mamma Licia. Il 26 aprile ci sarà un primo concerto al Juxtap di Sarzana (La Spezia), il locale del produttore Simone Grassi. Poi, in maggio, all’Hiroshima di Torino. Stanno fioccando le prenotazioni per l’estate: tutti vogliono Momo. A Giffoni (Salerno) il 14 luglio, al festival Gaber di Viareggio. Infine, in autunno, la prima tournée in giro per l’Italia.
Momo è accompagnata da musicisti che suonano strumenti strani, come un circo ambulante di altri tempi: Ludovica Valori, nipote di Bice, è al bombardino; al mandolino c’è Desirée Infascelli; al contrabbasso Daniele, tanto alto quanto Momo è minuta. Riescono a creare un’atmosfera magica, la stessa che ha ammaliato gli spettatori del dopoFestival fin dalla prima volta che Momo ha intonato la sua Fondanela. «Che poi sarebbe la “fontanella” dell’energia», spiega lei, «come la pronunciava l’osteopata cinese Wang facendo fare esercizi a me e alla mia amica pianista Alessandra. Eravamo andate da lui perché avevamo la schiena bloccata, e quando siamo tornate a casa abbiamo riso così tanto su quella “fondanela” che è nata la canzone, con i suoi buffi movimenti d’anca».
Movimenti che stanno conquistando mezza Italia, come ai tempi della Lambada: ci ha ballato perfino il direttore di questo giornale, Pino Belleri, quand’è andato ospite a Tutti quelli che... il calcio su Raidue. Le altre canzoni di Momo sono difficili da descrivere, bisogna ascoltarle: «Genere inclassificabile», decreta il programma i-Tunes quando infiliamo il disco nel computer. «Ti ispiri a Kurt Weill?», provo a chiederle. E lei, scherzando: «Kurt che...? È francese?», pur conoscendo benissimo il musicista tedesco del teatro di Bertolt Brecht.
L’humour di Momo traspare in molte sue canzoni. In Buon Governo propone di eleggere ministri Mandrake «venditore d’illusioni», Topolino, Pippo, Dylan Dog, Batman, Robin, Paperone alle finanze, Superman «giramondo, con l’Ombra che cammina addetta al terzo mondo», e soprattutto Qui Quo, Qua. In un’altra prende in giro Sanremo, «club de li potenti, solo artisti snob che s’atteggiano ad artisti pop». Canta anche Embè, la canzone contro la maldicenza con cui il suo amico Simone Cristicchi, vincitore quest’anno, l’anno scorso arrivò secondo fra i giovani: «Che bella gente, capisce tutto, ha pistole con proiettili di malignità».
È stato un bel Sanremo 2007 per Roma, per una certa Roma giovane, povera e anticonformista lontana mille miglia dalle vallette Rai e Mediaset: quella di Momo, di Cristicchi, e anche di Pensa di Fabrizio Moro, vincitore giovani. Ma chi è in realtà Momo? «Non sono un folletto, non sono uno gnomo, sono Momo», si autodefinisce lei sul suo sito Internet, www.momoart.it
Surreale, dada, anarchica, hanno scritto. Cesare Romana l’ha paragonata addirittura a Omero. Una sua canzone s’intitola Momosessuale. Sei omosessuale?, le chiediamo. «No», sorride, «sono momosessuale, appunto. Per la libertà». È bastato questo per far titolare a qualcuno «Momo profeta dei Dico», i «Diritti di convivenza», anche gay, attualmente osteggiati dalla Chiesa. Ma lei sfugge a ogni etichetta, non vuole farsi ingabbiare. Momo è solo Momo, con le sue melodie stralunate da cabaret e le rime ermetiche. Prendere o lasciare.
Mauro Suttora
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