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Wednesday, January 28, 2009

parla Ari Folman

VALZER CON HAMAS

«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar

Oggi, 28 gennaio 2008

di Mauro Suttora

«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»

Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.

Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.

«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.

«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»

Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?

«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»

Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?

«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».

Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.

«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».

Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?

«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»

Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?

«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».

Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.

«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».

Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?

«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».

Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.

«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».

Mauro Suttora

Tuesday, January 23, 2007

Mauro of Manhattan

New York Observer column, January 7, 2007

I meet Marsha’s mother two weeks after at Bloomingdales. I was lured there after work for a cocktail presentation of I don’t remember which new product. Marsha had given me an appointment at 6 p.m., and here she comes with her mummy: “We just met by chance at the first floor, she was Christmas shopping”, she tells me, false as Judas. I take it as a real ambush.

The lady looks the same as in the pictures, a nice bottle-blonde plastic-enhanced 60-year-old like 100,000 others in the Upper East Side. Fake nose, uplifted eyes, lackadaisical smile, incredibly elegant, foulard around her neck, haughty gait. Her only physical qualities, to my eyes: slim, perfect figure, beautiful legs and wonderful ankles. Like her daughter. So, Marsha too looks promising for the next thirty years. I have to confess I also took a glance at the senior’s pelvis: Marsha’s one worries me, because it’s too thin for her to become a good breeder. I know it’s shameful to admit it, I might be a maniac, but a peaceful pregnancy is an important feature of our future marriage.

Conversation with mother unwinds trivial as the phone calls between her and Marsha that I know so well: “Traffic is so horrible these days my dear, it’s impossible to go around before Christmas and it’s getting worse year after year...”
“Yes madam what a headache to find taxis and they’re useless anyway as they get trapped in the jams like any other car, the same goes with buses...”
“And let’s not talk about the subway it’s sooo overcrowded”.
Commonplace but surreal remarks, Bloomingdales being three blocks away from her penthouse. But the lady prefers to torture her chauffeur by taking the limousine, instead than walking three minutes.

“Be our guest before Christmas,” she invites-orders imperiously towards the end of our chat. I’m trapped. I can’t escape.
During the next few days I deftly negotiate the whereabouts of the gloomy family event. My last redoubt is not meeting the parents at their place, which would be tantamount to an official engagement with Marsha.
“Let’k keep it casual, what about a nice pizza at La Houppa?” I suggest with nonchalance.
La Houppa, a jewelry store on East 64th Street where they sell pizzas instead than (but at the price of) diamonds.

Arrives the lethal dinner. Marsha’s sister and her boyfriend are joining us. Will they lighten the atmosphere or make the evening more formal (the ‘whole’ family)? But, surprise: between my future father-in-law and me it’s love at first sight. We both order a capricciosa, and this similarity of taste seems to immediately raise his enthusiasm. Of course we start talking about Italy, and he goes on and on reminiscing about all of his Italian journeys.
I look at him: it’s a wonder such an angel-shaped Marsha came out of this chubby man with a red face. Softened by nostalgia and pinot bianco, he goes into raptures when I answer his question: “How do you like America?”
“I love it,” I reply, and it’s true. I omit to specify that I prefer Bob Dylan’s America to George Bush bigots: he is satisfied realizing that there is at least one European who doesn’t hate the States.
“Why do they all hate us?” he asks kind of worried.
“Well, the war in Iraq...” I begin to try and answer.
He stops me right away: “But that son of a bitch Saddam, didn’t he deserve a good blow?”
“Of course yes,” I say sincerely. And this is enough for him.
He then gets carried away by a stupid pun of mine: “We’re stuck in Iraq.”
“I love the rhyme, but in particular the fact you said ‘We’ and not ‘You’. Means that you feel like one of us. There are Italian soldiers in Iraq too, aren’t there?”
I would have never thought that one day I’d be thankful to premier Silvio Berlusconi for making me conquer my girlfriend’s father by sending troops to Baghdad. But this is exactly what happened one December night in 2006...

By now Marsha’s sturdy dad considers me one of the family, he begins to call me “son”. He forgets I’m only 15 years his junior, maybe he mistakes me for the male offspring he never had. Our idyll climaxes when we discover we both share a humiliating predilection for an obscure Sixties band called The Moody Blues.
“... ‘Nights in White Satin?” he asks me, embarrassed.
“Well, yes.”
“But it’s impossible for you to know them, son.”
“Why?”
“Because I used to dance to that song in the summer of ’67. I remember exactly the year because that’s when I met my wife. Do you remember, Jane?”
“Of course,” she says.
“Well, I remember too,” I throw myself in, “I was seven years old and they always played it in the jukebox at the Termoli beach, Molise region.”
This accuracy of mine makes him adore me: “I love precise people.”
Now that I understand he’s stuck like me at the anal stage, I turn pitiless: “In Italy that song was mostly successful in a cover version, translated by the band Dik Dik.”

The typical Virgo orgasm I know he’s reaching at this very moment makes him forget to calculate my real age: knowing I was seven 39 years ago, it wouldn’t be difficult (“Mauro is fortyish,” Marsha had lied to him). On the contrary, he states ecstatic: “‘Nights in White Satin’ is the best slow song ever. We used to dance to it in Washington, do you remember dear?”
“Sir, allow me to place it at the same level of ‘A Whiter Shade of Pale’ by Procol Harum, from that same summer.”
He turns slowly his head from his wife to me. He’s overwhelmed. He looks at me wet-eyed: “Son, you are the Bible, you are a living encyclopedia, you, you are... fantastic! You are so right, oh, the Procol Harum! How could I forget them?”

Marsha hates these retro musical predilections of mine. Our conversation is boring her. She discovered the Moody Blues and Procol Harum only because we had a small fight when I dared to invite her to one of their concerts: “Listen Mauro”, she had replied, “to be honest with you I really can’t stand that kind of music. A few days after we met you dragged me to a Jorma Kaukonen or whatever-was-is-name concert, and I accepted only because I was thrilled by all of your invitations, and because I thought it would be a palatable thing anyway. But let me tell you, that was a real drag. Now, if you want to make up for all of your lost time go ahead and do it, but please don’t you ever try and involve me again in one of these so very sad revivals of yours... No wonder they take place in places named with sad names such as The Bottom Line or The Bitter End, which sooner or later have to close down like the Cbgb due to the death of all of their customers, not to talk about the Beacon Theatre where you took me to watch the Allman Brothers, surrounded by drunk beer-smelling and pot-smoking 60-year-old New Jersey truckers...”

So, I have to go by myself to the concerts of all of my idols from the Sixties, some of whom never ventured in concert in Italy in the past 30 years, such as Crosby Stills and Nash, Jefferson Airplane, Steve Winwood, James Brown, Arlo Guthrie or the Eagles. In the famed Town Hall theatre, where Charlie Parker invented bebop jazz in ’45, I saw Art Garfunkel coming out of the formalin with exactly the same hair from decades ago. But this didn’t stop me from renting a car to go to as far as Albany in order to admire him again, this time coupled with Paul Simon.
Sometimes I even venture into fan club meetings, such as the yearly world reunion of Leonard Cohen at Columbia university in 2004, only to discover I have nothing in common with that bunch of alienated nerds. I reached the top in Alexandria, Louisiana, during a Mardi Gras with Chubby Checker, the inventor of twist, which was the first music I danced to in 1963 at the Lignano beach (my father shot a super8 home movie to document the event). I have no friends in New York City to share this nostalgia perversion with, except for my Italian journalist colleague Christian Rocca with whom I went to see Neil Young at Radio City Music Hall just before (or was it after?) the stroke that he brilliantly survived.
But now, here is my prospective father-in-law as companion of future raids into catheterock. Those type of concerts are challenging and never-ending, because at half-time the musicians always promise: “We’ll be back in a moment”. That is never true: intermissions last at least three quarters of an hour, as the public of former hippies has weak prostates, everybody needs to take a pee, so endless queues form in front of the toilets.

After the musical acme, we reach for the desserts. If he could, now Marsha’s father would marry me directly, instead than giving me his daughter. Or he would immediately appoint me director of his company, which produces bottle caps. I already see myself swimming in a sea of caps, like Scrooge swimming in his golden money. He inquires absentmindedly about my job, and delivers his presumptuous advise: “Son, the future of journalism is in the web”.

I feel like Dustin Hoffman in ‘The Graduate’: “Thank you very much, I had never thought about it”, I almost reply, but I don’t want to ruin the superfriendly atmosphere. He seems impressed by the fact that I have been writing for ‘Newsweek’ and ‘The New York Observer’: “They’re way too liberal for my taste, but I love the real estate column of the Observer”.
Dinner ends talking real estate: Marsha’s parents are about to buy something for her sister: “Maybe a little condo in Trump’s Park Avenue”, drops mother Jane. “I heard the same apartment costs one million more if you go up just one store: ten millions on the twentieth, eleven on the twenty-first, and so on...”, she adds, faking ignorance (her only read besides women’s mags is real estate, as well).

Now, this is an incredible oblique way to tell me: “Son, be good, kneel down in front of Marsha, give her the ring, become her puppy-dog, and you’ll be rewarded with the same godsend which is about to come down on that schmuck future brother-in-law of yours...” Such a cheap shot, very cheap, let me tell you madam. You were able to ruin with only a few word the magic atmosphere your husband had built between me and the Family. Because you surely know, your beloved daughter must have told you, that the building at the corner of Park and 59 bought and renovated by Donald Trump in 2004 is the former Delmonico Hotel, famous for hosting the Beatles during the summer of ’64, the second time they came to New York (the first time they stayed at the Plaza). It was there they met Bob Dylan, who offered them their first joint. That’s why it looks so irresistible to me, although I must be the only one - among the foreign billionaires buying there thanks to the weak dollar - to know about this.

We get out of La Houppa, exchange our greetings, and I take a taxi with Marsha. She is radiant with happiness: “Mauro, this was such a success! They love you.” I feel like I am about to dive into a fast, asphyxiating engagement, as light as quick setting concrete. If not in the Delmonico, I’ll end up in one of those terrorizing penthouses reachable by pressing PH in the elevator, but only if you have the key to insert on the side. And once you are up, you find yourself directly in the house, there is no landing. When I’ll have parties I’ll be obliged to spend thousands for catering at Fauchon, and waiters in uniform will wander around my place.
Most of all: we’ll not even be able to reach the Hamptons by helicopter, because Marsha, like her mother, is going to object: “What if someone we know spots us at the heliport, finding out we can’t afford to buy one, and that we are reduced to rent?”

Mauro Suttora

Friday, September 17, 2004

parla Martin Scorsese

intervista al regista nella sede dell'Actors' Guild

di Mauro Suttora

New York, 17 settembre 2004

“Devo tutto al cinema italiano, da De Sica a Rossellini a Fellini, da Bertolucci al Pasolini di Accattone. I miei nonni arrivarono negli Usa nel 1910, ma a casa mia tutti continuavano a vedere i film italiani negli anni Quaranta e Cinquanta [i film negli Usa non sono doppiati, hanno i sottotitoli, ndr], e il vostro cinema ha continuato a essere fortissimo fino agli anni Settanta, anche Ottanta. Gli italiani, assieme ai francesi, hanno reinventato il cinema in quel periodo”.

Le organizzazioni degli italiani d’America protestano spesso contro la nom ea di mafiosi che continua a rimanere appiccicata loro addosso, dai Soprano a De Niro a Steven Spielberg, produttore del nuovo cartone animato Shark Tale in cui tutti i pesci cattivi parlano con l’accento italiano. Che ne pensa?

“Ai miei familiari italiani piaceva la satira anche contro se stessi, che è sempre stata una caratteristica dei film italiani. La capivano e la apprezzavano. I film di Pietro Germi e certi personaggi interpretati da Marcello Mastroianni erano veramente tremendi nei confronti dell’Italia contemporanea. 
Quanto a me, a volte è la realtà a imitare la fantasia: sono rimasto stupefatto quando ho saputo che Brusca, il mafioso pentito che fece arrestare l’allora capo dei capi, Totò Riina, dichiarò che il loro mondo, il loro tremendo livello di violenza era proprio come nei Goodfellas, il mio film del 1990”.

Cosa manca al cinema italiano di oggi per ripetere i fasti di quello del passato?

“I film non nascono dal nulla: sono il prodotto della situazione sociale, politica ed economica di una nazione. Ogni società crea il proprio cinema. Il neorealismo nacque dalla devastazione provocata dalla Seconda guerra mondiale. L’Italia si era unita da meno di cent’anni, l’industrializzazione è avvenuta soltanto negli anni Cinquanta... 
Da allora molte microculture sono sparite: ho visto un bellissimo documentario di Vittorio De Seta, Banditi ad Orgosolo, ho seguito le polemiche di Pasolini contro il consumismo, conosco abbastanza bene l’Italia. In una scena della versione originale di Mean Streets, quella lunga due ore e mezzo inserita nei nuovi dvd, Robert De Niro improvvisa una scena con Harvey Keitel e sembra proprio di essere a Elizabeth Street, nel cuore di Little Italy a New York. 
Ma oggi non vivo in Italia, quindi non so rispondere a questa domanda. Bertolucci una volta mi ha detto che i giovani registi hanno sempre paura di misurarsi con la grandezza dei vecchi. 
Ma io e i miei amici, John Cassavetes, Brian De Palma, bruciavamo dalla voglia di raccontare le storie che avevamo in mente quando eravamo giovani, negli anni Sessanta. 
Certo è che non auguro all’Italia un’altra catastrofe come la Seconda guerra mondiale affinchè ne possa scaturire di nuovo del grande cinema.
Un altro mini-documentario di De Seta descrive la Pasqua dei contadini di Lipari, le loro tradizioni. Se tutto ciò sparisce, perdiamo qualcosa di noi, della nostra cultura”.

Come sarà The Aviator, il suo prossimo film che uscirà a Natale, due anni dopo The Gangs of New York?

The Aviator è un film su Hollywood: Leonardo DiCaprio recita la parte di Howard Hughes, il leggendario miliardario eccentrico appassionato di aerei. A me non piace volare, quindi è proprio per questo che gli aerei mi affascinano. In quell’epoca gli aerei su cui volava Hughes erano impressionantemente fragili, come una sedia con due ali. Hughes era il fuorilegge di Hollywood. Nel film ci sono anche Kate Blanchett nel ruolo di Katharine Hepburn e Jude Law”.

Sta preparando anche un documentario su Bob Dylan?

“Sì, lo sto scrivendo, lo finiremo verso la metà del 2005. Descrive la carriera di Dylan, ma soltanto fino al 1966. Sarà un film sul cambiamento: la musica di Dylan si evolveva a una velocità tale che quando un suo disco veniva pubblicato lui era già da un’altra parte. Sarà un’opera molto interessante, spero, anche perchè abbiamo avuto accesso agli archivi personali di Dylan”.

Lei ha un rapporto molto stretto con la musica: nel 1969 è stato aiuto regista in Woodstock, nel 1978 ha filmato L’Ultimo Valzer sull’addio ai concerti della Band, il gruppo che accompagnava Dylan, e recentemente è stato coinvolto in una serie di documentari sulla storia del blues. Cosa pensa delle colonne sonore?

“Ovviamente la musica in un film è importantissima. Ma troppo spesso negli ultimi tempi noto che Hollywood usa le colonne sonore per spiegare, letteralmente, agli spettatori quali sentimenti devono provare mentre guardano una scena: ora è il momento di piangere, ora di commuoversi, ora di ridere... Un tempo la musica si limitava a suggerire”.
Mauro Suttora

Tuesday, August 12, 2003

Il nuovo film di Bob Dylan

MASKED AND ANONIMOUS

di Mauro Suttora

Il Foglio, 12 agosto 2003 

New York. Sei anni fa impressionò il mondo intero, con uno di quei suoi Twist of fate, scherzi del destino che sono ormai l'unica caratteristica che accetta. Bob Dylan andò a esibirsi di fronte al Papa, durante il Congresso eucaristico internazionale di Bologna.

Vestito come un buzzurro texano, non si tolse il cappello da cowboy quando si avvicinò a Giovanni Paolo II per salutarlo. Però l'omaggio del Santo padre della controcultura al Santo padre vero c'era tutto.

Ne è passato di tempo, da quel settembre '97. A 61 anni, dopo che il cuore lo ha portato a un passo dalla morte e i critici a un passo dal premio Nobel, il più grande cantautore americano torna a fare l'iconoclasta. 
Nel suo ultimo film appena uscito negli Stati Uniti, Masked and Anonymous, si aggira infatti un bianco sosia del Papa, assieme a un finto Gandhi e a una copia di Abramo Lincoln. 

La presa in giro è evidente, anche se questi personaggi storici nel film non fanno né dicono alcunché: si limitano a salire silenziosi nella scalcinata roulotte backstage di un concerto di Dylan.

L'effetto spiazzamento è notevole: sembra una scena di allucinazione surreale tratta dal periodo di Desolation Row a metà anni '60, quando Dylan scriveva lunghissimi testi assurdi che facevano impazzire il traduttore Fabrizio De Andrè.

Il film, come molta produzione dylaniana, è tutto e niente. Rolling Stone ne è entusiasta, il New York Post gli ha dato zero. L'intera Hollywood, però, ha fatto a gara per apparire almeno con un cameo non pagato: Jessica Lange, Mickey Rourke, Penelope Cruz, Val Kilmer, Chris Penn, Ed Harris, Angela Bassett...

Il Luke Wilson di fama Tenenbaumiama interpreta la parte del fan stupido e devoto, John Goodman è un sudatissimo promoter truffatore, Jeff Bridges fa il solito giornalista rompiballe che infastidisce Dylan con domande tipo: "Dicci la vera ragione per cui non sei andato a Woodstock". 

Lui non può che rispondere col silenzio, come fa da quarant'anni. E nel film interpreta se stesso, cantante che esce di prigione e alla fine ci ritorna senza bene capire perchè, accusato di un delitto che non ha commesso. Docile, mingherlino e stralunato come nella realtà.

Nel '73 il regista Sam Peckimpah lo diresse in un memorabile western, Pat Garrett & Billy the Kid. La sua fu una semplice comparsata, ma compose un capolavoro per la colonna sonora: Knocking on Heaven's Door.

Saturday, March 18, 2000

Silvia Baraldini

Graziata negli Usa la sua compagna condannata a 58 anni

di Mauro Suttora

Oggi, 18 marzo 2000

Ora che gli americani hanno liberato una sua compagna che era stata condannata a 58 anni di carcere, non si capisce più cosa ci stia a fare Silvia Baraldini in prigione, lei che di anni da scontare ne ha quindici in meno.

Il 19 gennaio scorso, poche ore prima di lasciare la Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha graziato la 45enne Susan Rosenberg, militante come la Baraldini del gruppo estremista americano «19 Maggio» (data di nascita sia del rivoluzionario di colore Malcolm X, sia del capo comunista vietnamita Ho Chi Min).

Entrambe erano state arrestate all’inizio degli anni Ottanta per una rapina commessa dalla loro organizzazione nel New Jersey, durante la quale erano stati ammazzati una guardia giurata e due poliziotti. Il 9 novembre 1982 la Baraldini venne catturata e processata con ben nove imputazioni. Ma soltanto due furono confermate da testimoni: la complicità nell’evasione di Assata Shakur, militante del Black Liberation Army condannata a cento anni per omicidio, e la partecipazione a una tentata rapina a Danbury (Connecticut).

In realtà Silvia Baraldini non ha mai impugnato un’arma, né gliene hanno trovate in casa. Lei era soltanto una fiancheggiatrice: autista, al massimo palo. Ma tanto bastò al severo pubblico ministero Rudolph Giuliani, futuro sindaco di New York, per farla condannare a vent’anni. Pena raddoppiata per effetto di una legge speciale americana antimafia, la Rico (Racketeer influenced corrupt organisation), poi estesa anche ai terroristi. Infine, un supplemento di tre anni per oltraggio alla corte. Totale: 43 anni.

Due anni fa la Baraldini ottenne il trasferimento in Italia, con l’impegno da parte del nostro governo di tenerla in prigione fino al 2008. Ma ora, dopo la grazia ottenuta dalla Rosenberg, non sembra giusto che lei rimanga l’unica a pagare. Così il ministro della Giustizia italiano Piero Fassino ha chiesto al suo nuovo collega americano, John Ashcroft, di rivedere la questione. Anche perché la mamma 84enne di Silvia Baraldini, Dolores, versa in fin di vita in una casa di cura a venti chilometri da Roma. E la figlia è potuta andarla a visitare pochi giorni fa soltanto grazie a un permesso speciale di quattro ore (che non le veniva concesso da settembre).

Dallo scorso ottobre la Baraldini è stata trasferita dal carcere di Rebibbia al sesto piano del policlinico Gemelli di Roma, dov’è piantonata per seguire un ciclo di sei settimane di radioterapia e di sei mesi di chemioterapia. La donna, infatti, ha dovuto sottoporsi a due interventi chirurgici per l’asportazione di noduli al seno.

La sua battaglia contro il tumore era iniziata già negli Stati Uniti, dove nell’88 era stata operata anche all’utero. Ma gran parte della vita di questa donna sembra un calvario, con il quale sta pagando duramente gli errori commessi in gioventù.

La famiglia Baraldini si trasferisce nel 1961 da Roma a New York, dove il padre Michele lavora in una società del gruppo Olivetti. Silvia, allora tredicenne, passa dall’esclusivo collegio romano delle suore dell’Assunzione, in piazza di Spagna, a un altro istituto religioso di un quartiere residenziale americano, dove come vicino di casa c’è Arturo Toscanini. Poi il padre diventa funzionario dell’ambasciata italiana a Washington, e Silvia prende la maturità nel ’65. È l’estate della famosa marcia di Martin Luther King per i diritti dei neri d’America, ma i genitori le vietano di parteciparvi.

Il 1965 è anche l’anno in cui Bob Dylan, profeta dei giovani antimilitaristi che rifiutano di andare nella guerra del Vietnam, parla in una sua canzone di «weathermen», gli uomini che fanno le previsioni del tempo. Da lì prenderanno il nome i terroristi del gruppo Weather Underground, che verranno distrutti dall’Fbi all’inizio degli anni Settanta, ma alcune frange dei quali sopravviveranno fino agli anni Ottanta.

La giovane Silvia ottiene di andare a fare l’università a Madison (Wisconsin), uno dei college più di sinistra degli Stati Uniti. Il suo impegno politico si concretizza dopo la morte del padre, nel ’68, con l’adesione agli Sds (Students for a democratic society). Poi, piano piano, sempre più a sinistra, fino ad approdare ai gruppuscoli dell’estremismo afroamericano.

Lavora a New York come interprete per la Rai, commessa di libreria, telefonista, segretaria e contabile in un laboratorio di gioielli. La sorella minore Marina, intanto, si laurea alla Rockefeller university, torna a Roma con la madre in una casa di via del Babuino e diventa funzionario Cee a Bruxelles.

Sempre più coinvolta dalla politica, Silvia Baraldini viaggia per conto di alcune organizzazioni marxiste in Africa. Il governo americano non gradisce tutto questo attivismo, cosicché per evitare l’espulsione e ottenere la cittadinanza statunitense nel 1981 lei si sposa con un compagno, Tim Blunk (condannato a 58 anni, ma libero dal 1996 dopo essersi dissociato dalla lotta armata).

Lei invece, dopo l’arresto e il processo, non si dissocia né si pente. «Non posso pentirmi di cose che non ho commesso», dice, dura, e dopo la condanna lancia un appello ai compagni affinché continuino la lotta. «Se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto», proclama orgogliosa in un’intervista a Oggi dell’aprile 1988.

Finisce a Lexington (Kentucky), in un carcere di massima sicurezza dove le detenute vengono sottoposte a un isolamento ferreo: chiuse in un seminterrato, non possono usare neppure l’acqua calda, che è considerata un’arma. Ogni notte vengono svegliate più volte. Sono sorvegliate sempre da telecamere, anche sotto la doccia, e quando vanno in cortile devono sottoporsi a ispezioni corporali.

La sorella Marina Baraldini denuncia queste vessazioni, intervengono in suo favore l’attrice Susan Sarandon e Amnesty International, e alla fine, nel luglio ’88, un giudice americano riconosce che quella inflitta a Silvia e a due sue compagne di prigionie è stata una vera e propria tortura. Il carcere di Lexington verrà poi chiuso.

La sorella Marina muore nell’89 per un’esplosione in volo dell’aereo che la stava riportando a Parigi dopo una missione in Ciad, causata da terroristi libici. Ma la mobilitazione della sinistra italiana in favore di Silvia Baraldini continua, con tanto di canzoni di Francesco Guccini, interviste di Lucio Manisco al Tg3 e cortei di Rifondazione.

Ora l’obiettivo è far estradare l’eroina indomabile in Italia, visto che gli Stati Uniti non concedono sconti di pena a chi non denuncia i compagni di lotta. Ma Silvia, pur pentendosi, si rifiuta di fare la spia: «Ciò che stavo cercando di fare non giustifica l’assassinio di quattro persone innocenti», ha dichiarato al giudice americano che nel ’97 ha esaminato la sua domanda di libertà provvisoria, «e per aver perduto mia sorella capisco bene il dolore che provano le famiglie colpite. Anche se non ho partecipato né all’ideazione né alla realizzazione dei fatti che portarono a quelle morti, come appartenente all’associazione responsabile devo scusarmi con tutti per il ruolo da me svolto nella tragedia. Lo farei ancora? No, era un’impresa donchisciottesca».

Dichiarazioni insufficienti per la giustizia statunitense, che però nel ’99 acconsente al trasferimento in Italia. Ora, tuttavia, la grazia concessa a Susan Rosenberg cambia le carte in tavola. La compagna di lotta della Baraldini era infatti stata condannata per reati ben più gravi, anche perché era stata arrestata proprio mentre stava trasportando le armi e gli esplosivi utilizzati dal gruppo «19 Maggio».

Ciononostante, grazie alle aderenze dei genitori (una famiglia ebraica in vista, che abita nell’Upper West Side, ricco quartiere di Manhattan), dopo 16 anni di prigione oggi è libera: un condono di 42 anni rispetto alla sua severissima pena. Negli Stati Uniti si sono levate subito le proteste dei parenti delle tre vittime della rapina dell’81 nel New Jersey: «Sono totalmente disgustato dal comportamento dell’ex presidente Clinton», ha detto Gregory Brown, che perse il padre quando aveva 16 anni.

Il problema è che adesso al governo negli Stati Uniti c’è l’avversario di Clinton, George W. Bush: il rischio è che, proprio a causa dello scandalo provocato in America dalle grazie in extremis, la posizione Usa si indurisca, che il nulla osta per la liberazione di Silvia Baraldini non venga concesso, e che quindi l’unica a rimanere dentro sia l’italiana.

Mauro Suttora