Wednesday, October 23, 2013

Grillo è stufo?

QUANTI GRATTACAPI PER IL FONDATORE DEI 5 STELLE

Diktat sui clandestini. Sanzioni ai dissidenti. Capilista benemeriti eliminati. Nessuna democrazia. I grillini sono in panne. Ma dicono: «La colpa non è di Beppe, i danni li fa Casaleggio»

Oggi, 16 ottobre 2013

di Mauro Suttora

«Ha perso la testa». Questo è il commento più comune fra gli sconsolati attivisti del Movimento 5 stelle (M5s). Si riferiscono non a Beppe Grillo, fondatore e padre-padrone del movimento, ma al suo guru Gianroberto Casaleggio: è lui a gestire, in concreto, il secondo partito italiano.

Grillo si sta stufando del suo giocattolo. I 150 parlamentari eletti a febbraio fanno troppo di testa loro. Due senatori sono riusciti a sconfiggere il Pdl facendo passare in commissione un proprio emendamento che abolisce il reato di clandestinità per gli immigrati.

Rottura con Dario Fo e Marco Travaglio

Apriti cielo: il giorno dopo Casaleggio li ha sconfessati pubblicamente, con un diktat firmato anche da Grillo. Risultato: rivolta sia dei parlamentari, sia degli attivisti. E rottura con tutti: Dario Fo, Marco Travaglio, il quotidiano Il Fatto (l’unico vicino ai grillini). Sembra che Casaleggio sia posseduto da un «cupio dissolvi», una mania autodistruttiva. Che ha già fatto fuori Stefano Rodotà (candidato 5 stelle al Quirinale in aprile), Milena Gabanelli (la più votata per quella stessa carica), Emma Bonino (anche lei fra i presidenziabili, e antesignana della lotta contro il finanziamento pubblico ai partiti).

Sede vicino a via Montenapoleone

Il pugno di ferro di Casaleggio si fa sentire anche all’interno del movimento. La gestione apparentemente libertaria (niente statuti, sedi, dirigenti, funzionari), in realtà è quasi stalinista. Vietato ogni minimo dissenso. Casaleggio, dalla sede della sua società in centro a Milano (fra Montenapoleone e Mediobanca, zona di lusso da 20mila euro a metro quadro, alla faccia della polemica contro i «poteri forti»), si spinge a telefonare personalmente a consiglieri comunali (quello di Trieste Stefano Patuanelli) per chiedere condanne pubbliche contro i dissidenti (il senatore del Friuli-Venezia Giulia Lorenzo Battista).

Il ricatto: se non si obbedisce, il simbolo M5s viene ritirato (è di proprietà di Grillo e Casaleggio). La gestione del partito è familistica: il nipote di Grillo ne è vicepresidente, il figlio di Casaleggio guida un orwelliano e anonimo «Staff» che da Milano comanda tutti a bacchetta.

Basilicata: eliminato l’eroe verde

L’ultima scivolata: il candidato capolista alle imminenti regionali in Basilicata (17 novembre) Giuseppe Di Bello, tenente della polizia provinciale, cancellato dalla lista perché condannato in primo grado a due mesi per «rivelazione di segreto d’ufficio». Vincitore alle primarie online, Di Bello è stato poi cacciato per la regola che vieta la candidatura di condannati. Peccato che il reato da lui commesso sia in realtà una medaglia: i dati «rivelati» riguardano l’inquinamento del lago Pertusillo, che fornisce acqua potabile alla regione. Di Bello, assieme a Maurizio Bolognetti (che sarà invece capolista radicale) è considerato un eroe dagli ecologisti locali. Solo per i ciechi burocrati di Casaleggio è un poco di buono.

I sondaggi continuano a dare i 5 stelle al 20%. Grazie ai passi falsi degli altri partiti, il movimento è ancora visto come l’unico voto di protesta. Ma al suo interno si sfalda. Da anni Casaleggio promette una «piattaforma» online per prendere le decisioni in maniera democratica. Ma non arriva mai, quindi decidono tutto lui e Grillo.

Alcuni eletti hanno messo a punto un «Parlamento elettronico» per mantenere l’impegno con gli elettori di consultarli sempre sulla Rete: si considerano infatti semplici «portavoce dei cittadini». Hanno raccolto 160 mila euro per realizzarlo, dalla Cina sono arrivate le chiavette per il riconoscimento, come quelle delle banche (Casaleggio invece gestisce i voti online dal suo server privato). Ma il giorno dopo la presentazione ufficiale, Casaleggio li ha bocciati.

Si contraddicono su Napolitano

Imbarazzo perfino per la fedelissima Paola Taverna, la «poetessa», nuova capogruppo al Senato dopo Vito Crimi. È andata a presentare al presidente Giorgio Napolitano il piano carceri del M5s che potrebbe evitare l’amnistia avversata dai grillini. Ma il giorno dopo Casaleggio mette sul blog una richiesta di impeachement contro Napolitano. Come si fa a dialogare con un presidente, se lo si considera un farabutto da cacciare?
Mauro Suttora

Sunday, October 20, 2013

Nuova edizione del mio libro


Nuova copertina per la traduzione in spagnolo dei diari (autentici) di Claretta da me curati, e pubblicati in Italia da Rizzoli nel 2009

Wednesday, October 09, 2013

Maroni con la moglie a Roma


L'ex ministro dell'Interno, ora presidente della Lombardia e capo della Lega Nord, fotografato per la prima volta a spasso con la consorte per turismo nella capitale

Oggi, 2 ottobre 2013

di Mauro Suttora

Era uno dei segreti meglio custoditi d’Italia: la moglie di Roberto Maroni, già ministro dell’Interno, da sei mesi presidente della regione Lombardia e segretario della Lega Nord. Mai un’apparizione in pubblico assieme al marito, mai un’intervista o una dichiarazione.

La riservatezza è assoluta. Di lei si conosce soltanto il nome, Emilia Macchi, e la longevità del legame col suo Bobo. Si sono infatti conosciuti sui banchi del liceo classico Caroli di Varese nei primi anni Settanta. Lei era la figlia di uno dei fondatori dell’Aermacchi, storica fabbrica di aerei; lui figlio della buona borghesia di un paese della provincia, Lozza, ma estremista di sinistra e iscritto a Democrazia Proletaria fino all’età di 24 anni, quando incontra Umberto Bossi.

Lei è dirigente dell’Aermacchi
La signora Maroni gli ha dato tre figli: la primogenita Chelo, oggi 26enne, Filippo, 21, e Fabrizio, 16. E lavora come dirigente del personale nell’Aermacchi, che si è fusa con Alenia e fa parte del colosso Finmeccanica. È finita sui giornali soltanto l’anno scorso, quando il presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi è stato indagato per corruzione.

Contrariamente alla famiglia Bossi, la famiglia Maroni si è sempre tenuta lontano dalla politica. Da un quarto di secolo Bobo è il numero due della Lega, da vent’anni è a Roma come deputato e ministro, ma non risulta che Emilia fosse mai scesa a visitare il marito nella capitale. Lacuna colmata: ecco la coppia visitare le vie del centro come normali turisti, senza scorta. 

Per Maroni non sono tempi tranquilli. La Lega infatti è sempre attraversata da tensioni interne, e lui si appresta a lasciare la carica di segretario. Probabilmente a Matteo Salvini, visto che il sindaco di Verona Flavio Tosi è particolarmente inviso a Bossi.

Wednesday, October 02, 2013

Giulia Ligresti libera



ORA È TUTTA LAGO E CHIESA

Prime foto a Pallanza, sul lago Maggiore. Ha patteggiato due anni e otto mesi

Oggi, 25 settembre 2013


di Mauro Suttora

Eccola di nuovo in libertà Giulia Ligresti, figlia di Salvatore, che dal 17 luglio è stata in carcere e poi, da un mese, agli arresti domiciliari. Il 3 settembre ha patteggiato una pena di due anni e otto mesi, uscendo dall’inchiesta Fonsai. Quando la sentenza diventerà definitiva, il Tribunale di sorveglianza di Milano deciderà come dovrà scontarli: probabile l’affidamento a servizi socialmente utili, come per Silvio Berlusconi e tutti i condannati a meno di tre anni.

La Ligresti è stata condannata anche a una multa di 20 mila euro, alla confisca di cinque milioni di euro in azioni e di immobili per un valore di circa 28 milioni. Solo una piccola parte del maxisequestro del patrimonio di famiglia, di oltre 250 milioni:  alberghi di lusso, complessi immobiliari, conti correnti, un campo da golf e polizze assicurative.

Rimane in carcere la sorella di Giulia, Jonella. Anche il padre, don Salvatore, resta agli arresti domiciliari (concessi perché ha più di 80 anni): rifiuta infatti di rispondere alle domane dei magistrati, che dovrebbero chiudere l’inchiesta per falso in bilancio e manipolazione del mercato entro un mese.

Il fratello di Giulia, Paolo, è sfuggito alla cattura perché vive in Svizzera. La signora Ligresti, oltre a essere mamma della ventenne Ginevra Rossini (già fidanzata di Luigi Berlusconi, ultimogenito di Silvio), si era lanciata nella moda con il marchio Gilli (le sue iniziali) e boutiques in via della Spiga a Milano e piazza di Spagna a Roma.


Tuesday, October 01, 2013

Caligaris e Parenti su Forza Italia

LA CRISI DEL PARTITO DI BERLUSCONI
di Mauro Suttora
30 settembre 2013
Forza Italia resuscita, o abortisce? Appena una settimana dopo l’inaugurazione della nuova sede, le dimissioni imposte da Silvio Berlusconi ai suoi ministri fanno vacillare l’annunciata rinascita del partito. Che si era fuso con An nel 2008, con risultati catastrofici: sei milioni di voti persi dal Pdl alle ultime elezioni. Quindi ritorno alle origini, in un momento drammatico per il leader: condannato, espulso dal Parlamento.
Ma già si annunciano illustri defezioni: i ministri Angelino Alfano («Sarò diversamente berlusconiano»), Gaetano Quagliariello («Non sono un estremista da Lotta Continua»), Beatrice Lorenzin. Fabrizio Cicchitto mugugna sulla mancanza di democrazia interna.
Che succede? Che ne è del partito che dal 1994, al governo o all’opposizione, domina la politica italiana?
«Faccia quel che vuole, le do carta bianca». Esattamente vent’anni fa Berlusconi consegnò le chiavi della palazzina romana dove sarebbe nata Forza Italia al generale Luigi Caligaris. 
«Fu un’avventura entusiasmante», ricorda adesso il generale. «In quattro mesi costruimmo dal nulla un nuovo partito che divenne subito il primo della settima potenza industriale del mondo. Mai successo, nella storia».
Si ripeterà oggi il miracolo del 1993-94? «Impossibile», sentenzia Caligaris, tessera numero tre di Forza Italia (dopo il fondatore e l’ex ministro Antonio Martino). «Allora ci appoggiammo alle strutture Fininvest. Uomini d’impresa, legati da un rapporto di dipendenza a Berlusconi. Io, pur essendo abituato a obbedire, come militare, ero terrorizzato dal compito: creare un partito in poche settimane. Ma il clan dei fedelissimi mi rispose: “Nessun problema, siamo tutti bravi e il nostro capo è il più bravo di tutti”. Questo clima non è cambiato. Nessun dibattito interno. C’è più disciplina in Forza Italia che in una caserma. Berlusconi è sensibile solo alle opinioni dei fedeli».
Solo dei fedelissimi, pare, in questi giorni: i “falchi” Daniela Santanché e Denis Verdini.
«È la conferma che il modello dell'impresa privata non funziona in politica. I leader hanno bisogno di un sistema non autoritario, in cui ci sia uno scambio continuo di opinioni fra base e vertice, ma in entrambe le direzioni. La base non può limitarsi a eseguire quel che vuole il vertice».

Caligaris se ne andò nel ’97, quando gli eurodeputati di Fi passarono ai Popolari europei (Dc): «Nessuna coerenza. Dicevamo di essere liberali, finimmo democristiani. E l’ordine, come sempre, arrivò dall’alto. Inappellabile. Niente discussioni».
Un altro volto noto di quella stagione eroica era Tiziana Parenti. Titti la rossa, la pugnace magistrata pisana che contestò i colleghi milanesi (Di Pietro, Borrelli, D’Ambrosio): Tangentopoli a senso unico, Pci salvato.
Oggi lei non salva Forza Italia: «In realtà come forza politica non è mai esistita. È sempre stata un’illusione. Berlusconi si ritira ad Arcore con Confalonieri e i familiari, e decide. Eravamo commissariati dalla Fininvest, facevamo politica aziendale. Come oggi, con i deputati schierati contro la sentenza da 500 milioni per Mediaset».

La Parenti era uno dei deputati più popolari, simbolo di una giustizia non piegata a sinistra (eterna accusa forzista ai magistrati): «Berlusconi ripeteva sempre: il nostro partito si deve strutturare, io presto mi ritirerò. Per qualche anno gli ho creduto, ho aspettato. Poi mi sono sentita imbrogliata. Per essere eletta mi ero dimessa dalla magistratura, non ho preso aspettative come tanti altri. Nessun paracadute. Ma se osavo obiettare qualcosa, mi assalivano. C’è un clima di cortigianeria che rasenta il degrado umano».

La fede nel capo sembra essere il destino di molti partiti. Anche di quelli “contro”: Bossi, Di Pietro, Grillo.
«Grillo è differente da Berlusconi solo perché urla, invece di fare il borghese perbenista. Entrambi usano i parlamentari come marionette, Grillo li manda sul tetto. È drammatico che dopo vent’anni ci siano ancora persone adulte che rinunciano al senso critico».

La lista di quelli che hanno abbandonato Forza Italia è lunga: se ne potrebbe fare un altro partito.
«Ricordo i “professori”: usati come carta velina che si appallottola e si butta nel cestino. Ma tutti si legavano al carrozzone. Subivano il ricatto: “O con me o contro di me”. Non era permessa alcuna opinione alternativa. L’unico sfogo era sparlare alle spalle».

Insomma, altro che Dumas: nessun Vent’anni dopo per i moschettieri di Berlusconi? 
«Quelli di allora non ci sono più. È una ripetizione penosa, patetica. Chi trova il coraggio di criticare lo fa solo quando viene scaricato, come Fini. Non c’è futuro per Forza Italia. Berlusconi morirà senza eredi, i tanti pretendenti non hanno alcuna possibilità di crescita. È un danno anche per il Paese».

Non è che ha un po’ di odio dell’ex?
«Guardi, ero molto amareggiata quando sono uscita. Ma era il ’97. Ne è passato di tempo. Oggi faccio l’avvocato, e quel poco di passione politica che mi è rimasta lo spendo con il Psi. Brave persone. Il mio problema con Forza Italia era solo che volevo un minimo di dibattito interno. Poi potevo anche avere torto. Ma senza falangi precostituite. Per il resto, le mie idee non sono cambiate. Infatti ho sulle spalle una querela da Di Pietro per 250mila euro».
Mauro Suttora