Saturday, June 28, 1986
Scuola superiore di Pubblica amministrazione
Saturday, March 29, 1986
Saturday, March 15, 1986
Filippine, cade Marcos: parla Gene Sharp
Un grande esperto di disobbedienza civile nonviolenta spiega la rivoluzione filippina
di Mauro Suttora
Europeo, 15 marzo 1986
(Il 25 febbraio 1986 il presidente delle Filippine Ferdinand Marcos scappa all'estero dopo un'imponente rivolta popolare pacifica. Gli succede Corazon Aquino)
La nonviolenza ha vinto nelle incredibili giornate di Manila. Com'è potuto accadere? Ecco il parere di Gene Sharp, 58 anni, professore all'università di Harvard (Usa), massimo teorico vivente delle pratiche gandhiane:
"Azione nonviolenta è un termine generico che comprende moltissime tecniche di protesta, non collaborazione e intervento. Ma non si tratta di un metodo passivo: non è assenza di azione, è un'azione che è nonviolenta. Il suo presupposto è molto semplice: i sudditi hanno la possibilità di disobbedire alle leggi e ai governi che non accettano, perché il potere è in realtà nelle loro mani".
Anche nel caso di una dittatura?
"La servitù è sempre volontaria, in misura maggiore o minore. Lo constatava già nel XVI° secolo il filosofo francese Etienne de la Boétie, e prima di lui perfino Niccolò Machiavelli, quando scriveva che il Principe 'quanta più crudeltà usa, tanto più debole diventa il suo principato'.
Quando il consenso viene tolto, anche il peggior tiranno diventa un uomo qualsiasi. Il potenziale militare del governante può rimanere intatto, i suoi soldati incolumi, gli edifici del governo intatti, ma tutto è cambiato. È una legge scientifica.
È capitato in India con Gandhi, in Iran contro lo Scià nel 1978, e adesso nelle Filippine. Ma il primo episodio di disobbedienza civile collettiva registrato dalla storia accadde proprio da voi, a Roma, nel 494 avanti Cristo. Quando ai plebei, invece di uccidere i consoli, bastò ritirarsi sul Monte Sacro per ottenere maggiori diritti. E nessuno lo ricorda mai, ma anche la prima rivoluzione russa del febbraio 1917, quella menscevica, fu prevalentemente nonviolenta".
Invece in Cecoslovacchia nel 1968 e in Polonia nel 1980-81 i nonviolenti hanno perso.
"Sì, ma in Cecoslovacchia i sovietici riuscirono a normalizzare la situazione soltanto nell'aprile 1969, dopo otto mesi di resistenza. E in Polonia Solidarnosc è ancora attivissima, seppur nella clandestinità.
L'azione nonviolenta è un metodo: si può vincere, si può perdere. Ma, in ogni caso, quante vite si risparmiano usando le armi della nonviolenta? L'esempio delle Filippine, inoltre, sfata un luogo comune: che la nonviolenza possa avere successo solo in tempi molto lunghi. Sono bastati 18 giorni a Corazon Aquino per vincere".
Mauro Suttora
Saturday, March 08, 1986
Tra noi c'è un solo abusivo: la legge
NUOVI SOVVERSIVI/RAPPORTO DAL PAESE CHE GUIDA LA RIVOLTA DOPO IL CONDONO
Vittoria, in provincia di Ragusa, vanta due record: è la città più comunista d'Italia, e la più affollata di edifici illegali. Il suo sindaco ha guidato la marcia su Roma. Siamo andati a fare i conti in tasca a chi sostiene di non avere i soldi per fare il dovere di cittadino
di Mauro Suttora
foto di Maurizio Bizziccari
Europeo, 8 marzo 1986
Saturday, February 15, 1986
Italiani addestrano i piloti libici
SANNO FARE I KAMIKAZE, NON SANNO FARE LA GUERRA
I Mig e i Mirage di Gheddafi ronzano minacciosi sul Mediterraneo. Ma chi è ai comandi ci sa fare davvero? Abbiamo scovato il maestro. Ecco quel che ha visto e insegnato
di Mauro Suttora
Europeo, 15 febbraio 1986
Saturday, November 30, 1985
Saturday, November 09, 1985
Il fascino insistente dell'autonomia
Saturday, September 28, 1985
Saturday, September 14, 1985
Leonardo, dai, vinci!
Saturday, September 07, 1985
L’affare Greenpeace/ Parla l’uomo che ha sfidato Mitterrand
“Non ci fermerai con quella sporca bomba”
Odiato da americani e sovietici ma appoggiato dai pacifisti, l’ecologo David McTaggart rivela perché l’affondamento della ‘Rainbow Warrior’ può diventare un boomerang per il presidente francese
di Mauro Suttora
Europeo, 7 settembre 1985
Rue de la Bûcherie, Parigi: un vicoletto del Quartiere latino. Voltato l’angolo, Notre-Dame. Due passi più in là, il minuscolo teatro Huchette, dove da trent’anni ogni sera danno La cantatrice calva e La lezione di Eugène Ionesco.
Ma la vera commedia dell’assurdo, da un mese e mezzo, si svolge al numero 3: la sede di Greenpeace, il movimento di ecologisti internazionali. Una vetrina al piano terra, uno stanzone pieno di belle ragazze indaffarate che parlano quasi tutte inglese, i soliti soli ridenti dei verdi alle pareti. E un poster con su scritto: “Quando l’ultimo albero sarà tagliato, l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce morto, allora l’uomo scoprirà che non ci si nutre di soldi”.
Dal 10 luglio, da quando cioè la nave di Greenpeace Rainbow Warrior è stata affondata in Nuova Zelanda da agenti della Dgse (la Cia francese) e il fotografo Fernando Pereira è rimasto ucciso dallo scoppio dalle mine collocate sotto la chiglia della nave, nella sede parigina del movimento c’è un viavai frenetico. “Siamo stati inondati da giornalisti di tutto il mondo, ma anche da lettere e contributi di simpatizzanti”, dice Louise Trussell, 33 anni, neozelandese, presidente della sezione francese.
Rimasti assai a corto di argomenti di fronte all’assurdità del fatto (“nauseabondo”, lo ha qualificato perfino il capo del sindacato socialista Cfdt, Edmond Maire), i difensori dell’operato del governo di François Mitterrand non hanno trovato di meglio che ricorrere alla plurisecolare tesi del “complotto anglosassone”: c’è cascato anche l’altrimenti posato vulcanologo Haroun Tazieff.
Insomma, che ci fanno tutti questi inglesi, canadesi, americani e australiani in Francia? Che ci fanno soprattutto nell’oceano Pacifico, che per metà è francese? E perché, invece di incaponirsi contro i nostri esperimenti atomici nell’atollo di Mururoa, questi maledetti ecologisti internazionali non vanno a infastidire gli inglesi, gli statunitensi, i sovietici? Anche loro sono potenze nucleari, anche loro fanno esplodere bombe sotterranee.
“Sì, e la media è di un esperimento nucleare ogni settimana nel mondo. Dopo Hiroshima ci sono state altre 1500 esplosioni”, risponde David McTaggart, 52 anni, miliardario canadese, presidente di Greenpeace International. “Quel che i francesi dimenticano, è che siamo nati nel 1971 proprio per opporci agli esperimenti nucleari degli Stati Uniti in Alaska. E la nostra protesta fu così efficace che l’anno dopo furono sospesi”.
McTaggart è un personaggio singolare. Nel 1973 navigava tranquillo, ignaro di ecologia, sul suo yacht in crociera fra Tahiti e le isole Figi. Venne a sapere che i francesi avevano interdetto alla navigazione internazionale un’ampia zona attorno a Mururoa, ben al di là delle tradizionali dodici miglia delle acque territoriali, in occasione dell’esplosione di una loro bomba sperimentale. Ciò lo irritò e lo spinse a far vela verso la Polinesia francese. Venne speronato senza pietà dalle motovedette francesi e ferito a un occhio.
Ma, contemporaneamente, altre personalità stuzzicavano i militari messi a custodia della ‘force de frappe’ nei mari del Sud. Il generale pacifista Paris de la Bollardière, eroe di tre guerre (mondiale, Indocina, Algeria), era sceso in un canotto assieme a un prete (Jean Toulat), un professore di filosofia (Jean-Marie Muller) e un ecologo (Brice Lalonde), violando la zona proibita.
Soprattutto, si erano mobilitati i due giornalisti più famosi di Francia, Jean-Jacques Servan-Schreiber e Françoise Giroud, alla testa del settimanale L’Express, allora su posizioni radicali. “Le foto dei soldati che picchiavano gli ecologisti furono nascoste da un ragazza nella vagina, sfuggirono al sequestro e vennero pubblicate su tutti i giornali”, racconta McTaggart. Alla fine le forze armate dovettero chinare la testa: nel 1974 gli esperimenti nucleari in atmosfera furono sospesi.
Forse ancora assetati di vendetta, forse timorosi di una pessima figura di fronte all’opinione pubblica mondiale (Davide contro Golia: piroghe, dinghy e gommoni all’abbordaggio di cannoniere), i militari francesi sono andati per le spicce dopo l’annuncio di una nuova campagna antinucleare per il settembre di quest’anno. Ma il risultato è stato soltanto il raddoppio della scandalo: uno in luglio per l’assassinio, e un altro assai probabile al momento dei nuovi esperimenti fra quattro settimane.
Il bello è che in Francia quasi nessuno è contrario alla bomba atomica nazionale, neanche i comunisti. I giornali, anche quelli di sinistra, accusano i servizi segreti più per l’imperizia omicida dimostrata nell’affondare il Rainbow Warrior che per il fatto in sé.
Il consenso unanime in materia militare è incrinato soltanto dai verdi. Però anche il loro capo, Brice Lalonde, pur chiedendo le dimissioni del ministro della Difesa Charles Hernu, dichiara: “Se c’è la bomba, ci vuole un posto dove sperimentarla”.
Ma ormai la Francia agli antipodi è odiata. Il premier ‘pacifista’ neozelandese David Lange appoggia apertamente Greenpeace e condanna il “terrorismo di stato francese”. Laburista, ha addirittura chiesto l’espulsione dei francesi dall’Internazionale socialista. Tutti i governi del Pacifico meridionale hanno firmato proprio in luglio un trattato di denuclearizzazione, chiedendo che anche la Francia lo rispetti.
Sapendo di avere, almeno per il momento, il coltello dalla parte del manico, McTaggart smorza i toni: “Non accuso di omicidio il governo francese, non ci sono ancora le prove”. Ma di fronte alla muscolosa sortita ferragostana di Mitterrand, effettuata per coprirsi le spalle dall’opposizione di destra (“Ordino alla Marina di opporsi con ogni mezzo alla violazione delle nostre acque territoriali”), il leader verde non flette di un millimetro: “Il Pacifico deve restare pacifico. Noi abbiamo sempre usato, e sempre useremo, metodi nonviolenti. Ma chiediamo che la Francia rispetti la denuclearizzazione del Pacifico. Anzi, perché Mitterrand non promuove egli stesso un trattato per la proibizione totale degli esperimenti atomici?”
Provocatore. Pirata nonviolento. Agente dei russi. Finora Greenpeace aveva goduto di una simpatia quasi generale, in tutto il mondo. Anche in Francia, dove il leggendario comandante Eric Cousteau è dei loro, così come la scrittrice Marguerite Yourcenar, e Brigitte Bardot ha finanziato abbondantemente la lotta contro l’uccisione delle foche. Ma l’argomento ‘bomba’ oltralpe è un totem-tabù, cosicché ora Greenpeace è accusata di essere infiltrata da spie sovietiche.
“La difesa atomica francese è ‘tout azimut’, a 360 gradi? Be’, anche il nostro no alle esplosioni nucleari lo è”, si difende McTaggart. “Contro i test Usa nel Nevada abbiamo fatto volare una mongolfiera, cinque nostri attivisti si sono intrufolati nella zona di rischio, bloccando tutto per diversi giorni”. E i test sovietici? “Il nostro carnet è pieno di azioni contro i sovietici, in ogni campo”.
Vi accusano però di avere a bordo delle vostre navi strumenti sofisticati, con i quali potreste rilevare dati segreti sulle esplosioni sotterranee.
“Balle. Abbiamo solo contatori geiger da 200 dollari, e una macchina per telefoto che proprio Pereira avrebbe dovuto usare per trasmettere le sue foto all’agenzia Associated Press”.
Ma un’agente francese ha potuto infiltrarsi tra voi per settimane. Lo stesso potrebbe fare uno 007 di qualunque altro Paese.
“E allora? Non siamo mica un esercito, noi. Teme le spie solo chi ha segreti, e noi non ne abbiamo: tutte le nostre azioni sono pubbliche. Anzi, la massima pubblicità è proprio il nostro obiettivo principale. La nostra unica arma è la fantasia”.
La fantasia. Certo, per chi lamenta che l’avventura sia scomparsa dalla vita moderna, il terrorismo nonviolento di Greenpeace risulta affascinante. E poi, altro che don Chisciotte. A differenza di altri verdi, che passano il tempo a parlare e a lagnarsi, loro ‘fanno’. E soprattutto vincono. La battaglia contro lo sterminio delle balene (due milioni di cetacei catturati negli ultimi cinquant’anni e la balena azzurra, quella più grande, ridotta da centomila a mille esemplari) è stata vinta nel 1982. Solo tre Paesi ‘cattivi’ continuano la caccia: Urss, Giappone e Norvegia.
Sempre nel 1982 l’Europarlamento ha vietato l’import per le pellicce di foca, dando così un colpo mortale al business. E poi le scorie delle centrali nucleari civili: dal 1967 venivano scaricate nell’Atlantico al largo della Spagna. Dopo innumerevoli ‘assalti al canotto’ e incursioni romanzesche da parte dei guerriglieri ambientalisti, dal 1983 i Paesi europei acconsentono a interrarle.
Chi rivelò nel 1982 che la diossina di Seveso era finita in Francia? Greenpeace. E chi smascherò le reticenze delle autorità quando nel 1984 a Ostenda (Belgio) naufragò un carico di scorie radioattive? Sempre quei guastafeste di Paceverde. Più verde che pace, finora: “Siamo ecologisti, non pacifisti”, tenevano a precisare. Ma adesso si sono accorti che il principale inquinamento è quello da armi atomiche e stellari. “Ci opporremo energicamente alle ‘star wars’ perché non vogliamo esplosioni nucleari neanche nello spazio”, annuncia McTaggart.
E in Italia, perché non siete presenti? “Siamo cresciuti molto in fretta, adesso abbiamo due milioni di simpatizzanti in 15 Paesi. Il nostro bilancio nel 1984 è stato di 15 milioni di dollari. Ma siamo indipendenti, riceviamo contributi solo da privati. In Italia temiamo di finire in mezzo a polemiche fra partiti. Comunque chi vuole aiutarci aspettando l’apertura della sezione Italiana può farlo subito, mandandoci un contributo qui a Parigi. In cambio riceverà il nostro bollettino”.
Vade retro Urss: la guerra fra Greenpeace e il Cremlino
Le ostilità fra Greenpeace e l’Unione sovietica iniziarono il 27 giugno 1975, quando la prima nave degli ecologisti, la Phyllis Cormack, tentò di bloccare la caccia della baleniera sovietica Vostok. Al ritorno in Canada furono ben diecimila gli spettatori che festeggiarono l’equipaggio, composto da giovani statunitensi riparati all’estero per evitare la guerra in Vietnam.
Nel 1982 il Sirius attraccò a Leningrado, dove poi gli ecologisti distribuirono volantini in russo contro gli esperimenti nucleari sovietici. Nel luglio dell’anno dopo cinque americani e un canadese partirono dall’Alaska sul Rainbow Warrior e con un gommone Zodiac penetrarono in acque sovietiche. Arrivarono a Lorino in Siberia, sullo stretto di Bering. Anche qui diedero volantini agli stupefatti eschimesi locali. I sei vennero arrestati, liberati dopo quattro giorni e riportati in Alaska.
Manifestazioni simili si sono registrate anche a Berlino Est e in Cecoslovacchia, dove l’anno scorso gli ecologisti sono penetrati per denunciare l’inquinamento provocato dalla piogge acide. Ma l’azione più spettacolare è avvenuta lo scorso ottobre, quando il Sirius si è appostato per giorni sullo stretto di Gibilterra attendendo la flotta baleniera sovietica dell’Antartico, proveniente da Odessa.
Mauro Suttora
Saturday, August 17, 1985
Brucia Africa, brucia
Saturday, August 03, 1985
Dopo la tragedia della val di Fiemme/Cosa insegna il Vajont
VENTIDUE ANNI DOPO, GIUSTIZIA NON È FATTA
A Longarone sono arrivati molti miliardi e qualche scandalo. C’è stato il baby boom. C’è una chiesa monumento dove sostano i turisti. E c’è una lunga storia giudiziaria. Così lunga che non è ancora finita
dall’inviato Mauro Suttora
Europeo, 3 agosto 1985
“La lezione del Vajont non è servita a niente. Di fronte a disastri come quello di Tesero proviamo solo un’enorme amarezza e rabbia. Perché in realtà i disastri naturali non esistono: la causa è sempre l’uomo. Altro che protezione civile! Ci vogliono previsione e prevenzione prima, non protezione dopo”.
Chi pronuncia queste parole è un prete di 41 anni, don Giuseppe Capraro, nella sua casa di Longarone (Belluno). Quella sera di 22 anni fa, quando ci fu la strage con duemila morti, lui si salvò perché era in seminario a Belluno.
Longarone si trova a poche decine di chilometri da Tesero, due valli più in là. Ma mentre la val di Fiemme è un paradiso di pinete, quella del Piave è aspra e ingrata: montagne ripide e sassose, turisti pochi. Se si passa di lì, è solo per andare in Cadore e a Cortina.
L’autostrada Venezia-Monaco, promessa da vent’anni, si blocca a Vittorio Veneto. Il treno per Calalzo arranca, e ogni volta che si ferma alla stazione di Longarone ai passeggeri che si voltano a guardare la diga del Vajont ancora intatta (l’ondata, sollevata dalla frana del monte Toc, volò sopra lo sbarramento) viene sempre un brivido.
La sorella di don Giuseppe, Elsa, fa la centralinista. Esattamente come nel 1963. L’acqua entrò dalla finestra della sua casa, ma lei si salvò. Nel centro del paese, 2000 abitanti, questa fortuna capitò soltanto ad altri duecento. “Dopodiché, qualcuno mi accusò di essermi salvata perché avrei ascoltato delle telefonate che preannunciavano la sciagura”, racconta Elsa Capraro. La sua vecchia casetta è rimasta in piedi, ed è tuttora una delle più carine del paese.
Tutto il resto è soprattutto cemento. Su via Roma, la strada principale, incombono palazzine fitte, alte 4-5 piani, che soffocano qualche stitico alberello. Più che un paese predolomitico ricostruito a nuovo, sembra una periferia di Roma impestata dalla speculazione. Speculazione. Quando sentono questa parola, i longaronesi diventano guardinghi. Perché dopo la tragedia dell’alluvione in questi 22 anni c’é stata anche la tragicommedia degli scandali.
“Niente imposte per dieci anni per tutti gli abitanti e le imprese del luogo”, decretò il governo nel 1964. Giustissimo. Però non furono pochi i casi di persone e aziende che piombarono a trapiantarsi a Longarone solo perché la ritenevano una nuova Montecarlo. Come in Friuli dopo il terremoto del 1976, anche qui il cocktail di aiuti statali e di operosità degli abitanti ha prodotto ricchezza. In pochi anni, grazie agli immigrati dal basso Veneto, gli abitanti del paese, frazioni comprese, ridiventarono 4500. Ci fu anche un baby boom, e adesso le scuole sono piene zeppe.
La vita continua, come sempre. E meglio di prima. Se non fosse per quelle ombre di truffe, peculati, concussioni che si aggirano per il paese. Ancora l’anno scorso nove politici locali sono stati rinviati a giudizio per le assegnazioni delle case popolari Iacp. Prima, professionisti condannati per aver dirottato in Svizzera soldi ricevuti dallo stato. “Colpa delle lungaggini burocratiche se le aziende già finanziate non furono mai realizzate”, si sono difesi. La Siderurgica Landini, per esempio: inghiottì 13 miliardi prima di scomparire nel nulla.
Poi ci sono le divisioni politiche paesane. Perché a Longarone la democrazia funziona, destra e sinistra si alternano alla guida del Comune. Adesso il sindaco è democristiano: alle ultime elezioni Dc, Psdi e Pri hanno avuto il 60%, contro il 25 del Pci e il 15 al Psi. Ma prima c’era una giunta rossa, e anche all’epoca della catastrofe il sindaco era socialista. Con l’alternanza delle giunte c’è stata anche l’alternanza dei progetti di ricostruzione.
L’iniziale piano di Giuseppe Samonà, considerato troppo avveniristico e “di sinistra”, venne accantonato dai democristiani quando tornarono al potere: “Erano solo dei bunker di cemento, rischiammo di fare da cavie per gli esperimenti degli architetti”, dice l’attuale vicesindaco dc, l’avvocato Franco Trovatella, 49 anni. Nella tragedia perse tutti i familiari. Lui quella sera era andato a trovare la fidanzata, oggi sua moglie, in un paese vicino.
Comunque, nonostante le divisioni politiche, estetiche e anche etniche (fra i sopravvissuti che volevano “tutto come prima” e i ‘foresti’ arrivati dopo), la ricostruzione fu completata in pochi anni.
Non così il processo. Giustizia, per il Vajont, non è stata ancora fatta. Questo è l’aspetto che più interessa oggi, perché Tesero non è da ricostruire com Longarone, ma giustizia la reclamano tutti. Ebbene, ci credereste? Il processo per i danni civili è ancora aperto, a Firenze. “Per la prima volta nella storia giudiziaria italiana”, dice il vicesindaco Tovanella, “è stato riconosciuto ai comuni colpiti dalla strage il diritto non solo al risarcimento danni ai beni e alle persone, ma anche quello dei danni morali”. I quali però non si sa ancora a quanto ammontino.
L’Enel fu particolarmente sfortunato: con la nazionalizzazione dell’elettricità nel 1963, solo sette mesi prima del disastro, rilevò la diga del Vajont dalla società privata Sade, poi assorbita da Montedison. Nel 1969 offrì ai privati una transazione di dieci miliardi in cambio della rinuncia al risarcimento. Cosa che avvenne, ma senza cancellare la responsabilità nei confronti del comune di Longarone. E infatti nel 1983 Montedison è stata condannata a pagare una ventina di miliardi a Longarone.
Adesso è in discussione la cifra che Enel e Montedison devono ancora versare a Longarone (Enel tenta di scaricare tutto su Montedison, e viceversa), nonché il risarcimento ad altre amministrazioni statali come le Ferrovie, che ebbero binari cancellati per chilometri.
Ma il capolavoro d’ingiustizia fu il processo penale. Poi a venne trasferito da Belluno all’Aquila per “legittima suspicione”: si temeva che i sopravvissuti di Longarone e degli altri paesi colpiti, Erto e Casso, facessero troppo casino durante le udienze.
Dopo questa sterilizzazione geografica il processo s’impantanò nei tempi lunghi, rischiando la prescrizione. Nel 1971, otto anni dopo la strage, la sentenza definitiva. Condannati solo due imputati su otto: l’ingegnere Enrico Biadene, direttore idraulico della diga ormai settantenne, a due anni; e Francesco Sensidoni, ispettore del Genio civile, a otto mesi. Un po’ poco per un “eccidio premeditato”, com’è scritto su una lapide del cimitero di Longarone.
E adesso? Come scorre la vita nel paese distrutto e ricostruito? La nuova chiesa è stata inaugurata solo due anni fa, ma fa bella mostra di sé in tutta la valle: sembra un ufo, un museo Guggenheim atterrato sulle sponde del Piave. È costata un miliardo e 300 milioni, viene visitata ogni anno da migliaia di turisti che si fermano andando a Cortina.
“La chiesa è l’antidiga, il suo cemento bianco rappresenta la vita, contro quello grigio della diga della morte”, dice enfatico don Capraro. “È troppo grande, d’inverno è fredda”, replicano più prosaicamente alcuni fedeli. Il parroco la controlla dall’interno della sua nuova immensa canonica, con una tv a circuito chiuso.
Probabilmente per le esigenze del paese (siamo in zona ‘rossa’, la religiosità qui è minore che nel resto del Veneto) basterebbe e avanzerebbe la cappella sotterranea Kolbe. Ma la chiesa di Longarone è anche un monumento: “E la parola ‘monumento’”, dice don Capraro, “deriva dal latino monere, ammonire. Il monito del Vajont è: la vita umana innanzitutto”.