di Mauro Suttora
Oggi, 29 febbraio 2012
Sarà la più bella ubriaca nella storia del cinema. Charlize Theron è la protagonista del film Young adult, nei cinema italiani dal 9 marzo 2012. Fa la parte di una scrittrice alcolizzata che torna nel suo paesino in Minnesota per riconquistare il suo primo fidanzato ormai sposato. Nonostante ogni sera ingolli un whisky dopo l’altro, di giorno appare sobria e splendida.
La Theron, ex modella sudafricana, appena quindicenne ebbe un'esperienza traumatica: assistette alla morte del padre Charles, alcolizzato, ucciso per legittima difesa da sua madre (che lui aveva aggredito) e che si salvò dall’accusa di omicidio.
L’anno dopo, accompagnata dalla madre, Charlize vince un concorso per giovani modelle a Positano (Salerno) e si trasferisce a Milano per fare la modella. Nel 1993 diventa famosa con lo spot della Martini dove mostra il suo fondoschiena. Nel 2004 vince l’Oscar con The Monster, dove interpreta una serial killer.
Wednesday, February 29, 2012
Diario di un alcolista
Dipendenze: una cruda testimonianza dopo la morte di Whitney Houston e Amy Winehouse
In Italia gli schiavi della bottiglia sono in aumento: un milione e mezzo, e tanti giovani. Ma pochi si curano. Uno di loro, dopo tre ricoveri, ci spiega come. E quanto sono importanti i familiari
Dopo Amy Winehouse, l’alcol ha ucciso anche la cantante americana Whitney Houston. Una piaga mondiale, e in crescita. In Italia ha superato le droghe illegali ed è diventato la prima causa di morte fra gli under 25. In totale abbiamo un milione e mezzo di alcolisti, di cui centomila in cura.
Oggi, 20 febbraio 2012
di Michele Boselli
La prima volta che mi feci ricoverare in un reparto di alcologia, cinque anni fa nel piccolo ospedale di Auronzo (Belluno), evasi dopo una settimana con la complicità di una paziente uscita dal vicino reparto di psichiatria. Andammo a vivere insieme.
Lo scorso dicembre, invece, alla fine del mio terzo ricovero (un mese a San Daniele del Friuli) stavo per simulare una ricaduta con la scusa del Capodanno: sedotto da un’altra paziente che ora è la mia compagna, volevo rimanere dentro con lei il più a lungo possibile.
Ho cominciato a bere pesantemente vent’anni fa (adesso ne ho 46), quando mi trasferii per lavoro nei Paesi notoriamente alcolici dell’Europa orientale, dove era introvabile la mia amata cannabis di gioventù. Né mi ha aiutato trasferirmi, a cavallo del millennio, in un altro posto non propriamente asciutto: la Scozia. Aggiungo che sono un blogger divorziato e per fortuna senza figli. Lavoro nei call center. E per ora sono tornato a vivere dai miei genitori.
La seconda volta che ho provato a disintossicarmi è stato nel Parco dei Tigli di Teolo (Padova), una clinica che cura anche le dipendenze da cocaina, psicofarmaci e gioco d’azzardo. Fu un parziale successo perché completai con profitto il mese di ricovero, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma a vederlo mezzo vuoto fu un fallimento, perché non proseguii la riabilitazione nella seconda fase: una riunione alla settimana nel club degli alcolisti. Una frequentazione che dovrebbe essere a vita, mentre io mi fermai a soli cento giorni di astinenza. All’epoca era il mio record personale: traguardo festeggiato con una pinta di birra doppio malto, ovviamente seguita da molte altre.
Il preferire la birra al vino non fa di me un alcolista minore: basta berne il doppio e la quantità di principio psicoattivo diventa la stessa. Si tratta di una preferenza meramente legata al prezzo, che all’estero è più basso. In Italia invece carburo con economico vino in cartone.
Stare in alcologia a San Daniele mi ha fatto capire l’importanza di affrontare il problema in un contesto comunitario. Per evitare le ricadute ci vuole non solo la mera astinenza, ma soprattutto il miglioramento degli stili di vita personale e professionale. È il cosiddetto approccio «ecologico-sociale» sviluppato dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin (1922-1996) e adottato da molte strutture sanitarie italiane.
Riunioni settimanali obbligatorie
Prima gli alcolisti cronici erano di solito curati come malati nei reparti di psichiatria. Hudolin però ha osservato che i problemi dell’alcol coinvolgono anche i familiari: per esempio, nell’inversione dei ruoli tra coniugi, o tra genitori e figli. Quindi ora anche loro vengono trattati come pazienti, e almeno una-due volte alla settimana partecipano alle lezioni di educazione alla salute e alle sedute con gli operatori (psichiatri e paramedici specializzati) assieme al parente in cura.
I familiari continuano poi insieme il percorso nelle riunioni settimanali dei Cat (Club alcolisti in trattamento) capillarmente diffusi in tutta Italia. Qui il grosso ostacolo è la vergogna: bisogna frequentare il club più vicino, la gente ti conosce. Imbarazzante il caso di un mio compagno di sventura, dirigente locale di un grosso partito politico. Ma è necessario farlo, perché oltre ad aiutarsi nei momenti difficili, le famiglie devono «contagiare la salute» nell’ambiente in cui si vive.
Ricaduta “bagnata”
Esiste infatti la ricaduta “bagnata”, dal significato chiaro. Ma più insidiosa è quella “asciutta”: mantenere gli stessi comportamenti che portano a rivangare il passato con recriminazioni colpevolizzanti da parte dei familiari contro l’alcolista, costringendolo a «sedersi dalla parte del torto perché tutti gli altri posti sono occupati» (Bertolt Brecht). La percentuale di successo di questo metodo è del 70-80% dopo un anno.
Per un individualista e libertario come me non è stato facile accettare la terapia «eco-sociale». Ma gli operatori hanno un approccio scientifico e antiproibizionista. L’educazione di gruppo alla salute ha avuto momenti esilaranti. Il danno ormonale dell’alcol che femminilizza il corpo maschile è un deterrente per certi uomini virili? «Per me invece la prospettiva di potermi divertire con tette tutte mie è un incentivo a bere», ho scherzato.
I ricoverati in alcologia in Italia hanno in media 50-60 anni: il problema comincia presto, ma si riconosce tardi. Quasi sempre soffriamo di depressione, spesso diabete, e proveniamo da ogni estrazione sociale: dal camionista al dirigente disoccupato, dall’operaia al professionista in crisi matrimoniale, dalla pensionata sola in casa ai sempre più numerosi immigrati africani che andavano tranquillamente avanti a spinelli, ma sono passati al più dannoso alcol temendo i test antidroga.
Io, non so se ce la farò a non bere per sempre. Improbabile. Ma se ci riuscirò non sarà tanto per me stesso (l’autostima è poca), quanto per l’amore che ho trovato a San Daniele: mi hanno ridato entusiasmo per la vita.
Michele Boselli
In Italia gli schiavi della bottiglia sono in aumento: un milione e mezzo, e tanti giovani. Ma pochi si curano. Uno di loro, dopo tre ricoveri, ci spiega come. E quanto sono importanti i familiari
Dopo Amy Winehouse, l’alcol ha ucciso anche la cantante americana Whitney Houston. Una piaga mondiale, e in crescita. In Italia ha superato le droghe illegali ed è diventato la prima causa di morte fra gli under 25. In totale abbiamo un milione e mezzo di alcolisti, di cui centomila in cura.
Oggi, 20 febbraio 2012
di Michele Boselli
La prima volta che mi feci ricoverare in un reparto di alcologia, cinque anni fa nel piccolo ospedale di Auronzo (Belluno), evasi dopo una settimana con la complicità di una paziente uscita dal vicino reparto di psichiatria. Andammo a vivere insieme.
Lo scorso dicembre, invece, alla fine del mio terzo ricovero (un mese a San Daniele del Friuli) stavo per simulare una ricaduta con la scusa del Capodanno: sedotto da un’altra paziente che ora è la mia compagna, volevo rimanere dentro con lei il più a lungo possibile.
Ho cominciato a bere pesantemente vent’anni fa (adesso ne ho 46), quando mi trasferii per lavoro nei Paesi notoriamente alcolici dell’Europa orientale, dove era introvabile la mia amata cannabis di gioventù. Né mi ha aiutato trasferirmi, a cavallo del millennio, in un altro posto non propriamente asciutto: la Scozia. Aggiungo che sono un blogger divorziato e per fortuna senza figli. Lavoro nei call center. E per ora sono tornato a vivere dai miei genitori.
La seconda volta che ho provato a disintossicarmi è stato nel Parco dei Tigli di Teolo (Padova), una clinica che cura anche le dipendenze da cocaina, psicofarmaci e gioco d’azzardo. Fu un parziale successo perché completai con profitto il mese di ricovero, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma a vederlo mezzo vuoto fu un fallimento, perché non proseguii la riabilitazione nella seconda fase: una riunione alla settimana nel club degli alcolisti. Una frequentazione che dovrebbe essere a vita, mentre io mi fermai a soli cento giorni di astinenza. All’epoca era il mio record personale: traguardo festeggiato con una pinta di birra doppio malto, ovviamente seguita da molte altre.
Il preferire la birra al vino non fa di me un alcolista minore: basta berne il doppio e la quantità di principio psicoattivo diventa la stessa. Si tratta di una preferenza meramente legata al prezzo, che all’estero è più basso. In Italia invece carburo con economico vino in cartone.
Stare in alcologia a San Daniele mi ha fatto capire l’importanza di affrontare il problema in un contesto comunitario. Per evitare le ricadute ci vuole non solo la mera astinenza, ma soprattutto il miglioramento degli stili di vita personale e professionale. È il cosiddetto approccio «ecologico-sociale» sviluppato dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin (1922-1996) e adottato da molte strutture sanitarie italiane.
Riunioni settimanali obbligatorie
Prima gli alcolisti cronici erano di solito curati come malati nei reparti di psichiatria. Hudolin però ha osservato che i problemi dell’alcol coinvolgono anche i familiari: per esempio, nell’inversione dei ruoli tra coniugi, o tra genitori e figli. Quindi ora anche loro vengono trattati come pazienti, e almeno una-due volte alla settimana partecipano alle lezioni di educazione alla salute e alle sedute con gli operatori (psichiatri e paramedici specializzati) assieme al parente in cura.
I familiari continuano poi insieme il percorso nelle riunioni settimanali dei Cat (Club alcolisti in trattamento) capillarmente diffusi in tutta Italia. Qui il grosso ostacolo è la vergogna: bisogna frequentare il club più vicino, la gente ti conosce. Imbarazzante il caso di un mio compagno di sventura, dirigente locale di un grosso partito politico. Ma è necessario farlo, perché oltre ad aiutarsi nei momenti difficili, le famiglie devono «contagiare la salute» nell’ambiente in cui si vive.
Ricaduta “bagnata”
Esiste infatti la ricaduta “bagnata”, dal significato chiaro. Ma più insidiosa è quella “asciutta”: mantenere gli stessi comportamenti che portano a rivangare il passato con recriminazioni colpevolizzanti da parte dei familiari contro l’alcolista, costringendolo a «sedersi dalla parte del torto perché tutti gli altri posti sono occupati» (Bertolt Brecht). La percentuale di successo di questo metodo è del 70-80% dopo un anno.
Per un individualista e libertario come me non è stato facile accettare la terapia «eco-sociale». Ma gli operatori hanno un approccio scientifico e antiproibizionista. L’educazione di gruppo alla salute ha avuto momenti esilaranti. Il danno ormonale dell’alcol che femminilizza il corpo maschile è un deterrente per certi uomini virili? «Per me invece la prospettiva di potermi divertire con tette tutte mie è un incentivo a bere», ho scherzato.
I ricoverati in alcologia in Italia hanno in media 50-60 anni: il problema comincia presto, ma si riconosce tardi. Quasi sempre soffriamo di depressione, spesso diabete, e proveniamo da ogni estrazione sociale: dal camionista al dirigente disoccupato, dall’operaia al professionista in crisi matrimoniale, dalla pensionata sola in casa ai sempre più numerosi immigrati africani che andavano tranquillamente avanti a spinelli, ma sono passati al più dannoso alcol temendo i test antidroga.
Io, non so se ce la farò a non bere per sempre. Improbabile. Ma se ci riuscirò non sarà tanto per me stesso (l’autostima è poca), quanto per l’amore che ho trovato a San Daniele: mi hanno ridato entusiasmo per la vita.
Michele Boselli
Wednesday, February 08, 2012
La guerra del Puzzone
BARUFFE TRENTINE: il formaggio di Moena, famoso in tutto il mondo, sta per ottenere la Dop. Ma ora che lo fanno a Predazzo, gli allevatori della val di Fassa si sono ribellati: «Niente latte». E hanno inventato il Cher de fasha
Moena (Trento), 1 febbraio 2012
Fino al 1918 sopra Moena, al passo San Pellegrino, correva il confine fra Austria e Italia: di qua il Trentino irredento, di là la provincia di Belluno. Cent’anni dopo, un’altra guerra viene combattuta in val di Fassa. Quella del Puzzone.
Si tratta del formaggio tipico di Moena, ormai famoso in tutto il mondo: è arrivato nei migliori negozi di gastronomia in Europa, e anche a New York. Simile alla fontina e puzzolente uguale, il Puzzone è una denominazione relativamente recente: risale a trent’anni fa, quando i valligiani fassani scoprirono che il nome choc garantisce un ricordo indelebile. Prima, era per tutti semplicemente formaggio «nostrano», o spetz tsaorì (saporito) in ladino, e nessuno si sognava di esportarlo.
Questa storia di successo si coronerà fra qualche mese, quando andrà in porto la concessione della Dop (Denominazione di origine protetta) da parte dell’Unione europea. I Puzzoni potranno essere prodotti soltanto nelle valli di Fassa, Fiemme, Primiero, e negli adiacenti comuni altoatesini di Trodena e Anterivo.
Il caseificio locale chiude
Nel frattempo, però, il caseificio di Moena ha chiuso (posizione disagiata, scomodo per i camion) e si è fuso con quello della confinante Predazzo. Quindi le 38 mila forme annuali di Puzzone oggi vengono prodotte lì: sette chilometri più a sud, stessa valle (quella del torrente Avisio), però nome diverso: non più Fassa, ma Fiemme.
Apriti cielo. I fieri allevatori fassani, che dalle loro preziose malghe a 100-2000 metri conferivano latte incontaminato al caseificio di Moena, si sono rifiutati di portarlo a quello della valle rivale.
I contadini locali sono rimasti fedeli all’altro loro caseificio sociale, quello di Campitello di Fassa (appena trasferito nella nuova sede di Pera). Il quale, visto il successo del Puzzone, ha pensato bene di «inventare» un formaggio praticamente uguale, sia per sapore che per etichetta: il Cuor di Fassa (Cher de Fasha in ladino). Successo anche per questa novità: «Produciamo 15 mila forme l’anno», ci dice Paolo Brunel, presidente del caseificio di Pera.
I fassani hanno sempre visto Moena con sospetto: ultimo comune a sud, stava sotto il vescovo di Trento e non con Bressanone, come il resto della valle. E ora, addirittura il «tradimento» con Predazzo...
Mauro Suttora
Moena (Trento), 1 febbraio 2012
Fino al 1918 sopra Moena, al passo San Pellegrino, correva il confine fra Austria e Italia: di qua il Trentino irredento, di là la provincia di Belluno. Cent’anni dopo, un’altra guerra viene combattuta in val di Fassa. Quella del Puzzone.
Si tratta del formaggio tipico di Moena, ormai famoso in tutto il mondo: è arrivato nei migliori negozi di gastronomia in Europa, e anche a New York. Simile alla fontina e puzzolente uguale, il Puzzone è una denominazione relativamente recente: risale a trent’anni fa, quando i valligiani fassani scoprirono che il nome choc garantisce un ricordo indelebile. Prima, era per tutti semplicemente formaggio «nostrano», o spetz tsaorì (saporito) in ladino, e nessuno si sognava di esportarlo.
Questa storia di successo si coronerà fra qualche mese, quando andrà in porto la concessione della Dop (Denominazione di origine protetta) da parte dell’Unione europea. I Puzzoni potranno essere prodotti soltanto nelle valli di Fassa, Fiemme, Primiero, e negli adiacenti comuni altoatesini di Trodena e Anterivo.
Il caseificio locale chiude
Nel frattempo, però, il caseificio di Moena ha chiuso (posizione disagiata, scomodo per i camion) e si è fuso con quello della confinante Predazzo. Quindi le 38 mila forme annuali di Puzzone oggi vengono prodotte lì: sette chilometri più a sud, stessa valle (quella del torrente Avisio), però nome diverso: non più Fassa, ma Fiemme.
Apriti cielo. I fieri allevatori fassani, che dalle loro preziose malghe a 100-2000 metri conferivano latte incontaminato al caseificio di Moena, si sono rifiutati di portarlo a quello della valle rivale.
I contadini locali sono rimasti fedeli all’altro loro caseificio sociale, quello di Campitello di Fassa (appena trasferito nella nuova sede di Pera). Il quale, visto il successo del Puzzone, ha pensato bene di «inventare» un formaggio praticamente uguale, sia per sapore che per etichetta: il Cuor di Fassa (Cher de Fasha in ladino). Successo anche per questa novità: «Produciamo 15 mila forme l’anno», ci dice Paolo Brunel, presidente del caseificio di Pera.
I fassani hanno sempre visto Moena con sospetto: ultimo comune a sud, stava sotto il vescovo di Trento e non con Bressanone, come il resto della valle. E ora, addirittura il «tradimento» con Predazzo...
Mauro Suttora
I politici laureati "sfigati"
DAVVERO CHI SI LAUREA DOPO I 26 ANNI DEVE VERGOGNARSI? ECCO A CHE ETA' HANNO FINITO GLI STUDI MINISTRI ED EX
di Mauro Suttora
Oggi, 1 febbraio 2012
Giorgio Napolitano e Mario Monti in testa alla classifica dei superveloci: laurea ad appena 22 anni. Subito dopo gli altri leader della politica italiana: Gianfranco Fini a 23, Pier Luigi Bersani a 24, Silvio Berlusconi a 25. Dopo l’uscita di Michel Martone, neo-viceministro del Lavoro che ha bollato come «sfigati» i laureati dopo i 26 anni, abbiamo controllato quanti, fra i suoi colleghi in politica, potrebbero sentirsi offesi. E abbiamo scoperto che sono ben pochi, perché la maggioranza dei politici ha compiuto studi regolari. Poi ci sono quelli che non si sono neppure laureati (girate la pagina per scoprire chi), e a giudicare dai nomi nessuno soffre di complessi d’inferiorità.
Martone voleva condannare i figli di papà fuoricorso che si baloccano fra donne, sport e motori. Così come il ministro Tomaso Padoa Schioppa definì «bamboccioni» i giovani che vivono in famiglia dopo i 30 anni, e Renato Brunetta insultò i precari («Siete la peggiore Italia»).
Ma, andando sul concreto, in politica chi si è laureato in ritardo ha avuto ottime scuse. Antonio Di Pietro, per esempio: emigrato in Germania, poi studente-lavoratore, di giorno era impiegato civile all’Aeronautica e la sera affrontava gli esami universitari di Legge. Nichi Vendola ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini fuori tempo massimo, ma un lavoro già ce l’aveva: dirigente dei giovani comunisti e dell’Arcigay.
Più accidentato il percorso accademico di Alessandra Mussolini: accusata con altri 180 studenti romani di aver «comprato» due esami nel 1982 (reato di falso, prescritto), dieci anni dopo quando entrò in Parlamento si dichiarò dottore in Medicina, ma si laureò solo nel ‘93. Un anno fa è stata bocciata all’esame di abilitazione; l’ha ripetuto, e alla fine ce l’ha fatta.
Fra gli ex ministri Stefania Prestigiacomo ha conquistato nel 2006 una laurea triennale in Scienza dell’amministrazione alla Lumsa (Libera università Maria Santissima Assunta) di Roma, con una tesi sulle adozioni. Ma, figlia di imprenditori, divenne presidente dei giovani industriali di Siracusa a soli 23 anni, e quattro anni dopo entrò alla Camera. Stessa università privata anche per Mario Baccini (Udc): 110 e lode in Lettere due anni fa, tesi su Amintore Fanfani.
Il «non è mai troppo tardi» del sindaco di Roma Gianni Alemanno si è concluso nel 2004 a Perugia, dov’è diventato «ingegnere dell’ambiente» con tesi sulle biomasse. Ma il record di chi ha voluto conquistare una laurea fuori tempo massimo, a questo punto solo per orgoglio e prestigio, va a Claudio Scajola: ce l’ha fatta nel 2000 in Legge a Genova, dove aveva cominciato a studiare nel 1967, prima di essere attratto dalla politica che gli affidò ad appena 27 anni la direzione di un ospedale.
Ha sforato solo di un anno, invece, secondo il parametro-Martone, Maria Stella Gelmini: si è laureata nel 2000 in Legge a Brescia con 100/110 e una tesi un po’ «sciatta» sui referendum regionali, secondo il relatore.
Mara Carfagna ha ottenuto la laurea in Legge nella sua Salerno lo stesso anno (2001) in cui ha posato nuda sulla copertina del mensile Maxim: studentessa-lavoratrice. Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino, ha fatto notizia perché sul sito ufficiale del governo si vantava di avere un «master» alla Bocconi. In realtà era un corso di una ventina di giorni aperto anche ai diplomati con licenza media.
Silvio Berlusconi si è laureato con lode nel 1961 alla Statale di Milano con una tesi, manco a dirlo, sul contratto di pubblicità. Stessa età di laurea e stessa facoltà (Legge) per Marco Pannella, il quale però nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è stata una delle ultime a laurearsi in Lingue straniere alla Bocconi: proprio quell’anno (1972) il corso venne soppresso.
Pier Luigi Bersani ha potuto esibire online il suo notevole curriculum universitario (30 in tutti gli esami tranne un 28, laurea con lode in Filosofia con tesi su san Gregorio Magno) dopo che nel 2010 la Gelmini lo accusò di essere un «ripetente». Stessa età e università (Bologna) per Pierferdinando Casini, laureato in Legge.
Fini esibisce una laurea in Pedagogia ottenuta a pieni voti a Roma nel 1975, ma senza poter frequentare le lezioni: in quel periodo i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Molto più calma la laurea in Bocconi per il neoministro Corrado Passera, seguita da un master a Filadelfia. Quanto a Brunetta, pure lui laureato 23enne, la sua università era Padova, facoltà di Scienze politiche ed economiche.
Ed ecco infine i «mostri» laureati a soli 22 anni: traguardo matematicamente impossibile senza una «primina» (elementari anticipate a cinque anni d’età) o il salto di un anno alle medie. Napolitano diventa dottore in Legge nel 1947 con una tesi di Economia politica sul «mancato sviluppo del Mezzogiorno». Durante la guerra salta la prima liceo ed entra nel Pci.
Monti si laurea alla Bocconi nel ’65, poi si specializza a Yale (Stati Uniti), fa la leva nell’Aeronautica e a 26 anni è già professore ordinario a Trento, dove lo chiama il rettore Francesco Alberoni. Romano Prodi è dottore in Legge nel ’61 alla Cattolica di Milano, con tesi sul protezionismo industriale. Laureato prodigio anche l’ex ministro Franco Frattini: Legge a Roma. E nel nuovo governo brilla anche il curriculum del sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, pure lui laureato in Giurisprudenza a Roma.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 1 febbraio 2012
Giorgio Napolitano e Mario Monti in testa alla classifica dei superveloci: laurea ad appena 22 anni. Subito dopo gli altri leader della politica italiana: Gianfranco Fini a 23, Pier Luigi Bersani a 24, Silvio Berlusconi a 25. Dopo l’uscita di Michel Martone, neo-viceministro del Lavoro che ha bollato come «sfigati» i laureati dopo i 26 anni, abbiamo controllato quanti, fra i suoi colleghi in politica, potrebbero sentirsi offesi. E abbiamo scoperto che sono ben pochi, perché la maggioranza dei politici ha compiuto studi regolari. Poi ci sono quelli che non si sono neppure laureati (girate la pagina per scoprire chi), e a giudicare dai nomi nessuno soffre di complessi d’inferiorità.
Martone voleva condannare i figli di papà fuoricorso che si baloccano fra donne, sport e motori. Così come il ministro Tomaso Padoa Schioppa definì «bamboccioni» i giovani che vivono in famiglia dopo i 30 anni, e Renato Brunetta insultò i precari («Siete la peggiore Italia»).
Ma, andando sul concreto, in politica chi si è laureato in ritardo ha avuto ottime scuse. Antonio Di Pietro, per esempio: emigrato in Germania, poi studente-lavoratore, di giorno era impiegato civile all’Aeronautica e la sera affrontava gli esami universitari di Legge. Nichi Vendola ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini fuori tempo massimo, ma un lavoro già ce l’aveva: dirigente dei giovani comunisti e dell’Arcigay.
Più accidentato il percorso accademico di Alessandra Mussolini: accusata con altri 180 studenti romani di aver «comprato» due esami nel 1982 (reato di falso, prescritto), dieci anni dopo quando entrò in Parlamento si dichiarò dottore in Medicina, ma si laureò solo nel ‘93. Un anno fa è stata bocciata all’esame di abilitazione; l’ha ripetuto, e alla fine ce l’ha fatta.
Fra gli ex ministri Stefania Prestigiacomo ha conquistato nel 2006 una laurea triennale in Scienza dell’amministrazione alla Lumsa (Libera università Maria Santissima Assunta) di Roma, con una tesi sulle adozioni. Ma, figlia di imprenditori, divenne presidente dei giovani industriali di Siracusa a soli 23 anni, e quattro anni dopo entrò alla Camera. Stessa università privata anche per Mario Baccini (Udc): 110 e lode in Lettere due anni fa, tesi su Amintore Fanfani.
Il «non è mai troppo tardi» del sindaco di Roma Gianni Alemanno si è concluso nel 2004 a Perugia, dov’è diventato «ingegnere dell’ambiente» con tesi sulle biomasse. Ma il record di chi ha voluto conquistare una laurea fuori tempo massimo, a questo punto solo per orgoglio e prestigio, va a Claudio Scajola: ce l’ha fatta nel 2000 in Legge a Genova, dove aveva cominciato a studiare nel 1967, prima di essere attratto dalla politica che gli affidò ad appena 27 anni la direzione di un ospedale.
Ha sforato solo di un anno, invece, secondo il parametro-Martone, Maria Stella Gelmini: si è laureata nel 2000 in Legge a Brescia con 100/110 e una tesi un po’ «sciatta» sui referendum regionali, secondo il relatore.
Mara Carfagna ha ottenuto la laurea in Legge nella sua Salerno lo stesso anno (2001) in cui ha posato nuda sulla copertina del mensile Maxim: studentessa-lavoratrice. Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino, ha fatto notizia perché sul sito ufficiale del governo si vantava di avere un «master» alla Bocconi. In realtà era un corso di una ventina di giorni aperto anche ai diplomati con licenza media.
Silvio Berlusconi si è laureato con lode nel 1961 alla Statale di Milano con una tesi, manco a dirlo, sul contratto di pubblicità. Stessa età di laurea e stessa facoltà (Legge) per Marco Pannella, il quale però nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è stata una delle ultime a laurearsi in Lingue straniere alla Bocconi: proprio quell’anno (1972) il corso venne soppresso.
Pier Luigi Bersani ha potuto esibire online il suo notevole curriculum universitario (30 in tutti gli esami tranne un 28, laurea con lode in Filosofia con tesi su san Gregorio Magno) dopo che nel 2010 la Gelmini lo accusò di essere un «ripetente». Stessa età e università (Bologna) per Pierferdinando Casini, laureato in Legge.
Fini esibisce una laurea in Pedagogia ottenuta a pieni voti a Roma nel 1975, ma senza poter frequentare le lezioni: in quel periodo i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Molto più calma la laurea in Bocconi per il neoministro Corrado Passera, seguita da un master a Filadelfia. Quanto a Brunetta, pure lui laureato 23enne, la sua università era Padova, facoltà di Scienze politiche ed economiche.
Ed ecco infine i «mostri» laureati a soli 22 anni: traguardo matematicamente impossibile senza una «primina» (elementari anticipate a cinque anni d’età) o il salto di un anno alle medie. Napolitano diventa dottore in Legge nel 1947 con una tesi di Economia politica sul «mancato sviluppo del Mezzogiorno». Durante la guerra salta la prima liceo ed entra nel Pci.
Monti si laurea alla Bocconi nel ’65, poi si specializza a Yale (Stati Uniti), fa la leva nell’Aeronautica e a 26 anni è già professore ordinario a Trento, dove lo chiama il rettore Francesco Alberoni. Romano Prodi è dottore in Legge nel ’61 alla Cattolica di Milano, con tesi sul protezionismo industriale. Laureato prodigio anche l’ex ministro Franco Frattini: Legge a Roma. E nel nuovo governo brilla anche il curriculum del sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, pure lui laureato in Giurisprudenza a Roma.
Mauro Suttora
Subscribe to:
Posts (Atom)