Wednesday, January 25, 2012

Capodanno alle Maldive

I POLITICI POSSONO ANDARE IN VACANZA DOVE VOGLIONO. MA SE SCELGONO LE MALDIVE PROPRIO ADESSO, NON SONO BUONI POLITICI

di Mauro Suttora

Oggi, 18 gennaio 2012

Ma si rendono conto che il clima è cambiato? I nostri politici di professione svacanzano alle Maldive per Capodanno in suites da migliaia di euro al giorno, e si scandalizzano per lo scandalo: «Che c'è di strano, era l'anniversario di matrimonio, era il sessantesimo compleanno, avevamo lavorato tanto, abbiamo pagato tutto...»

Naturalmente. Nessun reato. Avevano tutto il diritto di andare dove volevano. Ma proprio in questo momento, dovevano andare in uno dei posti più lussuosi della Terra? Ora che scattano i sacrifici da loro causati e imposti: benzina alle stelle, addizionali Irpef, pensionati non più protetti dall'inflazione?

La nostra copertina della settimana scorsa ha fatto il giro del mondo. Il quotidiano spagnolo Abc ha ripubblicato le foto di Schifani, Rutelli, Casini e Fini negli atolli, mentre agli italiani tocca «ajustarse el cinturòn», stringere la cinghia. I tedeschi hanno fatto il paragone con la loro cancelliera Angela Merkel, che per Natale si è accontentata di un'austera pensione a tre stelle a Pontresina (Svizzera). E noi abbiamo fotografato il sindaco di Londra Boris Johnson, venuto in ferie pure lui senza scorta in un tre stelle nella nostra Champoluc (Aosta): auto a noleggio, in fila allo skilift.

Anche in Italia c'è chi ha capito. A cominciare da Mario Monti, Capodanno a Roma con figli e nipotini. «Ma a palazzo Chigi!», ha tuonato Roberto Calderoli, immaginando chef e camerieri in livrea. Invece nell'alloggio di servizio a cucinare il cotechino e a servire a tavola c'erano solo la signora Monti e sua sorella. Povero Calderoli: ora è indagato lui per truffa perché si è scoperto che da ministro usò un aereo di Stato per andare a Cuneo a trovare il figlio della compagna. Danno erariale: 10 mila euro.

La musica è cambiata per i nuovi ministri e sottosegretari. Carlo Malinconico non ha fatto neppure in tempo ad ambientarsi, che ha dovuto dimettersi per avere accettato in passato soggiorni gratis all'hotel Pellicano di Porto Ercole (Grosseto) da un esponente della «Cricca». Filippo Patroni Griffi è indagato per un appartamento di 100 metri quadri dietro al Colosseo comprato dall'Inps per soli 170 mila euro. Profilo basso anche per Corrado Passera: non più villona sull'Appia o casa da 11 mila euro al mese d'affitto in via Madonnina a Milano per la nuova moglie; con lei si è appena trasferito in un anonimo appartamento ai Parioli.

Un nuovo rigore, contraddetto però dalla vecchia classe politica che non vuole sentir parlare di tagli ai propri stipendi o pensioni d’oro. L’abolizione delle Province? Contestata. Maria Elisabetta Casellati, non più sottosegretario, a Cortina continua a esibire la scorta. Il presidente della provincia di Bolzano guadagna più del presidente Usa Barack Obama (25 mila euro al mese), il suo vice più di quello francese Nicolas Sarkozy, il capo della provincia di Trento prende 2 mila euro al mese più della Merkel.

«Non ho niente contro la ricchezza», ci dice la commentatrice Marina Terragni, «chi ha guadagnato soldi onestamente ha il diritto di spenderli. Ma se un politico di carriera in questo particolare momento non capisce che farsi fotografare ai tropici a Capodanno è disastroso, non è un bravo politico. Non è sintonizzato con lo spirito del tempo. Oltretutto è una scelta tragicomica, da cinepanettone, quella delle Maldive. Lo sanno che lì ci sono i paparazzi. Cosa gli costava andarsene in Maremma - perchè di solito i politici a Roma lì hanno la villa - e starsene tranquilli? Avrebbero anche evitato lo choc da fuso orario, perché a una certa età non è che certi sbalzi caldo/freddo facciano benissimo... Consiglio l'Italia, la prossima volta. Il nostro è il Paese più bello del mondo. E in più non si rischia di fare una brutta fine, alle prossime elezioni». Ovvero: se non per sobrietà, contenetevi almeno per furbizia.

Più perfida Ambra Angiolini, «Casta diva» tv, che a Piazza pulita su La Sette ha commentato: «Non si può più nemmeno fuggire nell’oceano Indiano, che si incappa nella trippetta flaccida di Schifani».

C'è cascato anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, nella trappola intercontinentale da 800 euro a notte: fotografato in un resort thailandese. Uno dei pochi politici di nome che ha dribblato sapientemente il problema è stato Pierluigi Bersani: Capodanno a Bettola (Piacenza), dai suoceri.

Insomma, a ben cinque anni dalla pubblicazione del libro La Casta, che ha svelato i privilegi dei 100 mila politici italiani a tempo pieno, poco è cambiato. Tante promesse e annunci, ma quasi nessun risparmio effettivo. Anche dopo il taglio del 10 per cento a tutti gli stipendi d’oro pubblici, uno stenografo al Senato continua a guadagnare 260 mila euro l’anno: il doppio del vicepresidente degli Stati Uniti. E un barbiere 130 mila. Totale per il Parlamento: un miliardo e mezzo l’anno. Gli sprechi continuano, e anche le ostentazioni.
Mauro Suttora

Wednesday, January 18, 2012

Chi è Attilio Befera

L'UOMO CHE CI FARA' PAGARE LE TASSE

di Mauro Suttora

Oggi, 11 gennaio 2012

Sarà lui il Superman che sconfiggerà gli evasori fiscali? Il physique du role, onestamente, non c'è. Guido Bertolaso ci appariva scattante nei suoi golfini attillati della Protezione Civile. Attilio Befera, invece, assomiglia già per nome e cognome a quello che è: un tranquillo dirigente ministeriale 65enne. Eppure il direttore dell'Agenzia delle Entrate lo sta imparando a conoscere l'Italia intera. Finora erano i ministri delle Finanze a esporsi in prima persona contro l'evasione. Da Bruno Visentini con i suoi registratori di cassa negli anni '80 a Vincenzo Visco, sono stati tanti gli spauracchi dei contribuenti neghittosi.

Ma Befera non è né ministro né politico. E, in tempi di «tecnici» neutrali, forse è proprio questa la sua forza. Così, ha cominciato a esternare. Beppe Grillo dice che bisogna «capire le ragioni» di chi manda pacchi bomba a Equitalia, di cui Befera è presidente? «Questa volta non sei divertente», gli replica subito. Ottanta ispettori dell'Agenzia invadono Cortina a Capodanno, controllando i conti di alberghi e negozi? Befera si fa intervistare da Piazzapulita su La Sette e difende la clamorosa operazione. Insomma, ci mette la faccia.

Il cambio di passo rispetto al recente passato è evidente. Spot tv dipingono gli evasori come loschi parassiti. Milioni di notifiche Equitalia ci intimano di pagare tutto e subito: dai 30 euro delle multe stradali, ai milioni di qualche tremenda imposta societaria. Il premier Mario Monti, diretto superiore di Befera in quanto ministro di Economia e Finanze, appone il sigillo finale: «Sono gli evasori a mettere le mani nelle tasche degli onesti». E non lo Stato, come sostenuto da leghisti e berlusconiani.

Befera, nel palazzo romano della sua Agenzia delle Entrate in via Cristoforo Colombo, quasi all'Eur, è il simbolo di questa nuova consapevolezza. L'Italia sull'orlo della bancarotta non può più sopportare i 120 miliardi annui sottratti al fisco: «Con quelli, i nostri bilanci sarebbero a posto», ripete.

Nato a Roma, madre abruzzese (Luco dei Marsi, dove la domenica va a passeggiare nei boschi), a 19 anni appena diplomato comincia a lavorare in banca. Studente-lavoratore, laurea in Economia e commercio 110 e lode. In 30 anni a Efibanca scala tutte le posizioni fino alla direzione centrale. Fa anche il sindacalista, Cgil bancari. Nel 1995 il ministro delle Finanze del governo Dini, Augusto Fantozzi, lo chiama nel Secit (Servizio centrale ispettori tributari). Sedici mesi dopo è già direttore centrale delle Entrate.

Dal 2001 lo Stato cerca di rimediare alla sua cronica inefficienza creando prima l'autonoma Agenzia delle Entrate (che oggi ha 33 mila dipendenti), e nel 2006 togliendo a 40 banche private la riscossione: nasce Equitalia, braccio «armato» del fisco, guidato da Befera. Al quale riesce il miracolo: si fa apprezzare sia da Visco, ministro del centrosinistra dal '96 al 2000 e poi nel 2006-8, sia da Giulio Tremonti, che arriva nel 2001 con il centrodestra di Berlusconi e torna nel 2008.

Poche ore nel maggio 2008 segnano il destino di Befera: quelle durante le quali il suo predecessore all'Agenzia delle Entrate rende pubbliche in rete tutte le dichiarazioni Irpef degli italiani, dopo che Berlusconi ha vinto le elezioni. Proteste, dimissioni, e arriva Attilio. Che però conserva la presidenza del fortino Equitalia, un chilometro più in là verso l'Ardeatina.

Al mastino bipartisan resta sempre meno tempo per ascoltare Mozart, leggere Camilleri e andare alle partite della Lazio. L'unico rito al quale rimane fedele da 40 anni è l'incontro al sabato mattina nel caffè sotto casa nel suo elegante quartiere romano con i tre amici di una vita: il cardiologo Renato, l'assicuratore Luciano, e Mario, ormai pensionato. Con i suoi 456 mila euro di stipendio (38 mila al mese, altro che tetto) e 45 anni di contributi potrebbe ritirarsi anche lui. Ma non ci pensa. Anzi, proprio ora arriva una nuova giovinezza. Intanto è arrivata una nuova compagna, dopo una separazione difficile dalla moglie che gli ha dato due figli, un maschio e una femmina. Ormai grandi, e allora lui passeggia con i suoi due cani, un alano e un bassotto.

Dopo la pioggia di buste con proiettili e attentati a Equitalia nelle ultime settimane, a Befera e ai suoi collaboratori è stata imposta la scorta. Beffardo destino per quest’uomo mite, che quando si arrabbia al massimo dice, alzando un po’ la voce sarcastico: «Amore mio…»

Metà Italia lo ama, metà lo odia. Chi gli sta vicino rivela che quattro cose gli rendono la vita più serena: la stima di Monti, quella di Giorgio Napolitano, la sua ammirazione per Cavour. E l’alleanza di ferro che ha stretto con Antonio Mastrapasqua, il presidente dell’Inps che gestisce paritariamente con l’Agenzia delle Entrate gli ottomila riscossori di Equitalia.

Meno coordinati sono i rapporti con la Guardia di Finanza, i militari della lotta anti-evasori. A volte c’è un po’ di concorrenza con l’Agenzia, proprio come capita fra Carabinieri e Polizia. Il blitz di Cortina, per esempio, è stato condotto dall’Agenzia; e un comandante locale dei finanzieri ha detto che non ne sapeva nulla, per di più dichiarandosi perplesso sull’opportunità della data scelta, al picco dell’alta stagione. Ma sono inezie, e pochi giorni dopo ecco le Fiamme gialle liguri scatenate in negozi e locali di Portofino, Santa Margherita e Genova.

Solo operazioni d’immagine? Lo si vedrà con i bilanci che Befera sarà capace di esibire a fine 2012. Ma questo è anche il primo anno in cui le somme recuperate dal fisco non sono state messe preventivamente a bilancio dal governo. Perché per ora si tratta solo di speranze. Se diventeranno certezze, e supereranno i nove miliardi del 2011, dipende da Attilio.
Mauro Suttora

Wednesday, January 11, 2012

2012: rivincita per Aung San Suu Kyi?

Nel 1990 la signora della nonviolenza vinse le elezioni in Birmania con l’82 per cento. Finì agli arresti, isolata per 21 anni. Ma ora è libera, e il nuovo presidente promette un nuovo voto entro giugno

di Mauro Suttora

Rangoon, 4 gennaio 2012

Nelson Mandela è rimasto in prigione 27 anni. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è arrivata a 21 (seppure agli arresti domiciliari). I dittatori birmani la arrestarono nel 1990, dopo che vinse le prime elezioni libere conquistando l’82 per cento dei seggi. Lei non ha più potuto riabbracciare neppure il marito inglese, morto a Londra nel 1999.

Da qualche mese, però, le cose in Birmania sembrano cambiate. C’è una specie di Gorbaciov, il generale Thein Sein, presidente dallo scorso marzo, che sta liberalizzando il regime. Ha promesso nuove elezioni per il 2012. La signora Suu Kyi ha riacquistato la libertà, e questa volta il suo partito parteciperà al voto. Tutto sembra cambiato rispetto alle sanguinose proteste del 2007 guidate dai monaci buddisti, che emozionarono il mondo intero.

La signora è figlia del Garibaldi birmano: Aung San combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947. Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, anche perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.

Lei andò in esilio con la famiglia nel ’62, quando i generali si impadronirono di questo stupendo Paese di 50 milioni di abitanti Tornò nell’88 a Rangoon solo perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader.

I generali non l’hanno liberata neanche dopo il 1991, quando le diedero il Nobel per la pace. La dittatura birmana sta in piedi solo grazie all’appoggio della vicina Cina, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si è sempre opposta a sanzioni dell’Onu, e perfino la democratica India, che trova conveniente commerciare con la Birmania.

Ma adesso i generali cominciano a temere lo strapotere della Cina, e per la prima volta dal 1955 hanno invitato un segretario di Stato statunitense (Hillary Clinton) in visita ufficiale.

Mai una parola di odio

Restano ancora in prigione un migliaio di prigionieri politici, ma il clima è migliorato e Aung San Suu Kyi ha accettato di partecipare alle prossime elezioni. Lei da 22 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca: «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello.

Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che nel 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.

Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone Walk On (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco (For the Lady), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting. Il 2012 potrebbe essere l’anno della svolta.

Chi è Corrado Passera

IL CATTOLICO COMASCO CHE PIACE A TUTTI

Oggi, 4 gennaio 2012

di Mauro Suttora

«Passerà», lo avevano soprannominato velenosi i giornalisti Mondadori vent’anni fa. Invece non è passato. E oggi l’ex assistente di Carlo De Benedetti è il ministro più potente del governo Monti.

L’Ingegnere aveva affidato al suo pupillo Corrado Passera la casa editrice di Segrate ai tempi della guerra contro Silvio Berlusconi. Poi arrivò la spartizione: Mondadori al Cavaliere, Espresso-Repubblica a De Benedetti. Così Passera dovette abbandonare la poltrona. Durante quel conflitto durato anni, però, si era fatto apprezzare da Berlusconi. Con i suoi modi suadenti da cattolico comasco, era uno dei pochissimi debenedettiani che riusciva a parlare con Silvio. E, particolare decisivo, l’unico uomo alto 1 e 90 che Berlusconi sopporti. Così, pare che il Cavaliere gli avesse proposto di rimanere direttore generale Mondadori, tradendo De Benedetti. Offerta declinata. Ma molto gentilmente.

Discrezione e savoir-faire sono doti di famiglia. I Passera hanno due dei più begli alberghi di Como, il Villa Flori e il Terminus. Sono anche piccoli azionisti del Villa d’Este di Cernobbio, nella top ten mondiale.

Lui, dopo il liceo classico Volta a Como, si laurea nel 1977 alla Bocconi. Poi un anno di master a Filadelfia. Quindi, l’entrata nella McKinsey, principale società mondiale di consulenze. Intanto si sposa con una compagna di scuola, Cecilia Canepa, figlia di industriali tessili. Due figli: Sofia, 25 anni, che si sta specializzando in pediatria alla Cattolica di Roma, e Luigi, 24.

Nell’85 l’incontro con il primo dei due uomini decisivi per la carriera di Passera: De Benedetti. Ne è l’ombra per sedici anni, direttore generale Cir, poi mandato a cercare di salvare la Olivetti.

Nel ’96 lo chiama a sè il grande vecchio della finanza cattolica italiana, il bresciano Giovanni Bazoli, che gli affida il Banco Ambroveneto. Due anni dopo il premier Romano Prodi e il ministro Carlo Azeglio Ciampi lo mettono a capo delle Poste.

Passera fa un buon lavoro, il gigante inefficiente dimagrisce di 30 mila dipendenti, la posta prioritaria arriva entro 48 ore, gli uffici si tingono di giallo e blu, i conti raggiungono il pareggio.

Venderà le azioni della sua banca

Nel 2002 Bazoli lo richiama in Banca Intesa, che poi si fonde con San Paolo: Passera diventa il banchiere più importante (e pagato) d’Italia assieme ad Alessandro Profumo di Unicredit. Accumula decine di milioni di euro in azioni che ora, nominato ministro di Sviluppo e Infrastrutture da Mario Monti, ha promesso di vendere per evitare un conflitto d’interessi. Viste le attuali quotazioni, sarà un salasso.

Nel 2008 architetta per conto del governo Berlusconi il salvataggio di Alitalia e Air One. Addetta stampa di quest’ultima società era Giovanna Salza, che già aveva lavorato alle Poste. Fra i due scoppia l’amore, l’anno scorso si sposano con una cerimonia cui partecipano molti personaggi dell’economia fra cui Monti e l’attuale ministro del Lavoro Elsa Fornero, e nasce la figlia Luce. Ora l’esuberante Giovanna è incinta di un maschio.

Sicuramente Passera non abbandonerà la politica quando finirà il governo dei «tecnici». Sia la sinistra che la destra lo avevano corteggiato negli ultimi dieci anni per un posto da ministro. Dovrà passare attraverso la prova delle urne, ma per il dopo-Monti è uno dei candidati più accreditati. Sentiremo parlare ancora molto di lui.

Mauro Suttora

Wednesday, January 04, 2012

Elsa Fornero, superministra

CHI E' LA DONNA CHE FA ARRABBIARE SINDACATI E SINISTRA SULL'ARTICOLO 18

Oggi, 28 dicembre 2011

di Mauro Suttora

«Sono cieca, sorda e stupida». L’ha detto lei, per sfuggire alla selva di telecamere e fotografi che la assedia ogni volta che esce dal ministero. Citazione colta: sono le parole che usò ironicamente il filosofo Karl Popper per sottrarsi ai giornalisti.

Da un mese la professoressa Elsa Fornero è nel mirino. Di quotidiani e tv che vogliono intervistarla, ma anche dei milioni di italiani direttamente colpiti dalle sue stangate per ridurre il debito.

Le è bastata una settimana

Era da quarant’anni che i governi cercavano di abolire le pensioni d’anzianità (o meglio: di «giovinezza»), inopinato regalo tutto italico che permetteva a cinquantenni e anche pimpanti quarantenni di smettere di lavorare con sostanziosi vitalizi.

Poi è arrivata lei, la nuova superministra di Lavoro e Welfare (usiamo l’italiano: assistenza), e nel giro di una settimana ha decretato che non ci si pensiona più senza aver lavorato almeno 42 anni.

Natale rovinato per chi si apprestava a mettersi in quiescenza nel giro di pochi mesi. Ma, intimiditi da nuove parole come «spread» e agenzie di «rating», abbiamo ingoiato tutto. Anche la diminuzione del 6% per le pensioni superiori a 1.400 al mese, non più protette dall’inflazione per due anni.

Lacrime in mondovisione

Ci era diventata simpatica, però, quando l’abbiamo vista per la prima volta in tv. Perché ha singhiozzato e pianto quando ha dovuto pronunciare la parola «sacrifici».

«Quella sua foto in lacrime è finita in prima pagina su tutti i giornali americani», ci dice Annamaria Lusardi, docente alla George Washington University (Stati Uniti) e membro del comitato scientifico del Cerp (Centro ricerche pensioni), il think tank messo in piedi dalla Fornero all’università di Torino. «Rappresenta il travaglio di una persona che ha dovuto tradurre in pratica nel giro di soli sette giorni il lavoro di tutta una vita: quarant’anni di studi che l’hanno fatta diventare una dei massimi esperti di sistemi pensionistici a livello mondiale. Non so se gli italiani se ne rendono conto».

Poi però la Fornero ha affrontato un altro problema scottante del dibattito politico italiano: l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Quello che in pratica rende non licenziabili i lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti. «Non è un totem», si era limitata a rispondere a una domanda del Corriere della Sera che la intervistava. Ma è bastato questo accenno a scatenarle contro i sindacati e i partiti di sinistra: «Respingiamo quest’attacco ai diritti dei lavoratori», le hanno subito risposto in coro. «Frignero», l’ha ribattezzata il sito Dagospia. «Non controlla i nervi, è un po’ oligofrenica», l’hanno insultata. «È anche paranoica», dopo che lei ha detto di essere rimasta vittima «di una trappola» del giornalista che la intervistava sull’articolo 18.

Insomma, la luna di miele si è prematuramente spezzata. Quella che sembrava l’Angela Merkel italiana, una zia severa che ci fa deglutire lo sciroppo amaro per il nostro bene, si è improvvisamente trasformata in una crudele Margaret Thatcher. E lei non ha migliorato la situazione andando a un convegno dei giornalisti solo per dir loro in faccia che sono privilegiati perché «vicini al potere» («Ruffiani», ha tradotto il manifesto).

A sinistra in politica

Ma chi è veramente Elsa Fornero? Molti dimenticano che l’unica esperienza politica della sua vita l’ha fatta a sinistra: consigliere comunale a Torino negli anni Novanta con il sindaco Valentino Castellani. «E, andando nel merito delle pensioni, ha riformato un sistema che privilegiava i ricchi, offrendo trattamenti d’oro ingiustificati», dice la professoressa Lusardi.

Da professoressa, la Fornero è convinta che basti «spiegare» le cose per farle capire e accettare. «Sono ingenua», ha ammesso. Ma la politica è diversa dall’accademia: tutto diventa opinabile, e non è detto che logica, onestà o buona fede alla fine prevalgano. «La Fornero difende gli interessi delle nuove generazioni rispetto ai privilegi delle vecchie», dice la professoressa Lusardi.

Soffre per le incomprensioni

Però i giovani, proprio in quanto giovani, poco s’interessano alle pensioni. E se vedono tagliare quella del nonno protestano comunque. Quanto all’articolo 18, difficile convincere che licenziamenti facili producano più assunti.

Lei, la determinata ma sensibile Elsa, soffre per queste incomprensioni. La attaccano perché la figlia 37enne Silvia Deaglio è docente alla facoltà di Medicina dell’università di Torino: la stessa della madre e del padre, l’insigne economista Mario Deaglio (fratello di Enrico, fondatore di Lotta Continua) già direttore del Sole 24 Ore e oggi editorialista de La Stampa. La criticano perché le ricerche di genetica della figlia sono finanziate dalla Compagnia di San Paolo di cui lei era vicepresidente, e che l’ha designata vicepresidente di Banca Intesa (guidata dall’attuale ministro Corrado Passera).

Ma dimenticano che Elsa è figlia di un operaio del deposito militare e di una casalinga, che si alzava all’alba per andare dal suo paese San Carlo Canavese a studiare ragioneria e poi economia in città grazie a borse di studio. All’istituto commerciale Einaudi era compagna di banco di Cesare Damiano, poi Pci-Ds-Pd, suo predecessore al ministero del Lavoro (2006-8) ma oggi suo avversario sulle riforme di pensioni e welfare, anche se deve votare sì per disciplina di partito.

Fosse per Elsa, tutto si risolverebbe davanti ai fornelli di casa sua, dove volentieri invita a cena i colleghi che diventano automaticamente amici. Da Mario Monti (che insegnò a Torino dal 1971 all’85) alla Lusardi, tante lodi ai suoi risotti. E lei parla di economia anche a tavola, e spiega, spiega, spiega...
Mauro Suttora

Wednesday, December 28, 2011

Una brutta fazenda

DON VERZE' IN BRASILE

Cos'è successo al San Raffaele

di Mauro Suttora

Oggi, 21 dicembre 2011

Costa venti milioni di euro il jet intercontinentale di lusso Challenger con cui don Luigi Verzè e il suo vice Mario Cal volavano in Brasile. A Salvador di Bahia il padrone del San Raffaele aveva costruito un ospedale, con 17 miliardi di lire della Cooperazione italiana. Ma aveva anche due «fazendas», fattorie con piantagioni di cocco, mango, banane e uva senza semi. E nella più bella, con piscina in riva all'oceano, invitava spesso amici dall'Italia. Come l'attore Renato Pozzetto, suo socio nella compagnia aerea che gestiva gli elicotteri del pronto soccorso dell'ospedale milanese.

Nel 2007 don Verzè, in preda a una delle sue imbarazzanti megalomanie, si regalò quel costoso giocattolino per evitare i fastidiosi check-in degli aeroporti. Poi però i debiti della Fondazione San Raffaele peggiorarono, le banche non rinnovavano più i fidi, e il prudente Pozzetto l'anno scorso si è ritirato dalla società, l'Airviaggi. In perdita: la sua quota del 30 per cento svalutata ad appena 3 mila euro, praticamente zero.

Solo una briciola, in confronto al gigantesco «buco» provocato dal sacerdote veronese. Sembrava fosse di un miliardo nove mesi fa, quando è stato svelato. Ora è salito a un miliardo e mezzo. Il Vaticano ha estromesso don Verzè. Cal si è suicidato. Centinaia di fornitori premono furibondi per essere pagati. Il faccendiere Piero Daccò è in carcere per bancarotta fraudolenta e associazione per delinquere. La scorsa settimana è finito al fresco anche l'ex direttore finanziario.

L'accusa: tangenti del 3-5 per cento sugli appalti. Il sospetto: che le buste alte centimetri piene di biglietti da 500, rivelate dalla segretaria di Cal, finissero a politici e dirigenti della regione Lombardia. La quale copre quasi tutto il bilancio dell'ospedale: più di mezzo miliardo l'anno. Ancora lo scorso agosto, 41 milioni per «premi di eccellenza». In totale, 3,3 miliardi di soldi pubblici finiti al San Raffaele negli ultimi cinque anni. Ma la pioggia di finanziamenti non ha evitato il crac.

Com'è potuto accadere? Nessuno si era accorto di nulla? Il San Raffaele è una fondazione, quindi non deve esibire i bilanci. Daccò nega di avere pagato pubblici ufficiali. Però conosceva tutti. Ospitava perfino il governatore lombardo Roberto Formigoni sul suo yacht Ad Maiora a Porto Cervo. Ma il vero «amico di tutti» era l'incredibile don Verzè, ammirato da tutti i premier: Giulio Andreotti (che andò in Brasile a inaugurare l'ospedale), Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Il San Raffaele è nato 40 anni fa, accanto alla Milano Due della Fininvest. Assieme riuscirono a far deviare le rotte degli aerei su Linate.

Ultimo estimatore del vulcanico prete bipartisn: il governatore pugliese Nichi Vendola, sponsor del nuovo San Raffaele a Taranto. Anche un altro ex comunista è stato sedotto da don Verzè: Massimo Cacciari, primo rettore della facoltà di Filosofia dell'università privata San Raffaele nel 2002. Lì si è laureata Barbara, figlia di Berlusconi.

«Io vado avanti, la provvidenza seguirà», rispondeva don Verzè a chi gli chiedeva se non facesse passi più lunghi della gamba. Anche quando ha speso 200 milioni di euro per l’enorme cupola accanto alla tangenziale Est di Milano. Sotto la quale in luglio si è suicidato il suo braccio destro Cal. Che disperazione, appena due anni dopo queste foto di «dolce vita» in piscina. E che tristezza, sentire il socio veneto della fazenda brasiliana confessare in tv a Report di rapporti sessuali con ragazze 14enni: «Pedofila, prostituzione? Ma no, qui ci vanno tutti. Sennò loro, poverine, cosa fanno?».

«Don Verzè si presentava come un miliardario con jet privato, circondato da donne e ragazzi», ha raccontato Pedro Lino, consigliere della corte dei conti dello stato di Bahia. Per anni console onorario italiano a Salvador, città di quattro milioni di abitanti, è stata Liliana Ronzoni, direttrice dell’ospedale brasiliano. Riservato a chi ha un’assicurazione, cioè non i poveri. Per loro il San Raffaele brasileiro ha aperto ambulatori esterni. Così non paga le tasse, perché è considerato «umanitario».

Don Verzè e i suoi amici spesso arrivavano alla fazenda in elicottero, per evitare le cinque ore in suv nero cilindrata 3.000 con aria condizionata da Salvador a Conde. Lì trovavano tre piscine, campi da tennis, ponies, gabbie con scimmie. Una fissa , quella del «don» per le gabbie. All’ultimo piano sotto la cupola di Milano, che aveva preteso tutto per lui e addobbato con arredamenti per quattro milioni, teneva una voliera per i pappagalli.

Gli ospiti in Brasile stavano in bungalows. Alle 8 della domenica mattina don Verzè celebrava messa. Superata, quindi, la sospensione a divinis subìta nel 1973 dall’arcivescovo di Milano. Prima di mangiare, a tavola, segno della croce per tutti.

Don Verzè ha fondato una propria congregazione, i «Sigilli». Quasi tutti i dirigenti (soprattutto donne) del San Raffaele ne fanno parte. Pronunciano voto di castità, devozione, purezza. Non di povertà. Una decina di loro, compreso il don, vivono in una lussuosa ex cascina ristrutturata vicino al San Raffaele. Con tre cuochi e tre chef, pagati dalla fondazione col buco miliardario.
Mauro Suttora

Wednesday, December 21, 2011

Cattelan: trionfo a New York

LA PERSONALE AL GUGGENHEIM

di Mauro Suttora

Oggi, 14 dicembre 2011

Grande successo per la mostra retrospettiva personale di Maurizio Cattelan al museo Guggenheim di New York (fino al 22 gennaio). Nonostante la stroncatura del critico del New York Times l’affluenza di pubblico è tale che gli orari serali sono stati prolungati di due ore per tutti i lunedì e martedì, fino a dopo Natale.
Le Monde il 2 dicembre ha definito l’artista padovano «santo patrono dei sovversivi», e lo colloca con Jeff Koons (ex marito statunitense di Cicciolina), l’inglese Damien Hirst e il giapponese Takashi Murakami nell’olimpo dei quattro maggiori artisti contemporanei.
● 130 opere di Cattelan sono appese dal soffitto dell’edificio costruito 50 anni fa da Frank Lloyd Wright. L’effetto è giudicato strabiliante.
● L’ultimo artista italiano che ebbe l’onore di una mostra personale al Guggenheim fu, nel 1999, Francesco Clemente
della Transavanguardia.

'Poveri' più ricchi dei Trans

GLI ARTISTI DELL'ARTE POVERA SONO PIU' QUOTATI DI QUELLI DELLA TRANSAVANGUARDIA

Aste di Cristie's e Sotheby's: record per Boetti, Pistoletto, Pascali. Le due mostre antologiche parallele a Milano

di Mauro Suttora

Oggi, 14 dicembre 2011

Grandi emozioni due mesi fa, il 13 ottobre, nel salone dalla casa d’aste Sotheby’s di Londra. Altro che crisi. La vendita di arte contemporanea italiana stabilisce il record d’incassi: 62 milioni di dollari. Più di tutte le vendite di contemporanea dell’intero 2010. Record per Alberto Burri: la sua Combustione Legno del 1957 se l’aggiudica un anonimo cliente al telefono, dopo una fiera battaglia con altri quattro collezionisti che provoca un rialzo del 300 per cento.

Straccia la base d’asta e stabilisce il record personale anche Michelangelo Pistoletto, decano biellese dell’Arte povera: 800 mila dollari per il suo Muro del ’67 (vedere la classifica a pag.92). Ma è un trionfo per tutta l’Arte povera, da Alighiero Boetti «battuto» l’anno scorso per 2,7 milioni di dollari, al povero Pino Pascali, scomparso in un incidente di moto a 33 anni nel ’68.

Fino alla fine di gennaio è possibile visitare una grande mostra sull’Arte Povera alla Triennale di Milano. E, contemporaneamente, paragonarla all’altra corrente pittorica che ha dominato la scena italiana negli ultimi trent’anni: la Transavanguardia, in mostra a Palazzo Reale.

Anche quest’ultima ha raccolto notevoli soddisfazioni commerciali: cinque anni fa Enzo Cucchi è stato battuto per un milione di dollari da Christie’s a Londra, e nel 2007 Sandro Chia ha toccato il mezzo milione.
Però, volendo fare una semplice e semplicistica hit parade dei prezzi, vincono i «poveri». Perché?

«Il motivo è semplice», risponde la art advisor Patrizia Manici: «Molti artisti dell’Arte povera purtroppo sono scomparsi: Pascali, Boetti, Merz, Fabro. Le quotazioni aumentano sempre, dopo la morte. Anche perché gli artisti non possono produrre più, inflazionando il mercato. Il riconoscimento alla qualità del loro lavoro è arrivato anche grazie ai media. E comunque l’arte povera è meno compiacente della Transavanguardia, frutto di una ricerca più intellettuale: per questo dura di più».

Il successo commerciale di un artista è costruito o facilitato da critici, galleristi, grandi collezionisti e curatori di musei. Non è un mistero, per esempio, che per riconquistare il titolo di «artista vivente più quotato» sottrattogli da Lucian Freud (vedi sotto) Damien Hirst nel 2008 orchestrò con un consorzio l’acquisto del suo Cranio con diamanti.

«In 40 anni i prezzi dell’Arte povera si sono rivalutati mediamente del 300 per cento», spiega Marina Mojana, critico del Sole 24 Ore, «conferma la regola d’oro del mercato dell’arte: il consolidamento arriva dopo una trentina d’anni dall’esordio, ma soltanto se intorno agli artisti si crea la felice congiunzione di un critico intelligente e di galleristi coraggiosi e lungimiranti».

Sia l’Arte povera, sia la Transavanguardia hanno avuto i loro numi tutelari in due critici, che le hanno «inventate» dando loro il nome: il genovese Germano Celant (nel 1968) e il salernitano Achille Bonito Oliva (1979). A decenni di distanza, le due mostre antologiche di Milano sono ancora curate da loro.

«Erano veramente poveri»

«L’Arte povera, però, non è mai stata una costruzione a tavolino», precisa Roberto Coda Zabetta, uno dei pittori italiani più apprezzati e “internazionali” della generazione dei trentenni. «Prima di essere risconosciuti, quegli artisti hanno sofferto. Alcuni di loro erano poveri sul serio, vivevano in campagna, scolpivano con le mani. Usavano materiali poveri anche per necessità: semplicemente, l’immondizia costava meno delle tele. E se un giornalista voleva intervistarli, magari lo mandavano a quel paese.

«La Transavanguardia, invece, nacque come operazione di marketing. Dopo i concettualismi degli anni ’70 le avanguardie artistiche erano in crisi. Di qui il nome del movimento, che “supera” l’avanguardia e recupera la pittura. Nel 1980 Bonito Oliva e i suoi ‘magnifici cinque’ hanno studiato perfettamente momento, motivo e modo per arrivare al successo. Che infatti hanno raggiunto subito, alla Biennale di Venezia. E dicendo questo non voglio sminuire la genialità del critico e dei pittori».

Adesso sia i «poveri», sia i «transavanguardisti» sono star internazionali. Su di loro vengono girati film, come quello del tedesco Georg Brintrup su Enzo Cucchi. Pistoletto, 78 anni, gira il mondo, ma nella sua Biella ha messo in piedi una fondazione (Cittadellarte) che offre borse di studio Unesco a giovani artisti di tutto il pianeta. Altre Fondazioni curano i lasciti di Boetti e Merz.

Trasferiti a New York

Sandro Chia vive fra New York e la Toscana, dove produce vino. Anche Francesco Clemente (che da giovane fu assistente del «povero» Boetti) ormai si è stabilito a Manhattan: lì il museo Guggenheim gli fece già nel 1999 (vedere il riquadro sopra) l’onore di una retrospettiva personale. Dalla quale è reduce il suo collega Mimmo Paladino, nel milanese Palazzo Reale (con la grande montagna di sala accanto al Duomo), dopo che l’anno scorso ha curato la scenografia del grande tour di Francesco de Gregori e Lucio Dalla.

Oltre che a Milano, i Transavanguardisti sono in mostra singolarmente a Modena (Chia, fino al 29 gennaio), Prato (Nicola De Maria, fino al 4 marzo), Catanzaro (Cucchi al Marca dal 17 dicembre a fine marzo), Roma (Paladino il prossimo marzo all’ex Gil) e Palermo (Clemente dal 15 marzo a palazzo Sant’Elia).
Mauro Suttora


Classifiche quotazioni alle aste:

TRANSAVANGUARDIA

1° Enzo CUCCHI
(Ancona, 1949)
1 milione di $
'Quadro Santo' (1980)
aggiudicato da Christie's Londra il 22.6.06

2° Sandro CHIA
(Firenze, 1946)
500 mila $
'Il figlio del farmacista'
Christie's Londra 15.10.07

3° Francesco CLEMENTE
(Napoli, 1952)
400 mila $
'Porta Coeli'
Christie's Londra 23.6.05

4° Mimmo PALADINO
(Benevento, 1948)
300 mila $
'Canto I' (1995)
Christie's Londra 22.6.06

5° Nicola DE MARIA
(Benevento, 1954)
150 mila $
'Regno dei fiori'
Christie's Londra 23.10.01


ARTE POVERA

1° Alighiero BOETTI
(1940-94)
2,7 milioni
'Mappa' (1989)
Christie's Londra, luglio 2010

2° Piero PASCALI
(Bari, 1935-68)
2,6 milioni
'Cannone semovente' (1965)
Christie's Londra ottobre 2003

3° Mario MERZ
(Milano, 1925-2003)
1,4 milioni
'Igloo object cache-toi' (1968)
Christie's Londra febbraio 2005

4° Jannis KOUNELLIS
(Pireo, Grecia 1936)
1,2 milioni
'Untitled' (1960)
Christie's Londra ottobre 2008

5° Luciano FABRO
(Torino, 1936-2007)
900 mila
'Italia carta stradale' (1969)
Sotheby's Londra ottobre 2006

6° Michelangelo PISTOLETTO
(Biella, 1933)
800 mila
'Muro' (1967)
Sotheby's Londra 13 ottobre 2011

Wednesday, December 14, 2011

Svizzera: la casa dei suicidi

DOPO IL CASO DI LUCIO MAGRI: VIAGGIO A ZURIGO, DOVE SI PUO' MORIRE CON DIGNITAS

Oggi - dal nostro inviato Mauro Suttora

Pfäffikon (Svizzera), 1 dicembre 2011

«Non si nota. Non ci fa impressione. Lì dietro c’era già il cimitero, e avere davanti la “casa blu” è come stare di fronte a una clinica. Sono molto discreti».
Parola di Theo Widmer, allenatore della squadra di calcio di Pfäffikon che si allena in uno dei ben cinque campi di fronte alla «clinica del suicidio». Dignitas, l’associazione per «l’aiuto alla morte» («Sterbehilfe»), è arrivata qui nel 2009 dopo essere stata cacciata in dieci anni da due sedi, sempre nei dintorni di Zurigo. Ai vicini dava fastidio il lugubre andirivieni di bare. Così l’avvocato Ludwig Minelli, fondatore di Dignitas, questa volta ha scelto una zona industriale fuori mano, fra la fabbrica Maschinenbau e i boschi di pini.

Qui vengono gli stranieri

Questo è l’unico posto in Svizzera, oltre a Exit International di Berna, ad accogliere anche stranieri. L’ospedale pubblico di Losanna e Exit di Ginevra assistono solo i suicidi svizzeri romandi. È venuto qui Lucio Magri, il politico di sinistra che l’ha fatta finita la scorsa settimana? «Non so nulla, e comunque sono dati che non forniamo», risponde un anziano signore sospettoso da dietro il cancello. Non apre.

«Magri si è affidato a un medico privato a Bellinzona», ci dice Emilio Coveri, presidente di Exit Italia. Sì, perché oltreconfine basta la ricetta di un qualsiasi dottore per ottenere un flacone del micidiale Nap (Natrium Pentobarbital) che, bevuto con un sonnifero, provoca la morte indolore in pochi minuti.

Forse la verità non si saprà mai, perché gli articoli 579 e 580 del codice penale italiano puniscono sia l’omicidio del consenziente, sia l’aiuto al suicidio. Nel caso di Magri, pare che ad assisterlo in Svizzera sia stata la compagna di lotte politiche Rossana Rossanda (87 anni, residente da 30 a Parigi). «Noi non possiamo neppure accompagnare al confine chi va in Svizzera», dice Coveri, «anche se forniamo tutte le informazioni».

C’è poi la distinzione fra «aiuto al suicidio», permesso in Svizzera, e l’eutanasia («dolce morte»), proibita anche lì. Perciò è lo stesso suicida che deve portare alla bocca con le proprie mani il bicchiere con il farmaco letale. Se lo fa chiunque altro, è omicidio. Per dimostrare che la legge viene rispettata, tutte le fasi dell’operazione vengono filmate.

I cento suicidi all’anno effettuati in questo prefabbricato di lamiera blu (2-3 alla settimana, il 60% dalla Germania, 19 italiani nel 2011) seguono una procedura rigorosa. All’inizio c’è l’incontro col medico per un colloquio preliminare, la presentazione della cartella clinica e la prescrizione della ricetta. La malattia incurabile dev’essere accertata da tre medici, che verificano anche se il malato è in pieno possesso delle sue facoltà mentali.

Obbligo di far cambiare idea

I dottori hanno il preciso obbligo di convincere gli aspiranti suicidi a recedere dal loro proposito. E pare che nella maggioranza dei casi ce la facciano: «In dodici anni abbiamo aiutato a vivere 30 mila persone, e a morire solo 1.200», assicura Minelli.

Dignitas ufficialmente non accetta casi di depressione anche gravissima come quello di Magri. In teoria la legge svizzera non lo proibisce, ma non si è mai trovato alcuno psichiatra che la certificasse come «malattia terminale».

Poi inizia la fase finale. Quasi sempre il malato è accompagnato da un familiare o un amico. Può scegliere come colonna sonora per il congedo fra varie canzoni. Le preferite: God only Knows (Solo il Signore sa) dei Beach Boys, How Can I Tell You di Cat Stevens e For My Lady dei Moody Blues (quest’ultima probabilmente per le coppie).

Bob Dylan per Welby

Può sembrare grottesco e perfino agghiacciante addentrarsi in particolari musicali. Invece le canzoni sono importanti per affrontare questi momenti tremendi. Piergiorgio Welby nel 2006 scelse un brano di Bob Dylan.

Poi il malato lascia gli accompagnatori ed entra in una seconda stanza, dove alla presenza di un medico legale si procede. Gli si domanda ancora se è convinto della sua decisione. Si somministra un antiemetico per evitare il vomito. Dopo mezz’ora, sempre che il suicida non abbia cambiato idea in extremis, gli viene portato il cocktail letale sciolto in acqua o succo di frutta. Per berlo può usare anche una cannuccia. Dopo pochi minuti si addormenta, all’anestesia subentra il coma, infine entro 20-30 minuti sopraggiunge l’arresto cardiaco o respiratorio.

«Siamo coinvolti anche noi, oltre alla procura e alla polizia», dice il segretario comunale di Pfäffikon, Hanspeter Thoma, «perché il medico che stabilisce il decesso lo comunica all’anagrafe per il certificato di morte».

Le salme vengono trasportate con veicoli neutri: niente carri funebri, per non dare nell’occhio. E i vicini sembrano apprezzare: «Al massimo vediamo qualcuno che entra in sedia a rotelle», ci dice il proprietario del chiosco di cevapcici (spiedini slavi) proprio di fronte alla casa blu.

Max Sommerhalder, che ha uno studio pubblicitario a due portoni di distanza su Barzloostrasse, conferma: «Se non avessi letto sui giornali di quest’attività, non me ne sarei accorto: al massimo un po’ di auto targate Germania o Olanda parcheggiate lì davanti».

Discrezione, praticità. Anche di fronte alle accuse contro Minelli di arricchirsi con la morte altrui: il costo è di 3 mila euro, che aumentano fino a 7-8 mila se si arriva fino alle urne con le ceneri spedite a domicilio all’estero. L’anno scorso è stato assolto dall’accusa di avere gettato in un lago 67 urne. Ma un mese fa ha dovuto ingoiare l’epiteto di «mostro» pubblicato da un giornale: non era un insulto, perché è stato scritto in senso ironico.

Svizzeri indifferenti e pratici

Come sempre, gli svizzeri badano al sodo. Nessun dibattito ideologico su astratti diritti alla vita e alla morte. Lo scorso maggio il cantone di Zurigo ha votato sulla possibilità per gli stranieri di venire a farla finita da Dignitas. Ha votato soltanto il 30 per cento, e 80 su cento hanno confermato il sì. Ma più che altro qualcuno voleva far pagare una tassa ai «turisti del suicidio».
Così la Svizzera, che ai suoi tossici fornisce l’eroina per drogarsi in un ambulatorio, dà a tutti gli europei la libertà di ammazzarsi.
Mauro Suttora

Manovra: cosa cambia per noi?

10 RISPOSTE PER CAPIRE: SPECIALE MANOVRA

L'USO DEI CONTANTI. L'AUMENTO DI IVA E IRPEF. L'ETÀ DELLA PENSIONE. LA NUOVA ICI, LE TASSE SULLA CASA E GLI AFFITTI. IL BOLLO SULLE AUTO DI LUSSO E SULLE BARCHE.
ECCO TUTTO QUELLO CHE DOBBIAMO SAPERE SULLE DECISIONI "SALVA ITALIA" DEL GOVERNO MONTI. CON UN OCCHIO SULLO STIPENDIO DEL PREMIER E SUI VITALIZI DEI PARLAMENTARI

di Mauro Suttora

Oggi, 14 dicembre 2012

Una manovra di sacrifici per salvare l'Italia e l'Europa. I ministri e le tv ci hanno riempito di parole. Ma che cosa accadrà davvero alle nostre tasche con questa stangata? Quando potremo andare in pensione? Quanto pagheremo per le nostre case (se ne abbiamo una o più di una)? E gli affitti aumenteranno? Quanto dovranno pagare i proprietari delle auto di lusso e delle barche? Ma pagherà anche chi ha un gommone di 10 metri? Iva e Irpef aumenteranno? E chi ha Bot è salvo o paga? Infine: è ancora possibile pagare in contanti o dobbiamo affidarci solo a pagobancomat e carta di credito?
L'Italia è uscita frastornata e con le idee confuse dalla conferenza stampa dei ministri economici e ci hanno lasciato molte domande senza risposte certe. Qui abbiamo cercato di spiegarvi tutto (o quasi) in dieci punti

1) HO ANCORA DELLE VECCHIE LIRE. NON SI POSSONO PIÙ CAMBIARE?
No. Basta, finito. Potevate svegliarvi prima. Ci avevano dato dieci anni e due mesi di tempo per il cambio, quando nacque l' euro il 1° gennaio 2002. Se non ci abbiamo pensato Qno ad ora, peggio per noi. Con il trucchetto di anticipare di tre mesi la scadenza del 29 febbraio 2012 lo Stato incamera un bel gruzzoletto: un miliardo e 300 milioni di euro. Sono infatti ben 300 milioni le banconote in lire che non risultano mai cambiate, e quindi ancora in circolazione. Il totale in lire è 2.500 miliardi. Mancano all' appello ben 200 milioni di vecchie mille lire, ma anche 300 mila pezzi di banconote da 500 mila.

2) HO 59 ANNI E LAVORO DA 35. STO PER PENSIONARMI. ORA NON POSSO PIÙ?
No. E dovrà lavorare ancora per sette anni. Questo è il caso più doloroso: quello di chi fino a ieri poteva usufruire delle pensioni di «anzianità» (anticipate), per le quali bastava avere lavorato almeno 35 anni. Ora il limite minimo è stato portato a 42 anni per gli uomini e 41 per le donne. Sette anni in più in un colpo solo.

«In pratica le pensioni di anzianità sono state quasi abolite», spiega l'esperto di previdenza Bruno Benelli. Infatti, anche chi ha cominciato a lavorare (e versare contributi!) a 14 anni, deve comunque andare avanti fino a 55-56 anni. Naturalmente valgono per tutti i nuovi limiti per le pensioni di «vecchiaia» (quelle normali): 66 anni per i maschi e 62 per le femmine (ma arriveranno pure loro a 66 entro il 2018). Chi si prepensiona prima dei 41-42 anni di lavoro ha una decurtazione del 2% annuo.

Restano in vigore le eccezioni per i lavori «usuranti» (gallerie, miniere, cave, palombari, fonderie, lavoratori notturni, conducenti di bus). Ora ci saranno problemi per le aziende che contavano di prepensionare dipendenti costosi sostituendoli con giovani pagati meno. E per i giovani, che hanno meno opportunità.

3) CON UNA PENSIONE DI MILLE EURO QUANTO PERDO SENZA INDICIZZAZIONE?
Dipende dal tasso d'inflazione. Che nel 2011, secondo l'Istat, è stato del 2,6 per cento. I titolari di pensioni fino a 936 euro mensili (il doppio della minima) sono gli unici a rimanere protetti al 100% dall'aumento dei prezzi. Le pensioni di mille euro perderanno 1,6 euro al mese, 21 all' anno. Quelle da 2 mila euro, invece, subiranno un salasso mensile di 26 euro netti, che moltiplicati per tredici mensilità fa 341 euro.

Oltre i 2.300 euro le pensioni sono protette dall' inflazione solo per il 75 per cento, quindi la perdita è in proporzione minore. L'indicizzazione è sospesa per due anni. I pensionati devono quindi sperare che nel 2012 l' inflazione non sia troppo alta.

4) HO UNA CASA, PIÙ UNA IN MONTAGNA E UNA AL MARE. QUANTO PAGHERÒ?
Nell'ipotesi che la casa in città (prima casa) abbia un valore commerciale di 400 mila euro, quella in montagna 200 mila e quella al mare 300 mila, ecco l' ammontare Sulla prima casa è reintrodotta l' Ici (abolita nel 2008), che si chiamerà Imu (Imposta municipale immobili), ingloberà la Tarsu (Tassa rifiuti solidi urbani, la spazzatura) e finanzierà direttamente i Comuni.

Il valore catastale è sempre assai inferiore a quello di mercato. Supponiamo che sia di 129 mila euro. L'estimo catastale va aumentato del 60%, quindi si arriva a 206 mila. Il 4 per mille ammonta a 826 euro annui, e con la detrazione fissa (franchigia) si scende a 626. Ma attenti: il Comune può aumentare l'aliquota al 6 per mille, e si arriva a 1.038. In ogni caso, si pagherà il 60% in più dell' Ici 2008. Per le seconde case l'aliquota arriverà fino al 10,6 per mille. Quest'anno l'Ici media era del 7 per mille, quindi la batosta è notevole: circa 800 euro in più per la case da 200 mila euro, e 1.200 per quelle da 300 mila.

5) CON LE TASSE SULLE SECONDE CASE AUMENTERANNO ANCHE GLI AFFITTI?
Probabilmente sì. Ma solo nei periodi di punta delle vacanze: agosto per quelle al mare, e Natale e Capodanno in montagna. Per il resto, il mercato della case di vacanza era in grande sofferenza anche prima della manovra. Tranne che per le località top, le quotazioni medie erano diminuite del 10-20% nell' ultimo anno, e in alcuni casi (laghi, campagna lontana dalle metropoli) erano crollate anche di un terzo.

I valori di acquisto/vendita non si ripercuotono automaticamente sugli affitti: seguono la legge della domanda e offerta di ciascuna località e di ciascun periodo. Tutti sappiamo che la stessa casa a Porto Cervo o a Cortina si può affittare a un terzo del prezzo in giugno o a settembre rispetto ad agosto. Insomma, come per la domanda seguente, tutto dipende dal locatario e dal locatore. Quest' ultimo proverà a giustificare un richiesta d' aumento con le nuove tasse. Ma gli si può sempre rispondere di no.

6) L'IVA CRESCE FRA SETTE MESI. ANCHE I PREZZI? E L'IRPEF REGIONALE?
Attenti agli speculatori. Chi giustifica gli aumenti con la crescita dell' Iva sta solo cercando di truffarvi. Infatti l' Iva era già aumentata quest'estate, ma di un solo punto. E, tranne che in alcuni casi in cui i margini per i commercianti sono già ridotti al minimo (per esempio, gli alimentari nelle catene di supermercati), un aumento così piccolo non giustifica una ripercussione automatica sul prezzo finale. L'Iva aumenta di nuovo (dal 21 al 23%) dal luglio 2012. Ma fino ad allora, qualunque aumento è ingiustificato.

Più nascosta, invece, la manovra sull'Irpef (la dichiarazione dei redditi che si presenta a maggio). È vero che, contrariamente alle attese, il governo non ha aumentato le aliquote: neppure quelle del 41% sui redditi da 55 mila a 75 mila euro, e quella massima del 43% oltre i 75 mila. Ma ha aumentato dello 0,33 l'Irpef regionale su tutte le aliquote. Quindi, per i redditi da 50 mila annui c' è un +165 euro.

7) I VITALIZI DEI PARLAMENTARI VENGONO ABOLITI? E LE PROVINCE?
No, il governo non può imporre nulla agli altri organi costituzionali (Parlamento, Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale). Quindi devono essere loro stessi ad autodisciplinarsi. Sarebbe grave che, nel momento in cui tutte le pensioni passano dal sistema retributivo (80% dell' ultimo stipendio) a quello contributivo (la media di tutti i contributi effettivamente versati), soltanto i mille parlamentari percepissero un vitalizio che vale otto volte più dei contributi. Camera e Senato hanno promesso una revisione, vedremo se manterranno l'impegno.

Neanche le Province possono essere abolite senza una legge costituzionale. Quindi il governo si è limitato a tagliarne totalmente le giunte, e a diminuire fino a dieci i consiglieri, che non verranno più eletti, ma nominati dai consigli comunali. E ha diminuto i posti nelle costose Authorities.

8) UN GOMMONE DI 10 METRI PAGA 7 EURO AL GIORNO ANCHE STANDO FERMO?
Sì. Incredibile ma vero, con la scusa di colpire il lusso (yacht, aerei privati, elicotteri) vengono prese di mira tutte le imbarcazioni che superano i dieci metri. E poiché è difficile individuarne i proprietari, che spesso si mascherano dietro a società estere, viene tassata la navigazione in acque pubbliche e il semplice «posteggio» (perfino l' ancoraggio a una boa): sette euro al giorno dai 10 ai 12 metri, 12 euro fino ai 14 metri, 40 euro fino a 17, 75 euro fino a 24 metri, e 150 euro al giorno per gli yacht oltre i 24 metri.

9) QUANTO COSTERÀ TENERE BOT E ALTRI TITOLI SU UN CONTO IN BANCA?
Chi ha titoli pubblici e privati (azioni, obbligazioni, fondi) fino a 5 mila euro è esentato. Dai 5 ai 50 mila si paga lo stesso bollo dei conti correnti: 34 euro l' anno. Dai 50 ai 150 mila la tassa sarà di 70 euro, che aumenterà nel 2013 a 230. Fino ai 500 mila ora sono 240 euro, che fra un anno aumenteranno a 780. Oltre il mezzo milione di titoli il prelievo aumenterà dagli attuali 680 a 1.100 euro.

«È una piccola patrimoniale sulle attività finanziarie», ha detto il viceministro dell'Economia Vittorio Grilli. La tassa sui «patrimoni» (quello che si ha, non quel che si guadagna) era una richiesta del centrosinistra, mentre il centrodestra è contrario. Mario Monti ha detto che lui personalmente non è contrario, visto che esiste in Paesi come la Francia.

10) PAGARE IN CONTANTI PER PIÙ DI 1.000 EURO È PROIBITO? COSA SI RISCHIA?
Fino ad agosto si poteva pagare in contanti fino a 12.500 euro. Poi il tetto è stato ridotto a 2.500 euro dal governo Berlusconi. E ora passa a soli mille euro. Oltre questa cifra si potranno usare solo bancomat, carte di credito, assegni non trasferibili e bonifici on line. Gli assegni circolari e i libretti al portatore sono equiparati al contante. La sanzione arriva fino al 40 per cento della cifra pagata illegalmente.

Fra i Paesi sviluppati l'Italia è quello in cui circola più contante. Questo è il modo più semplice per mafia, camorra, 'ndrangheta, evasori e tangentari di nascondere i propri affari e riciclare il denaro sporco. Quindi è una misura necessaria: i pagamenti devono essere «tracciabili». Il governo negozierà con banche e società di carte di credito la diminuzione delle commissioni.

Mauro Suttora

Perché piange la Fornero

di Mauro Suttora

Oggi, 5 dicembre 2011

Non era mai capitato che un ministro scoppiasse a piangere in diretta tv mentre annuncia un provvedimento. Pochi mesi fa la premier australiana si è commossa ricordando i morti di un’alluvione; un ministro kenyiota si è bloccato mentre rievocava una strage; un ministro indiano ha pianto quando l’hanno arrestato.

Ma Elsa Fornero si è emozionata solo perché doveva pronunciare la parola «sacrifici» per i pensionati. Una nota di umanità che le fa onore. La sua capacità di immedesimarsi nelle difficoltà degli anziani (che per due anni non saranno protetti dall’inflazione) deriva forse dalla sua storia personale.

Figlia di un operaio, la giovane Elsa si svegliava alle 5 per andare a studiare a Torino dal suo paesino, San Carlo Canavese. Con borse di studio ha frequentato ragioneria e poi la facoltà di Economia. Si è diplomata nel 1967. C’erano i Beatles e le minigonne, ma lei confessa di non avere mai frequentato «locali per giovani». Solo studio, sacrifici e impegno.

Suo compagno di classe all’istituto tecnico commerciale era Cesare Damiano, che l’ha preceduta (2006-8) come ministro (Ds) del Lavoro. Una coincidenza, che forse pesa nello stress di questi giorni. Damiano infatti è oggi uno dei principali oppositori della riforma pensionistica della Fornero. Una lunga distanza da quando, entrambi giovani idealisti, «discutevamo di noi, del futuro, del mondo».

Elsa ha incontrato suo marito, l’economista Mario Deaglio, all’università. Colleghi e amici di Mario Monti, lo invitavano nella loro casa torinese. Ma Elsa lo faceva mangiare in cucina, e gli parlava di economia mentre mescolava il risotto. Non ha mai perso la sua spontaneità. Neanche domenica sera, quando è scoppiata a piangere davanti all’Italia intera.

Wednesday, November 30, 2011

Indiscreto: i nuovi ministri

RITRATTI PRIVATI DEL GOVERNO DI MARIO MONTI

Oggi, 23 novembre 2011

di Mauro Suttora

«Bambini non urlate, arriva il marchese». Giulio Terzi di Sant’Agata, nuovo ministro degli Esteri, veniva a casa mia 40 anni fa a Bergamo per prendere lezioni private di francese da mia madre. Lo parlava già bene, ma voleva perfezionarlo con un po’ di conversazione in vista del concorso per entrare in diplomazia. Poi una gran carriera: Parigi, Canada, Bruxelles, Onu, ambasciatore in Israele e, da due anni, a Washington.

Qui, una piccola seccatura: l’ex moglie Gianna Gori manda una lettera a tutti (presidente della Repubblica, del Consiglio, ministro degli Esteri) per protestare contro la nuova compagna di Terzi, Antonella Cinque, che a volte si presentava come «moglie» nelle occasioni ufficiali. E il povero marchese costretto a denunciarla per diffamazione, calunnia e ingiuria, precisando che non stanno più insieme dal 2004 e che la nuova compagna «è la mamma dei miei figli nati nel 2008».

È al secondo matrimonio anche Corrado Passera, ministro di Sviluppo, Infrastrutture e Trasporti. Ha conosciuto la deliziosa Giovanna Salza, 37 anni, dieci anni fa quando guidava le Poste e lei era all’ufficio stampa. Si sono incontrati di nuovo nel 2008: lui capo di Banca Intesa che si occupava di Alitalia ed Air One, lei addetta stampa di quest’ultima. È scoccata la scintilla, l’anno scorso è nata la figlia Luce (lui ne ha già due), e lo scorso maggio il matrimonio. Non in uno dei begli alberghi della famiglia Passera a Como, ma nel vicino Villa d’Este di Cernobbio.
Alle nozze c’erano Mario Monti ed Elsa Fornero, vicepresidente di Banca Intesa, oggi pure lei ministro. E la bella Giovanna, di nuovo incinta, svolazzava felice al giuramento del governo nel salone del Quirinale.

L’unica altra donna vestita di bianco durante la cerimonia (che differenza rispetto al debutto del governo Berlusconi nel 2008, con le ministre Carfagna, Prestigiacomo e Gelmini) era la professoressa Fornero, ministro del Lavoro. Allieva di Onorato Castellino, preside della facoltà di Economia dell’università di Torino (dove per ben 15 anni, fino all’85, ha insegnato Mario Monti) scomparso quattro anni fa. Ma anche moglie di un altro illustre economista: Mario Deaglio, direttore del Sole 24 Ore nel 1980-83 e fratello del giornalista Enrico fondatore di Lotta Continua. E qui il cerchio si chiude, perché uno dei migliori libri di introduzione all’economia, su cui hanno studiato generazioni di universitari, nel 1978 lo scrisse la Fornero con Castellino, Deaglio e Monti (più il liberista Sergio Ricossa). Né la Fornero è digiuna di politica: è stata consigliere comunale a Torino nel 1993-98 in una lista civica d’appoggio al sindaco di sinistra Valentino Castellani.

La lista dei prof torinesi non si esaurisce qui. Nuovo ministro dell’Istruzione è Francesco Profumo, rettore del Politecnico di Torino fino a pochi mesi fa, quando la Gelmini lo ha nominato presidente del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche). Ha mandato i suoi studenti a fare stages in Cina, ed è stato sia lodato che criticato per lo stretto rapporto con le aziende private. La sinistra voleva candidarlo sindaco di Torino lo scorso giugno, prima del sì di Piero Fassino.

Piemontese e docente universitario (diritto costituzionale) è anche Renato Balduzzi, che torna al ministero della Salute da ministro dopo averne diretto l’ufficio legislativo fino al 2000 fa sotto Rosy Bindi. Lì aveva preparato un disegno di legge per riconoscere le coppie di fatto (Dico, diritti di convivenza anche per i gay), poi affossato dai cattolici di destra.

Fabrizio Barca, ministro della «Coesione territoriale» (ex Affari regionali), discende da quell’aristocrazia del vecchio Pci che ha mandato i figli a studiare economia in Inghilterra e Stati Uniti con eccellenti risultati (per esempio Lucrezia Reichlin, figlia di Alfredo e Luciana Castellina). Suo padre Luciano, oggi 91enne, fu direttore dell’Unità e alto dirigente del partito a fianco di Enrico Berlinguer e Napolitano. Lui ha un curriculum accademico impressionante (Cambridge, Mit, Stanford), più vent’anni all’ufficio studi della Banca d’Italia e gli ultimi 13 al ministero del tesoro. Ha tre figli dalla moglie americana Clarissa.

L’altro «giovane» del governo, Enzo Moavero, è sposato con tre figli. Si è fatto apprezzare da Monti come suo capo di gabinetto a Bruxelles dal ’95 al 2005, dopo esserlo stato del dc Filippo Maria Pandolfi.

È curioso che l’unico allievo di Gianfranco Miglio, primo ideologo della Lega Nord, sia entrato proprio in un governo che ha la Lega come unica opposizione. Lorenzo Ornaghi, rettore dell’università Cattolica, ministro dei Beni Culturali, non ha simpatie leghiste. Però si è laureato con Miglio nel '72, e poi ne è stato l’«erede» sulla cattedra di Scienza della politica. Monti gli aveva offerto l’Istruzione, ma il Pd si è opposto per la sua vicinanza ritenuta eccessiva al Vaticano: Ornaghi infatti ha partecipato un mese fa al convegno di Todi che ha segnato la «riscossa» dei cattolici in politica.

A Todi c’erano anche Passera e Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio. Per quest’ultimo è stato cucito su misura un nuovo ministero, Cooperazione (tolta agli Esteri) e Integrazione (tolta agli Interni), che gli pemetterà di agire sia all’estero (Sant’Egidio media nei conflitti africani e centroamericani) sia per gli immigrati in Italia.

Corrado Clini, ministro dell’Ambiente, e Mario Catania (Agricoltura) non hanno bisogno di trasferirsi: da molti decenni sono dirigenti dei loro ministeri.
Anche il ministro della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, è un «interno»: capo di stato maggiore, capo di gabinetto di ministri sia di centrodestra (Carlo Scognamiglio), sia di centrosinistra (Sergio Mattarella). Quando Monti gli ha annunciato la nomina era in missione segreta in Afghanistan. Appassionato di storia dell’arte, non si offende se lo definiscono «un intellettuale prestato alle forze armate».

Anna Maria Cancellieri, ministro dell’Interno, è stata per ben 23 anni addetta stampa della prefettura a Milano. Poi prefetto a Catania, Brescia, Bergamo, Vicenza, Genova, quindi commissario a Bologna e Parma (da un mese): quando i sindaci cadono lei li rimpiazza. E lei è così brava che a Bologna la volevano eleggere sindaco. Nata in Libia, ha un marito ex farmacista, due figli e quattro nipoti.

Una nota dolorosa, infine. Tutta Italia ha notato il braccio destro mancante di Paola Severino, 63 anni, ministro della Giustizia, napoletana (unica meridionale oltre a Di Paola): era malato, sempre più inabile, e recentemente si è resa necessaria l’amputazione. Questo non ha impedito alla ricchissima avvocatessa (sei milioni nel 2007) di regalare alla cerimonia del giuramento una delle poche note di colore: la presenza dei suoi due biondi nipotini. Suo marito Paolo Di Benedetto fu nominato da Passera gestore dei fondi delle Poste, poi è stato commissario Consob fino all’anno scorso.
Mauro Suttora

Bruciati da Monti

VOLEVANO ROTTAMARE MA SON FINITI ROTTAMATI

La nascita improvvisa del nuovo governo ha spento le ambizioni di molti: da Giorgio Gori, marito di Cristina Parodi, al sindaco di Firenze Matteo Renzi

di Mauro Suttora

Oggi, 23 novembre 2011

Matteo Renzi: chi se lo ricorda più? Solo un mese dopo, il suo meeting alla Leopolda è già dimenticato. Travolto da Mario Monti, che ha «rottamato» quelli che voleva rottamare lui.

Anche altri hanno sbagliato i tempi, presi in contropiede dal governo tecnico. Giorgio Gori, per esempio: la sua discesa in campo non era per fare il deputato. Ce lo vedete l'ex direttore delle tv di Berlusconi e produttore dell'Isola dei famosi a passare le giornate tra aula e commissioni?. Forse puntava alla Rai, ma ora è fuori gioco.

Domenico Scilipoti e i «responsabili»: di colpo non contano più nulla. Gianfranco Fini: non sa più che fare, dimettersi o non dimettersi, il suo partito al 3 per cento, si riavvicina a Berlusconi, Casini lo cannibalizza...
Ma anche il segretario Udc ha i suoi problemi, con il tesoriere del proprio partito accusato di avere preso una tangente da 200 mila euro per lo scandalo Enav (Ente assistenza volo).

Gli ex dc Giuseppe Pisanu e Claudio Scajola (Pdl), che aspiravano al ruolo di "pontieri" fra i due poli, ora rimangono nell'ombra.

Alessandro Profumo: l’«altro» banchiere (ex Unicredit) pronto per la politica, azzoppato dallo scandalo per la sua buonuscita e da un’inchiesta per frode fiscale, è stato superato in corsa da Corrado Passera.

Un po’ spiazzati sembrano anche Luca di Montezemolo e Emma Marcegaglia. La presidente di Confindustria, il cui mandato scade fra pochi mesi, era candidata a un ministero. Ma Monti le ha preferito i professori. Fra questi, tuttavia, non il rettore dell'università Bocconi Guido Tabellini, che alla fine è rimasto fuori dalla compagine di governo.

Mauro Suittora

Wednesday, November 23, 2011

Chi è Mario Monti

IL CONTRARIO DI BERLUSCONI

Oggi, 16 novembre 2011

di mauro Suttora

È l’esatto contrario di Silvio Berlusconi. Entrambi milanesi: Mario Monti è nato a Varese solo perché nel 1943 i suoi erano sfollati in fuga dai bombardamenti. Ma il nuovo premier e il suo predecessore sono agli antipodi. Il primo è timido e riservato, il secondo solare ed espansivo. «L’ultima volta che l’ho visto a Bruxelles a una riunione di bocconiani», racconta un ex studente del professor Monti, poi anche rettore e presidente (dal ’94, dopo Giovanni Spadolini) dell’università Bocconi, «dopo un po’ se n’è andato. “Scusatemi, devo correre a casa”, ci ha detto, “viene un fabbro a ripararmi la serratura”».

Non un simpaticone, insomma, anche se di humour è dotato. Berlusconi quella volta avrebbe fatto le ore piccole, soprattutto in presenza di studentesse. Il massimo della mondanità di Monti, invece, è accompagnare sua moglie Elsa alle serate di beneficenza per la Croce Rossa, di cui lei è attiva sostenitrice. Per il resto, solo privatissimi inviti a cena dagli amici economisti di lunga data, o da fidati conoscenti della ristretta haute milanese. Uno dei rari salotti frequentati: quello dell’editrice oggi 76enne Rosellina Archinto. Altro che Briatore e Billionaire.

L’understatement come religione. Sobrietà obbligatoria. Donne: sposato a 24 anni. Fine, nessuna distrazione. Dalla grigia Milano Monti si è spostato quattro volte: nel ‘66 per il master a Yale, nella noiosa New Haven invece che nella vicina sfolgorante New York; tre anni dopo la prima docenza a Trento dove studiavano il fondatore delle Brigate rosse Renato Curcio e i sessantottini, immaginate l’allegria; e poi nelle ancor più grigie Torino (cattedra di Economia politica, 1970-’85) e Bruxelles (commissario Ue 1994-2004). «Troppo milanese per Roma, troppo inglese per l’Italia», ha scritto Enrico Cisnetto.

Berlusconi esibisce orgoglioso a chiunque, da Clinton a Lavitola, da Putin alle Olgettine, le sue ville con cactus in Sardegna? Nessun estraneo è mai stato nell’appartamento di Monti, palazzo borghese in una delle vie più eleganti di zona Fiera. Il prof va in vacanza vicino a Saint Moritz. Lì incontrava Gianni Agnelli, estimatore delle sue battute taglienti e asciutte, altro che le barzellette cochon di Silvo. Ma l’occhiuto ufficio stampa Bocconi ridimensiona: «Valle Engadina».

Silvio è caduto per colpa dell’Europa che l’ha sempre osteggiato come corpo estraneo? Monti non corre questo rischio. Perché lui «è» l’Europa. Sette anni fa Berlusconi gli preferì Rocco Buttiglione a Bruxelles: il filosofo di Cl fu subito bocciato dall’Europarlamento. Invece il prof si prese subito la sua silenziosa rivincita fondando Bruegel, che in pochi anni è diventato il think tank più prestigioso del continente: «Il rapporto Monti del 2010 è considerato il vangelo della futura Unione europea», ci dice Gianfranco Dell’Alba, direttore Confindustria a Bruxelles, già eurodeputato.

Oscuri «poteri forti» internazionali speculano sullo spread italiano? Beh, se veramente esistono (ma non sono segreti, hanno perfino un sito web), Monti è socio di tutti gli spauracchi dei complottisti, dal club Aspen a Bilderberg; è advisor della banca Goldman Sachs; della Trilaterale è addirittura il presidente europeo.

Anche in Italia l’establishment economico ha sempre considerato Berlusconi un parvenu? Monti ne fa parte da sempre. Il padre, anch’egli bocconiano, era dirigente di grandi banche. Lui, liceo classico al Leone XIII dei gesuiti (con Massimo Moratti, l’ex sindaco Gabriele Albertini), esordì come assistente di Innocenzo Gasperini, poi rettore Bocconi. A soli 27 anni consulente Comit, di cui poi è vicepresidente (si dimette polemicamente nel ’90 contro la lottizzazione Dc e Psi). Colleziona i massimi consigli d’amministrazione: Generali, Ibm, Fiat (qui entra addirittura nel comitato esecutivo fino al ’93 con i fratelli Agnelli, Romiti e Grande Stevens).

«Ho conosciuto Monti quand’è venuto nel ’69 a Trento, dov’ero rettore», dice a Oggi Francesco Alberoni. «Serio, preciso. Poi ci ci vedevamo ai seminari Ambrosetti di Villa d’Este, a Cernobbio. Ogni anno Prodi moderava i lavori con stile ridanciano. In seguito gli subentrò Monti, anche lui brillante ma con più aplomb».

Nei primi anni 70 Berlusconi ancora trafficava con Milano 2 mentre l’enfant prodige Monti, già editorialista del Corriere della Sera, bacchettava Guido Carli, governatore della Banca d’Italia. Continuò con Carlo Azeglio Ciampi, lo chiamavano «governatore ombra». Negli anni 80 avvertiva: il debito pubblico (quello che ora ci strangola) aumenta troppo. Si beccò del «celebre somaro» dal ministro Bruno Visentini. «Demenziale», bollò invece il ministro del Tesoro Usa nel 2001 il divieto di Monti alla fusione da 42 miliardi Honeywell-General Electric, che violava l’antitrust europeo.

Berlusconi le maximulte le prende: 560 milioni per la Mondadori. Monti le dà: 497 milioni alla Microsoft perché non rispettava la concorrenza. Il professore liberista colpisce i capitalisti peggio di un comunista, se diventano monopolisti. Anche a Berlusconi piace la libertà, ma con un Monti all’antitrust difficilmente avrebbe potuto diventare monopolista della tv privata.

Il conflitto d’interessi, infine. Berlusconi ne è il simbolo. Monti invece ha litigato col figlio Giovanni perché studiasse economia a Pavia e non nella Bocconi che dirigeva: «Mi imbarazzi». Ha perso. Oggi Monti junior è alto dirigente Parmalat, dopo aver lavorato a Londra per Citigroup e Morgan Stanley. Per fortuna l’altra figlia Federica, 41 anni, non lo ha fatto soffrire: scienze politiche in Cattolica.
Mauro Suttora

Wednesday, November 09, 2011

Gli eletti di Beppe Grillo

ORMAI SONO 130 IN 60 COMUNI. ARRIVANO AL 14%. BERLUSCONI LI RINGRAZIA PER LA SUA VITTORIA IN MOLISE. MA LORO AVVERTONO: PRENDIAMO VOTI ANCHE A LUI

Oggi, 2 novembre 2011

di Mauro Suttora

Lo hanno fisicamente «espulso» dal palazzo del potere: il consigliere regionale Davide Bono, medico solo apparentemente mite eletto un anno e mezzo fa per Beppe Grillo in Piemonte, ci riceve nel suo ufficio separato da tutti gli altri. Nell’edificio dei gruppi consiliari in centro a Torino non c’è posto per lui, la Regione gli ha affittato una mansarda poco più in là in via Alfieri.

Bono è famoso perché grazie al suo 4 per cento il centrodestra del leghista Roberto Cota ha sconfitto il centrosinistra. Lo stesso è capitato ora in Molise: il piccolo margine con il quale il Pdl ha vinto è stato reso possibile dal 5 per cento dei «grillini».

«Ma Berlusconi fa male a ringraziarci», sorride Bono, «perché i nostri consensi non vengono solo da sinistra. Qui in Piemonte, per esempio, ci hanno votato molti ex leghisti delusi». «E poi, chi lo dice che il Movimento 5 stelle sottrae automaticamente voti a sinistra?», aggiunge Giovanni Favia, consigliere regionale in Emilia. «I nostri elettori sono così schifati dalla casta dei politici che probabilmente, senza di noi, si asterrebbero». Sintetizza Grillo: «Pd e Pdl sono uguali». E definisce il Pd «Pdmenoelle».

Ormai hanno 130 eletti in 60 comuni

Ma, in concreto, come si comportano gli eletti 5 stelle (non amano il termine «grillini»)? Ormai sono 130 in 60 comuni, da Bolzano a Roma, e in capoluoghi come Milano, Torino, Venezia, Trieste, Bologna. Male solo al sud: appena l’1,3% alle recenti comunali di Napoli. Alcuni sono in carica già da tre anni, come David Borrelli a Treviso e i consiglieri municipali eletti a Roma nel 2008.

Le loro priorità ufficiali sono cinque, come le stelle del nome: acqua, ambiente, trasporti, connettività (internet), sviluppo. Ma è il «modo» di fare politica a cui stanno soprattutto attenti.

«Il nostro stipendio lo decide ogni sei mesi un’assemblea pubblica degli elettori, alla quale ci presentiamo dimissionari», dice Favia, che fino al 2009 era direttore della fotografia in film e documentari. Risultato: gli hanno appena aumentato il salario da 2.500 a 2.700 al mese. Stessi soldi per Bono in Piemonte. La differenza con gli 8-12mila mensili che prendono i consiglieri degli altri partiti finisce in attività politiche («Ma finanziamo altre associazioni, non noi stessi») e spese legali per le molte cause in corso.

Ci sono state lunghe discussioni nei forum online sul giusto livello di retribuzione. Alcuni proponevano 1.280 euro al mese, «lo stipendio medio italiano». Altri, più misericordiosi, concecevano che l’eletto conservasse lo stesso stipendio del lavoro precedente: «Perché per fare politica bisogna perderci?» Risposta: «Nessuno è obbligato a farla».

Eliminato il vitalizio in Emilia

I 5 stelle hanno un limite di due mandati: dieci anni al massimo di politica a tempo pieno, poi devono tornare al lavoro precedente: «Ci consideriamo dipendenti dei nostri elettori, l’attività nelle istituzioni è come il servizio di leva».

I due consiglieri emiliani sono riusciti a far abolire il vitalizio (pensione) dalla prossima legislatura, e picchiano duro sugli altri privilegi. Per esempio il rimborso di 0,8 euro a km per gli eletti di altre province: «Così uno da Piacenza incassava migliaia di euro senza controllo, e poi magari pagava solo l’abbonamento in treno». Risultato: il consiglio regionale ha abbassato le sue spese da 37 a 36 milioni di euro annui.
«Ma è nelle società partecipate e nella sanità che girano le grosse cifre», dice Andrea Defranceschi, 40 anni, collega di Favia.

I grillini non si sono presentati al voto nelle province perché ne chiedono l’abolizione («Mentre altri partiti come Sel e Idv, incoerenti, entrano pure lì»), e rifiutano il finanziamento pubblico («Un milione di rimborsi elettorali tornati allo stato»).

In Piemonte fanno opposizione dura al governo di destra, in Emilia a quello di sinistra. In Comune a Torino brilla la 26enne bocconiana (voto di laurea 110) Chiara Appendino. A Milano, nonostante la novità del sindaco Giuliano Pisapia, il consigliere comunale Mattia Calise non gli fa sconti: «Troppi portaborse assunti dalla nuova giunta», accusa il resoconto dei primi quattro mesi di lavoro.

E adesso? Pronti al grande balzo a Roma. In Parlamento sarà più difficile rispettare la «democrazia di base» delle liste civiche locali perseguita finora. Chi deciderà i candidati? «Le primarie on line», dice Bono. E chi potrà votare? «Gli aderenti al movimento». Costo della tessera? «Niente tessere, non siamo un partito». E se si iscrivono improvvisamente mille di un altro partito il giorno prima delle primarie? «Metteremo delle limitazioni...»
Mauro Suttora

Monday, November 07, 2011

Debiti Rcs a 900 milioni

ACCATTATE VIA SOLFERINO! - COME STA MESSO MALE IL “CORRIERE” SE UNA PAGINA INTERA COSTA SOLO 20MILA €, MENO DI UN QUINTO DELLE TARIFFE UFFICIALI DI LISTINO - SERVE UN ALTRO APPELLO: “ITALIANI, IMITATE DELLA VALLE E COPRITE I DEBITI DI RCS (900 MILIONI), BASTANO 45MILA PERSONE CHE COMPRANO PAGINATE!”

di Mauro Suttora

Dagospia, 7 novembre 2011

COME STA MESSO MALE IL CORRIERE...

Il tipo che ha comprato una pagina sul Corsera per invitare gli italiani a comprare Bot dice di averla pagata 20 mila euro. Inquietante: meno di un quinto delle tariffe ufficiali di listino. 

Se i giornali sono costretti a svendere la loro pubblicita' a prezzi così bassi, bisogna lanciare un altro appello: italiani, imitate Della Valle, dite la vostra comprando anche voi paginate sul Corsera. Basterà che lo facciate in 45 mila, e avrete coperto i debiti Rcs (900 milioni)

Wednesday, November 02, 2011

Graziana Capone Jolie

MISTERI: DOVE PRESTA LA SUA OPERA LA SILVIO'S GIRL?

Graziana vieni qui, sei proprio Jolie

La sosia pugliese dell’attrice americana dice di lavorare a palazzo Chigi. Ma lì non si vede mai. «Sta a palazzo Grazioli». che lei conosce bene...

Oggi, 26 ottobre 2011

«Graziana sta a Grazioli». È questo il sussurro che corre nelle stanze di palazzo Chigi, il segreto non tanto nascosto su Graziana Capone, 26 anni, figlia di un costruttore di Gravina di Puglia (Bari), assurta a incerta notorietà due estati fa, quando finì nella lista delle invitate alle cene «eleganti» di Silvio Berlusconi.

Allora la «Angelina Jolie» delle Puglie assoldò un addetto stampa e si fece fotografare e intervistare da Oggi. «Sì, con il premier abbiamo fatto le quattro del mattino ad Arcore nel settembre 2008», ci confessò. «Ma poi sono tornata a Milano con Tarantini su un’auto con chauffeur. Alla vigilia di Natale l’ho rivisto per una cena a Roma, a palazzo Grazioli. Eravamo una decina, sei-sette ragazze fra cui Carolina Marconi del Grande Fratello e Barbara Guerra. Ma seduta alla destra del presidente c’ero io. Quindi non mettetemi assieme alle altre. Anche perché se il presidente avesse veramente un harem, io sarei la favorita», concluse, più seria che faceta.

«Ho continuato a vederlo nel 2009, sei-sette volte. All’inaugurazione di uno spazio Dolce & Gabbana a Milano. Anche dopo lo scandalo Noemi continuiamo a telefonarci. Per me lui vede un futuro in politica o nel giornalismo».

Può darsi che, «fidanzate» montenegrine a parte, Graziana abbia centrato l’obiettivo. Due mesi fa è stata fotografata alla festa Atreju dei giovani Pdl. E si vantava: «Lavoro all’ufficio stampa di Berlusconi a Roma, sono nello staff della comunicazione di palazzo Chigi». Peccato che nel palazzo sede del governo non si veda quasi mai. Né che appaia fra i dipendenti, collaboratori o consulenti a contratto della presidenza del Consiglio.

Rassegna stampa ogni mattina

Pare invece che Graziana presti la sua opera direttamente a palazzo Grazioli, residenza privata del premier. Per le incombenze del cosiddetto «mattinale», cioé la rassegna stampa mattutina preparata ogni giorno per Berlusconi.
C’è infatti un viavai continuo di personale della presidenza fra i palazzi Chigi e Grazioli, visto che il premier preferisce di gran lunga quest’ultimo alla sede ufficiale del governo. «E lì effettivamente la vediamo», dicono i collaboratori.

Oltre che politica o giornalista, Graziana due anni fa meditava di diventare «magistrato o attrice. Ma non gli ho mai parlato della mia carriera nello spettacolo. Non volevo sembrare una delle tante che vogliono raccomandazioni. In ogni caso, ha detto che prima devo laurearmi».

Fatto. Berlusconi però apprezza molto anche un’ulteriore qualità di Graziana: canta bene. «Ad Arcore », ci raccontò lei, «ho eseguito a cappella un paio di cose, fra cui Non ti scordar mai di me di Giusi Ferreri. Poi assieme, io e lui con un pianista, abbiamo cantato Stay with me, un suo pezzo tradotto in inglese. Io gli facevo i controcanti, la melodia sulla terza».
«Stay with me», stai con me. E «non ti scordar mai di me». Promesse mantenute.

Mauro Suttora

Come finirà la Libia?

DOPO L'ATROCE FINE DI GHEDDAFI IL PRINCIPE IDRIS SENUSSI E' OTTIMISTA. MA C'E' CHI VUOLE APPLICARE LA SHARIA

di Mauro Suttora

Tripoli, 23 ottobre 2011

«La morte di Gheddafi non è stata un bello spettacolo. Nessuna morte lo è. Ma non cancella la gioia dei libici per la libertà ritrovata dopo 42 anni di oppressione e otto mesi di guerra eroica».

Il principe Idris al Senussi, nipote ed erede del re deposto da Muammar Gheddafi nel 1969, stava tenendo un discorso in Confindustria a Roma quando è arrivata la notizia della cattura del tiranno: «Non riuscivo a crederci. Ho cominciato a telefonare ai miei parenti a Bengasi, non potete capire la felicità di tutti per la fine della guerra. Poi, certo, sono arrivati i crudi video sulla fine del rais. Ma anche gli italiani festeggiano la fine della dittatura il 25 aprile ‘45 nonostante l’atrocità delle immagini di piazzale Loreto. A Gheddafi abbiamo sempre offerto la via dell’esilio. È stato lui a rifiutarla, a continuare a massacrare il proprio popolo, e a cacciarsi nella trappola di Sirte».

Nessun dittatore aveva mai subìto una fine così ignominiosa. Benito Mussolini venne fucilato, e solo in seguito il suo cadavere fu calpestato dalla folla. L’unico altro tiranno moderno ucciso durante una rivoluzione, il rumeno Nicolae Ceausescu nell’89, fu anch’egli freddato con la moglie. L’irakeno Saddam Hussein è stato impiccato dopo regolare processo. Gheddafi, invece, è stato linciato dai ribelli che lo hanno tirato fuori da un canale di scolo. «Si era nascosto lì come un topo», dicono i libici, ricordando il tremendo discorso di febbraio in cui il colonnello li aveva definiti «ratti, che schiaccerò casa per casa».

Anche Saddam fu scovato dentro a un buco. Ma dagli americani, per sua fortuna. I ragazzotti eccitati che hanno massacrato Gheddafi, invece, nulla sanno delle convenzioni internazionali che vietano di uccidere i prigionieri. Ha 19 anni il miliziano che si fa fotografare orgoglioso brandendo il pistolone d’oro del dittatore. Il quale viene finito alla tempia sinistra dopo mezz’ora di torture, urla, spintoni e sberleffi.

«Cosa fate? Lasciatemi andare, vi posso dare tanto oro, molti soldi», implora il 69enne Gheddafi trascinato sanguinante sul cofano di una camionetta. Gli occhi smarriti di un vitello avviato al macello, non capisce dove siano finite le sue guardie del corpo. Improvvisamente, dopo quattro decenni di dominio assoluto, si trova in mezzo a nemici assetati di sangue. Il suo.

Tutto è successo in pochi secondi. Dopo due mesi d’assedio, Sirte è allo stremo. «Mangiavamo solo pasta e riso, ci nascondevamo elle case abbandonate, avevamo paura della Nato», ha raccontato il capo della scorta di Gheddafi. Che lì, nella sua regione natale, è scappato da agosto, quando Tripoli è caduta. Tutte le favole sul dittatore che scorrazzava qua e là per il deserto erano solo frutto della fantasia impaurita di alcuni suoi sudditi. In realtà i servizi segreti occidentali lo localizzano a Sirte grazie al telefono satellitare Turaya che il colonnello usa per chiamare la tv Rai (!) a Damasco e trasmettere i suoi proclami.

L’ultimo bastione, Bani Walid, è caduto tre giorni prima. Poche centinaia di fedelissimi rimangono asserragliati nel Village 2, sul mare. Mutassim Gheddafi, estremo pretoriano del padre, decide: «Scappiamo verso il deserto». Così, all’alba di giovedì 20 ottobre un convoglio di auto e mezzi militari con mitragliatrici pesanti, antiaeree e lanciarazzi parte sulla strada costiera verso ovest. Nonostante l’assedio, nessun posto di blocco lo intercetta. Ma appena fuori dalla città lo individua un aereo Usa Predator senza pilota, lanciato da Sigonella (Catania) e telecomandato da una base a Las Vegas. Il drone dà le coordinate a due caccia francesi Rafale che si abbassano a mitragliare il convoglio.

Le auto vanno in direzioni differenti. Mutassim viene catturato, filmato mentre fuma tranquillo l’ultima sigaretta in una cella, e poi sgozzato. Suo padre trova riparo sotto il terrapieno della strada, in una di quelle condutture dove l’acqua degli «uadi» defluisce dopo le piogge torrenziali. Presto sopraggiunge una pattuglia di ribelli di Misurata, quelli incattiviti dal lungo assedio subìto in primavera. C’è una violentissima sparatoria. Alla fine Gheddafi viene catturato.

«Cosa vi ho fatto?», biascica il colonnello ormai intontito. «Allahu akbar!», Dio è grande, urlano i ribelli assatanati. Diversi filmano col telefonino, ci sono cinque video in circolazione (per ora). In uno si intravvede un bastone appuntito che viene conficcato nel posteriore di Gheddafi. «Portiamolo a Misurata!», grida qualcuno. E un altro: «Non uccidetelo». Inutile. Arrivano i colpi a bruciapelo, in fronte e allo stomaco.

E adesso, che succederà? La Libia diventerà una tranquilla democrazia come il Sud Africa, o un inferno come la Somalia?
«Io sono ottimista», ci dice il principe Idris, «resteremo uniti e torneremo ai principi democratici della Costituzione del 1951».

Intanto però Mustafa Jalil, ex ministro di Gheddafi e capo del governo provvisorio (il quale esibisce sulla fronte una «zebiba», il callo dei musulmani ferventi che sbattono la testa per terra pregando) dice che verrà applicata la «sharia», la legge islamica.

«In Libia siamo tutti religiosi», tranquillizza il principe, «ma moderati. Non c’è tradizione di fanatismo. Rispetteremo le minoranze e tutte le differenze di genere e di razza. Avremo libertà, tolleranza e democrazia».
«Elezioni per la Costituente entro giugno 2012», promette il premier Mahmud Jibril, «e presidenziali entro giugno 2013».

Intanto, però, non c’è esercito né polizia. Per la Libia scorrazzano varie bande armate: quelli di Misurata e Zlitan, che si considerano città martiri, i berberi orgogliosi di avere liberato Tripoli, i cirenaici che hanno liberato Bengasi, i tripolini che hanno come comandante militare Hakim Belhaj, arrestato in Afghanistan nel 2001… Poco incoraggiante.
I reduci consegneranno le armi e riusciranno a perdonare i 7 mila gheddafiani incarcerati? I giovani esaltati da otto mesi di guerra accetteranno di tornare a una vita normale, noiosa e magari frustrante, o prevarrà la mistica del martire?

Per ora, Tripoli e Bengasi sembrano città tranquille: niente criminalità, e tanto entusiasmo per la ricostruzione. Presto torneranno gli immigrati filippini, egiziani e cingalesi, che lavoravano al posto di molti libici viziati dal petrolio (scuola e sanità gratis, sotto Gheddafi). La speranza di tutti è che i capi della nuova Libia ora non litighino troppo. E, se lo faranno, che almeno dimentichino i mitra.
Mauro Suttora

Friday, October 28, 2011

Settimana Incom e casa Petacci

Università di Cagliari

DOTTORATO DI RICERCA STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA

L’ITALIA DEL SECONDO DOPOGUERRA ATTRAVERSO I CINEGIORNALI DELLA SETTIMANA INCOM (1946-1948)

Presentata da: Giulia Mazzarelli
Relatore: Prof. Claudio Natoli
Anno Accademico 2009-2010

Il primo numero della Settimana Incom, datato 15 febbraio 1946, propone sei brevi filmati:
- “Cronache vaticane. Giornata eccezionale a S. Pietro”, in cui Pio XII riceve i bambini assistiti dall’Unrra;
- “A colloquio con l’ammiraglio Stone”, in cui il direttore della Settimana Incom pone all’ammiraglio alcune domande sull’andamento delle prime fasi del dopoguerra e
sulla ricostruzione;
- “La firma del trattato tra il governo italiano e l’UNRRA”, con l’impegno del delegato UNNRA per l’assistenza e gli aiuti agli italiani;
- “Piccola posta. Vi parla Vivi Gioia”, breve spazio dedicato alle lettere degli spettatori su temi di attualità;
- “Serie documenti. Riprese inedite sulle sorelle Petacci (prima puntata)”, che mostra alcuni componenti della famiglia Petacci nella villa della Camilluccia;
- “Avvisi utili. Attenti alla vostra bicicletta!” con le immagini della simulazione di un furto di biciclette.

E’ significativo che la prima uscita del nuovo cinegiornale, accanto alle notizie dal Vaticano e a quelle sui rapporti italo-americani, presenti una breve pagina sulla famiglia dell’amante del Duce.

Il filmato mostra in apertura la nuova destinazione della Camilluccia divenuta, dopo la guerra, ricovero per bambini abbandonati assistiti dall’Opera maternità e infanzia, ma che era stata, in precedenza, l’abitazione della famiglia Petacci. Alle immagini sui piccoli orfani succedono le riprese realizzate nel 1942 in occasione dei preparativi per le nozze di Miriam, sorella di Claretta.

“E’ un mattino del 1942” – informa il commentatore Incom – “Dal giardino si avanza Miriam, sorella di Claretta, che LUI volle lanciare nel cinema con il nome di Miria di San Servolo. Mimì questa mattina è allegra, perché è in pieno idillio con l’allora suo fidanzato. Com’è bella la vita! LUI ha già promesso il regalo di nozze. Ed ecco seduta Claretta. Mai nessuno la cinematografò prima d’ora. LUI non permetteva. E laggiù Roma è ai piedi della famiglia Petacci. Tutto merito del papà, il dott. Francesco Saverio, che sta godendo il giusto riposo alle sue fatiche. Ma c’è una novità questa mattina: LUI ha inviato uno dei tanti regalucci, il divano a dondolo. Bisogna provarlo! Così trascorrevano serene e incoscienti le ore alla Camilluccia!”

Alcuni elementi di questo filmato sono degni di nota. In primo luogo il fatto che il nuovo cinegiornale mostri proprio nel primo numero ciò che i cinegiornali Luce non mostravano: i personaggi che componevano la vita privata del Duce. In secondo luogo il fatto che il commentatore Incom non pronunci mai il nome di Mussolini ma utilizzi, con tono allusivo, il pronome personale “lui”. In terzo luogo è da rilevare l’ironia che accompagna il commento verbale, sia nel descrivere la spensieratezza della vita in casa Petacci in pieno conflitto mondiale, sia nell’attribuire al dott. Francesco Saverio, padre di Miriam e Clara, il merito della prosperità della famiglia.

Per quanto riguarda il primo aspetto, la scelta di inserire tra i vari servizi informativi un filmato sulle sorelle Petacci non è casuale: alla prima uscita del nuovo cinegiornale la Incom mostra di voler marcare la distanza con l’informazione del Ventennio, svelando finalmente il non detto e il non visto del fascismo.

Una dichiarazione d’intenti che resterà senza seguito, poiché una volta esauriti i tre filmati sulle nozze di Miriam, la Incom tenderà ad evitare qualunque approfondimento sui protagonisti del regime. La stessa reticenza nel nominare il Duce, se da una parte si spiega con la volontà di spogliare persino del nome colui che costruì - anche cinematograficamente - il mito di se stesso e impose al popolo i propri appellativi, dall’altra rivela una certa difficoltà e un certo imbarazzo nel riportare alla memoria collettiva eventi dolorosi e ancora troppo recenti della storia nazionale.

“Mussolini” è diventato, per più di una ragione, un nome impronunciabile e l’unico modo accettabile per parlare di lui è attraverso allusioni, giri di parole e con una buona dose di sarcasmo. L’ironia del commentatore sui Petacci rivela, infatti, quanto fosse condivisa nell’immediato dopoguerra l’ostilità verso una famiglia così compromessa con la dittatura e così beneficata nella rovina generale.

Il linguaggio allusivo e ironico caratterizza anche le successive puntate sulle sorelle Petacci: nel numero 2 della Settimana Incom, tra le scene dei preparativi alle nozze, le immagini mostrano la scatola da gioco di Claretta e il taccuino dei punti con le iniziali dei due giocatori: “Accanto alla nota M. c’è la E. di Etta, diminutivo di Claretta”.

Dopo una metaforica allusione all’anticomunismo mussoliniano (“tra i pezzi degli scacchi il re rosso in un momento d’ira è stato decapitato”) la voce fuori campo fa un cenno alle relazioni clientelari che, grazie alla prossimità con Mussolini, interessavano la famiglia di Claretta: “Ecco, qualche giorno prima delle nozze, Mimì nella sua camera da letto, tra i doni piovuti da ogni parte d’Italia. Amici e protetti hanno gareggiato nel tentativo di superarsi.”

Il filmato si chiude con le riprese del lungo e splendido abito da sposa. Nell’indugiare su queste immagini il cinegiornale rivela, seppur abbozzato, quel gusto per le vite da favola e per il lusso ostentato che caratterizzeranno di lì a poco i servizi sui personaggi famosi del mondo del cinema, della politica e delle case regnanti. La Incom rivela dunque già dai primi numeri - e persino in relazione ad argomenti che riportano alla memoria recenti eventi drammatici - una malcelata tendenza ad accattivarsi l’interesse del pubblico e alla banalizzazione.

A questo proposito è significativo che si parli del fascismo per mezzo dei lustrini delle sorelle Petacci: attraverso la «spettacolarizzazione del privato» si stuzzicava la curiosità degli italiani su aspetti rimasti sempre in ombra, si mostrava il lato quotidiano e quindi umano dei protagonisti del regime, col risultato di produrre, più o meno intenzionalmente, una sospensione del giudizio sul ruolo politico e storico di quelle figure.

La terza e ultima puntata sul matrimonio di Miriam fu inserita nel numero 6 della Settimana Incom del 20 marzo, a quasi un mese di distanza dalla precedente. La ragione di questa attesa è esplicitata dallo stesso commentatore: “Oh, chi cerca il pelo nell’uovo in queste nozze dirà che manca lo sposo: beh, abbiamo dovuto farlo scomparire per  evitare un nuovo sequestro che avrebbe ritardato di qualche altra settimana quest’ultima puntata”.

Queste parole lasciano intendere che il marito di Miriam, in seguito alla proiezione della seconda puntata, in cui appare per qualche istante accanto alla fidanzata e al futuro suocero, abbia provveduto a mezzo legale a far tagliare dalle scene del matrimonio le immagini nelle quali fosse visibile e riconoscibile.

E’, questo, un altro segnale del clima teso che caratterizzava la ripresa della vita democratica e l’inevitabile resa dei conti con i protagonisti del fascismo. Emblematico, a questo proposito, il monito con il quale la voce fuori campo accompagna la conclusione del matrimonio e che chiude “il romanzo petacciano” a puntate: “Le automobili s’avviano. Autisti, attenzione! Troverete una curva pericolosa: si chiama 25 luglio!”

Luigi Freddi, a proposito dell’attività artistica di Miriam, dichiarò:
«Miria di San Servolo, la nuova diva, non era che il prodotto di un ambiente piccolo-borghese, piena di vezzi incorreggibili, di una vivacità artificiosa e di una insipida gaiezza, priva di quella congenita classe che può fare anche d’una ciociara una grande interprete».

Nel corso di una conversazione tra Freddi e Claretta, a proposito delle critiche mosse all’interpretazione della sorella in L’amico delle donne, l’amante del Duce disse: «Eppure quella bambina è la nostra sola gioia. […] S’è innamorata di questo mestiere. Come facciamo ora a distoglierla? È la sola che riesca a far sorridere anche lui. Ma perché il mondo deve essere così cattivo? Non c’è un figlio di Roosevelt che si occupa di cinematografo? Sarah Churchill non lavora in una rivista di Cochrane? […] E chi c’è in Francia dietro Marie Bell, o in Germania dietro Lida Baarova? E il mondo, per questo, non siscandalizza…!»
Luigi Freddi in, F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 18.

Wednesday, October 26, 2011

parla Giovanni Castellaneta

L'EX AMBASCIATORE IN USA, IRAN E AUSTRALIA FA IL PUNTO SULLA PRIMAVERA ARABA E SUGLI ALTRI PROBLEMI INTERNAZIONALI PIU' RILEVANTI

di Mauro Suttora

Oggi, 19 ottobre 2011

Domenica 23 ottobre la Tunisia vota. Il Paese che ha iniziato la «primavera araba» sceglie i suoi nuovi capi. Chiediamo a Giovanni Castellaneta, già ambasciatore in Iran, Australia, Stati Uniti e oggi presidente della Sace (Servizi assicurativi commercio estero), di commentare questo avvenimento e gli altri fatti internazionali più rilevanti.
«La Tunisia è il Paese arabo a noi più vicino, geograficamente quasi un prolungamento dell'Italia. Sono ottimista, speriamo che dall'ottantina di partiti che si presentano alle elezioni nasca un governo moderato per consolidare il benessere di una società già fra le più avanzate della regione».

E l’Egitto?
«È un caso totalmente diverso. Per questo è difficile parlare di “primavera araba”: ogni Paese fa storia a sé. L’Egitto ha ben 77 milioni di abitanti, una minoranza cristiana copta del 10 per cento, diversi movimenti islamici più o meno moderati e un potentissimo esercito che ha espresso tutti i presidenti degli ultimi 60 anni: Nasser, Sadat, Mubarak. Il suo modello può essere la Turchia, dove l’Islam moderato garantisce un boom economico e rispetta le minoranze».

A proposito di Turchia: facciamo bene a tenerla fuori dall’Europa?
«No, è un grave errore. L’Italia è favorevole al suo ingresso, Germania e Francia resistono. Ma è un segnale negativo verso tutto il mondo islamico. Ormai Istanbul è come San Paolo o Shangai, a forza di snobbarla sarà lei a non volere più entrare. Certo, dipende da che tipo d’Europa vogliamo, ma se ci preoccupano gli immigrati o la concorrenza dell’industria tessile turca, sappiamo anche che non ci proteggeremo erigendo barriere doganali».

La Libia.
«Dobbiamo evitare che si disgreghi in conflitti tribali. Abbiamo una lunga tradizione di amicizia con Tripoli, chiunque sia al governo. Perciò smettiamola di temere una competizione francese o inglese: nessuno può togliere all’Italia il posto che le spetta».

In Siria invece Assad resiste.
«E siamo tutti preoccupati: sta crollando un regime che bene o male aveva assicurato stabilità, senza che si profili un’alternativa credibile. La Siria è la polveriera del mondo».

Insomma, altro che «primavera araba».
«Affinché quella primavera diventi estate e non inverno, l’Italia ha una grande opportunità. Abbiamo ritrovato una centralità, non tanto come “portaerei”, quanto come ponte e mano protesa verso il Mediterraneo Dobbiamo sfruttarla, perché siamo benvoluti, apprezzati e amati da tutti».

E quindi?
«Non dimentichiamo che dietro il Nordafrica c’è la spinta positiva di un intero continente. L’Africa non è più solo percettrice di aiuti. Diversi suoi Paesi – Ghana, Ruanda, Angola - hanno tassi di sviluppo tali che possiamo cominciare a immaginarli come i nuovi Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica), cioè come mercati emergenti».

La Cina, appunto. Da 30 anni si spera che lo sviluppo economico porti democrazia, invece resta una dittatura.
«Un modello accettato dall’Occidente: libertà economica, ma non politica e sindacale. Con una ricerca del merito individuale, però, che noi italiani rischiamo di dover invidiare… Non sono più una società statalizzata».

Ma la mancanza di sindacati e di leggi di tutela ecologica non permettono alla Cina di praticare una concorrenza sleale contro di noi?
«Il loro vantaggio dei prezzi bassi si va erodendo. La Cina ha problemi demografici, di surriscaldamento dell'economia, di inflazione e valuta che potrebbero diventare costosi e dolorosi per loro».

Ormai facciamo fare tutto lì.
«La Cina ha già raggiunto il livello del Giappone degli anni Ottanta. Ci copia, ma poi si trasforma in concorrente. Anche in settori di punta come l’aeronautica o le telecomunicazioni è diventata un partner competitivo, ormai ci confrontiamo quasi alla pari. Non si tratta più di produrre bambolette a cinque euro invece che a venti. E se loro fanno prodotti buoni, noi dobbiamo farli ottimi. Il problema è che il nostro è un tessuto di imprese medie e piccole, che da sole non riescono ad affrontare mercati così vasti».

Quando riusciremo ad andarcene dall’Afghanistan?
«Il calendario del ritiro è già fissato, anche gli Stati Uniti lo hanno annunciato. Al massimo è questione di un mese in più o in meno. Ma spero che rimarremo con una presenza economica».

Che senso ha mantenere costose spedizioni militari in Kosovo da dodici anni, o in Libano dove non si sa bene a che servano?
«Le missioni si possono ridurre e calibrare meglio, ma calcoliamo anche che ciò che spendiamo non rimane tutto all’estero: c’è un ritorno, non solo sotto forma di stipendi dei nostri soldati. E poi l’Italia è una media potenza: senza bilanci militari più alti di altri Paesi, in trent’anni, dalla prima missione di pace in Libano, abbiamo costruito un patrimonio di grandissime eccellenze, con professionisti del mantenimento della pace che ci vengono invidiati in tutto il mondo».

Nell’Unione europea ormai comandano Francia e Germania?
«Il concetto di “direttorio” è inaccettabile. Ma spesso loro fanno vertici a due perché in realtà hanno più problemi di noi. Le loro banche, per esempio, sono le più esposte con la Grecia».

Non si potrebbe far fallire la Grecia, e buonanotte? Così svaluta e si riprende, come l’Italia nel ’92 o l’Argentina dieci anni fa.
«Recuperare competitività svalutando non è più automatico come una volta. E poi escludere Atene dall’Euro sarebbe, in termini di ricchezza, come se l’America perdesse il Connecticut. No, meglio restare uniti e solidali, trovando soluzioni economiche e soprattutto politiche tutti insieme».

Con gli Stati Uniti abbiamo rapporti sempre ottimi.
«Certo. Ma dobbiamo renderci conto che d’ora in poi molte cose dovremmo farle da soli. Lo abbiamo visto in Libia. L’America è più concentrata su se stessa, e sul Pacifico».

La Russia, infine: Putin in eterno?
«Diamole tempo, 60 anni di soviet non si superano in un attimo. Comunque c’è stabilità, e le nostre società lavorano bene con Mosca. Abbiamo relazioni commerciali eccellenti».

Mauro Suttora