IN PUGLIA COSTRUIRO' UNA CENTRALE SOLARE
«Progettata dal Nobel Rubbia, è l’alternativa al nucleare», assicura il ministro dell’Ambiente. E, pressato sullo scandalo rifiuti in Campania, svicola: «Preferisco parlare della crisi dei salari»
dal nostro inviato Mauro Suttora
Taranto, 26 marzo 2008
Uno dei ministri più contestati d’Italia arriva in una delle città più inquinate d’Europa e indebitate del mondo. Alfonso Pecoraro Scanio, fondatore dei Verdi, ministro dell’Agricoltura fino al 2001 e oggi dell’Ambiente, è stato invitato a cena a Taranto dalla famiglia del viticoltore Gianfranco Fino.
La casa dei Fino sta in una bella zona di quella che, con i suoi 200 mila abitanti, è la terza città del Sud (Sicilia esclusa), dopo Napoli e Bari: la frazione Lama, in riva al mare. Qui tutte le vie portano nomi di fiori, e in questa primavera precoce già si sentono i loro profumi.
«Ma le acciaierie Ilva, il petrolchimico e la zona industriale producono il nove per cento della diossina e il dieci per cento del monossido di carbonio di tutta Europa», accusa la signora Simona Natale, moglie di Gianfranco. Le statistiche dicono anche che negli ultimi trent’anni i tumori sono raddoppiati: ora sono tre al giorno i tarantini che muoiono di cancro.
Disastro ecologico
L’Ilva (la ex Italsider passata tredici anni fa al gruppo privato Riva) è la più grande acciaieria d’Italia. I suoi impianti si vedono da molti chilometri di distanza. «Negli ultimi anni abbiamo ridotto le emissioni di diossina del 40 per cento, dopo aver chiuso un impianto», si vantano all’Ilva. Ma è tutta la zona industriale a rovinare il menù delle greggi di pecore e capre che pascolano nei verdissimi prati accanto alle ciminiere. «A Taranto sono arrivate 1.800 tonnellate di Pcb cancerogeno da Brescia», accusano i combattivi Verdi locali, che hanno fatto analizzare i formaggi del luogo trovando un po’ di diossina pure lì dentro.
Insomma, ministro, ci potrà mai essere uno «sviluppo ecosostenibile» in una zona come la nostra?
Alla domanda della signora Fino il ministro Pecoraro risponde tranquillo: «Certo. Oggi esistono tutte le tecnologie per ridurre al minimo l’inquinamento. Le emissioni di sostanze nocive devono essere abbattute, e il governo sostiene quelle che lo fanno. Anche perché non si possono chiudere dall’oggi al domani stabilimenti che a Taranto danno da mangiare a tredicimila famiglie. Quindi il lavoro e l’ambiente non sono in alternativa: bisogna salvaguardare sia il primo, sia il secondo».
Lei la fa facile, ma ora Ilva ed Enipower vogliono costruire due nuove centrali, e in più si progetta un rigassificatore. Sarebbe questo lo «sviluppo ecosostenibile»?
«La mia risposta è chiara e semplice: no. A Napoli siamo riusciti a riqualificare l’ex zona industriale di Bagnoli. All’inizio ci criticavano tutti, ma dopo una bonifica fra le più gigantesche d’Europa ci siamo riusciti. Ripeto: non si può pensare di eliminare certe produzioni. Ma, coinvolgendo i sindacati, dobbiamo proteggere la salute senza mettere a rischio il lavoro».
Pecoraro Scanio è capolista della Sinistra arcobaleno in Puglia. I suoi Verdi si sono uniti a Rifondazione comunista, ai Comunisti italiani di Oliviero Diliberto e agli ex Ds Cesare Salvi e Fabio Mussi. Ne è nata una coalizione che sta a sinistra del Pd (il neonato Partito democratico di Ds e Margherita), e candida premier Fausto Bertinotti.
«Qui in Puglia abbiamo anche il presidente Nichi Vendola», dice Pecoraro, «che governa senza problemi in coalizione con il Pd. È un peccato che a sinistra si sia verificata questa frattura. Io la trovo innaturale, e dopo il voto farò di tutto per ricomporla. Altrimenti consegniamo il Paese a Silvio Berlusconi».
Ma allora perché vi siete messi con l’estrema sinistra?
«È stato il Pd a rifiutarci, noi avremmo voluto rimanere alleati. Certo che, su certe cose per noi fondamentali come il nucleare, non potevamo cedere».
Ecco, il nucleare: siamo circondati da centrali atomiche, in Slovenia e in Francia. Perché ostinarsi a rimanere senza?
«Il fatto che ne abbiano gli altri non è un buon motivo per costruirle noi. E comunque i danni, in caso d’incidente, si subiscono in proporzione alla distanza: più si viveva vicino a Chernobil, più le conseguenze sono state tremende. Il Pd oggi parla di “nucleare di quarta generazione” ma, come dice il Nobel Rubbia, anche quello è radioattivo. Il problema delle scorie non è stato risolto. E comunque il nucleare non è conveniente dal punto di vista economico. Per costruire una centrale ci vogliono 15 anni e costi immensi».
Signora Fino: «Però siete contrari anche all’eolico. A me invece, chissà perché, quei mulini a vento moderni, così alti, piacciono esteticamente».
«Alcuni impianti si possono fare. Però non dobbiamo installare torri gigantesche proprio sulle rotte degli uccelli migratori, che vengono sterminati dalle pale. L’Europa ci condannerebbe».
L’unica alternativa
Non resta che il solare?
«Quella è la vera alternativa, e sempre secondo Rubbia è proprio la Puglia la regione d’Italia più vocata per ospitare pannelli e centrali. Perché è al Sud, ha un sacco di sole, ma anche perché è pianeggiante. Come l’Andalusia in Spagna. Rubbia ha progettato una centrale solare termodinamica, con specchi che concentrano l’energia e conservano il calore anche di notte, a temperature di 500 gradi. Le stesse che ci vogliono per produrre elettricità con carbone, gasolio o nucleare. Ho stanziato venti milioni di euro per il prototipo».
Prende la parola Gianfranco, il marito viticoltore. Il suo cruccio è la burocrazia.
Signor ministro, non le sembra che le procedure burocratiche siano da alleggerire? Perché una piccola impresa deve sottoporsi a due Via (Valutazioni d’impatto ambientale), una regionale e una nazionale, e poi all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), mentre in tutti i Paesi d’Europa la procedura è unica? Io stesso non posso permettermi un ragioniere a tempo pieno, così la burocrazia mi obbliga a passare la metà del mio tempo fra le carte. E non riesco a curare la parte commerciale, che è importante quanto quella produttiva.
«Francamente, non posso che darle ragione. Mea culpa. I controlli ci vogliono, soprattutto nel settore enogastronomico dove è fondamentale garantire la qualità. Ma non devono trasformarsi in vessazioni, moltiplicandosi all’infinito».
Una domanda la vuole porre il padre di Gianfranco, Vito Fino, pensionato.
Le pensioni. Perché non rivalutarle assieme ai rinnovi contrattuali, invece dell’attuale meccanismo che non copre tutta l’inflazione, e fa perdere la metà del potere d’acquisto in pochi anni?
«Guardi, sono tre le categorie che vogliamo proteggere: pensionati, precari e salariati. Tutti devono tornare ad avere un reddito decente. Se loro in questi anni hanno perso potere d’acquisto, evidentemente altre categorie ci hanno guadagnato, perché nel suo complesso l’Italia non si è impoverita. La verità è che c’è stato uno spostamento di reddito in favore della speculazione finanziaria e delle grandi rendite parassitarie, a danno degli introiti da lavoro dipendente. E non lo dico io, ma le statistiche dell’Ocse».
Qui a Taranto abbiamo un negozio della Coldiretti dove gli agricoltori vendono i loro prodotti direttamente ai consumatori. Non si può ampliare questa esperienza?
«Assolutamente sì. Ogni Comune d’Italia deve offrire almeno un negozio dove i produttori incontrano i consumatori. Così i prezzi si possono abbassare dal 30 al 50 per cento».
Per la verità rispetto a certi mercati rionali i prezzi non sono così bassi.
«La Coldiretti dice il contrario, ma mi informerò».
Riprende la parola la signora Fino: Pd e Sinistra arcobaleno si contendono come candidati gli operai della Thyssen Krupp di Torino. Anche all’Ilva di Taranto ci sono stati morti sul lavoro, ma nessuno ha mai pensato a loro.
«Non si risolve il problema della sicurezza sul lavoro candidando qualche operaio sopravvissuto, così come non si risolve il precariato facendo eleggere un precario, e non si ottengono diritti per le coppie di fatto trasformando qualche omosessuale in deputato. Berlusconi ha inaugurato la politica spettacolo, ma noi non dobbiamo andargli appresso. Non si risponde alla candidatura di un generale con un altro generale, a un industriale con un industriale, a una donna con un’altra donna...».
Record mondiale di debiti
Taranto «vanta» un record mondiale: due anni fa il Comune ha dovuto dichiarare bancarotta con un debito di 637 milioni. Il più alto del pianeta, dopo quello di Seattle (Stati Uniti). Un anno fa è stato eletto sindaco a furor di popolo (71 per cento dei voti) il pediatra Ippazio Stefàno, della Sinistra democratica di Salvi e Mussi (ora alleati di Pecoraro). Stefàno ha subito rinunciato allo stipendio e dimezzato quello di assessori e consiglieri. Ma le resistenze sono molte: quattro mesi fa ha dovuto licenziare il vicesindaco. E i creditori del Comune alla fine non incasseranno più della metà delle somme loro dovute.
Qui l’ex sindaco fu condannata per un inceneritore...
Ministro, vogliamo parlare un po’ di spazzatura?
Pecoraro si sistema sulla sedia, deglutisce e risponde scherzoso (ma non troppo): «Preferirei di no, perché guastare questo buon clima conviviale? Comunque, nei paesi della Campania dove viene fatta la raccolta differenziata, il problema non esiste».
Mauro Suttora
Thursday, March 27, 2008
intervista a Michela Quattrociocche
Michela Quattrociocche, la diva del momento, si racconta in un diario
SCUSA MA TI CHIAMO BRANCIAMORE
«Ho conosciuto Matteo, il mio principe azzurro, lo stesso giorno in cui ho avuto la parte nel film di Moccia», dice Michela. «E in nove mesi si sono avverati tutti i miei sogni»
di Mauro Suttora
Roma, 26 marzo 2008
'Scusa ma ti chiamo amore' di Federico Moccia, in cui è protagonista con Raoul Bova, è il film italiano più visto del 2008. Ha incassato 14 milioni di euro: il doppio di Silvio Muccino, il triplo di Nanni Moretti. Solo Carlo Verdone sta andando meglio. Ma la reginetta degli incassi, la debuttante Michela Quattrociocche, resta con i piedi per terra: «Sto studiando recitazione. A settembre mi iscrivo all’università, Scienze della comunicazione», dice mentre posa per le foto.
Ha scritto un libro: 'Più dei sogni miei' (Mondadori). È il racconto degli ultimi nove mesi della sua vita. Dal 21 giugno 2007, quando, appena finito lo scritto di maturità, le squilla il cellulare: la parte è sua. È una data magica, perché la sera Michela conosce per caso l’amore della sua vita: Matteo Branciamore. Coincidenza delle coincidenze, anche Teo fa l’attore, ne 'I Cesaroni'.
Il libro di Michela è la cronaca della loro storia, finora tenuta abbastanza nascosta. E lei confessa addirittura: «Se non avessi conosciuto l’amore attraverso di lui, forse non sarei stata in grado di interpretarlo nel film». All’inizio lui la conquista con questa frase: «Ho letto la biografia di Kakà. Mi piace perché è di sani principi, con la moglie si sono scelti davvero». E lei scrive: «Sono incredula. È strano sentir parlare un ragazzo così... ascoltare da lui cose che penso io. Le penso e non le dico, sennò mi rimproverano di essere all’antica... Ebbene sì. Credo nell’amore, nel matrimonio e sono fedele. Allora? A me non interessa “fare esperienze prima di fidanzarmi”, come si dice. Non mi frega di girare di ragazzo in ragazzo».
Insomma, altro che «mocciosa» (così sono soprannominate le giovani della generazione Moccia): Michela è una puritana. Teo le piace perché non le fa la corte: «Non fa il provolone, non fa il piacione e non mi fa i complimenti». E neppure la tocca: «È meraviglioso», annota, «dev’essere speciale uno per farmi stare zitta, in macchina, di notte, senza saltarmi addosso... Li riconosco quelli che ammucchiano le parole per riempire il tempo, prima di partire all’attacco. Odio chi ti rimorchia senza provare a conoscerti».
Nuovo appuntamento, arrivano le cinque del mattino. «Qualsiasi cosa diversa da un bacio ora sarebbe fuori luogo», ammette Miky. Lui si limita a sussurrarle all’orecchio una frase romantica: «È stato surreale, ma bello».
«La riconosco, è la frase che Hugh Grant dice a Julia Roberts in Notting Hill. Svengo. Resto in piedi per orgoglio. Mi rimanda a casa senza toccarmi. Per la prima volta qualcuno mi rispetta. Stiamo cuocendo a fuoco lento ed è stupendo». Risultato: da un mese Miky e Teo sono andati a vivere assieme. «Sono felicisssima, anche se ora litighiamo un po’ di più», dice lei.
Ecco uno degli ultimi capitoli del libro, in cui Michela annuncia a mamma e papà che andrà a convivere col fidanzato.
M.S.
IL CANTO DELLE SIRENE
Se il film non va, fa niente. Ammetto che è tostissima allontanarsene, è come una droga: una volta provato non puoi più farne a meno. Se pensi a quale mestiere vorresti fare dopo avere girato un film, ti fa schifo tutto, è tutto privo di magia. Sei rintontito, svuotato. Non so a cosa paragonarlo (...). L’idea che il cinema diventi il tuo lavoro è talmente ammaliante che cancella tutto il resto. È il canto delle sirene, e d’istinto ti ci butteresti a capofitto (...). Sto aspettando che torni a pranzo mamma per dirle che andrò a convivere con Teo. Adesso sì che sono tesa. E non solo perché non ho idea di quale sarà la sua reazione. Dal momento che lo dico, lo dico sul serio. Non torno indietro. Significa rinunciare a essere viziata e rimboccarmi le maniche. È un passo da gigante (...). È più difficile di quanto pensassi. Lei sa tutto di me. Anzi lei sa più cose di me di quante ne sappia io. Se ho un dubbio nascosto in qualche angolo del cuore, me lo tira fuori in un secondo.
Di questo ho paura. Affrontarla è come affrontare me stessa, e temo di scoprire che non sono per niente sicura di quello che sto facendo. Spostiamo il centrotavola, apparecchiamo, nonna ha preparato i tortellini.
«Mami, ti ricordi l’attico meraviglioso che dovevano prendere Alessia e Luca?». Con lei è inutile girarci troppo intorno, tanto ti ferma al secondo giro.
«Sì». «Ci andiamo a vivere io e Teo». Sulla frase ci metto pure una faccia di supplica che mi esce spontanea. Supplica di non arrabbiarsi, di non dirmi quello che pensa in fondo in fondo.
«Così impari a fare qualcosa per casa, almeno», dice seria. Poi scoppia in una risata fragorosa (...) e mi viene ad abbracciare.
al ristorante con papà
Adesso tocca dirlo a papà. Sostiene che lui, come il padre di Niki, non giudicherebbe Alex dall’età, ma lo vorrebbe prima conoscere e, se scoprisse che i suoi sentimenti sono veri, lo accetterebbe (...). Voglio proprio vedere se accetta i sentimenti di me e Teo. Gli ho dato un appuntamento al ristorante. Arriva, col suo pizzetto grigio e il maglione a V viola, il sorrisetto storto di chi si aspetta l’ennesimo tiro mancino. Ho passato il primo test. Sono pronta.
«Papy, è vero che reagirai bene?». «Non mi freghi più». «Giuro che devo dirti una cosa vera». «Ti vedo strana, infatti. O è vera o sei diventata una bravissima attrice». «Vado a convivere con Teo».
Gli va di traverso l’acqua. Fissa la tovaglia, poi comincia a disegnare nel vuoto piccoli cerchi con il bicchiere. Non so capire se è un buon segno. «E dove?». Intanto non gli sono usciti gli occhi di fuori, ed è già una cosa. Le domande sono un’arma a doppio taglio. A seconda delle mie risposte deciderà se è d’accordo o meno. «In quell’attico che doveva prendere Alessia (...)». «E quando?». «Entriamo il 14 febbraio, San Valentino, pensa che coincidenza». «Sono contento per te. Ti vedo presa». «Innamorata papà, non presa. Innamorata». «Va bene, va bene. È giusto. Io credo nell’amore». «Ah sì? E credi pure nel matrimonio?». Mi pento subito. Gliel’ho detto con rancore. Ogni tanto mi escono rigurgiti della loro separazione. Non posso farci niente. «Il fatto che il mio non abbia funzionato non significa non crederci più». «Allora sei d’accordo?». «Basta che ogni tanto mi inviti e non sparisci».
È fatta.
© 2008 Arnoldo Mondadori Editore
SCUSA MA TI CHIAMO BRANCIAMORE
«Ho conosciuto Matteo, il mio principe azzurro, lo stesso giorno in cui ho avuto la parte nel film di Moccia», dice Michela. «E in nove mesi si sono avverati tutti i miei sogni»
di Mauro Suttora
Roma, 26 marzo 2008
'Scusa ma ti chiamo amore' di Federico Moccia, in cui è protagonista con Raoul Bova, è il film italiano più visto del 2008. Ha incassato 14 milioni di euro: il doppio di Silvio Muccino, il triplo di Nanni Moretti. Solo Carlo Verdone sta andando meglio. Ma la reginetta degli incassi, la debuttante Michela Quattrociocche, resta con i piedi per terra: «Sto studiando recitazione. A settembre mi iscrivo all’università, Scienze della comunicazione», dice mentre posa per le foto.
Ha scritto un libro: 'Più dei sogni miei' (Mondadori). È il racconto degli ultimi nove mesi della sua vita. Dal 21 giugno 2007, quando, appena finito lo scritto di maturità, le squilla il cellulare: la parte è sua. È una data magica, perché la sera Michela conosce per caso l’amore della sua vita: Matteo Branciamore. Coincidenza delle coincidenze, anche Teo fa l’attore, ne 'I Cesaroni'.
Il libro di Michela è la cronaca della loro storia, finora tenuta abbastanza nascosta. E lei confessa addirittura: «Se non avessi conosciuto l’amore attraverso di lui, forse non sarei stata in grado di interpretarlo nel film». All’inizio lui la conquista con questa frase: «Ho letto la biografia di Kakà. Mi piace perché è di sani principi, con la moglie si sono scelti davvero». E lei scrive: «Sono incredula. È strano sentir parlare un ragazzo così... ascoltare da lui cose che penso io. Le penso e non le dico, sennò mi rimproverano di essere all’antica... Ebbene sì. Credo nell’amore, nel matrimonio e sono fedele. Allora? A me non interessa “fare esperienze prima di fidanzarmi”, come si dice. Non mi frega di girare di ragazzo in ragazzo».
Insomma, altro che «mocciosa» (così sono soprannominate le giovani della generazione Moccia): Michela è una puritana. Teo le piace perché non le fa la corte: «Non fa il provolone, non fa il piacione e non mi fa i complimenti». E neppure la tocca: «È meraviglioso», annota, «dev’essere speciale uno per farmi stare zitta, in macchina, di notte, senza saltarmi addosso... Li riconosco quelli che ammucchiano le parole per riempire il tempo, prima di partire all’attacco. Odio chi ti rimorchia senza provare a conoscerti».
Nuovo appuntamento, arrivano le cinque del mattino. «Qualsiasi cosa diversa da un bacio ora sarebbe fuori luogo», ammette Miky. Lui si limita a sussurrarle all’orecchio una frase romantica: «È stato surreale, ma bello».
«La riconosco, è la frase che Hugh Grant dice a Julia Roberts in Notting Hill. Svengo. Resto in piedi per orgoglio. Mi rimanda a casa senza toccarmi. Per la prima volta qualcuno mi rispetta. Stiamo cuocendo a fuoco lento ed è stupendo». Risultato: da un mese Miky e Teo sono andati a vivere assieme. «Sono felicisssima, anche se ora litighiamo un po’ di più», dice lei.
Ecco uno degli ultimi capitoli del libro, in cui Michela annuncia a mamma e papà che andrà a convivere col fidanzato.
M.S.
IL CANTO DELLE SIRENE
Se il film non va, fa niente. Ammetto che è tostissima allontanarsene, è come una droga: una volta provato non puoi più farne a meno. Se pensi a quale mestiere vorresti fare dopo avere girato un film, ti fa schifo tutto, è tutto privo di magia. Sei rintontito, svuotato. Non so a cosa paragonarlo (...). L’idea che il cinema diventi il tuo lavoro è talmente ammaliante che cancella tutto il resto. È il canto delle sirene, e d’istinto ti ci butteresti a capofitto (...). Sto aspettando che torni a pranzo mamma per dirle che andrò a convivere con Teo. Adesso sì che sono tesa. E non solo perché non ho idea di quale sarà la sua reazione. Dal momento che lo dico, lo dico sul serio. Non torno indietro. Significa rinunciare a essere viziata e rimboccarmi le maniche. È un passo da gigante (...). È più difficile di quanto pensassi. Lei sa tutto di me. Anzi lei sa più cose di me di quante ne sappia io. Se ho un dubbio nascosto in qualche angolo del cuore, me lo tira fuori in un secondo.
Di questo ho paura. Affrontarla è come affrontare me stessa, e temo di scoprire che non sono per niente sicura di quello che sto facendo. Spostiamo il centrotavola, apparecchiamo, nonna ha preparato i tortellini.
«Mami, ti ricordi l’attico meraviglioso che dovevano prendere Alessia e Luca?». Con lei è inutile girarci troppo intorno, tanto ti ferma al secondo giro.
«Sì». «Ci andiamo a vivere io e Teo». Sulla frase ci metto pure una faccia di supplica che mi esce spontanea. Supplica di non arrabbiarsi, di non dirmi quello che pensa in fondo in fondo.
«Così impari a fare qualcosa per casa, almeno», dice seria. Poi scoppia in una risata fragorosa (...) e mi viene ad abbracciare.
al ristorante con papà
Adesso tocca dirlo a papà. Sostiene che lui, come il padre di Niki, non giudicherebbe Alex dall’età, ma lo vorrebbe prima conoscere e, se scoprisse che i suoi sentimenti sono veri, lo accetterebbe (...). Voglio proprio vedere se accetta i sentimenti di me e Teo. Gli ho dato un appuntamento al ristorante. Arriva, col suo pizzetto grigio e il maglione a V viola, il sorrisetto storto di chi si aspetta l’ennesimo tiro mancino. Ho passato il primo test. Sono pronta.
«Papy, è vero che reagirai bene?». «Non mi freghi più». «Giuro che devo dirti una cosa vera». «Ti vedo strana, infatti. O è vera o sei diventata una bravissima attrice». «Vado a convivere con Teo».
Gli va di traverso l’acqua. Fissa la tovaglia, poi comincia a disegnare nel vuoto piccoli cerchi con il bicchiere. Non so capire se è un buon segno. «E dove?». Intanto non gli sono usciti gli occhi di fuori, ed è già una cosa. Le domande sono un’arma a doppio taglio. A seconda delle mie risposte deciderà se è d’accordo o meno. «In quell’attico che doveva prendere Alessia (...)». «E quando?». «Entriamo il 14 febbraio, San Valentino, pensa che coincidenza». «Sono contento per te. Ti vedo presa». «Innamorata papà, non presa. Innamorata». «Va bene, va bene. È giusto. Io credo nell’amore». «Ah sì? E credi pure nel matrimonio?». Mi pento subito. Gliel’ho detto con rancore. Ogni tanto mi escono rigurgiti della loro separazione. Non posso farci niente. «Il fatto che il mio non abbia funzionato non significa non crederci più». «Allora sei d’accordo?». «Basta che ogni tanto mi inviti e non sparisci».
È fatta.
© 2008 Arnoldo Mondadori Editore
Wednesday, March 19, 2008
Il principe Alliata ricorda Anna Magnani
Anna, guerra sui vulcani
Cent' anni fa nasceva la Magnani, regina del nostro cinema
Due film, "Vulcano" e "Stromboli". E un triangolo di passioni, tra Nannarella, Rossellini e Ingrid Bergman. Nel ' 49 fu scandalo. Il principe Alliata c'era. E qui racconta
Oggi, 12 marzo 2008
di Mauro Suttora
Anna Magnani in bikini sott' acqua, occhi spalancati e bocca sorridente: la straordinaria immagine che pubblichiamo nella pagina seguente, finora inedita, fu scattata nel 1949 da Fosco Maraini, padre della scrittrice Dacia, allora fotografo di scena. E la scena era quella del set di Vulcano, il film che Nannarella girò con Rossano Brazzi nelle stesse settimane in cui il suo ex Roberto Rossellini realizzava nella vicina Stromboli il capolavoro omonimo con il proprio nuovo amore: Ingrid Bergman.
Storie infuocate di amore e odio che agitavano il cinema italiano, allora ai vertici del successo mondiale. E che oggi, nel centenario della nascita della grande attrice, vengono ripercorse in un bel libro scritto da Gaetano Cafiero: Principe delle immagini (ed. Magenes/Il Mare Libreria Internazionale). Il principe in questione è Francesco Alliata di Villafranca, che adesso ha 88 anni ed è stato il primo al mondo a usare sott' acqua una cinepresa professionale.
Ma oltre che pioniere del cinema subacqueo, il principe Alliata (il quale, nonostante l' età e il peso dei suoi 39 titoli nobiliari, lascia spesso la sua Catania per girare l' Europa) è stato il produttore di Vulcano, quindi testimone diretto di quei travagliatissimi mesi. E lo sarebbe stato di Stromboli, se Rossellini non avesse soffiato a lui e al socio Pietro Moncada di Paternò l' idea del film, dopo essere letteralmente fuggito con la Bergman.
"Negli ultimi anni c' è stato un incredibile risveglio d' interesse per quel periodo", spiega Alliata, "siamo continuamente invitati in tutto il mondo, dal Tribeca Festival di New York a quello di Venezia, per ricordare la Magnani e la nostra società Panaria, che due anni dopo produsse un altro film importantissimo per lei, La carrozza d' oro, in cui diretta da Jean Renoir per la prima volta recitò in lingua inglese. Vulcano avvince ancor oggi per la vicenda umana che racconta, elaborata su fatti realmente accaduti in quei paesaggi solenni. Non ci fu solo l' ammirevole recitazione della Magnani, ma anche la realtà che traspira da ogni fotogramma, le prime sequenze "recitate" subacquee nella storia del cinema, e la mattanza dei tonni".
Quella che venne subito definita "la guerra dei vulcani", e che tenne banco per anni su tutti i giornali del pianeta, nacque nel 1948, quando Rossellini si era già impegnato con Alliata a girare Stromboli. Sembrava naturale che la protagonista fosse la Magnani, che stava con il regista da tre anni dopo il successo di Roma città aperta. "Puntammo da subito al grande mercato degli Stati Uniti", ricorda Alliata, "quindi avremmo girato in inglese, in presa diretta, perché gli americani non vogliono i film doppiati".
Ma Anna e Roberto, la coppia del neorealismo, viene travolta dall' arrivo di Ingrid, la svedese che ha già conquistato l' America. Basta una sua lettera a Rossellini, infaticabile tombeur de femmes, per fargli perdere la testa. Dopo avergli rivelato che adora i suoi film e che vorrebbe essere diretta da lui, conclude la lettera scrivendo spudoratamente: "So recitare in inglese, tedesco e svedese, ma in italiano conosco solo tre parole: "Io ti amo".
Quale maschio italiano non sarebbe immediatamente volato a Los Angeles per rispondere ? "Così Rossellini ci piantò in asso", ricorda Alliata, "per settimane non avemmo più sue notizie". Da Hollywood la United Artists, coinvolta nel progetto, offre il ruolo femminile a Greta Garbo. La star risponde: "Grazie, questo copione mi piace, però non vorrei chiudere la mia carriera nel ruolo di un' assassina". Piantata clamorosamente da Rossellini, Anna Magnani non si arrende e decide di realizzare comunque il film pensato per lei: si chiamerà Vulcano, e intanto incassa per la parte l' enorme cifra di 40 milioni (un milione e mezzo di euro attuali).
Le due troupes si sfidano lavorando simultaneamente a pochi chilometri di distanza nell' aspro arcipelago tirrenico, combattendo contro il caldo, le eruzioni vulcaniche, i privati rancori, i dubbi e i rimorsi. Per vincere "la guerra dei vulcani", infatti, i protagonisti si fanno di tutto: tradimenti, plagi, boicottaggi, ardite riprese sottomarine, mentre la grancassa mediatica amplifica con spregiudicatezza i retroscena di una relazione ormai dissolta.
Le riprese subacquee di Alliata restano l' arma segreta dei produttori di Vulcano. L' esperienza accumulata in tonnara nei documentari degli anni precedenti è tanta, nessun altro operatore al mondo è in grado di imitarlo. Quando viene a sapere che è imminente una mattanza a Milazzo, il principe mette l' Arriflex con custodia in una valigia e va. La "levata" dà frutti cospicui. Alliata fissa sulla pellicola inquadrature mirabili, mette a disposizione del "suo" Vulcano altre immagini uniche.
Il settimanale L' Europeo avanza dubbi sulla primogenitura del soggetto di Vulcano rispetto a quello di Stromboli, Alliata risponde. Un giovanotto viene sorpreso a Stromboli mentre cerca di trafugare la sceneggiatura di notte, e gli uomini della produzione di Rossellini lo conciano per le feste. Vitaliano Brancati, coinvolto in extremis, fa da consulente linguistico per la Magnani, che deve esprimersi in siciliano eoliano nella versione per il mercato italiano.
La ricaduta pubblicitaria dopo la clamorosa rottura di Rossellini con la Magnani, e lo scandalo provocato anche negli States per la relazione extramatrimoniale della Bergman, danno ai due film contemporaneamente in lavorazione una notorietà insperata, che però non si tradurrà in successo commerciale. Vulcano, ultimato prima di Stromboli, viene presentato a Roma il 2 febbraio 1950; Stromboli nell' ottobre dello stesso anno. La prima di Vulcano (mai amato dalla critica) è un disastro.
La Magnani dà forfait, e in quello stesso giorno - incredibile coincidenza - nasce Robertino, figlio di Rossellini e della Bergman, che aveva nascosto la gravidanza per tutto il tempo delle riprese. Così l' attenzione di stampa e pubblico si catapulta sul lieto evento.
Insomma, si può dire che la "guerra dei vulcani" si risolve in un pareggio. La vera rivincita su Rossellini, per Nannarella, arriverà solo nel 1955, quando vince l' Oscar con La rosa tatuata. Un drammone scritto da Tennessee Williams apposta per lei, che ha al fianco come protagonista Burt Lancaster.
Cent' anni fa nasceva la Magnani, regina del nostro cinema
Due film, "Vulcano" e "Stromboli". E un triangolo di passioni, tra Nannarella, Rossellini e Ingrid Bergman. Nel ' 49 fu scandalo. Il principe Alliata c'era. E qui racconta
Oggi, 12 marzo 2008
di Mauro Suttora
Anna Magnani in bikini sott' acqua, occhi spalancati e bocca sorridente: la straordinaria immagine che pubblichiamo nella pagina seguente, finora inedita, fu scattata nel 1949 da Fosco Maraini, padre della scrittrice Dacia, allora fotografo di scena. E la scena era quella del set di Vulcano, il film che Nannarella girò con Rossano Brazzi nelle stesse settimane in cui il suo ex Roberto Rossellini realizzava nella vicina Stromboli il capolavoro omonimo con il proprio nuovo amore: Ingrid Bergman.
Storie infuocate di amore e odio che agitavano il cinema italiano, allora ai vertici del successo mondiale. E che oggi, nel centenario della nascita della grande attrice, vengono ripercorse in un bel libro scritto da Gaetano Cafiero: Principe delle immagini (ed. Magenes/Il Mare Libreria Internazionale). Il principe in questione è Francesco Alliata di Villafranca, che adesso ha 88 anni ed è stato il primo al mondo a usare sott' acqua una cinepresa professionale.
Ma oltre che pioniere del cinema subacqueo, il principe Alliata (il quale, nonostante l' età e il peso dei suoi 39 titoli nobiliari, lascia spesso la sua Catania per girare l' Europa) è stato il produttore di Vulcano, quindi testimone diretto di quei travagliatissimi mesi. E lo sarebbe stato di Stromboli, se Rossellini non avesse soffiato a lui e al socio Pietro Moncada di Paternò l' idea del film, dopo essere letteralmente fuggito con la Bergman.
"Negli ultimi anni c' è stato un incredibile risveglio d' interesse per quel periodo", spiega Alliata, "siamo continuamente invitati in tutto il mondo, dal Tribeca Festival di New York a quello di Venezia, per ricordare la Magnani e la nostra società Panaria, che due anni dopo produsse un altro film importantissimo per lei, La carrozza d' oro, in cui diretta da Jean Renoir per la prima volta recitò in lingua inglese. Vulcano avvince ancor oggi per la vicenda umana che racconta, elaborata su fatti realmente accaduti in quei paesaggi solenni. Non ci fu solo l' ammirevole recitazione della Magnani, ma anche la realtà che traspira da ogni fotogramma, le prime sequenze "recitate" subacquee nella storia del cinema, e la mattanza dei tonni".
Quella che venne subito definita "la guerra dei vulcani", e che tenne banco per anni su tutti i giornali del pianeta, nacque nel 1948, quando Rossellini si era già impegnato con Alliata a girare Stromboli. Sembrava naturale che la protagonista fosse la Magnani, che stava con il regista da tre anni dopo il successo di Roma città aperta. "Puntammo da subito al grande mercato degli Stati Uniti", ricorda Alliata, "quindi avremmo girato in inglese, in presa diretta, perché gli americani non vogliono i film doppiati".
Ma Anna e Roberto, la coppia del neorealismo, viene travolta dall' arrivo di Ingrid, la svedese che ha già conquistato l' America. Basta una sua lettera a Rossellini, infaticabile tombeur de femmes, per fargli perdere la testa. Dopo avergli rivelato che adora i suoi film e che vorrebbe essere diretta da lui, conclude la lettera scrivendo spudoratamente: "So recitare in inglese, tedesco e svedese, ma in italiano conosco solo tre parole: "Io ti amo".
Quale maschio italiano non sarebbe immediatamente volato a Los Angeles per rispondere ? "Così Rossellini ci piantò in asso", ricorda Alliata, "per settimane non avemmo più sue notizie". Da Hollywood la United Artists, coinvolta nel progetto, offre il ruolo femminile a Greta Garbo. La star risponde: "Grazie, questo copione mi piace, però non vorrei chiudere la mia carriera nel ruolo di un' assassina". Piantata clamorosamente da Rossellini, Anna Magnani non si arrende e decide di realizzare comunque il film pensato per lei: si chiamerà Vulcano, e intanto incassa per la parte l' enorme cifra di 40 milioni (un milione e mezzo di euro attuali).
Le due troupes si sfidano lavorando simultaneamente a pochi chilometri di distanza nell' aspro arcipelago tirrenico, combattendo contro il caldo, le eruzioni vulcaniche, i privati rancori, i dubbi e i rimorsi. Per vincere "la guerra dei vulcani", infatti, i protagonisti si fanno di tutto: tradimenti, plagi, boicottaggi, ardite riprese sottomarine, mentre la grancassa mediatica amplifica con spregiudicatezza i retroscena di una relazione ormai dissolta.
Le riprese subacquee di Alliata restano l' arma segreta dei produttori di Vulcano. L' esperienza accumulata in tonnara nei documentari degli anni precedenti è tanta, nessun altro operatore al mondo è in grado di imitarlo. Quando viene a sapere che è imminente una mattanza a Milazzo, il principe mette l' Arriflex con custodia in una valigia e va. La "levata" dà frutti cospicui. Alliata fissa sulla pellicola inquadrature mirabili, mette a disposizione del "suo" Vulcano altre immagini uniche.
Il settimanale L' Europeo avanza dubbi sulla primogenitura del soggetto di Vulcano rispetto a quello di Stromboli, Alliata risponde. Un giovanotto viene sorpreso a Stromboli mentre cerca di trafugare la sceneggiatura di notte, e gli uomini della produzione di Rossellini lo conciano per le feste. Vitaliano Brancati, coinvolto in extremis, fa da consulente linguistico per la Magnani, che deve esprimersi in siciliano eoliano nella versione per il mercato italiano.
La ricaduta pubblicitaria dopo la clamorosa rottura di Rossellini con la Magnani, e lo scandalo provocato anche negli States per la relazione extramatrimoniale della Bergman, danno ai due film contemporaneamente in lavorazione una notorietà insperata, che però non si tradurrà in successo commerciale. Vulcano, ultimato prima di Stromboli, viene presentato a Roma il 2 febbraio 1950; Stromboli nell' ottobre dello stesso anno. La prima di Vulcano (mai amato dalla critica) è un disastro.
La Magnani dà forfait, e in quello stesso giorno - incredibile coincidenza - nasce Robertino, figlio di Rossellini e della Bergman, che aveva nascosto la gravidanza per tutto il tempo delle riprese. Così l' attenzione di stampa e pubblico si catapulta sul lieto evento.
Insomma, si può dire che la "guerra dei vulcani" si risolve in un pareggio. La vera rivincita su Rossellini, per Nannarella, arriverà solo nel 1955, quando vince l' Oscar con La rosa tatuata. Un drammone scritto da Tennessee Williams apposta per lei, che ha al fianco come protagonista Burt Lancaster.
intervista a Tim Burton
Il regista di Sweeney Todd: quanto horror con Johnny Depp
Oggi, 27 febbraio 2008
"Mi ha dato energia anche solo l' idea di lavorare con qualcuno che ha lavorato con Fellini".
Così il regista Tim Burton, a Roma per presentare il suo nuovo film con Johnny Depp, Sweeney Todd, commenta l' ennesima candidatura all' Oscar (l' ottava) conquistata dallo scenografo italiano Dante Ferretti proprio per questo lavoro. Ferretti un premio Oscar l' ha vinto, per The Aviator nel 2004, mentre sia lei che Depp siete ancora all' asciutto quanto a statuette d' oro.
"Ci siamo consolati con gli incassi delle nostre trilogie: io quella di Batman, lui quella dei Pirati dei Caraibi. Sweeney Todd è il sesto film che facciamo insieme, ci capiamo al volo e per questo musical horror Johnny è l' unico attore a cui ho pensato. Il personaggio cupo del barbiere assassino nella Londra dell' 800 gli si attaglia perfettamente".
Accanto a Depp c' è Helena Bonham Carter che fa mangiare carne umana ai clienti della sua rosticceria.
"Il loro rapporto è tragicamente comico, perché lei parla sempre e lui mai. Ho visto tante coppie così, comprese alcune di cui ho fatto parte io stesso...".
Oltre a Ferretti c' è un altro tocco d' Italia in Sweeney Todd.
"Sì, il barbiere rivale di Depp, l' italiano Adolfo Pirelli (interpretato dal Sacha Baron Cohen di Borat). Inoltre mi sono ispirato a Mario Bava. Questo vostro regista, maestro dell' horror, è uno dei miei preferiti. Io però, rispetto al suo stile, ho preferito inondare questo film con decine di litri di sangue".
Buoni incubi, quindi, agli spettatori.
Mauro Suttora
Oggi, 27 febbraio 2008
"Mi ha dato energia anche solo l' idea di lavorare con qualcuno che ha lavorato con Fellini".
Così il regista Tim Burton, a Roma per presentare il suo nuovo film con Johnny Depp, Sweeney Todd, commenta l' ennesima candidatura all' Oscar (l' ottava) conquistata dallo scenografo italiano Dante Ferretti proprio per questo lavoro. Ferretti un premio Oscar l' ha vinto, per The Aviator nel 2004, mentre sia lei che Depp siete ancora all' asciutto quanto a statuette d' oro.
"Ci siamo consolati con gli incassi delle nostre trilogie: io quella di Batman, lui quella dei Pirati dei Caraibi. Sweeney Todd è il sesto film che facciamo insieme, ci capiamo al volo e per questo musical horror Johnny è l' unico attore a cui ho pensato. Il personaggio cupo del barbiere assassino nella Londra dell' 800 gli si attaglia perfettamente".
Accanto a Depp c' è Helena Bonham Carter che fa mangiare carne umana ai clienti della sua rosticceria.
"Il loro rapporto è tragicamente comico, perché lei parla sempre e lui mai. Ho visto tante coppie così, comprese alcune di cui ho fatto parte io stesso...".
Oltre a Ferretti c' è un altro tocco d' Italia in Sweeney Todd.
"Sì, il barbiere rivale di Depp, l' italiano Adolfo Pirelli (interpretato dal Sacha Baron Cohen di Borat). Inoltre mi sono ispirato a Mario Bava. Questo vostro regista, maestro dell' horror, è uno dei miei preferiti. Io però, rispetto al suo stile, ho preferito inondare questo film con decine di litri di sangue".
Buoni incubi, quindi, agli spettatori.
Mauro Suttora
Monday, March 10, 2008
L'Economist scopre il 'nuovo'
Libero, 9 marzo 2008
di Mauro Suttora
Caro direttore,
dopo vent’anni devo darti ragione. «L’obiettività dei giornali anglosassoni non esiste», avevi detto quando arrivasti a dirigere il mio Europeo nel 1989. Non mi convincesti, e fino a giovedì sera sono rimasto anglofilo. Ma è bastata una sola parola di Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, per farmi crollare il mito. La parola è: «Nuovo». Così Emmott ha risposto alla domanda di un conduttore di Sky24: «Come definirebbe Walter Veltroni?»
Gelo in studio. Benedetto Della Vedova, radicale passato con Berlusconi, ha un attimo di smarrimento. Come può a un giornalista così prestigioso essere scappata una tale scivolata, che neanche Dida? Ripresosi dall’incredulità, replica: «Informo Emmott che Veltroni era responsabile della propaganda Pci già nel 1981». Salta su Furio Colombo, al quale ultimamente qualcuno ha consigliato l’isteria come arma per apparire efficaci in tv: «Lei offende Emmott! Un giornalista questo lo sa».
Si presume di sì. Anche perché Emmott è stato ingaggiato dal Corriere della Sera per commentare in prima pagina le cose italiane. Quindi un curriculum del politico numero due in Italia lo avrà scorso. E seguendo il dibattito di questi giorni avrà notato che proprio la presunta «novità» di Veltroni è il principale tema di discussione in questa campagna.
Il britannico tenta di rimediare: «Ho detto “nuovo” sulla scena nazionale...»
Della Vedova è uno dei politici più placidi d’Italia. L’aggressività non è il suo forte. Quindi si limita a sorridere indulgente, puntualizzando: «Veltroni è stato segretario nazionale Ds, e ministro, e vicepremier...» Niente da fare. L’accoppiata Emmott-Colombo continua a sostenere l’insostenibile, anche se il primo arretra fino all’estrema trincea aggrappandosi a un’altra parola fatale: «Veltroni “appare” nuovo...»
Ah, siamo alle apparenze. Domani disdico l’abbonamento all’Economist. Anche perché, confessiamolo: il settimanale più «obiettivo» del mondo è citato da tutti, rispettato da molti, comprato da pochi. E letto da quasi nessuno.
di Mauro Suttora
Caro direttore,
dopo vent’anni devo darti ragione. «L’obiettività dei giornali anglosassoni non esiste», avevi detto quando arrivasti a dirigere il mio Europeo nel 1989. Non mi convincesti, e fino a giovedì sera sono rimasto anglofilo. Ma è bastata una sola parola di Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, per farmi crollare il mito. La parola è: «Nuovo». Così Emmott ha risposto alla domanda di un conduttore di Sky24: «Come definirebbe Walter Veltroni?»
Gelo in studio. Benedetto Della Vedova, radicale passato con Berlusconi, ha un attimo di smarrimento. Come può a un giornalista così prestigioso essere scappata una tale scivolata, che neanche Dida? Ripresosi dall’incredulità, replica: «Informo Emmott che Veltroni era responsabile della propaganda Pci già nel 1981». Salta su Furio Colombo, al quale ultimamente qualcuno ha consigliato l’isteria come arma per apparire efficaci in tv: «Lei offende Emmott! Un giornalista questo lo sa».
Si presume di sì. Anche perché Emmott è stato ingaggiato dal Corriere della Sera per commentare in prima pagina le cose italiane. Quindi un curriculum del politico numero due in Italia lo avrà scorso. E seguendo il dibattito di questi giorni avrà notato che proprio la presunta «novità» di Veltroni è il principale tema di discussione in questa campagna.
Il britannico tenta di rimediare: «Ho detto “nuovo” sulla scena nazionale...»
Della Vedova è uno dei politici più placidi d’Italia. L’aggressività non è il suo forte. Quindi si limita a sorridere indulgente, puntualizzando: «Veltroni è stato segretario nazionale Ds, e ministro, e vicepremier...» Niente da fare. L’accoppiata Emmott-Colombo continua a sostenere l’insostenibile, anche se il primo arretra fino all’estrema trincea aggrappandosi a un’altra parola fatale: «Veltroni “appare” nuovo...»
Ah, siamo alle apparenze. Domani disdico l’abbonamento all’Economist. Anche perché, confessiamolo: il settimanale più «obiettivo» del mondo è citato da tutti, rispettato da molti, comprato da pochi. E letto da quasi nessuno.
Wednesday, March 05, 2008
intervista a Pier Luigi Bersani
La famiglia Sacchetti interroga il ministro dello Sviluppo economico
Roma, 5 marzo 2008
«Glielo dico subito: due anni fa ho votato per voi, ma questa volta non penso proprio: il governo Prodi mi ha deluso».
Non inizia bene la cena con Pier Luigi Bersani, ministro dello Sviluppo economico e capolista per il Partito democratico alle elezioni di aprile. La padrona di casa, Francesca Sacchetti, consulente, mette subito le carte in tavola: «Io non sono fedele, a volte ho votato a sinistra, altre a destra. Ma ormai mi sembra che tutti voi politici abbiate perso il senso della realtà, il contatto con la vita di tutti i giorni. Almeno un tempo i re potevano contare sui giullari per farsi dire la verità. Ma adesso?».
Bersani incassa placido e risponde: «Posso solo cercare di convincerla dicendole quello che sono riuscito a fare in concreto in questi due anni al ministero. Forse le sembrerà stupido, ma uno dei risultati di cui vado fiero è che ho proibito di scrivere troppo in piccolo la data di scadenza della pasta sulle confezioni. E su ogni cosa che ho fatto, dalle liberalizzazioni alle cosiddette “lenzuolate”, ci ho messo la faccia. Nel senso che mi sono preso la responsabilità di adottare provvedimenti anche impopolari. Ho detto che è ora che in questo Paese un giovane che vuole fare il barbiere o l’avvocato o il tassista lo possa fare, senza scontrarsi con i privilegi delle corporazioni».
Siamo nell’appartamento al settimo piano di un palazzo del quartiere Monti, a Roma. A tavola ci sono Giovanni Sacchetti, pittore, sua moglie, il figlio Clemente e Lavinia, figlia del primo matrimonio di Francesca. La quale, laureata e impiegata in una grande società telefonica, chiede al ministro: «Come faccio a ottenere un aumento se a causa delle tasse il costo del lavoro per le aziende è così alto? A me le imposte vengono detratte direttamente dalla busta paga, ma poi al mercato se chiedo uno scontrino mi guardano seccati...».
«C’è poco da fare», risponde Bersani, «le tasse le devono pagare tutti. Avremmo dei margini enormi per abbassarle, se tutti fossero onesti. Non voglio fare propaganda, ma il governo precedente ha concesso sette condoni in cinque anni, mentre noi neanche uno. Se la gente si abitua ai condoni fiscali non pagherà mai, tanto sa che prima o poi ne arriverà un altro».
Clemente, studente al penultimo anno del liceo classico Visconti: «Sto cominciando a pensare alla facoltà da scegliere per l’università. Sono incerto fra Legge ed Economia, ma temo che anche con buoni voti avrò grossi problemi».
Bersani: «Un consiglio che posso darti è quello di controllare un sito internet dove per ogni facoltà vengono indicate le statistiche con le settimane o i mesi che in media bisogna aspettare per trovare lavoro con i vari tipi di laurea. È evidente che mia figlia che studia Storia medievale dovrà aspettare più di un ingegnere. Ci sono tre tipi di problemi con il primo lavoro: la stabilità, la retribuzione e la coerenza con gli studi che si sono fatti. Sul primo punto ci siamo impegnati per rendere meno precario il lavoro flessibile». «Che vuol dire?», lo interrompe Clemente. «Fare in modo che i contratti a tempo determinato, quelli a progetto e così via non costino meno di quelli a tempo indeterminato. Va benissimo incentivare la formazione, ma il lavoro va pagato senza che si approfitti troppo di sgravi contributivi».
«Mi piacerebbe fare l’avvocato, ma non so se mi conviene studiare in Italia o all’estero», dice Clemente.
«La liberalizzazione delle professioni è sempre stato fra i miei obiettivi. L’Italia ha il più alto numero di avvocati d’Europa, eppure ne importiamo dall’estero. Questo perché un residuo archeologico da noi non permetteva di costituire società professionali. Ho scoperto che era una legge addirittura del 1938, la quale per ragioni razziali voleva impedire che dietro a uno studio si potesse nascondere un ebreo! Mentre nel mondo ormai gli studi legali hanno decine se non centinaia di dipendenti, da noi c’è ancora l’avvocato individuale. Così, se uno studio ha bisogno di una figura di grande specializzazione, a volte trova più comodo assumere un avvocato straniero».
Parla Giovanni Sacchetti: «A proposito di lavoro di squadra, possibile che in molti ospedali pubblici il lavoro d’équipe sembri non esistere? Me ne sono accorto di recente, con il ricovero di mia suocera».
Bersani: «Sulla sanità mi sono preso le mie dosi di fischi nei vent’anni in cui ho fatto l’amministratore locale nella mia regione, l’Emilia-Romagna. Avevamo troppi ospedali, ma chiuderli è stata una battaglia micidiale. Di fronte alle proteste popolari un politico si chiede sempre: chi me lo fa fare? Perché rischia il consenso immediato, ma non pensa che se la sua soluzione funziona poi il consenso si recupera, e magari si raddoppia. Questo vale in tutti i campi, anche i rifiuti: dicendo sempre no si finisce come in Campania».
«Ecco, come fare con la sanità al sud, dove ci sono addirittura casi di ospedali occupati da figli di mafiosi che fanno i medici?», chiede Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Ci vuole una grande riscossa civica. Ognuno deve accettare di cambiare un po’. Invece oggi in Italia tutti sono convinti “che ce l’hai con loro”: i cattolici si sentono assediati, i laici dimenticati, l’unica immigrata buona è la tua badante, e nessuno vuole il termovalorizzatore. Invece è ora che ci diciamo che esistono diritti ma anche doveri. E poi basta con il pessimismo: dopotutto l’Italia è stato il Paese europeo che nel 2007 ha aumentato di più le esportazioni. Solo la Germania ci ha battuto ».
«Sì, però, a volte è la classe politica a sembrare impresentabile», obietta la signora Sacchetti, «basta vedere certe facce...».
Bersani: «Salvemini diceva che il 15 per cento dei politici è meglio degli elettori, il 10 per cento è peggio, e che il resto li rappresenta. Ma io non voglio cavarmela così. E ammetto che l’attuale sistema elettorale, imposto dal centrodestra, è un disastro, perché gli eletti sono nominati direttamente dai partiti».
Signora Sacchetti: «Dite di essere tutti d’accordo a fare la riforma elettorale,ma ora eccoci di nuovo a votare senza poter esprimere una preferenza. E che fine hanno fatto le promesse di ridurvi gli stipendi, di ridurre il numero dei parlamentari?»
Bersani: «Per gli stipendi, basterebbe adeguarsi alla media europea. E per il numero, basterebbe calare da mille a seicento».
Lavinia Sacchetti: «Il problema è che siamo tutti sfiduciati».
Bersani: «Avete ragione. Non vi dirò che ci vogliono le riforme, perché farei la figura del calzolaio che si lamenta perché ha le scarpe bucate. “Allora aggiustatele tu”, mi rispondereste. Dovete però ammettere che la nascita del Partito democratico e la decisione di ridurre spontaneamente il numero dei partiti è stata un passo in avanti. E c’è costato parecchio, abbiamo pagato con strappi e scissioni».
«Però poi alla fine il governo Prodi ha lasciato una sensazione di grigio», replica Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Il che, detto da un pittore, è il giudizio peggiore. Forse abbiamo mischiato troppi colori... Il problema è che abbiamo dovuto stringere i cordoni della borsa per rimettere a posto i conti. Insomma, abbiamo dovuto dare un bel “drizzone“, come si dice dalle mie parti. Concludendo, posso confessarvi una cosa? Io faccio il pendolare con Piacenza da quattordici anni, vedo la mia famiglia solo nei fine settimana. E vi ringrazio perché questa sera mi avete regalato un’atmosfera di vita familiare che mi manca molto».
Mauro Suttora
Roma, 5 marzo 2008
«Glielo dico subito: due anni fa ho votato per voi, ma questa volta non penso proprio: il governo Prodi mi ha deluso».
Non inizia bene la cena con Pier Luigi Bersani, ministro dello Sviluppo economico e capolista per il Partito democratico alle elezioni di aprile. La padrona di casa, Francesca Sacchetti, consulente, mette subito le carte in tavola: «Io non sono fedele, a volte ho votato a sinistra, altre a destra. Ma ormai mi sembra che tutti voi politici abbiate perso il senso della realtà, il contatto con la vita di tutti i giorni. Almeno un tempo i re potevano contare sui giullari per farsi dire la verità. Ma adesso?».
Bersani incassa placido e risponde: «Posso solo cercare di convincerla dicendole quello che sono riuscito a fare in concreto in questi due anni al ministero. Forse le sembrerà stupido, ma uno dei risultati di cui vado fiero è che ho proibito di scrivere troppo in piccolo la data di scadenza della pasta sulle confezioni. E su ogni cosa che ho fatto, dalle liberalizzazioni alle cosiddette “lenzuolate”, ci ho messo la faccia. Nel senso che mi sono preso la responsabilità di adottare provvedimenti anche impopolari. Ho detto che è ora che in questo Paese un giovane che vuole fare il barbiere o l’avvocato o il tassista lo possa fare, senza scontrarsi con i privilegi delle corporazioni».
Siamo nell’appartamento al settimo piano di un palazzo del quartiere Monti, a Roma. A tavola ci sono Giovanni Sacchetti, pittore, sua moglie, il figlio Clemente e Lavinia, figlia del primo matrimonio di Francesca. La quale, laureata e impiegata in una grande società telefonica, chiede al ministro: «Come faccio a ottenere un aumento se a causa delle tasse il costo del lavoro per le aziende è così alto? A me le imposte vengono detratte direttamente dalla busta paga, ma poi al mercato se chiedo uno scontrino mi guardano seccati...».
«C’è poco da fare», risponde Bersani, «le tasse le devono pagare tutti. Avremmo dei margini enormi per abbassarle, se tutti fossero onesti. Non voglio fare propaganda, ma il governo precedente ha concesso sette condoni in cinque anni, mentre noi neanche uno. Se la gente si abitua ai condoni fiscali non pagherà mai, tanto sa che prima o poi ne arriverà un altro».
Clemente, studente al penultimo anno del liceo classico Visconti: «Sto cominciando a pensare alla facoltà da scegliere per l’università. Sono incerto fra Legge ed Economia, ma temo che anche con buoni voti avrò grossi problemi».
Bersani: «Un consiglio che posso darti è quello di controllare un sito internet dove per ogni facoltà vengono indicate le statistiche con le settimane o i mesi che in media bisogna aspettare per trovare lavoro con i vari tipi di laurea. È evidente che mia figlia che studia Storia medievale dovrà aspettare più di un ingegnere. Ci sono tre tipi di problemi con il primo lavoro: la stabilità, la retribuzione e la coerenza con gli studi che si sono fatti. Sul primo punto ci siamo impegnati per rendere meno precario il lavoro flessibile». «Che vuol dire?», lo interrompe Clemente. «Fare in modo che i contratti a tempo determinato, quelli a progetto e così via non costino meno di quelli a tempo indeterminato. Va benissimo incentivare la formazione, ma il lavoro va pagato senza che si approfitti troppo di sgravi contributivi».
«Mi piacerebbe fare l’avvocato, ma non so se mi conviene studiare in Italia o all’estero», dice Clemente.
«La liberalizzazione delle professioni è sempre stato fra i miei obiettivi. L’Italia ha il più alto numero di avvocati d’Europa, eppure ne importiamo dall’estero. Questo perché un residuo archeologico da noi non permetteva di costituire società professionali. Ho scoperto che era una legge addirittura del 1938, la quale per ragioni razziali voleva impedire che dietro a uno studio si potesse nascondere un ebreo! Mentre nel mondo ormai gli studi legali hanno decine se non centinaia di dipendenti, da noi c’è ancora l’avvocato individuale. Così, se uno studio ha bisogno di una figura di grande specializzazione, a volte trova più comodo assumere un avvocato straniero».
Parla Giovanni Sacchetti: «A proposito di lavoro di squadra, possibile che in molti ospedali pubblici il lavoro d’équipe sembri non esistere? Me ne sono accorto di recente, con il ricovero di mia suocera».
Bersani: «Sulla sanità mi sono preso le mie dosi di fischi nei vent’anni in cui ho fatto l’amministratore locale nella mia regione, l’Emilia-Romagna. Avevamo troppi ospedali, ma chiuderli è stata una battaglia micidiale. Di fronte alle proteste popolari un politico si chiede sempre: chi me lo fa fare? Perché rischia il consenso immediato, ma non pensa che se la sua soluzione funziona poi il consenso si recupera, e magari si raddoppia. Questo vale in tutti i campi, anche i rifiuti: dicendo sempre no si finisce come in Campania».
«Ecco, come fare con la sanità al sud, dove ci sono addirittura casi di ospedali occupati da figli di mafiosi che fanno i medici?», chiede Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Ci vuole una grande riscossa civica. Ognuno deve accettare di cambiare un po’. Invece oggi in Italia tutti sono convinti “che ce l’hai con loro”: i cattolici si sentono assediati, i laici dimenticati, l’unica immigrata buona è la tua badante, e nessuno vuole il termovalorizzatore. Invece è ora che ci diciamo che esistono diritti ma anche doveri. E poi basta con il pessimismo: dopotutto l’Italia è stato il Paese europeo che nel 2007 ha aumentato di più le esportazioni. Solo la Germania ci ha battuto ».
«Sì, però, a volte è la classe politica a sembrare impresentabile», obietta la signora Sacchetti, «basta vedere certe facce...».
Bersani: «Salvemini diceva che il 15 per cento dei politici è meglio degli elettori, il 10 per cento è peggio, e che il resto li rappresenta. Ma io non voglio cavarmela così. E ammetto che l’attuale sistema elettorale, imposto dal centrodestra, è un disastro, perché gli eletti sono nominati direttamente dai partiti».
Signora Sacchetti: «Dite di essere tutti d’accordo a fare la riforma elettorale,ma ora eccoci di nuovo a votare senza poter esprimere una preferenza. E che fine hanno fatto le promesse di ridurvi gli stipendi, di ridurre il numero dei parlamentari?»
Bersani: «Per gli stipendi, basterebbe adeguarsi alla media europea. E per il numero, basterebbe calare da mille a seicento».
Lavinia Sacchetti: «Il problema è che siamo tutti sfiduciati».
Bersani: «Avete ragione. Non vi dirò che ci vogliono le riforme, perché farei la figura del calzolaio che si lamenta perché ha le scarpe bucate. “Allora aggiustatele tu”, mi rispondereste. Dovete però ammettere che la nascita del Partito democratico e la decisione di ridurre spontaneamente il numero dei partiti è stata un passo in avanti. E c’è costato parecchio, abbiamo pagato con strappi e scissioni».
«Però poi alla fine il governo Prodi ha lasciato una sensazione di grigio», replica Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Il che, detto da un pittore, è il giudizio peggiore. Forse abbiamo mischiato troppi colori... Il problema è che abbiamo dovuto stringere i cordoni della borsa per rimettere a posto i conti. Insomma, abbiamo dovuto dare un bel “drizzone“, come si dice dalle mie parti. Concludendo, posso confessarvi una cosa? Io faccio il pendolare con Piacenza da quattordici anni, vedo la mia famiglia solo nei fine settimana. E vi ringrazio perché questa sera mi avete regalato un’atmosfera di vita familiare che mi manca molto».
Mauro Suttora
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