La famiglia Sacchetti interroga il ministro dello Sviluppo economico
Roma, 5 marzo 2008
«Glielo dico subito: due anni fa ho votato per voi, ma questa volta non penso proprio: il governo Prodi mi ha deluso».
Non inizia bene la cena con Pier Luigi Bersani, ministro dello Sviluppo economico e capolista per il Partito democratico alle elezioni di aprile. La padrona di casa, Francesca Sacchetti, consulente, mette subito le carte in tavola: «Io non sono fedele, a volte ho votato a sinistra, altre a destra. Ma ormai mi sembra che tutti voi politici abbiate perso il senso della realtà, il contatto con la vita di tutti i giorni. Almeno un tempo i re potevano contare sui giullari per farsi dire la verità. Ma adesso?».
Bersani incassa placido e risponde: «Posso solo cercare di convincerla dicendole quello che sono riuscito a fare in concreto in questi due anni al ministero. Forse le sembrerà stupido, ma uno dei risultati di cui vado fiero è che ho proibito di scrivere troppo in piccolo la data di scadenza della pasta sulle confezioni. E su ogni cosa che ho fatto, dalle liberalizzazioni alle cosiddette “lenzuolate”, ci ho messo la faccia. Nel senso che mi sono preso la responsabilità di adottare provvedimenti anche impopolari. Ho detto che è ora che in questo Paese un giovane che vuole fare il barbiere o l’avvocato o il tassista lo possa fare, senza scontrarsi con i privilegi delle corporazioni».
Siamo nell’appartamento al settimo piano di un palazzo del quartiere Monti, a Roma. A tavola ci sono Giovanni Sacchetti, pittore, sua moglie, il figlio Clemente e Lavinia, figlia del primo matrimonio di Francesca. La quale, laureata e impiegata in una grande società telefonica, chiede al ministro: «Come faccio a ottenere un aumento se a causa delle tasse il costo del lavoro per le aziende è così alto? A me le imposte vengono detratte direttamente dalla busta paga, ma poi al mercato se chiedo uno scontrino mi guardano seccati...».
«C’è poco da fare», risponde Bersani, «le tasse le devono pagare tutti. Avremmo dei margini enormi per abbassarle, se tutti fossero onesti. Non voglio fare propaganda, ma il governo precedente ha concesso sette condoni in cinque anni, mentre noi neanche uno. Se la gente si abitua ai condoni fiscali non pagherà mai, tanto sa che prima o poi ne arriverà un altro».
Clemente, studente al penultimo anno del liceo classico Visconti: «Sto cominciando a pensare alla facoltà da scegliere per l’università. Sono incerto fra Legge ed Economia, ma temo che anche con buoni voti avrò grossi problemi».
Bersani: «Un consiglio che posso darti è quello di controllare un sito internet dove per ogni facoltà vengono indicate le statistiche con le settimane o i mesi che in media bisogna aspettare per trovare lavoro con i vari tipi di laurea. È evidente che mia figlia che studia Storia medievale dovrà aspettare più di un ingegnere. Ci sono tre tipi di problemi con il primo lavoro: la stabilità, la retribuzione e la coerenza con gli studi che si sono fatti. Sul primo punto ci siamo impegnati per rendere meno precario il lavoro flessibile». «Che vuol dire?», lo interrompe Clemente. «Fare in modo che i contratti a tempo determinato, quelli a progetto e così via non costino meno di quelli a tempo indeterminato. Va benissimo incentivare la formazione, ma il lavoro va pagato senza che si approfitti troppo di sgravi contributivi».
«Mi piacerebbe fare l’avvocato, ma non so se mi conviene studiare in Italia o all’estero», dice Clemente.
«La liberalizzazione delle professioni è sempre stato fra i miei obiettivi. L’Italia ha il più alto numero di avvocati d’Europa, eppure ne importiamo dall’estero. Questo perché un residuo archeologico da noi non permetteva di costituire società professionali. Ho scoperto che era una legge addirittura del 1938, la quale per ragioni razziali voleva impedire che dietro a uno studio si potesse nascondere un ebreo! Mentre nel mondo ormai gli studi legali hanno decine se non centinaia di dipendenti, da noi c’è ancora l’avvocato individuale. Così, se uno studio ha bisogno di una figura di grande specializzazione, a volte trova più comodo assumere un avvocato straniero».
Parla Giovanni Sacchetti: «A proposito di lavoro di squadra, possibile che in molti ospedali pubblici il lavoro d’équipe sembri non esistere? Me ne sono accorto di recente, con il ricovero di mia suocera».
Bersani: «Sulla sanità mi sono preso le mie dosi di fischi nei vent’anni in cui ho fatto l’amministratore locale nella mia regione, l’Emilia-Romagna. Avevamo troppi ospedali, ma chiuderli è stata una battaglia micidiale. Di fronte alle proteste popolari un politico si chiede sempre: chi me lo fa fare? Perché rischia il consenso immediato, ma non pensa che se la sua soluzione funziona poi il consenso si recupera, e magari si raddoppia. Questo vale in tutti i campi, anche i rifiuti: dicendo sempre no si finisce come in Campania».
«Ecco, come fare con la sanità al sud, dove ci sono addirittura casi di ospedali occupati da figli di mafiosi che fanno i medici?», chiede Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Ci vuole una grande riscossa civica. Ognuno deve accettare di cambiare un po’. Invece oggi in Italia tutti sono convinti “che ce l’hai con loro”: i cattolici si sentono assediati, i laici dimenticati, l’unica immigrata buona è la tua badante, e nessuno vuole il termovalorizzatore. Invece è ora che ci diciamo che esistono diritti ma anche doveri. E poi basta con il pessimismo: dopotutto l’Italia è stato il Paese europeo che nel 2007 ha aumentato di più le esportazioni. Solo la Germania ci ha battuto ».
«Sì, però, a volte è la classe politica a sembrare impresentabile», obietta la signora Sacchetti, «basta vedere certe facce...».
Bersani: «Salvemini diceva che il 15 per cento dei politici è meglio degli elettori, il 10 per cento è peggio, e che il resto li rappresenta. Ma io non voglio cavarmela così. E ammetto che l’attuale sistema elettorale, imposto dal centrodestra, è un disastro, perché gli eletti sono nominati direttamente dai partiti».
Signora Sacchetti: «Dite di essere tutti d’accordo a fare la riforma elettorale,ma ora eccoci di nuovo a votare senza poter esprimere una preferenza. E che fine hanno fatto le promesse di ridurvi gli stipendi, di ridurre il numero dei parlamentari?»
Bersani: «Per gli stipendi, basterebbe adeguarsi alla media europea. E per il numero, basterebbe calare da mille a seicento».
Lavinia Sacchetti: «Il problema è che siamo tutti sfiduciati».
Bersani: «Avete ragione. Non vi dirò che ci vogliono le riforme, perché farei la figura del calzolaio che si lamenta perché ha le scarpe bucate. “Allora aggiustatele tu”, mi rispondereste. Dovete però ammettere che la nascita del Partito democratico e la decisione di ridurre spontaneamente il numero dei partiti è stata un passo in avanti. E c’è costato parecchio, abbiamo pagato con strappi e scissioni».
«Però poi alla fine il governo Prodi ha lasciato una sensazione di grigio», replica Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Il che, detto da un pittore, è il giudizio peggiore. Forse abbiamo mischiato troppi colori... Il problema è che abbiamo dovuto stringere i cordoni della borsa per rimettere a posto i conti. Insomma, abbiamo dovuto dare un bel “drizzone“, come si dice dalle mie parti. Concludendo, posso confessarvi una cosa? Io faccio il pendolare con Piacenza da quattordici anni, vedo la mia famiglia solo nei fine settimana. E vi ringrazio perché questa sera mi avete regalato un’atmosfera di vita familiare che mi manca molto».
Mauro Suttora
No comments:
Post a Comment