URAGANI MEDIATICI
Perché una pena di morte negli Stati Uniti surriscalda i giornalisti e le uccisioni a Pechino e in Iran no
Il Foglio, giovedi' 22 dicembre 2005
New York. La mobilitazione contro l'esecuzione di Stanley 'Tookie' Williams non è servita a nulla, ma ha provocato una memorabile tempesta fra i giornalisti esteri a New York. E' noto: l'unica Foreign Press Association (Fpa) che conta qualcosa negli Stati Uniti è quella di Hollywood. Non perchè i corrispondenti che si occupano di cinema siano più bravi, ma perchè ogni anno decidono chi premiare con i Golden Globe, cioè gli antipasti propiziatori degli Oscar. La Fpa di New York, invece, politicamente vale quanto l'Associazione Stampa Estera di Roma: poco. Iscriversi costa 70 dollari l'anno, dentro ci si trova di tutto: dai corrispondenti delle più prestigiose testate mondiali, a poveracci che si spacciano per giornalisti allo scopo di raccattare qualche invito a pranzi e cocktail. Non impone controlli sulle credenziali come quelli severi del Foreign Press Center governativo di Lexington Avenue, che pretende addirittura una prova certificata dai consolati dell'esistenza dei media per i quali si chiede l'accredito.
La direttrice della Fpa è Suzanne Adams, una simpatica signora ultrasettantenne che ogni tanto organizza gite in barca nella baia di Manhattan, scampagnate in qualche factory outlet, incontri con Ivana Trump e degustazioni di rum o whisky. Il clou dell'attività della Fpa è l'annuale gala di maggio al Mark Hotel di Madison Avenue, in cui si distribuiscono borse di studio per giovani promettenti e si ascoltano big della politica e della comunicazione: George Stephanopoulos, ex addetto stampa di Bill Clinton e oggi presentatore di un talk show sulla tv Abc, oppure il rettore della Columbia University.
Un trantran dignitoso, che negli ultimi giorni è stato scosso da un acceso dibattito sulla pena di morte. A dar fuoco alle polveri è stato Roberto Rezzo, corrispondente dell'Unità da New York, che già aveva sollecitato una mobilitazione pro-Tookie presso i membri dell'Acina (Associazione Corrispondenti Italiani Nord America) L'Acina ha fatto circolare il testo dell'appello, invitando a sottoscriverlo. L'ex presidente della Fpa Jeffrey Blyth, invece, si è ribellato: «Perchè ai soci dell'Fpa viene chiesto di impegnarsi a favore di un assassino condannato a morte in California? Firmare appelli non è compito dei corrispondenti esteri negli Usa. Il suo giornale sa di questo suo impegno?». Risposta di Rezzo: «L'Unità è stata fondata nel 1924 dal filosofo Antonio Gramsci, e ha una solida reputazione nella difesa dei diritti umani. Mi appoggia in questa battaglia dandomi spazio e risorse. Il mio era solo un appello personale. Capisco che lei è favorevole alla pena di morte, e rispetto la sua opinione. Ma dubitare della mia etica professionale è inaccettabile».
Tuona Andy Robinson (La Vanguardia, Barcellona): «Ogni giornalista ha il dovere di difendere i diritti umani violati dalla pena di morte. E proprio questo dovrebbe fare la Fpa, invece di organizzare aperitivi sponsorizzati da industrie private. Sono anche choccato dal fatto che la nostra associazione abbia avuto un presidente favorevole alla pena capitale». Proprio in questi giorni la Fpa elegge il nuovo presidente. Il candidato Alan Capper (corripondente di una radio inglese) promette battagliero: «Non saremo più un club dove ci limitiamo a sorseggiare aperitivi». A questo punto non ci ho visto più e ho voluto dare un contributo al dibattito: «Sono personalmente contrario alla pena di morte, però i giornalisti dovrebbero rimanere neutrali, senza immischiarsi nei dibattiti interni americani. E poi i cocktail mi piacciono...»
Ana Grumberg, più nota come nuora del leggendario promoter di boxe bushiano Don King che come giornalista (collabora con una tv francese), molla una carico da novanta: «Io sto sempre dalla parte delle vittime [sottinteso: dei killer che vengono condannati a morte, ndr]. Chiedere ai colleghi di firmare questa petizione è offensivo. Non desideriamo neppure che ci venga chiesto di farlo. Tookie è un criminale incallito, che ha assassinato varie persone e vive gratis in prigione. A noi nessuno paga vitto e alloggio. Mantenere in carceri di lusso criminali della peggiore specie non è la mia idea di giustizia».
Alessandra Farkas (Corriere della Sera) cerca di elevare il dibattito: «La pena di morte riguarda più i diritti umani che la politica. Quasi tutti noi proveniamo da Paesi dove è stata abolita da parecchio. Gli Stati Uniti sono l'unica democrazia occidentale dov'è ancora in uso, assieme ad alcune fra le peggiori dittature del mondo. Non è questione di destra o sinistra, ma del diritto umano basilare alla vita».
«E il diritto alla vita di quelli che sono stati ammazzati, allora?», le risponde Daniela Hoffman della tv tedesca Rtl, «Gli assassini sapevano quali sarebbero state le conseguenze del loro atto se fossero stati presi. Mi preoccupa semmai la correttezza dei processi: troppo spesso in questo Paese viene condannato chi non ha i soldi per l'avvocato». Eva Schweitzer, freelance tedesca, raccoglie l'assist e vince la palma della più antiamericana: «Il miliardario assassino Robert Durst è a piede libero. E' ridicolo pretendere di essere neutrali. Se gli Stati Uniti vogliono fare i poliziotti del mondo, sottoponiamoli allo scrutinio del mondo intero: la cosa deve funzionare in entrambe le direzioni».
Secondo Amnesty International, nel 2004 in Cina ci sono state 3.400 esecuzioni, sul totale mondiale di 3.797. Per i radicali di Nessuno Tocchi Caino la cifra cinese è più vicina a 5.000. Il boia è attivissimo anche in Iran, Arabia Saudita e Vietnam. Negli Usa, una cinquantina di esecuzioni. Per ogni articolo che leggiamo su un giustiziato negli Usa, quindi, ce ne dovrebbero essere cento sulla Cina... se solo conoscessimo volto e nome dei condannati cinesi. Con due aggravanti: i processi in Cina sono assai meno equi che negli Usa, e non essendoci democrazia la maggioranza non può decidere sulla pena di morte. La maggioranza degli americani invece la approva. Ma i corrispondenti esteri, fra un cocktail e l'altro a Manhattan, sembrano dimenticarlo.
Mauro Suttora
Thursday, December 22, 2005
Wednesday, December 21, 2005
Tibet, basta nonviolenza?
"SIAMO TROPPO PASSIVI", PRIMI DUBBI TIBETANI SULLA NONVIOLENZA
Il Foglio
21 dicembre 2005
New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.
La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".
Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.
Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"
Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.
La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.
"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.
I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.
Il Foglio
21 dicembre 2005
New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.
La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".
Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.
Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"
Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.
La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.
"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.
I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.
Tuesday, December 13, 2005
Tookie condannato a morte
PREMIO NOBEL O SEDIA ELETTRICA PER TOOKIE?
Oggi, 8 dicembre 2005
Alla fine sarà Arnold Schwarzenegger a graziarlo? Il governatore della California decide l'8 dicembre, la sedia elettrica è pronta per il 13. Stan(ley) «Tookie» Williams, 51 anni, di colore, è uno delle centinaia di condannati alla pena capitale che aspettano nei bracci della morte americani per decenni. A 17 anni, nel 1971, aveva fondato una banda di giovani criminali: i Crits. Le gang di Los Angeles sono famigerate, fanno quasi parte del paesaggio assieme alla collina di Bel Air e alla spiaggia di Santa Monica. I telefilm ci hanno abituati alla loro imprese: scontri con le bande rivali, rapine, stupri, traffici di droga.
Nel '79 Albert Lewis Owens aveva due figlie ed era il cassiere di un 7/11, un supermercatino aperto 24 ore su 24. Stan lo trascinò in una stanza sul retro e gli ordinò di inginocchiarsi. Poi lo colpì con due pistolettate sul collo, stile esecuzione, dopo che lui e i complici si erano impadroniti del contante. In seguito Stan si vantò di aver «fatto fuori un bianco, gli ho sparato alla schiena per 63 dollari».
Undici giorni dopo. Nella reception del motel Brookhaven c'erano i proprietari, i coniugi cinesi sessantenni Yen-I Yang e Tsai-Shai Chen Yang, con la figlia Yu-Chin Yang Lin, 42 anni. La banda di Stan irruppe dalla porta per rapinare l'incasso. La famigliola venne tenuta a bada in un angolo con una pistola spianata. Poi dodici colpi in tutto, a bruciapelo. Le due donne agonizzarono un paio d'ore prima di morire. Stan in tutta calma si chinò per recuperare i bossoli, non voleva che la sua pistola firmasse la strage. Purtroppo per lui, ne dimenticò uno. E quando venne arrestato, qualche giorno dopo, nella sua auto c'era la pistola. Omicidi inutili, gratuiti. Le vittime non rappresentavano più alcun pericolo per i rapinatori, vennero assassinate a sangue freddo. Due anni dopo arriva la condanna a morte per Stan, il capobanda.
Da allora, però, la versione ufficiale è stata messa in discussione. Attorno a Stan, incarcerato a San Quintino, si raccoglie un comitato che esamina ogni particolare del processo. Stan si pente per gli anni passati a seminare il terrore a Los Angeles, ma non ammette quegli omicidi. «La condanna si basa su indizi, non su prove», sostengono i suoi avvocati. I testimoni che lo hanno inchiodato avevano interesse a farlo: erano tutti alla ricerca di attenuanti per reati gravissimi come stupri, mutilazioni e omicidi. Di fronte all'ennesimo appello, nel 2002 una corte ammise che gli accusatori di Stan avevano la fedina penale sporca, e un incentivo a mentire per ottenere clemenza.
«Sulle scene dei delitti sono state rilevate impronte digitali», incalzano gli avvocati di Stan, «ma non le sue. La traccia di uno stivale insanguinato non apparteneva a lui. Il bossolo trovato? Sì, proveniva da una pistola comprata da Stan cinque anni prima. Ma non è vero che l'arma è stata rinvenuta nella sua auto: era sotto il letto di una coppia incriminata per truffa a un'assicurazione e indagata per aver ucciso un loro complice. Marito e moglie l'hanno fatta franca dopo aver testimoniato contro Stan».
Quanto al testimone principale dell'accusa, un pregiudicato bianco che si trovava nella cella accanto a quella di Stan durante il processo, anni dopo si è scoperto che era stato un informatore pagato della polizia. Davanti alla corte aveva detto che Stan si era confidato con lui, confessando tutto. Dopodichè le sue accuse, omicidio e stupro, vennero derubricate e grazie a qualche attenuante ha ottenuto la possibilità della libertà condizionale.
La giuria, poi: gli unici tre giurati di colore sono stati ricusati dal pubblico ministero, per cui la corte di dodici persone era quasi interamente bianca, tranne un sudamericano e un filippino. Lo stesso rappresentante dell'accusa è stato tacciato di razzismo, per aver detto durante le sue arringhe che Stan assomigliava a una «tigre del Bengala rinchiusa nello zoo di San Diego», il cui «ambiente naturale è la giungla, come quella di certi quartieri di Los Angeles».
Fin qui, quello di Stan Williams sarebbe un giallo giudiziario come tanti. Il problema è che Stan, ormai 51enne, dopo un quarto di secolo è diventato un'altra persona rispetto al bullo da gang che era prima. Ha scritto nove libri di successo per bambini, e in tutti incita i ragazzini a evitare la cultura di morte e sopraffazione di cui negli anni Settanta era uno dei simboli, almeno nei ghetti. Ha fatto il volontario per molti programmi che cercano di tenere i ragazzi lontani dalle strade, ricevendo perfino un premio dal presidente degli Stati Uniti la scorsa estate. Ha scritto un'autobiografia: Blue Rage, Black Redemption (Rabbia blu, Redenzione nera), e l'attore Jamie Foxx, premio Oscar 2005 per il film Ray sulla vita del cantante Ray Charles, l'anno scorso ha interpretato un film tv proprio sulla figura diventata ormai famosa di Stan Williams.
La conversione di Stan lo ha fatto perfino candidare al premio Nobel, già nel 2000: per la letteratura, e anche per la pace. Chiedono la grazia, fra gli altri, gli attori Tim Robbins (protagonista nel '94 di un film simile alla vicenda di Stan, Le ali della libertà), sua moglie Susan Sarandon, Anjelica Huston, la cantante Bonnie Raitt, tutti i musicisti rap, il politico di colore Jesse Jackson. I giovani delinquenti di colore rinchiusi nelle prigioni americane hanno fatto di Stan un idolo: rappresenta la loro speranza di redenzione. E ce ne sono tanti, perchè negli Usa i carcerati sono ben due milioni: otto volte più che in Italia, in proporzione agli abitanti.
L'11 ottobre, però, la Corte suprema degli Stati Uniti si è espressa definitivamente sull'ultimo appello presentato dagli avvocati di Stan: niente da fare, gli appigli sono finiti, preparate la sedia elettrica. Ora l'ultima speranza è nelle mani di Schwarzenegger. Qualcuno la butta in politica, e sostiene che il governatore grazierà Stan per ingraziarsi gli elettori di colore alle prossime elezioni. Dalla sua cella di un metro e 30 per tre, Stan Williams aspetta.
Mauro Suttora
Oggi, 8 dicembre 2005
Alla fine sarà Arnold Schwarzenegger a graziarlo? Il governatore della California decide l'8 dicembre, la sedia elettrica è pronta per il 13. Stan(ley) «Tookie» Williams, 51 anni, di colore, è uno delle centinaia di condannati alla pena capitale che aspettano nei bracci della morte americani per decenni. A 17 anni, nel 1971, aveva fondato una banda di giovani criminali: i Crits. Le gang di Los Angeles sono famigerate, fanno quasi parte del paesaggio assieme alla collina di Bel Air e alla spiaggia di Santa Monica. I telefilm ci hanno abituati alla loro imprese: scontri con le bande rivali, rapine, stupri, traffici di droga.
Nel '79 Albert Lewis Owens aveva due figlie ed era il cassiere di un 7/11, un supermercatino aperto 24 ore su 24. Stan lo trascinò in una stanza sul retro e gli ordinò di inginocchiarsi. Poi lo colpì con due pistolettate sul collo, stile esecuzione, dopo che lui e i complici si erano impadroniti del contante. In seguito Stan si vantò di aver «fatto fuori un bianco, gli ho sparato alla schiena per 63 dollari».
Undici giorni dopo. Nella reception del motel Brookhaven c'erano i proprietari, i coniugi cinesi sessantenni Yen-I Yang e Tsai-Shai Chen Yang, con la figlia Yu-Chin Yang Lin, 42 anni. La banda di Stan irruppe dalla porta per rapinare l'incasso. La famigliola venne tenuta a bada in un angolo con una pistola spianata. Poi dodici colpi in tutto, a bruciapelo. Le due donne agonizzarono un paio d'ore prima di morire. Stan in tutta calma si chinò per recuperare i bossoli, non voleva che la sua pistola firmasse la strage. Purtroppo per lui, ne dimenticò uno. E quando venne arrestato, qualche giorno dopo, nella sua auto c'era la pistola. Omicidi inutili, gratuiti. Le vittime non rappresentavano più alcun pericolo per i rapinatori, vennero assassinate a sangue freddo. Due anni dopo arriva la condanna a morte per Stan, il capobanda.
Da allora, però, la versione ufficiale è stata messa in discussione. Attorno a Stan, incarcerato a San Quintino, si raccoglie un comitato che esamina ogni particolare del processo. Stan si pente per gli anni passati a seminare il terrore a Los Angeles, ma non ammette quegli omicidi. «La condanna si basa su indizi, non su prove», sostengono i suoi avvocati. I testimoni che lo hanno inchiodato avevano interesse a farlo: erano tutti alla ricerca di attenuanti per reati gravissimi come stupri, mutilazioni e omicidi. Di fronte all'ennesimo appello, nel 2002 una corte ammise che gli accusatori di Stan avevano la fedina penale sporca, e un incentivo a mentire per ottenere clemenza.
«Sulle scene dei delitti sono state rilevate impronte digitali», incalzano gli avvocati di Stan, «ma non le sue. La traccia di uno stivale insanguinato non apparteneva a lui. Il bossolo trovato? Sì, proveniva da una pistola comprata da Stan cinque anni prima. Ma non è vero che l'arma è stata rinvenuta nella sua auto: era sotto il letto di una coppia incriminata per truffa a un'assicurazione e indagata per aver ucciso un loro complice. Marito e moglie l'hanno fatta franca dopo aver testimoniato contro Stan».
Quanto al testimone principale dell'accusa, un pregiudicato bianco che si trovava nella cella accanto a quella di Stan durante il processo, anni dopo si è scoperto che era stato un informatore pagato della polizia. Davanti alla corte aveva detto che Stan si era confidato con lui, confessando tutto. Dopodichè le sue accuse, omicidio e stupro, vennero derubricate e grazie a qualche attenuante ha ottenuto la possibilità della libertà condizionale.
La giuria, poi: gli unici tre giurati di colore sono stati ricusati dal pubblico ministero, per cui la corte di dodici persone era quasi interamente bianca, tranne un sudamericano e un filippino. Lo stesso rappresentante dell'accusa è stato tacciato di razzismo, per aver detto durante le sue arringhe che Stan assomigliava a una «tigre del Bengala rinchiusa nello zoo di San Diego», il cui «ambiente naturale è la giungla, come quella di certi quartieri di Los Angeles».
Fin qui, quello di Stan Williams sarebbe un giallo giudiziario come tanti. Il problema è che Stan, ormai 51enne, dopo un quarto di secolo è diventato un'altra persona rispetto al bullo da gang che era prima. Ha scritto nove libri di successo per bambini, e in tutti incita i ragazzini a evitare la cultura di morte e sopraffazione di cui negli anni Settanta era uno dei simboli, almeno nei ghetti. Ha fatto il volontario per molti programmi che cercano di tenere i ragazzi lontani dalle strade, ricevendo perfino un premio dal presidente degli Stati Uniti la scorsa estate. Ha scritto un'autobiografia: Blue Rage, Black Redemption (Rabbia blu, Redenzione nera), e l'attore Jamie Foxx, premio Oscar 2005 per il film Ray sulla vita del cantante Ray Charles, l'anno scorso ha interpretato un film tv proprio sulla figura diventata ormai famosa di Stan Williams.
La conversione di Stan lo ha fatto perfino candidare al premio Nobel, già nel 2000: per la letteratura, e anche per la pace. Chiedono la grazia, fra gli altri, gli attori Tim Robbins (protagonista nel '94 di un film simile alla vicenda di Stan, Le ali della libertà), sua moglie Susan Sarandon, Anjelica Huston, la cantante Bonnie Raitt, tutti i musicisti rap, il politico di colore Jesse Jackson. I giovani delinquenti di colore rinchiusi nelle prigioni americane hanno fatto di Stan un idolo: rappresenta la loro speranza di redenzione. E ce ne sono tanti, perchè negli Usa i carcerati sono ben due milioni: otto volte più che in Italia, in proporzione agli abitanti.
L'11 ottobre, però, la Corte suprema degli Stati Uniti si è espressa definitivamente sull'ultimo appello presentato dagli avvocati di Stan: niente da fare, gli appigli sono finiti, preparate la sedia elettrica. Ora l'ultima speranza è nelle mani di Schwarzenegger. Qualcuno la butta in politica, e sostiene che il governatore grazierà Stan per ingraziarsi gli elettori di colore alle prossime elezioni. Dalla sua cella di un metro e 30 per tre, Stan Williams aspetta.
Mauro Suttora
Wednesday, December 07, 2005
Economia Usa a tutta birra
Bush vuole sempre meno tasse, qualche amico e' perplesso. Se Snow lascia non e' crisi, e' prassi
Il Foglio
mercoledi 7 dicembre 2005
New York. I 600 operai in tuta della Deere-Hitachi, fabbrica di ruspe idrauliche, lo interrompono spesso con applausi. Manco fossero la platea in divisa dei suoi ultimi discorsi. Ma hanno ottime ragioni per farlo, perchè i numeri che George Bush sta snocciolando sono trionfali: quattro milioni e mezzo di posti di lavoro creati negli ultimi quattro anni, 215mila solo nell’ultimo mese, produttività in aumento, boom dell’economia. Trimestre dopo trimestre, implacabile, il pil degli Stati Uniti esibisce percentuali di crescita quadruple rispetto alla vecchia Europa: mai sotto il quattro per cento. E il presidente arriva in una fabbrica di Kernersville, nella Carolina del Nord, per galvanizzare un’opinione pubblica abbacchiata dallo stallo in Iraq: “I tagli alle tasse funzionano, oggi in America tutti quelli che cercano lavoro lo trovano”, proclama orgoglioso.
Ci si lamenta per l’outsourcing, ma qui i posti di lavoro non fuggono in Cina o in Messico: aumentano, invece, nella joint-venture nippoamericana nata nel 1988 che negli ultimi mesi ha superato i mille dipendenti. Ottime notizie quindi per l’economia americana, e se il ministro del Tesoro John Snow si dimetterà dopo tre anni sarà solo per un pacifico avvicendamento. Il candidato a succedergli è Andrew Card, capo di gabinetto del presidente, terzo fedelissimo insider della Casa Bianca che verrebbe così promosso al rango di ministro dopo Condi Rice agli Esteri e Alberto Gonzalez alla Giustizia. Snow si è messo in urto con Dennis Hastert, presidente repubblicano della Camera, negando per tre volte prestiti federali alla compagnia aerea in bancarotta United Airlines che ha la sede proprio nello stato di Hastert, l’Illinois.
Bush attribuisce il merito della crescita continua alla propria politica fiscale: “Qualche politicante a Washington vorrebbe chiedervi più soldi, io invece chiedo al Congresso di rendere permanenti i tagli alle tasse”, annuncia accentuando l’accento texano, in simpatia con la pronuncia strascicata sudista di queste parti. Frasi semplici e secche, scritte da ottimi speechwriters che fanno arrivare il presidente al cuore del pubblico: “Lo so, il petrolio e il riscaldamento costano di più, anche se dopo gli aumenti dell’uragano Katrina la benzina è tornata ai prezzi di prima. Ma l’energia è un problema. Dobbiamo risparmiare, e la legge approvata l’anno scorso va in questa direzione. I nostri nipoti faranno andare le loro auto col mais e l’idrogeno, ho introdotto misure per le energie alternative. Sacrificando solo duemila acri in Alaska potremo sfruttare le risorse sotterranee di milioni di acri, nel rispetto della natura. Da lì ci arriveranno un milione di barili di petrolio al giorno, che ci renderanno meno dipendenti dall’estero”.
Tiene duro anche sulla riforma delle pensioni, Bush, nonostante la scarsa fortuna del suo tour propagandistico post-elettorale di inizio 2005: “Il dovere di un presidente è affrontare i problemi, non di rinviarli alle generazioni future”. E proprio come fece durante la campagna presidenziale dell’anno scorso, ribadisce che sono i lavoratori, gli imprenditori, gli agricoltori, a creare la ricchezza del Paese. Non il governo: “Il nostro ruolo è solo quello di creare un ambiente in cui la piccola impresa possa diventare grande, in cui l’imprenditore prosperi, e dove la gente che sogna di comprarsi una casa sia in grado di farlo”.
La ricetta Bush per l’economia non è cambiata in questi cinque anni di governo: meno tasse, commercio libero, immigrazione generosa. Sul free trade sta correndo rischi grossi: il deficit commerciale Usa l’anno scorso ha raggiunto i 668 miliardi di dollari. Ma il presidente ci crede fino in fondo, è convinto che globalizzazione e liberalizzazione del commercio internazionale siano le basi per la ricchezza non solo degli Stati Uniti, ma di tutti i Paesi che vi partecipano.
Peccato che questo entusiasmo presidenziale americano non sia condiviso dall’Europa protezionista in agricoltura. La quale oppone barriere anche nelle altre due industrie ‘A’ della supremazia statunitense: aeronautica e audiovisiva. Fino a disegnare una letale alleanza anti-Usa con i dittatori di Pechino: apertura di fabbriche Airbus in Cina, in cambio del monopolio sull’immenso mercato aereo cinese. Andrebbero così all’aria tutte le precauzioni di Washington sul trasferimento di alta tecnologia con applicazioni militari alla Cina. Una Cina che ha appena dichiarato ufficialmente di “non volere accettare mai l’indipendenza di Taiwan”. Pochi dirigenti Usa hanno studiato Lenin, ma la maggiore dimestichezza degli europei con il padre del comunismo realizzato non impedisce loro di “vendere anche la corda con cui verranno impiccati”.
E qui si torna al problema del deficit. Perchè il debito pubblico Usa è di ottomila miliardi di dollari, e aumenta di un miliardo e mezzo al giorno. Gli americani stanno spendendo più di quello che guadagnano e comprando più di quello che vendono. Due terzi del debito estero statunitense sono nelle mani di appena quattro Paesi asiatici: Cina, Giappone, Corea e Taiwan. Se questi grandi creditori si mettessero d’accordo, potrebbero far crollare il dollaro in poche ore. Ciò non accadrà, perchè assieme ai filistei morirebbe anche Sansone. Ma Bush è conscio del problema, e anche davanti ai fortunati operai della Carolina del Nord promette: “Dimezzeremo il deficit entro il 2009”. E’ sulla buona strada: il disavanzo federale si è ridotto di un quarto in un solo anno. Il rosso è passato dai 413 miliardi del 2004 ai 318 di quest’anno (un risultato che, ancora una volta, fa vergognare l’Europa). Ma l’anno prossimo risalirà a 341, e per questo sia il presidente della Federal Reserve Bruce Greenspan sia il suo successore (da gennaio) Ben Bernanke continuano a insistere sui conti.
Bush si impegna alla disciplina sulla spesa: “Tutta quella che non riguarda la sicurezza verrà limitata. Ma siamo in guerra, e non faremo mancare nulla ai nostri soldati”. Sui 500 miliardi annui al Pentagono (rispetto ai 300 dell’era Clinton) neanche i democratici osano metter voce. Per due motivi: non vogliono apparire poco “patriottici”, e ognuno di loro ha nel proprio collegio elettorale una fabbrica o una base militare. Così, si arriva al paradosso di un Paese ricchissimo in cui, grazie a tasse che non sono mai state così basse, le grandi imprese non sanno dove stivare i propri profitti, che non sono mai stati così alti. Ma che, ammonisce il repubblicano Peter Peterson, ex ministro del Commercio di Richard Nixon, prendendo a prestito il titolo di una canzone di Jackson Browne, sta correndo sul vuoto, “running on empty”. Il burrone è rappresentato dal doppio deficit: quello commerciale (troppo import, poco export) e quello di bilancio (troppe spese, poche tasse).
“L’economia tira come una locomotiva, non cresceva così dal ‘99, c’è veramente bisogno di altri tagli fiscali per stimolarla?”, si domanda il settimanale “Weekly Standard” di Rupert Murdoch, organo dei neoconservatori. Come tutte le perplessità, sono quelle degli amici a fare più male. George Bush vittima del proprio trionfo, insomma. La ricetta liberista reaganiana ha funzionato ancora una volta, la barca è lanciatissima, ma forse è giunto il momento di metter dentro i remi per non andare a sbattere.
Mauro Suttora
Il Foglio
mercoledi 7 dicembre 2005
New York. I 600 operai in tuta della Deere-Hitachi, fabbrica di ruspe idrauliche, lo interrompono spesso con applausi. Manco fossero la platea in divisa dei suoi ultimi discorsi. Ma hanno ottime ragioni per farlo, perchè i numeri che George Bush sta snocciolando sono trionfali: quattro milioni e mezzo di posti di lavoro creati negli ultimi quattro anni, 215mila solo nell’ultimo mese, produttività in aumento, boom dell’economia. Trimestre dopo trimestre, implacabile, il pil degli Stati Uniti esibisce percentuali di crescita quadruple rispetto alla vecchia Europa: mai sotto il quattro per cento. E il presidente arriva in una fabbrica di Kernersville, nella Carolina del Nord, per galvanizzare un’opinione pubblica abbacchiata dallo stallo in Iraq: “I tagli alle tasse funzionano, oggi in America tutti quelli che cercano lavoro lo trovano”, proclama orgoglioso.
Ci si lamenta per l’outsourcing, ma qui i posti di lavoro non fuggono in Cina o in Messico: aumentano, invece, nella joint-venture nippoamericana nata nel 1988 che negli ultimi mesi ha superato i mille dipendenti. Ottime notizie quindi per l’economia americana, e se il ministro del Tesoro John Snow si dimetterà dopo tre anni sarà solo per un pacifico avvicendamento. Il candidato a succedergli è Andrew Card, capo di gabinetto del presidente, terzo fedelissimo insider della Casa Bianca che verrebbe così promosso al rango di ministro dopo Condi Rice agli Esteri e Alberto Gonzalez alla Giustizia. Snow si è messo in urto con Dennis Hastert, presidente repubblicano della Camera, negando per tre volte prestiti federali alla compagnia aerea in bancarotta United Airlines che ha la sede proprio nello stato di Hastert, l’Illinois.
Bush attribuisce il merito della crescita continua alla propria politica fiscale: “Qualche politicante a Washington vorrebbe chiedervi più soldi, io invece chiedo al Congresso di rendere permanenti i tagli alle tasse”, annuncia accentuando l’accento texano, in simpatia con la pronuncia strascicata sudista di queste parti. Frasi semplici e secche, scritte da ottimi speechwriters che fanno arrivare il presidente al cuore del pubblico: “Lo so, il petrolio e il riscaldamento costano di più, anche se dopo gli aumenti dell’uragano Katrina la benzina è tornata ai prezzi di prima. Ma l’energia è un problema. Dobbiamo risparmiare, e la legge approvata l’anno scorso va in questa direzione. I nostri nipoti faranno andare le loro auto col mais e l’idrogeno, ho introdotto misure per le energie alternative. Sacrificando solo duemila acri in Alaska potremo sfruttare le risorse sotterranee di milioni di acri, nel rispetto della natura. Da lì ci arriveranno un milione di barili di petrolio al giorno, che ci renderanno meno dipendenti dall’estero”.
Tiene duro anche sulla riforma delle pensioni, Bush, nonostante la scarsa fortuna del suo tour propagandistico post-elettorale di inizio 2005: “Il dovere di un presidente è affrontare i problemi, non di rinviarli alle generazioni future”. E proprio come fece durante la campagna presidenziale dell’anno scorso, ribadisce che sono i lavoratori, gli imprenditori, gli agricoltori, a creare la ricchezza del Paese. Non il governo: “Il nostro ruolo è solo quello di creare un ambiente in cui la piccola impresa possa diventare grande, in cui l’imprenditore prosperi, e dove la gente che sogna di comprarsi una casa sia in grado di farlo”.
La ricetta Bush per l’economia non è cambiata in questi cinque anni di governo: meno tasse, commercio libero, immigrazione generosa. Sul free trade sta correndo rischi grossi: il deficit commerciale Usa l’anno scorso ha raggiunto i 668 miliardi di dollari. Ma il presidente ci crede fino in fondo, è convinto che globalizzazione e liberalizzazione del commercio internazionale siano le basi per la ricchezza non solo degli Stati Uniti, ma di tutti i Paesi che vi partecipano.
Peccato che questo entusiasmo presidenziale americano non sia condiviso dall’Europa protezionista in agricoltura. La quale oppone barriere anche nelle altre due industrie ‘A’ della supremazia statunitense: aeronautica e audiovisiva. Fino a disegnare una letale alleanza anti-Usa con i dittatori di Pechino: apertura di fabbriche Airbus in Cina, in cambio del monopolio sull’immenso mercato aereo cinese. Andrebbero così all’aria tutte le precauzioni di Washington sul trasferimento di alta tecnologia con applicazioni militari alla Cina. Una Cina che ha appena dichiarato ufficialmente di “non volere accettare mai l’indipendenza di Taiwan”. Pochi dirigenti Usa hanno studiato Lenin, ma la maggiore dimestichezza degli europei con il padre del comunismo realizzato non impedisce loro di “vendere anche la corda con cui verranno impiccati”.
E qui si torna al problema del deficit. Perchè il debito pubblico Usa è di ottomila miliardi di dollari, e aumenta di un miliardo e mezzo al giorno. Gli americani stanno spendendo più di quello che guadagnano e comprando più di quello che vendono. Due terzi del debito estero statunitense sono nelle mani di appena quattro Paesi asiatici: Cina, Giappone, Corea e Taiwan. Se questi grandi creditori si mettessero d’accordo, potrebbero far crollare il dollaro in poche ore. Ciò non accadrà, perchè assieme ai filistei morirebbe anche Sansone. Ma Bush è conscio del problema, e anche davanti ai fortunati operai della Carolina del Nord promette: “Dimezzeremo il deficit entro il 2009”. E’ sulla buona strada: il disavanzo federale si è ridotto di un quarto in un solo anno. Il rosso è passato dai 413 miliardi del 2004 ai 318 di quest’anno (un risultato che, ancora una volta, fa vergognare l’Europa). Ma l’anno prossimo risalirà a 341, e per questo sia il presidente della Federal Reserve Bruce Greenspan sia il suo successore (da gennaio) Ben Bernanke continuano a insistere sui conti.
Bush si impegna alla disciplina sulla spesa: “Tutta quella che non riguarda la sicurezza verrà limitata. Ma siamo in guerra, e non faremo mancare nulla ai nostri soldati”. Sui 500 miliardi annui al Pentagono (rispetto ai 300 dell’era Clinton) neanche i democratici osano metter voce. Per due motivi: non vogliono apparire poco “patriottici”, e ognuno di loro ha nel proprio collegio elettorale una fabbrica o una base militare. Così, si arriva al paradosso di un Paese ricchissimo in cui, grazie a tasse che non sono mai state così basse, le grandi imprese non sanno dove stivare i propri profitti, che non sono mai stati così alti. Ma che, ammonisce il repubblicano Peter Peterson, ex ministro del Commercio di Richard Nixon, prendendo a prestito il titolo di una canzone di Jackson Browne, sta correndo sul vuoto, “running on empty”. Il burrone è rappresentato dal doppio deficit: quello commerciale (troppo import, poco export) e quello di bilancio (troppe spese, poche tasse).
“L’economia tira come una locomotiva, non cresceva così dal ‘99, c’è veramente bisogno di altri tagli fiscali per stimolarla?”, si domanda il settimanale “Weekly Standard” di Rupert Murdoch, organo dei neoconservatori. Come tutte le perplessità, sono quelle degli amici a fare più male. George Bush vittima del proprio trionfo, insomma. La ricetta liberista reaganiana ha funzionato ancora una volta, la barca è lanciatissima, ma forse è giunto il momento di metter dentro i remi per non andare a sbattere.
Mauro Suttora
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