Wednesday, May 27, 2009

Giampaolo Pansa

"Mi accusano di essere revisionista, io ne vado fiero"

di Mauro Suttora

Oggi, 20 maggio 2009

«Mi accusavano di essere un “revisionista”, quasi fosse il peggiore degli insulti. E allora, come risarcimento beffardo, ho titolato così questo mio libro”.
Giampaolo Pansa, 73 anni, è un principe del giornalismo. L’unico che ha lavorato in tutti i maggiori quotidiani e settimanali italiani: Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Messaggero, Giorno, Espresso, Panorama. E in posizioni di rilievo: inviato speciale, editorialista, condirettore. Da una quindicina d’anni, però, il successo di pubblico gli arriva soprattutto dai suoi libri sulla «guerra civile»: prima romanzi e poi, dal 2003, saggi come Il sangue dei vinti che hanno venduto un sacco di copie (un milione) ma gli hanno anche procurato un sacco di guai.

«Ho cercato di scrivere la verità su un’epoca della storia, fra il 1943 e il ’48, senza le omissioni imposte dalla retorica sulla resistenza e dagli storici del Pci-Pds-Ds-Pd», ci dice dalla sua casa in Toscana.
E così proprio lui, per trent’anni numero due dei giornali più letti a sinistra (Repubblica ed Espresso), è stato contestato come «filofascista» per avere descritto le stragi compiute anche dai partigiani, e anche dopo la fine della guerra nel ’45.

«Già usare la definizione “guerra civile”, invece di “guerra di liberazione”, è un sacrilegio per certi parrucconi postcomunisti. Chi aveva scelto la repubblica di Salò non era degno neppure di essere considerato italiano, ma soltanto collaborazionista dell’occupante tedesco. Nessuno storico ascoltava le versioni dei “repubblichini”, un termine che detesto».

Beh, in confronto alle sanguinosissime guerre civili dell’epoca, la spagnola e la jugoslava, che fecero milioni di morti, quella italiana, con le sue poche decine di migliaia di vittime, è stata poca cosa.
«Vero. Noi non abbiamo avuto quelle carneficine. Consideriamo che in Spagna la guerra è durata dal ’36 al ’39, e in Jugoslavia dal ’41 al ’45. Ma rendiamoci anche conto che dopo il 25 aprile ’45, nonostante la “pace”, in Italia le vendette contro i fascisti e i loro familiari innocenti hanno provocato dai venti ai trentamila morti. Dimenticati per mezzo secolo».

Tranne che dallo storico e senatore del Msi Giorgio Pisanò, che scrisse parecchi libri rivendicando pari dignità per i combattenti di Salò e cercando di accreditare, senza riuscirci, il termine «guerra civile». Poi arriva lei, e da sinistra «sdogana» questa definizione.
«Ho letto tutti i libri di Pisanò, e devo dire che nonostante il nostro diverso punto di vista sono storicamente accurati. I fatti non vengono gonfiati o taciuti per propaganda. Ma lui era finito nel ghetto riservato a chiunque non si conformasse alle versioni ufficiali sulla Resistenza».

Quella di Pansa non è una mania senile. Anzi, la sua tesi di laurea (a Torino in Scienze politiche, nel ’59) fu proprio su questi argomenti: Guerra partigiana fra Genova e il Po. Centodieci e lode, pubblicazione. Ma, come racconta nel libro, dovette aspettare sei anni: «La casa editrice Einaudi di Torino, roccaforte dell’ortodossia comunista, me la tenne bloccata perché avevo osato accennare ai contrasti fra le diverse formazioni partigiane. Così alla fine la diedi a Laterza, che la mandò in libreria nel ‘65».

Pansa era un rompiballe già da giovane. Si scontrò subito con i tenutari della fede partigiana. In un gustosissimo capitolo de Il revisionista racconta di un convegno di storiografia a Genova in cui lui, sconosciuto ventenne provinciale calato giù da Casale Monferrato (Alessandria), osò contestare i dirigenti del Pci chiedendo una cosa che oggi appare ovvia: che negli studi sulla Resistenza si sentisse anche l’altra campana, quella degli sconfitti. Apriti cielo. L’unico a notarlo e a difenderlo fu un distinto e anziano signore dai capelli bianchi che lgli fece avere una borsa di studio: Ferruccio Parri, comandante partigiano non comunista e primo presidente del Consiglio dell’Italia libera, nel ’45.

Quella stessa tesi vinse un premio finanziato con i diritti d’autore di un altro gigante della politica italiana: Luigi Einaudi, antifascista liberale e presidente della Repubblica dal ’48 al ’55.
«La consegna del premio avvenne a Dogliani (Cuneo) il 20 novembre 1960», racconta Pansa. «Einaudi aveva ottantasei anni ed era un signore piccolino, che si appoggiava a un bastone da contadino. A me e all’altro vincitore, Massimo Salvadori, che aveva scritto una ricerca su Salvemini e che sarebbe diventato ordinario di Storia a Torino, disse che il premio di mezzo milione di lire ciascuno – una somma importante – doveva servire “per finanziare i nostri sogni”. Ci raccomandò di studiare “gli anni della grande speranza”, quelli della guerra per la libertà. Credo di aver mantenuto l’impegno che il presidente mi aveva indicato».

Fu l’ultima uscita pubblica di Einaudi. «Si brindò tutti con il barolo di un’annata indimenticabile: il 1945». Ma Pansa non divenne mai uno storico professionista. Fu fuorviato dal suo professore Alessandro Galante Garrone che lo segnalò al direttore della Stampa. Dopo un mese il 25enne Pansa venne assunto come giornalista praticante nella redazione di Torino.

La sua brillante carriera viene raccontata nel libro, anche se forse i capitoli più divertenti e poetici sono gli iniziali: quelli sulla vita assieme alla nonna Caterina (poverissima), alla mamma Giovanna e a papà Ernesto, che riparava i pali del telegrafo. «Mia madre era ottimista, espansiva, generosa. Non sapeva che cosa fosse la gnagnera, la svogliatezza malinconica». Pansa infarcisce il racconto di affascinanti termini piemontesi, come le prostitute che erano chiamate «sansussì», alla francese, il «goga e migoga» (bagordi), i «cupio e giacufumna» (omosessuali).

Poi ci sono le cose serie. Come la storica intervista a Enrico Berlinguer del 1976, in cui il segretario del Pci regalò a Pansa lo scoop internazionale della frase: «Mi sento più tranquillo sotto l’ombrello della Nato». Fu il primo strappo dall’Unione Sovietica.

Ma oggi Pansa conclude amaramente: «La sinistra non cambierà mai. Sperare che migliori, si modernizzi, si evolva, equivale a cercare di pettinare un porcospino, come diceva mia nonna. E pensare che Eugenio Scalfari, il direttore di Repubblica, ed io, ci abbiamo sperato per trent’anni. Eppure ancora adesso i postcomunisti non hanno perduto il vizio di sentirsi migliori».

A destra invece, grazie ai suoi libri revisionisti, Pansa ha trovato nuovi lettori e ammiratori: «Da quella parte sono più gentili verso gli estranei alla propria parrocchia. Anche se io rimango un anarchico individualista».

Questo vuol dire che smetterà di irritare i suoi ex compagni di sinistra per i quali è un rinnegato o, nel migliore dei casi una pecorella smarrita? «Macché. Come diceva Totò, io insistisco e m’intigno. Devo ancora scrivere una serie di cose e ho già in mente altri libri, sempre sulla scia del Sangue dei vinti».

Pansa adesso è arrabbiato perché l’omonimo film con Michele Placido, tratto dal suo libro, viene distribuito nei cinema italiani in appena quaranta copie: «Equivale a una censura, come hanno fatto con Katyn, il film sulla strage sovietica in Polonia. Mentre il film Vincere di Bellocchio di copie ne ha trecento».

Pansa, possibile che l’Italia sia l’unico Paese al mondo in cui ci si accapiglia ancora su avvenimenti di sessant’anni fa? «Ditelo a quelli che vengono per tapparmi la bocca alle presentazioni dei miei libri».

Mauro Suttora

Wednesday, May 20, 2009

Ida Dalser, «pazza» già nel 1918

Vittima di Mussolini? Sì, ma...

Pubblichiamo in esclusiva documenti che provano lo squilibrio mentale della donna prima che il duce andasse al potere

Oggi, 20 maggio 2009

«Ida Dalser è una squilibrata con carattere nevropatico. Non intende ragioni, avanza pretese inverosimili. Suo figlio ha un’infermità dipendente da sifilide organica ereditaria, e nonostante i suoi soli tre anni d’età non è un angioletto: compendia tutto lo squilibrio psichico della genitrice».

Così scrive nel settembre 1918 il prefetto di Napoli all’ufficio riservato del ministero degli Interni. Attenzione alla data: allora Benito Mussolini era solo un caporale e agitatore politico. Quindi il prefetto non aveva alcun interesse a distorcere la verità in suo favore, dipingendo come pazza la madre di suo figlio e asserita moglie.

In questi giorni l’Italia presenta al festival di Cannes il film Vincere di Marco Bellocchio, che racconta la triste vicenda della Dalser. La quale è stata sicuramente una vittima del futuro duce: come abbiamo scritto la scorsa settimana, Mussolini riconobbe il figlio ma poi la ripudiò, nel ‘26 la fece rinchiudere in manicomio, e lì la donna morì undici anni dopo. Stessa fine per il figlio, al quale il dittatore tolse il proprio cognome: crepato pure lui in ospedale psichiatrico.

«Tutto vero», commenta il professor Antonio Alosco, docente di storia contemporanea all’università di Napoli. «Però, da qui a far passare la Dalser come un’eroina, magari impulsiva e ossessiva ma sana di mente, come pretende il battage pubblicitario attorno al film, ce ne corre. Io sono antifascista, ma non diamo a Mussolini troppe colpe, oltre alle tantissime che già ha».

Nell’archivio della prefettura di Napoli il professor Alosco ha trovato i documenti che provano lo stato mentale della Dalser, già deteriorato nel ’18. Nella primavera di quell’anno, dopo la disfatta di Caporetto, la donna finisce come profuga, con molti suoi corregionali trentini, nel campo di Piedimonte d’Alife (Caserta). Si porta dietro il figlio Benito Albino. Mussolini ha da tempo rotto ogni rapporto con lei: si è sposato con Rachele e non le invia più gli alimenti per il figlio. Nel campo sfollati la Dalser percepisce un sussidio giornaliero decoroso: quattro lire e mezzo.

Il piccolo Benito (che Ida chiama Benittino), però, non sta bene: vede poco da un occhio, ha la gambetta destra paralizzata. Potrebbe essere curato a Piedimonte, ma la mamma coglie il pretesto per trasferirsi in albergo a Napoli. E pretende che le autorità lo paghino, o che premano su Mussolini affinché la mantenga.
Il 18 agosto ’18 Benito junior è visitato dal dottor Manlio Giordano. Pubblichiamo il suo referto a pag. XX. La diagnosi è tremenda: costituzione linfatica, probabile sifilide ereditaria.

Intanto, la Dalser continua la sua battaglia quasi giornaliera con questore e prefetto. Li tempesta di lettere chiedendo soldi, tanto che il prefetto si sfoga con il ministro degli Interni: «Il primo agosto le abbiamo corrisposto un sussidio straordinario di 150 lire, che però ha impiegato per pagare i debiti (…) Le pretese di lei crebbero giornalmente, manifestandosi in forma violenta (…) E’ eccitata ed eccitabile, non tralascia di imperversare quotidianamente con petulante insistenza per tutti gli uffici, portando in giro la sua creatura scostumata, impertinente, smaniosa di distruggere tutto quanto gli capiti fra mano, rivoluzionaria come la stessa madre lo chiama. La Dalser è scontenta di tutto e di tutti, e sente sempre il bisogno di prendersela con qualcuno. Quando giunse a Napoli imprecava contro il trattamento inumano a Caserta; ora è la volta dei funzionari di questo ufficio».

Nel novembre ’18 la Dalser minaccia il suicidio, mentre la polizia ne evidenzia la «cattiva condotta specie morale, essendosi data alla vita allegra riservatamente». Insomma, oltre che squilibrata e «disfattista» (così erano bollati i pacifisti), ragione per la quale il ministro dell’Interno raccomanda «di intensificare la vigilanza sul suo conto», la signora è accusata anche di fare la prostituta. Persecuzione o mania di persecuzione? In ogni caso, nel ’18 non era colpa di Mussolini.

Mauro Suttora

Monday, May 18, 2009

Laurens Jolles, Unhcr Roma

IL BOSS ONU CHE HA ASSUNTO GLI HEZBOLLAH

Il nuovo direttore per l'Italia dell'Agenzia Onu per i rifugiati, che ci attacca per i clandestini, ha lasciato in anticipo l'incarico a Damasco dopo aver creato un caso diplomatico

Libero, domenica 17 maggio 2009

di Mauro Suttora

Da che pulpito viene la predica che l’Onu impartisce all’Italia sui respingimenti dei clandestini dalla Libia?
«Sarete responsabili secondo il diritto internazionale», tuona Laurens Jolles, 53 anni, avvocato olandese, nuovo capo per l’Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Il quale ha sede nel quartiere più elegante di Roma: Parioli. Ben lontano dai campi profughi.

Il linguaggio di Jolles è inusualmente duro, ben lontano anch’esso dai toni diplomatici utilizzati abitualmente nei rapporti fra Onu e stati membri. Neanche i dittatori di Sudan o Birmania vengono maltrattati così dalle Nazioni Unite, nei felpati comunicati emessi dopo ogni incontro. Invece il povero Roberto Maroni, nostro ministro dell’Interno, si è sentito dare del “fuorilegge”. E fortuna che Jolles ha definito “costruttivo” il vertice con Maroni al Viminale. Dopodichè, minaccia di deferirlo a qualche tribunale internazionale.

Ma chi è questo Jolles?
Gli olandesi non hanno molta fortuna con Onu e profughi. Ruud Lubbers, che guidava il Commissariato dei rifugiati fino al 2005, ha dovuto dimettersi per molestie sessuali a una dipendente. Nel ’95 erano olandesi i battaglioni di caschi blu che avrebbero dovuto difendere i profughi bosniaci a Srebrenica. Ma non mossero un dito quando i serbi ne massacrarono ottomila. Il governo olandese ha dovuto dimettersi dopo questa strage.

Jolles è stato nominato a Roma due mesi fa. Oltre che per l’Italia, è responsabile anche su Portogallo, Grecia, Albania, Cipro e Malta. Non risulta abbia condannato quest’ultima per il suo vergognoso rifiuto di assistere i profughi, quando i barconi dei loro negrieri transitano nelle sue acque territoriali.

Fino a marzo Jolles guidava il Commissariato profughi in Siria. Uno dei pochi Paesi che, come la Libia, non ha firmato la Convenzione del 1951 sui rifugiati. Secondo l’Onu, la Libia non potrebbe assistere i profughi per questo motivo. Falso. La Siria infatti, pur non aderendo alla Convenzione, accoglie più di un milione di rifugiati iracheni. Duecentomila dei quali registrati e assistiti dal Commissariato Onu, guidato fino a due mesi fa proprio da Jolles.

Ma perché Jolles se n’è andato da Damasco? Di solito i mandati dei rappresentanti nelle agenzie Onu durano quattro-cinque anni. Il predecessore messicano di Jolles a Roma era qui dal 2004. Invece Jolles ha lasciato la Siria dopo soli tre anni.

Per conoscere la risposta bisogna fare la conoscenza di un popolo dimenticato: gli Ahwazi. Sono cinque milioni di arabi dell’Iran sudoccidentale, vicino all’Iraq. Il loro Paese si chiamava Arabistan fino al 1925, era un emirato autonomo. L’Italia aveva un consolato nella capitale, Ahwaz. Poi fu annesso forzosamente all’Iran, allora protetto dagli inglesi, e ribattezzato Khuzestan.

Fino al ’79 gli Ahwazi hanno patito l’occupazione straniera (i persiani sono sciiti e non parlano arabo), ma si sono barcamenati. Impossibile reclamare l’indipendenza: troppo petrolio nel loro sottosuolo. Altro che palestinesi: nessuna solidarietà internazionale.

Con l’arrivo dei khomeinisti, però, si è scatenata la persecuzione. In questi trent’anni un terzo degli Ahwazi è scappato all’estero. Molti in Siria. E lì hanno incontrato l’Alto commissariato Onu per i profughi. Che ha assistito pure loro.

Almeno fino a pochi mesi fa, quando gli Ahwazi hanno cominciato ad accusare il capo del Commissariato, Jolles, di non proteggerli più: «Ha assunto membri di Hezbollah nel suo ufficio». Gli Hezbollah sono filoiraniani. Gli Ahwazi li accusano addirittura di rapire famiglie di rifugiati (quelli politicizzati), per deportarli in Iran dove li attendono carceri e torture. E sostengono che Jolles ha chiuso entrambi gli occhi. Proprio come fecero i suoi connazionali olandesi a Srebrenica. «Siamo felici che sia stato mandato via, e speriamo che il suo successore sia più imparziale e degno di fiducia», dice la Bafs (British Ahwazi Friendship Society) in un comunicato del 24 aprile.

Da Damasco, Laurens Jolles è stato trasferito a Roma. Ora che non si trova più sotto una dittatura come la Siria e l’Iran, improvvisamente è diventato un leone. Critica il nostro governo, vuole accogliere a spese dell’Italia tutti i profughi del mondo. Chissà se sui barconi della tratta libica c’è anche qualche suo ex-amico Ahwazo in cerca di asilo.

Thursday, May 14, 2009

Giovanna Mezzogiorno e Mussolini

"Porto a Cannes tutta me stessa"

UNA STAR ALLA PROVA

Interpreta Ida Dalser, che fu prima amata e poi annichilita da Benito Mussolini. «Quella parte mi spaventava. Adesso mi inorgoglisce», dice. E punta alla Palma

di Mauro Suttora

6 maggio 2009

«Per interpretare Ida Dalser ho dovuto farmi assistere personalmente da un coach di recitazione: è un personaggio difficile, intenso, pieno di fisicità. Quindi c' è voluta una preparazione teatrale. Troppo spesso il cinema dimentica il corpo. Mentre questo è un film forte, senza understatement ». Insomma, Vincere di Marco Bellocchio non è uno dei soliti film «carini» italiani. È un pugno nello stomaco. Perfino per Giovanna Mezzogiorno, una delle più brave attrici italiane, portarlo a termine è stata una sfida.

La vicenda è quella drammatica della prima, presunta moglie di Benito Mussolini: la Dalser, bella ragazza di buona famiglia, figlia del sindaco di Sopramonte (Trento). Personalità assai intraprendente, a 20 anni va a Parigi per studiare Medicina estetica, poi apre un suo salone di bellezza «alla francese» a Milano: raro esempio, per l' epoca, di donna imprenditrice. Qui s' innamora di Mussolini. «Ed è l' inizio di una passione travolgente», racconta la Mezzogiorno.

DONNE E POTERE
Nel 1913 il futuro dittatore (interpretato da Filippo Timi) ha 30 anni, tre meno di lei. Dirige l'Avanti, quotidiano del partito socialista, ed è un rivoluzionario di estrema sinistra, antimonarchico e anticlericale. In realtà, i due si erano già fuggevolmente incrociati a Trento, e lei ne era rimasta folgorata.

«Già allora Mussolini era un uomo mangiato vivo dall' ambizione», dice la Mezzogiorno. «E non sono poche le donne attratte dal potere, anche se allora lui non era nessuno». Ida si affida al suo eroe. Che nel giro di pochi mesi da pacifista diventa interventista, vuole che l' Italia faccia guerra all' Austria (Paese di cui la Dalser ha la cittadinanza, essendo trentina). Quindi viene cacciato dai socialisti e fonda un giornale, il Popolo d' Italia.
«Per finanziarlo Ida vende tutto: la casa, il salone di bellezza, i gioielli». Intanto però Mussolini sta già con la futura moglie Rachele Guidi (interpretata da Michela Cescon), dalla quale nel 1910 ha avuto la figlia Edda. Non importa: l'agitatore è debordante anche nella vita privata, e pare che nel settembre ' 14 sposi la Dalser con matrimonio religioso (del quale però non esistono prove).

L' unica cosa certa è che l' 11 novembre 1915, a guerra iniziata, Ida dà alla luce un bambino. Al quale viene dato un nome che parla da solo: Benito Albino Mussolini. E il duce lo riconosce, anche se anni dopo falsificherà i dati anagrafici. Un mese dopo, nel dicembre 1915, Rachele l' ha vinta: si fa sposare con rito civile all' ospedale di Treviglio (Bergamo) dove Benito è ricoverato per una ferita di guerra. Così, il Duce non ne vuole più sapere della Dalser: lei riuscirà a rivederlo solo in ospedale, immobilizzato e accudito da Rachele. Si scaglia contro la rivale urlando che è lei la vera moglie. Ma la allontanano a forza.

Il resto della vita della Dalser è un calvario. «Aveva un carattere troppo forte per rassegnarsi», dice la Mezzogiorno, «ed è stata la sua grande personalità a impaurire Mussolini, che ha preferito la quiete del matrimonio con Rachele. La Dalser non si accontenta di soldi in cambio del silenzio, come le altre amanti del Duce: grida sempre la sua verità e scrive a tutte le autorità, dal Papa in giù».

L' ARRESTO E L'OBLIO
Sorvegliata, non si arrende. Ma nel 1926 Mussolini la separa dal figlio (che non rivedrà più), la fa arrestare e rinchiudere nel manicomio di Pergine Valsugana. Poi viene trasferita in quello di San Clemente (Venezia). Qui un direttore sanitario onesto non può diagnosticarle alcun disturbo. Eppure viene torturata e finisce semiparalizzata. Muore nel dicembre ' 37, a 57 anni, per emorragia cerebrale.
Quanto al figlio, Mussolini nel ' 32 gli fa togliere il cognome con decreto reale. Dopo averlo messo in collegio lo spedisce in Cina nella Marina militare. E pure lui viene internato in manicomio, dove muore a 26 anni, nel ' 42. «Per marasma», recita la diagnosi.

«Una storia tremenda», dice la Mezzogiorno. «Già la scena del provino fu lunga e difficile. Era quella dell' interrogatorio della Dalser col giudice. Mi sono affidata a Bellocchio perché mi dicesse cosa voleva vedere nel personaggio. La Dalser era contraddittoria: femminista ma sottomessa, innamorata ma ossessiva».

Bellocchio, maestro del cinema, a 70 anni non ha bisogno di riconoscimenti, ma Vincere è l'unico film italiano in concorso a Cannes: sarà proiettato il 19 maggio. Nello stesso giorno uscirà in Italia. «Sono lusingata di rappresentare l' Italia», dice Giovanna, «dopo essere stata a Cannes l'anno scorso con Palermo Shooting di Wenders». E la prossima prova non sarà meno controversa: La prima linea , sui brigatisti degli Anni 70.

Mauro Suttora

RIQUADRO

Le donne del Duce

Mussolini ha avuto una quantità incredibile di amanti. Le più importanti sono state Margherita Sarfatti e Claretta Petacci. La Sarfatti (1880-1961), ricca ebrea veneziana, giornalista socialista, incontra Benito nel 1912. La relazione va avanti anche dopo il matrimonio di lui. Fascista, va via dall' Italia nel '38, con le leggi razziali. Rientrerà a Como nel '47.
La Petacci (1912-'45), romana, è l'amante dal '36 fino alla morte di entrambi, fucilati nell'aprile '45 e appesi a testa in giù a piazzale Loreto. Fra le altre, Romilda Ruspi Mingardi, negli Anni 20-30, e la marchesa Giulia Brambilla Carminati.

Wednesday, May 06, 2009

Famiglia palestinese a Perugia

Dopo 37 anni ricevono la cittadinanza italiana

dal nostro inviato Mauro Suttora

Corciano (Perugia), 28 aprile 2009

«Ci sono voluti trentasette anni, ma alla fine la cittadinanza italiana è arrivata». Il dottor Abdel Qader Mohammed, 60 anni, palestinese, festeggia con la sua numerosa famiglia. Emigrò in Italia nel 1972, prima della guerra del Kippur: era fra le decine di migliaia di studenti accolti dall’università per stranieri di Perugia. Ha imparato la nostra lingua. Si è laureato in medicina. Si è specializzato in allergologia. Ed è rimasto qui.

«Vengo da Kalkilia, nella Cisgiordania, che dal ’67 è occupata da Israele. Non sapevo se seguire la parte della mia famiglia profuga in Kuwait, o se stabilirmi in Italia. Ma in Umbria stavo bene, e così sono rimasto».

La sindaca di Corciano (paese accanto a Perugia), Nadia Ginetti del Pd, aveva solo tre anni quando il giovane Abder arrivò da queste parti. E adesso dà la cittadinanza a lui, alla moglie, alle quattro figlie ventenni e al figlio quindicenne. Un po’ in ritardo rispetto alla regola per cui i figli di immigrati nati in Italia diventano automaticamente cittadini a 18 anni.
«Questo perché qualche anno fa ci fu un equivoco con l’anagrafe di Corciano», spiega la moglie 47enne del dottor Qader, Khalil Zaynab, «e invece di registrare il nostro trasferimento da una casa in affitto a una di proprietà ci considerarono rientrati in Giordania. Mentre per la legge bisogna risiedere ininterrottamente qui. Ci sono voluti parecchi anni, ma ora tutto è risolto».

L’autobus G1 mi porta direttamente dal centro di Perugia a sotto casa Qader, una bella palazzina moderna a Corciano. Dove tutti conoscono il dottore, non solo per la sua attività professionale, ma anche perché è l’imam di Perugia.

«Ci sono trentamila musulmani in Umbria, e i centri islamici stanno aumentando», spiega. «Ma non tutti gli immigrati sono religiosi. Gli albanesi, per esempio, frequentano poco. E di moschee non se ne parla: guardate tutte le storie per costruire la prima in Toscana, a Colle Val d’Elsa. Così siamo costretti a pregare in garage e magazzini».

Eppure Qader è figura nota, a livello religioso. Viene sempre invitato agli incontri ecumenici dei francescani di Assisi, con ebrei e buddisti. Due anni fa ha avuto dei problemi con dei giovani islamici estremisti di Perugia.

Da sei mesi, poi, la sua primogenita Sumaya Abdel Qader lo ha superato per notorietà: ha infatti pubblicato il libro Porto il velo, adoro i Queen (ed. Sonzogno), in cui racconta le sue esperienze di immigrata di seconda generazione.

Tutte le figlie del dottor Qader portano il velo. Per loro libera scelta. Anzi, quando Sumaya a tredici anni ha voluto metterselo, sua madre ha cercato di dissuaderla per non farle pesare la diversità con le compagne di scuola.

A casa Qader incontriamo Nebras, la secondogenita, laureata in scienze dell’informazione ed educatrice. Sposata da quattro anni con Mahmad, 29, studente di medicina a Chieti, ha appena avuto una figlia.

Poi c’è Maymuna, 26: studia scienze politiche, legge Pirandello e Baricco, «vorrei fare la gelataia», scherza. Il sogno della figlia più giovane, Danya, 23, è invece quello di arruolarsi in polizia. Per ora non può farlo se non rinuncia al velo, ma spera che questa regola cambi e intanto studia relazioni internazionali all’università: «Mi piacerebbe fare la poliziotta all’ambasciata d’Italia ad Amman…».

Infine Omar, 15 anni, liceo scientifico. Torna a casa alle due, mentre siamo a tavola per mangiare la makluba, piatto tipico palestinese che significa «la rovesciata». Gli piace lo sport, va in palestra, gioca a calcio, pratica la boxe e il kickboxing.

Manca solo Sumaya, che vive a Milano col marito siriano e le due figlie. Le ragazze parlano italiano con l’accento umbro: «Quando non vogliamo farci capire dalla mamma usiamo il dialetto perugino». La signora Khalil aveva 15 anni quando si è sposata: «Mio marito venne in Kuwait, le nostre famiglie erano vicine di casa. Facemmo tutto secondo le regole tradizionali: quando lui mi vide non mi parlò, ma dovette chiedere ai suoi genitori di organizzare un incontro fra le famiglie, in cui chiese ufficialmente la mia mano. Solo che eravamo tutte velate, e per un attimo all’inizio mi confuse con mia madre, che mi assomiglia ed era anche lei molto giovane, 31 anni…»

C’è humour e si scherza, a casa Qader. Maymuna darà il suo primo voto da cittadina a Berlusconi, mentre la «poliziotta» Danya sta più a sinistra. Omar tifa Inter, e ai mondiali tutta la famiglia stava per l’Italia e per la Turchia (unico Paese musulmano).

A un certo punto suona il campanello. Sorpresa: è don Antonio, il nuovo giovane parroco che non conosce ancora bene gli abitanti e passa per la benedizione pasquale. L’imam Qader lo accoglie cordialmente. Beviamo il caffè.

Non sempre le cose sono così idilliache. Sumaya nel suo libro racconta che una volta, sul bus 56 a Milano, le figlie si misero a cantare: «Siam pronte alla morte, siam pronte alla morte». Una passeggera, vedendo la madre col velo islamico, mormora: «Bella educazione, pronte per il martirio suicida…» Le bimbe continuano a cantare: «Siam pronte alla morte, l’Italia chiamò». Era l’inno d’Italia.

Quando alle ragazze Qader qualcuno domanda «Vi sentite integrate?», loro sorridono con i loro occhioni verdi e rispondono: «Ma non c’è niente da integrare, siamo italiane». Sumaya sogna la disponibilità all'accoglienza degli Stati Uniti, dove già all’aeroporto c’è una funzionaria americana con il velo per accogliere i passeggeri islamici, e dove abbondano le moschee. Durante una vacanza in Giordania un ragazzo arabo cercò di fidanzarsi organizzando un incontro fra famiglie, ma lei mandò subito tutti a quel paese.

Dopo la prima guerra del Golfo, nel ’90, i nonni materni hanno dovuto scappare di nuovo dal Kuwait invaso da Saddam. Non potendo tornare nella loro Palestina, abitano in Giordania: profughi due volte. «E noi abbiamo imparato l’arabo, ogni estate andiamo a trovarli, adoriamo la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra religione», dicono le ragazze Qader. «Ma siamo nate a Perugia, e il nostro Paese è l’Italia».

Mauro Suttora