Thursday, September 08, 2005

New Orleans/4

A NEW ORLEANS SONO RIMASTI SOLAMENTE GLI ALLIGATORI

Oggi, 8 settembre 2005

dal nostro inviato Mauro Suttora

Le principali nemiche di Nancy Snyder ora sono le zanzare: «Guardi qua, mi hanno massacrato la schiena...» Però le zanzare c'erano anche prima. «Sì, ma mi sembra che dopo l'inondazione siano aumentate. O forse sono diventate più cattive. Il problema è che quando lavoravo, me ne stavo in un negozio con l'aria condizionata per sei giorni alla settimana e otto ore al giorno, e delle zanzare proprio non mi preoccupavo. Ora invece, con tutto questo tempo libero...»

La signora Snyder, cinquantenne, è l'ultima sopravvissuta di New Orleans. Ha aspettato l'ultimatum delle ore 18 di giovedì 8 settembre per andarsene. Poi, quando i soldati sono arrivati, non ha opposto resistenza. Ha obbedito all'ordine di evacuazione totale del sindaco, assieme al marito Mike Collins. L'unico suo rammarico: non poter portarsi appresso i due gatti. «Le gabbie le ho, ma mi hanno detto che non si può. Però in questi ultimi dieci giorni li ho ingrassati per benino. Gli ho dato così tanto da mangiare che ora sembrano due elefanti. E anche quegli altri due randagi che sfamavo, dall'altra parte della strada, sopravviveranno».

Fino all'ultimo Nancy è stata seduta, fumando una sigaretta dopo l'altra, sulla sedia a dondolo sotto il portico della sua casa a due piani di Magazine Street. Una bella via alberata proprio nel centro di New Orleans, con le villette di legno colorate in stile sudista. Radio sempre accesa con le notizie in diretta. La sua zona è stata risparmiata dall'acqua, ma non dal tornado: l'albero di fronte si è sradicato, rami pesanti sono caduti sul tetto, quello posteriore è crollato. Però la casa è rimasta in piedi. Così lei e il marito sposato tredici anni fa (raro caso di matrimonio interrazziale) sono rimasti, unici nell'isolato, e per dieci giorni si sono attrezzati contro la mancanza di elettricità: «Ventilatori a batteria, torce elettriche e candele per la sera. Con le scorte d'acqua potabile e cibo potremmo andare avanti un mese. Non chiamateci "rifugiati", siamo sopravvissuti, ecco quello che siamo. Dovrebbero dare a noi il premio da un milione di dollari del reality tv». «Se sono sopravvissuti gli indiani, perchè non dovremmo riuscirci noi?», aggiunge il marito, che non riesce a star fermo e si mette a potare la siepe.

E ora? «Non lo so», dice la signora Snyder. «Non so in quale città ci porteranno. Se avessimo un'auto potremmo scegliere noi, ma così decideranno loro. Se sarà per più di due settimane, mi troverò un lavoro nella nuova città. L'unica cosa che so è che ritorneremo».

Ritorneremo. E‚ questa la parola d'ordine dei sopravvissuti all'uragano Caterina, il più disastroso nella storia degli Stati Uniti. Un milione di «evacuati» (questa è la definizione ufficiale, in un Paese sensibilissimo ai nomi), decine di miliardi di danni, migliaia di morti. La cifra esatta si saprà soltanto quando l'ultimo cadavere verrà dissepolto dal fango. Ci vorrà parecchio tempo, perchè dopo aver riparato gli argini crollati occorrerà pompar via la montagna d'acqua che ha distrutto interi quartieri. A mezzo mese dal disastro, poche pompe funzionano: qualche decina su 150. Un'altra incredibile inefficienza della superpotenza più ricca del mondo, che ha conquistato la Luna e vorrebbe ricostruire intere nazioni come Iraq e Afghanistan, ma poi permette che una delle sue città più belle venga inghiottita da burocrazia e inefficienza, come l'ultimo Paese del Terzo mondo.

«Serpenti d'acqua e alligatori: questo si trova ora nell'acqua che ha invaso la città», dice la signora Snyder. «Una mia amica giura di aver visto addirittura un pescecane, ma probabilmente era solo un enorme pesce gatto». L'acqua circondava New Orleans già da prima. Per raggiungerla, infatti, superati i posti di blocco militari, attraversiamo un lungo viadotto sul «bayou», un misto palude-laguna. Sembra di arrivare a Venezia. Poi, però, c'è solo un impressionante deserto di case vuote. Per chilometri e chilometri, perchè le autorità hanno mandato via anche gli abitanti delle immense periferie residenziali rimaste asciutte. In giro ci sono soltanto i 63mila soldati inviati (troppi e troppo tardi) dal presidente George Bush junior. E' uno spettacolo impressionante e pauroso: tutte le strade sono state devastate prima dal vento dell'uragano, poi dal diluvio dell'acqua, infine dalle scorribande degli sciacalli.

Dormiamo in auto (non si trova una stanza d'albergo nel giro di 300 chilometri) nel centro della città. Di fronte c'è un lussuoso negozio di vestiti Brooks Brothers, la catena ormai di proprietà italiana. Le vetrine sono sfasciate, ma c'è dentro ancora parecchia preziosa mercanzia. Una giovane soldatessa della Guardia nazionale dell'Oklahoma e uno dei trecento poliziotti mandati da New York lo sorvegliano.

Tre isolati più in là, Bourbon Street. Un luogo di valore inestimabile. Qui è nata tutta la musica del Novecento: blues, jazz, rythm and blues. Grazie a Dio il quartiere francese (Nouvelle Orleans è rimasta sotto Parigi fino al 1803, quando Napoleone la vendette agli Usa) è salvo. Ma subito dopo comincia l'inferno: un avvallamento con le case ancora invase dall'acqua. Ci avventuriamo sul liquido puzzolente con un canotto, e scopriamo l'agghiacciante verità: il drenaggio dell'acqua dell'alluvione va a rilento anche perchè si teme che le pompe si intasino di resti umani. Intanto all'acqua di fogna si è aggiunto anche petrolio. I colibatteri fecali sono dieci volte più del consentito. Chi tocca muore: già cinque le vittime dell'infezione.

Per non vomitare torniamo sulla «terraferma». All'angolo di Canal Street un banco dell'Esercito della Salvezza offre vettovaglie e bevande. Ma ormai in città di sopravvissuti non ce ne sono più, quindi i soldati della Salvezza finiscono per sfamare i soldati veri. «Io sono dell'Alleanza delle chiese battiste del Sud», mi dice un tizio dietro al tavolo, allungandomi un tramezzino al prosciutto. Poi mi rifila anche un volantino di propaganda della sua chiesa, «per darmi speranza», dice. «Hope? In Italy we already got the Pope..», noi abbiamo già il Papa, gli rispondo in rima, snobbando il proselitismo.
Nessuno osa dirlo perchè non è politicamente corretto, ma certi ambienti non così isolati della destra religiosa americana considerano New Orleans, la «Big Easy» (Grande Facile), città piena di casini e casinò, sesso, soldi e musica, un posto vizioso e quindi degno di fare la fine di Sodoma e Gomorra. Come lo tsunami, che ha distrutto l'industria del porno turistico thailandese e delle perversioni pedofile in Sri Lanka.

Dietro l'angolo il cadavere gonfio di un uomo di colore giace sulla strada. Avvertiamo un poliziotto, ma il giorno dopo il corpo è ancora lì. «Dobbiamo occuparci prima dei vivi», si giustificano alla Protezione civile. Ma la temperatura supera di molto i trenta gradi, l'umidità è soffocante. I cadaveri si decompongono immediatamente, c'è un rischio colera.

La polemica sulle colpe continua, e andrà avanti per anni. Il sindaco e la governatrice della Louisiana, di sinistra (partito democratico), danno la colpa al governo di destra (repubblicano) di Bush e al suo capo della protezione Civile. I quali ribattono che spettava al sindaco sorvegliare gli argini crollati. Una cosa è certa: se quegli argini avessero protetto un quartiere di ricchi, sarebbero stati più alti. Parte dei soldi per la manutenzione sono stati stornati verso la guerra in Iraq. E un terzo della Guardia nazionale della Louisiana, invece di dedicarsi alla protezione civile, è finito a Bagdad. Ma anche le colpe locali sono molte: «I primi a entrare a rubare nel supermercato qui accanto sono stati i poliziotti di New Orleans», arriva addirittura ad accusare il signor Collins.

Quel che è certo, è che oggi New Orleans è la città più spettrale dai tempi di Hiroshima. Rinascerà? Può darsi, anche se alcuni (fra cui il capo dei deputati repubblicani) non vogliono ricostruire sotto il livello del mare. Seguendo questa logica, bisognerebbe allora sgomberare metà Olanda. Per ora hanno sgomberato un milione di persone. Nancy e Mike sono stati gli ultimi ad andarsene, ma vogliono essere i primi a tornare.

Mauro Suttora

Monday, September 05, 2005

New Orleans/3

NEW ORLEANS

settimanale Visto, 5 settembre 2005

Warren Reckser, 60 anni, non vuole andarsene. La sua casa è allagata, cinque barche sono già passate per portarlo via. Ma lui, testardo portiere d’albergo, non intende abbandonare i suoi quattro cani: «Ho abbastanza cibo e acqua, datemi solo un po’ di pile nuove per la tv portatile. Questa è casa mia, ci rimarrò fino a quando potrò pulirla. Devo portar fuori i tappeti, sono bagnati...»

New Orleans, la settimana dopo l’uragano Katrina. Fa un caldo insopportabile, per la temperatura di 35 gradi ma soprattutto per l’umidità. I poveri, tutti di colore, che abitano il centro della città inondato, si difendevano con le pale che giravano sotto il soffitto, più che con i condizionatori. Ma ora l’elettricità non c’è più, non tornerà per settimane. Nelle zone asciutte le famiglie per stare al fresco si rifugiano nelle loro auto parcheggiate, accendono il motore e si godono l’aria condizionata. I primi giorni non si trovava la benzina, ora il problema è risolto. Ma al signor Dreckser non importa essere privo di auto, di elettricità e di fresco. Lui vuole solo starsene nella propria casa, e da quando i cellulari hanno ripreso a funzionare è tranquillo: ha parlato con sua moglie, lei sta bene, lui pure.

Così l’America dei vinti, i poveri della Louisiana e del Mississippi, comincia a vincere la sua guerra contro Katrina. Nonostante le migliaia di morti, la gente riprende a sorridere, si ritrova, si riabbraccia. Molti, 400mila su mezzo milione solo da New Orleans, hanno dovuto andarsene, rifugiarsi in Texas e anche più lontano. Ma vengono accolti in comunità, e i soccorsi che per giorni non arrivarono ora non mancano. Anche dall’estero: il Paese più ricco e potente del mondo ha dovuto chiedere aiuto all’Europa, e perfino dal Terzo mondo sta arrivando qualcosa. L’odiato Fidel Castro ha offerto 1.100 medici cubani: «Potrebbero arrivare in un’ora, con un aereo dall’Avana», ha detto. Ma gli Stati Uniti, che boicottano Cuba con l’embargo, non hanno neppure risposto.

Il 61enne Joe Shaheen non può più stare nella sua casa senza tetto del famoso quartiere francese, ma neppure lui vuole lasciare il suo cane, Dixie Lee: «Sull’elicottero non lo accettano, e io non posso abbandonarlo qui a morire di fame». I vigili del fuoco passano di casa in casa a controllare che non ci sia più nessuno. A volte trovano qualche sopravvissuto, a volte purtroppo qualche cadavere: «Dobbiamo spicciarci, perchè con questo caldo i corpi imputridiscono in fretta. Bisogna seppellirli subito», avverte Joe Pollard, ufficiale della polizia di New Orleans.

I poliziotti della capitale del jazz nei primi giorni si erano lasciati prendere dalla disperazione. Duecento di loro, sentendosi impotenti senza auto, e senza barche ed elicotteri per salvare i superstiti, avevano dato le dimissioni. Intanto per le strade bande di sciacalli saccheggiavano negozi e supermercati, rubando anche i fucili che negli Stati Uniti sono in libera vendita. Ora l’ordine sembra essere stato ripristinato, ma Cornelius Victor, 52 anni, tiene a precisare: «Si’, c’è stato qualche ladro, qualche violentatore e anche qualche assassino, ma dieci mele marce non possono rovinare la reputazione di mille cittadini onesti». Il signor Victor è stato appena salvato assieme ad altri 24 rifugiati in una scuola da un mezzo anfibio della Guardia nazionale (l’esercito che ciascuno dei cinquanta stati che compongono gli Usa ha in dotazione, con compiti di protezione civile e mantenimento dell’ordine pubblico al proprio interno, e di vero e proprio combattimento all’estero).

Più di un terzo dei 22mila volontari della Guardia nazionale della Louisiana si trova attualmente in Iraq. Ma la tragedia di New Orleans sta facendo chiedere a molti il rimpatrio dei soldati da Bagdad. «La spedizione in Iraq ci costa un miliardo di dollari alla settimana», ricorda il senatore Ted Kennedy, «soldi che il presidente George Bush dovrebbe spendere invece per la ricostruzione». «Abbiamo abbastanza risorse per entrambe le cose», ha risposto Bush. Dopo il ripristino degli argini, le pompe idrovore potranno entrare in funzione e la città si ripopolerà.

Mauro Suttora

Thursday, September 01, 2005

New Orleans/2

LO TSUNAMI D'AMERICA

Oggi, 1 settembre 2005

Migliaia di morti e dispersi, violenze e saccheggi, rabbia e polemiche: dopo "Katrina" e' il caos

«Improvvisamente sono finita sott'acqua, completamente sommersa. Sentivo le urla disperate e poi sempre più soffocate dei vicini. Poi più nulla. Quando sono riemersa, non ero più dentro il mio appartamento. Non vedevo niente. Ma mi sembrava di nuotare in mare aperto. Ero terrorizzata, non riuscivo a capire dov'ero. A un certo punto mi sono accorta che intorno a noi galleggiavano automobili. Abbiamo dovuto scansarle per continuare a nuotare, trascinati dalla corrente».
Joy Schovest, 55 anni, parla con difficoltà, piange, singhiozza. Abitava negli appartamenti di Quiet Water Beach, sul lungomare di Biloxi, nello stato del Mississippi. Un nome ironico: «Spiaggia dell'acqua quieta». Invece è proprio qui che è passato l'occhio del ciclone, ed è qui che si è consumata (per quanto se ne sa finora) la strage peggiore di Katrina, lo tsunami d'America: una trentina di vittime, rimaste schiacciate, intrappolate, soffocate, annegate sotto le pareti di legno del condominio. «Il vento aumentava sempre più, il suo rumore era diventato fortissimo, terrificante», continua la signora Schovest. «Poi abbiamo capito che si stava alzando anche il mare, le onde si sono fatte sempre più grosse, ma era tutto il mare che ci veniva addosso. All'inizio speravamo che la casa tenesse, poi abbiamo capito che era impossibile, tutto si muoveva e tremava, come se fossimo in una scatola di cartone. Ormai era troppo tardi per uscire e scappare. Eravamo intrappolati. Le assi di compensato che alcuni avevano messo alle finestre per proteggere i vetri di sono trasformate nelle pareti delle loro bare. Non ci restava che pregare. Speravamo che prima o poi l'uragano finisse, passasse, o almeno diminuisse di forza. Invece aumentava sempre di più».

Uno dei pochi sopravvissuti di quella maledetta casa di Biloxi è il diciannovenne Landon Williams. E' riuscito a salvarsi, correndo fuori dall'appartamento e trascinandosi dietro la nonna e lo zio prima che il tetto crollasse. Anche loro hanno dovuto nuotare nell'acqua che formava dei mulinelli, facendosi largo fra i detriti: «Il vento era feroce, abbiamo visto la nostra casa che poco a poco si disintegrava. Sentivamo il rumore di grandi pareti di legno che si incrinavano e poi si spaccavano. Non riesco neanche a descrivere a parole quella situazione, avevo troppa paura, l'unico modo per capirla è starci dentro. Tutti i nostri vicini sono morti, hanno recuperato alcuni corpi che galleggiavano nell'acqua putrida. Li ho visti, ma dopo un po' ho dovuto smettere di guardare perchè mi veniva da vomitare. Non so come facciano a lavorare i pompieri che devono affrontare queste cose e portar via i cadaveri...»

Harvey Jackson è disperato. Ha perso la moglie Tonette dopo che l'acqua ha sommerso la sua casa: «Il mare cresceva, cresceva, così siamo saliti sul tetto in cerca dell'ultimo rifugio. Ci tenevamo per mano con il nostro nipotino, ma a un certo punto la marea ha spaccato in due la casa e il tetto. Non ce l'ho fatta più a tenere Tonette, le stringevo la mano fortissimo, più forte che potevo, ma lei veniva trascinata via. Dopo un po' lei stessa mi ha urlato 'Non puoi più tenermi, pensa al bimbo, salva lui!' E' sparita, non l'ho più trovata, neanche il suo corpo... Non so più dove andare, ho perso tutto, non abbiamo più niente, non sappiamo cosa fare».

Sembra di risentire le stesse scene infernali di appena otto mesi fa, quando lo tsunami dell'oceano Indiano spazzò centinaia di chilometri di coste. Ma allora furono colpite zone povere e lontanissime. Questa volta, invece, la furia della natura ha colpito il Paese più ricco e potente del mondo. New Orleans è (era) una delle città più belle e antiche degli Stati Uniti. Un centro turistico e industriale, la culla del jazz. Ma è incredibile come nel giro di poche ore anche zone avanzatissime e dotate di ogni comodità si possano trasformare, tornando all'età della pietra.

«Sembra di essere a Hiroshima», ha mormorato il governatore dello stato del Mississippi sorvolando le zone disastrate. Non funziona più nulla. Non c'è elettricità per milioni di persone, di notte cala un buio pesto. Sono saltate tutte le comunicazioni, telefoni, computer, tv. Anche i telefonini. Funzionano solo le radio, per coloro che hanno trovato ancora qualche pila ai piani alti. «Nessuno sa più nulla dei propri parenti e amici», spiega il sindaco di New Orleans, «la nostra città ha mezzo milione di abitanti, ma assieme ai sobborghi si arriva a parecchi milioni. Il giorno prima dell'uragano abbiamo dato l'ordine di evacuazione, però molti sono rimasti barricandosi in casa. E ora non possiamo raggiungerli, perchè tutte le strade sono allagate».

Improvvisamente sono mancate tutte le cose elementari per sopravvivere: acqua, cibo, un giaciglio per dormire, un riparo, vestiti asciutti. New Orleans si trovava sul delta del Mississippi ma sotto il livello del mare, protetta da argini. Che all'inizio avevano tenuto: per un giorno, anche dopo il passaggio dell'uragano. Poi però la pressione dell'acqua è stata troppo forte, e quasi tutta la città è stata invasa dall'acqua. «Un'acqua pericolosa», avvertono quelli della Protezione Civile statunitense, «perchè contiene le carcasse di animali morti, e putroppo non solo di animali».

Per salvare i suoi gattini Ann Griffin ha rischiato di morire: «Non li avrei mai lasciati da soli, così sono salita al secondo piano della mia casa e ho aspettato. Dopo molte ore è arrivata una barca guidata da un privato, il signor Rayes, che ha salvato me e il mio compagno James». Nei giorni successivi al disastro la situazione, invece che migliorare, è peggiorata. Il Genio dell'esercito non è riuscito a ricostruire gli argini artificiali con sacchi di terra, per cui le pompe idrovore non hanno potuto mettersi in azione. Molte macchine della polizia sono rimaste anch'esse bloccate nei loro parcheggi, galleggiando nell'acqua. Le fogne sono saltate, e un puzzo insopportabile ha avvolto la città. «Abbiamo avvisato i sopravvissuti di non avventurarsi in acqua neppure nuotando, perchè c'era il pericolo di imbattersi in un coccodrillo o in un serpente d'acqua velenoso», ha detto il capo dei pompieri di Gulfport Pat Sullivan.

Il peggior disastro naturale nella storia degli Stati Uniti dopo il terremoto di San Francisco del 1906 si è così dipanato per giorni e giorni sotto gli occhi impotenti delle telecamere tv sugli elicotteri, unici mezzi oltre alle barche per raggiungere decine di migliaia di superstiti. E poi si sono scatenati gli sciacalli. Perchè nel centro di New Orleans, così come in quasi tutti i centri storici delle città americane (tranne Manhattan), ormai sono rimasti ad abitare soltanto i più poveri. Le classi medie e alte sono andate quasi tutte nei verdi sobborghi. Ed è stata troppo forte la tentazione, per chi comunque non aveva già niente oppure aveva perso tutto, di andare a saccheggiare negozi, supermercati, appartamenti privati. «Sono dentro, con un cane feroce e armato di fucile», ha scritto un negoziante con lo spray fuori dal suo negozio. Ma per qualche giorno New Orleans, oltre che nel fango, è precipitata anche nel medioevo delle bande armate. «E' una tragedia enorme, ci vorranno anni per ricostruire», ha dovuto commentare sconsolato il presidente George Bush junior.

Mauro Suttora

Wednesday, August 31, 2005

Clan Gotti, trionfo Usa

settimanale Visto, 26 agosto 2005

I MAFIOSI? IN AMERICA SONO GLI IDOLI DEI "REALITY"

Che importa se l'ennesimo Gotti è processato per tentato omicidio? La saga della famiglia continua.
Victoria, figlia del celebre "padrino", insegna ai figli "come stare al mondo". E suo fratello, John junior, se la ride delle accuse

New York. Buon sangue non mente. John Gotti junior, 41 anni, è in questi giorni sotto processo a New York per estorsione e tentato sequestro di persona. Rischia fino a trent'anni di carcere. Tre settimane fa suo zio, il 66enne Peter Gotti, è stato condannato a 25 anni per tentato omicidio. Già ne stava scontando nove per riciclaggio di denaro sporco e crimini di racket. I Gotti volevano far fuori il pentito Sammy Gravano, ex numero due della mafia a New York, perchè aveva tradito e spedito al fresco il capo dei capi: John Gotti senior, padre del junior, morto di cancro in galera tre anni fa.

Il processo di questi giorni attira l'attenzione dei media Usa perchè fa apparire inestirpabile il clan mafioso più potente d'America, quello che controlla la famiglia Gambino da dieci anni. Morto un Gotti se ne fa un altro, anche se sono padrini e non papi. Un destino che sembra ineluttabile: John senior aveva undici fratelli e sorelle, e tutti i maschi si sono dati al crimine. Ora è il turno della generazione dei quarantenni. Cosa Nostra negli Stati Uniti è più viva che mai, nonostante la concorrenza delle mafie russa, colombiana o cinese, e le periodiche retate della polizia. La quale più che infiltrare i clan, si fa infiltrare: sono infatti alla sbarra anche gli agenti Lou Eppolito e Steve Caracappa (accusati di undici omicidi come killer dei Gambino), che hanno fatto il doppio gioco per trent'anni.

Ma, quel che è peggio, oggi i mafiosi italoamericani sono diventati quasi oggetti di culto. Il fenomeno più incredibile, infatti, riguarda la sorella di John junior, la 42enne (finta) bionda platinata Victoria Gotti. La quale prima ha sposato un altro boss, Carmine Agnello. Poi ha chiesto il divorzio, quando nel 2000 le intercettazioni telefoniche hanno dimostrato non solo la colpevolezza criminale del marito, ma anche quella coniugale: lui la tradiva a tutto spiano. In seguito Victoria è riuscita a entrare nel mondo del glamour: Donald Trump la invita ai propri matrimoni, il quotidiano New York Post di Rupert Murdoch le affida una rubrica di gossip. Viene licenziata, ma trova subito rifugio sul settimanale scandalistico Star. Infine, un anno fa, l'incoronamento della marcia verso la rispettabilità di Victoria Gotti: il canale Tv AE (Arts&Entertainment) la fa diventare protagonista del reality show Growing up Gotti (Crescere Gotti). Nel quale si può ammirare la signora mentre cerca di educare (si fa per dire) i suoi tre figli Carmine, 19 anni, John, 18, e Frank, 15.

A Victoria, nonostante le traversie del marito, sono rimasti appiccicati addosso vari miliardi, e così lei alleva i suoi pargoli in un villone con sette camere da letto a Long Island, provvisto di parco, piscina e cavalli. I ragazzotti si comportano da bulli di periferia, non studiano, vagano in auto combinando guai ed esibendo già il cipiglio arrogante dei compari in erba. Mamma Gotti fa finta di preoccuparsi.

Prosegue così la spettacolarizzazione della mafia italoamericana, iniziata all'inizio del decennio con il serial Tv I Soprano. I crimini di questa famiglia mafiosa del New Jersey vengono seguiti con interesse da milioni di spettatori ogni settimana: sparare a freddo in bar a uno sconosciuto che non mostra «rispetto» e fare a pezzi il corpo di un «infame» diventano routine da psicanalizzare...

La trasmissione viene addirittura premiata con gli Oscar Tv, e a poco valgono le proteste della Niaf (National Italian American Foundation) contro la «stereotipizzazione» dei nostri connazionali come mafiosi. D'altronde, cosa fanno da trent'anni registi come Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, e attori come Robert De Niro, se non glorificare Padrini?

Ora Gotti junior è accusato - fra le altre cose - di aver tentato di rapire ed eliminare Curtis Sliwa, conduttore radiofonico e fondatore del gruppo di vigilanza civica «Guardian Angels», che nelle sue trasmissioni criticava aspramente suo padre, il patriarca mafioso. Ma gli spettatori dei Tg, distratti, confondono la realtà con il programma successivo, in cui la sorella dell'imputato redarguisce i suoi «bravi ragazzi» (Goodfellas) che imitano i modi spicci di Tony Soprano, ma allo stesso tempo si lamenta perchè «non si può giudicare la gente dal cognome»...

Mauro Suttora

Monday, August 29, 2005

New Orleans/1

KATRINA

lunedi 29 agosto 2005

Diario

Immaginate che il povero Bruno Vespa, per dimostrare la propria virilità, ogni volta che a Trieste soffia la bora si precipiti a farsi filmare barcollante in cerata sotto il vento e la pioggia. Eppure è esattamente quello che succede negli Stati Uniti, dove ad ogni uragano si scatena, oltre alla furia degli elementi, anche la fiera delle vanità delle star tv. E’ con un particolare autocompiacimento masochistico, per esempio, che Anderson Cooper, il figlio della miliardaria Gloria Vanderbilt diventato colonna della Cnn, si è fatto quasi spazzare via dall’uragano Ivan in Florida l’anno scorso.

Fra le tante disgrazie provocate dalle tremende tempeste tropicali estive americane, inimmaginabili per noi fortunati abitanti del placido Mediterraneo, c’è anche il fardello di cronisti dementi che occupano gli schermi Usa per giorni e giorni. Un fenomeno così irritante che il perfido David Letterman, principe della satira tv statunitense, li ha messi alla berlina mostrandoli uno dopo l’altro in pose Ridolini-Blob. La speranza segreta del telespettatore americano, ovviamente, è quello che l’uragano si porti via pure il giornalista vociante: lui sta davanti allo schermo per vedere se quello prima o poi prende il volo. Inconfessabile. Un po’ come il tifo pro toro nella corrida.

Perchè alla fine, si sa, l’uragano perde. Com’è successo anche al tremendissimo Katrina, che appena toccata terra si è sgonfiato, è stato degradato a “tempesta tropicale”, e ha diminuito la velocità dei propri venti da 250 a 150 chilometri l’ora. Una miseria, quasi come la bora nostrana, appunto. Morti, grazie a Dio, relativamente pochi (nel 1969 Camille ne causò 250). Danni, tantissimi: un milione di sfollati (tutta New Orleans), quarantamila case allagate, 26 miliardi di dollari di rimborsi chiesti alle assicurazioni dopo i trenta dell’anno scorso in Florida per Ivan. Una cifra immensa, certo. Però è quello che il Pentagono spende in soli venti giorni.

Quando ancora gli esperti erano convinti che Katrina non si sarebbe diretto verso Louisiana, Mississippi e Alabama, ma avrebbe scaricato tutta la propria potenza sulla Florida, sembrava che anche la serata tv degli Mtv awards da Miami fosse in pericolo. Invece si è svolta regolarmente e i suoi trionfatori, i Green Day, sono riusciti a inventare una via patriottica all’antimilitarismo (o una via antimilitarista al patriottismo), con il loro slogan “Amiamo i nostri soldati, quindi facciamoli tornare presto dall’Iraq”.

Non per buttarla in politica, ma gli uragani servono a qualcosa anche in questo campo. Per tre motivi. Il primo è quello classico: “parlare del tempo” per non affrontare argomenti più seri. Capita sempre in ascensore, e va bene. Ma ora la metereologia, in questi Stati Uniti polarizzati come ai tempi del Vietnam, è uno svicolamento anche per non far naufragare cene familiari o fra amici, se in circolazione c’è un bushista. La seconda funzione sociale ricoperta dagli uragani, poi, è quella di “affidamento al politico”. Di fronte a disgrazie immani non resta che sperare nei risarcimenti procurati dai governatori degli stati, e Jeb Bush l’anno scorso fece vincere le elezioni al fratello in Florida grazie alla propria performance consolatoria e all’efficienza dei soccorsi. Ora in Louisiana potrebbe mettersi in luce la democratica Kathleen Bianco.

La terza grande ragion d’essere dei tifoni, infine, sta nella diffusione della paranoia. Perchè ormai sarebbe il caso di cominciare a chiamarla così, la paura del “terrorismo” in un Paese dove per quattro anni, dall’11 settembre 2001, non è scoppiato neanche un petardo. In mancanza di ulteriori gesta da parte di Osama, ci si consola con il terrore provocato dalla forza distruttrice più antica, potente e misteriosa del mondo: quella della natura. Uno “shock and awe” che Donald Rumsfeld se lo sogna.

Un canale intero della tv Usa, il Weather Channel, si dedica a coltivare l’insicurezza ossessiva provata del cittadino medio statunitense nei confronti dei fenomeni atmosferici. Egli crede alle previsioni del tempo quasi quanto si fida dei discorsi neocon del presidente sull’export della democrazia tramite guerra. La minaccia sorda e imprecisa dei tornadi serve a mantenere un clima di allarme permanente e impreciso nella psiche familiare di tutto il Sud statunitense.

Sociologia d’accatto? Ditelo a Richard Posner, massimo “catastrofologo” statunitense. Nel suo ultimo libro, “Catastrofi: rischio e risposta” pubblicato nove mesi fa, sostiene che gli americani spendono troppo poco per prevenire (e proteggersi da) gli eventi estremi. Intendiamoci, contro gli uragani non c’è nulla da fare. E’ vero solo, statistiche alla mano, che negli ultimi anni è finito il periodo di grazia cominciato negli anni Settanta, e che il numero di uragani e tempeste tropicali è raddoppiato: fino a undici l’anno per i primi, mentre di solito erano sei, e venti per le seconde, il doppio del normale. Dacci il nostro uragano bimestrale: quest’estate Dennis, Emily, Irene e poi Katrina, l’anno scorso Charley, Frances, Ivan e Jeanne... Un allarme continuo che diventa allarmismo, e si somma nel subconscio a quello delle allerte arancioni antiterrorismo.

Per quest’anno non illudiamoci che sia finita. Gli scienziati del Nooa (National Oceanic and Atmospheric Administration), che si sommano al Cpc (Climate Prediction Center), alla Hrd (Hurricane Research Division), e al Nhc (National Hurricane Center), in un trionfo burocratico di enti dalla competenze sovrapposte, hanno già battezzato gli uragani futuri. Ogni anno si ricomincia dalla lettera A, e per il 2005 finora l’elenco è questo: Arlene, Bret, Cindy, Dennis, Emily, Franklin, Gert, Harvey, Irene, Jose e Katrina. Seguiranno (si spera di no) Lee, Maria, Nate, Ophelia, Philippe, Rita, Stan, Tammy, Vince e Wilma.

“Le catastrofi non sarebbero tali se avessero un qualcosa di ragionevole”, scrive Posner, “eppure ci si può ragionevolmente preparare ad esse, che si tratti di uragani, tsunami, asteroidi che impattano sulla Terra o terremoti. Certo, farlo costa molto”. Negli anni Sessanta parecchie società d’assicurazioni smisero di operare nel campo degli allagamenti dopo una serie di enormi inondazioni in California. In seguito all’uragano Andrew del ‘92 (l’ultimo paragonabile a Katrina) i premi assicurativi aumentarono del 200 per cento. Dopo l’11 settembre 2001 è stato impossibile assicurarsi contro atti di terrorismo, finchè non è intervenuto il governo federale Usa. L’anno scorso, le assicurazioni contro i rischi edilizi per tornado in Florida sono di nuovo raddoppiate.

“Il mercato non ha cuore”, ha ammesso James Surowiecki sul settimanale New Yorker, “e da un punto di vista economico le devastazioni del Golfo del Messico la scorsa settimana sono state più gravi di quelle dello tsunami, che aveva colpito zone troppo povere per essere nevralgiche dal punto di vista del business. Ma nonostante l’uragano questa volta abbia distrutto zone ricche, la percentuale di proprietà assicurate è ancora insufficiente. Il problema è che è difficilissimo, per le compagnie assicurative, calcolare attuarialmente quale sia la percentuale di rischio di questi grossi eventi. Sia perchè accadono a intervalli imprevedibili, sia perchè basta una minuscola variazione della traiettoria dell’occhio del ciclone per provocare miliardi invece che milioni di danni, colpendo una metropoli come New Orleans e i terminali del petrolio. Uno dei pochi che non teme di affrontare questi rischi è Warren Buffett (il quarto uomo più ricco del mondo, ndr), che ha guadagnato parecchi soldi proprio assicurando le catastrofi, perchè sa che è nella natura di tale business sopportare annate dure. Ma pochi assicuratori e investitori sono forti abbastanza per accettare l’inevitabilità di perdite grosse in cambio della certezza di molti piccoli guadagni. Per questo assicurarsi contro gli ‘atti di Dio’ costa ancora molto di più di quanto la gente è disposta a sborsare”.

Questo per quanto riguarda il futuro economico degli uragani. Ma quello scientifico? In sostanza: come mai ce ne sono di più da dieci anni a questa parte? “La maggior parte degli uragani”, risponde Stanley Goldenberg del Noaa, “nasce al largo della costa occidentale dell’Africa e si sviluppa nella fascia tropicale caraibica fra il nono e il ventunesimo parallelo. Quasi mai superano il trentesimo pareallelo. Purtroppo, anche se le condizioni del loro sviluppo sono ben conosciute, troppo spesso esse dipendono da circostanze giornaliere invece che stagionali, e quindi risultano impossibili da prevedere a lungo termine. Tuttavia, con l’eccezione dei due anni di attività del Nino, il ‘97 e il 2002, il numero degli uragani è stato sempre il doppio rispetto alla media dei precedenti 25 anni. Ebbene, in mancanza di dati certi sull’effetto serra e sulla temperatura dell’oceano Atlantico, noi siamo in grado soltanto di predirre all’inizio di ogni stagione se si ripeteranno le condizioni di facilità per il formarsi di tempeste tropicali, e di sviluppo della loro forza”.

Una notevole dichiarazione d’impotenza, non c’è che dire. Intanto, il quartiere francese di New Orleans è finito sott’acqua con gli argini rotti. E l’allarme inondazione ha provocato uno degli esodi più immani nella storia degli Stati Uniti. Puzza invece di speculazione l’aumento di cinque dollari a barile (raggiunta quota 70, impensabile fino a pochi mesi fa) causato dalla chiusura dei pozzi petroliferi nel Golfo del Messico. In realtà gli Usa producono in loco soltanto un milione e mezzo di barili al giorno, contro i sei e mezzo provenienti dall’estero che vengono succhiati dai terminal di Lousiana e Texas. Ma queste cose i cronisti tv che urlano sotto la pioggia non le spiegano.

Mauro Suttora

Wednesday, August 24, 2005

La mamma del soldato

Oggi, 24 agosto 2005

MIO FIGLIO E' MORTO PER TE: BUSH, SARO' LA TUA CROCE

La guerra di una madre-coraggio americana

Cindy Sheehan non ha piu' pace: suo figlio ha perso la vita in Iraq in un agguato. "La colpa e' del presidente che ha mandato a morire i nostri ragazzi in un conflitto insensato". E ora lo sfida: vuole diventare un incubo per lui. Finche' non ammettera' di avere sbagliato

Crawford (Stati Uniti), agosto
«Sono venuta a Crawford per mio figlio. Perchè finchè il presidente sta qui,
anche il mio posto è qui. E' lui che lo ha mandato a morire in una guerra
insensata. Sono arrivata un mese fa per una sola ragione: incontrare il presidente
e ottenere una sua risposta a questa semplice domanda: qual è la "nobile
causa" per la quale lui dice che mio figlio è morto? La risposta a questa domanda
non farà tornare indietro mio figlio. Ma potrebbe fermare altre morti senza
senso. Perchè ogni morte adesso non ha più senso. E la grande maggioranza del
nostro Paese lo sa. Quindi, perchè altri giovani devono morire? E perchè altri
parenti devono perdere i propri figli e passare il resto della vita con questo
lutto insopportabile?»

La signora Cindy Sheehan, 48 anni, non è una pacifista. Almeno non lo era
fino all'anno scorso, quando il suo figlio 24enne Casey è morto in Iraq. Ci era
arrivato da appena un mese, faceva il meccanico. Il 4 aprile 2004 si era spinto
in missione volontaria a Sadr City per salvare dei soldati feriti in
un'imboscata. Assieme a lui sono stati uccisi altri sei militari americani. Quel giorno
la signora Sheehan guardava la tv nella sua casa californiana: «Quando per
caso ho visto sulla Cnn un blindato che bruciava, ho capito d'istinto che Casey
era morto».

Anche la decisione di andare dalla California a Crawford (Texas) per chiedere
udienza al presidente George Bush junior in vacanza nel suo ranch l'ha presa
d'istinto. Lo aveva già incontrato due mesi dopo la morte di Casey, il
presidente. Ma in quell'occasione se ne era stata tranquilla. Bush ha concesso
udienza a 272 parenti dei duemila soldati statunitensi morti finora in Iraq e
Afghanistan. Per cui i suoi collaboratori hanno detto no a questa signora sconvolta
dal dolore: «Se stabiliamo il precedente che ciascun parente può essere
ricevuto più di una volta, il presidente rischia di dover passare gran parte del suo
tempo con i familiari delle vittime».

E' una decisione che qualcuno potrebbe rimpiangere. Perchè la signora Sheehan
si è intestardita, non è tornata a casa, ed è rimasta ad aspettare fuori dal
ranch per tutto l'agosto afoso del Texas: «Non me ne vado finchè non mi
riceve». Si è piazzata con una seggiolina pieghevole sulla strada, e col passare dei
giorni ha cominciato ad attrarre l'attenzione dei giornalisti. Forse perchè
d'estate non ci sono molte altre notizie, il suo caso è finito su tutte le
prime pagine. Contemporaneamente, i sondaggi per la prima volta hanno avvertito
che la maggioranza degli americani si sta stufando della guerra, e che non ha
più fiducia in Bush.

E' cominciata così una vera e propria sfida fra questa signora, impiegata in
una Usl vicino a San Francisco, e l'uomo più potente della Terra. Ormai è
diventata una questione di principio: se il presidente cede e la incontra, i
pacifisti la prenderebbero come una vittoria. Ma se non la vede potrebbe fare la
stessa fine di un altro presidente texano, Lyndon Johnson, che esattamente
quarant'anni fa, nell'estate '65, snobbò i manifestanti contro la guerra del
Vietnam davanti al suo ranch, ma tre anni dopo perse la Casa Bianca (e alla fine gli
Stati Uniti persero la guerra).

Attorno alla signora Sheehan si sono radunate prima centinaia, poi migliaia
di persone che stringono d'assedio il ranch. Sono arrivati personaggi famosi,
come la cantante antimilitarista Joan Baez che ha tenuto un concerto uguale a
quelli dei tempi del Vietnam. I consiglieri del presidente avevano respirato un
po' quando la Sheehan era dovuta tornare in California per assistere sua
madre che aveva avuto un infarto. Ma la tregua è durata soltanto qualche giorno.
Si sono mobilitati anche i sostenitori del presidente. Altre mamme di soldati
morti in Iraq si sono fatte intervistare, dicendosi favorevoli alla guerra.

Alcuni siti internet vicini al partito repubblicano si sono riempiti di veleni
contro la signora, definita «ex hippy fallita». In effetti la vita della
signora Sheehan dopo la morte del figlio non è più la stessa. La Usl l'ha
licenziata per troppe assenze. Il marito l'ha mollata in giugno perchè non ce la faceva
più a sopportare il dolore ossessivo della moglie: «Io per superare
l’angoscia ho bisogno di distrarmi», ha detto, si è comprato due maggiolini Volkswagen
(che colleziona) e se n'è andato. Gli altri due figli, la 24enne Carly e il
21enne Andy, la appoggiano, ma ora le chiedono di tornare a casa.
Tuttavia, la signora Sheehan sta scuotendo l'America come nessuno era
riuscito a fare nei quattro anni che sono passati dall'11 settembre 2001.

«La verità è che queste guerre stanno costandoci troppo», spiega Linda Bilmes,
professoressa dell’università di Harvard: «Duemila americani uccisi, quasi quindicimila
feriti e mutilati. Ma anche il prezzo economico è alto, nascosto agli occhi
del pubblico, e bisognerà pagarlo anche dopo la fine delle guerre. In totale
sono mille miliardi di dollari. Per 45 anni dovremo dare sette miliardi all’anno
in pensioni d’invalidità a tutti i menomati fra il mezzo milione di soldati
che ha finora servito in Iraq. E dall’inizio della guerra, nel marzo 2003, il
prezzo del petrolio è raddoppiato».

Ma la cosa più grave, che provoca frustrazione anche fra i favorevoli alla
guerra, è che non si intravede una via d’uscita. Ormai anche qualche senatore
repubblicano, temendo di non essere rieletto, chiede una «exit strategy»
dall’Iraq. Il presidente Bush ammonisce: «Se tornassimo subito mancheremmo di
rispetto proprio ai soldati come Casey Sheehan che hanno dato la loro vita per la
patria. E anche fissare una data per il nostro rientro sarebbe un regalo per i
terroristi, ai quali non resterebbe che aspettare. No, dobbiamo rimanere finchè
gli iracheni non potranno difendersi da soli con le nuove forze armate e di
polizia che stiamo addestrando».

Casey era molto religioso, aveva fatto il chierichetto e avrebbe voluto
diventare assistente di qualche cappellano militare. Poi è partito volontario, ma
non ha voluto fare l’amore con la sua fidanzata: «Sarebbe poco serio, prima del
mio rientro e del matrimonio». La signora Sheehan ricorda il suo imbarazzo:
«”Non potrò certo dire ai miei colleghi che sono ancora vergine...”, mi diceva».

A Genova per secoli c’è stata la figura della «pittima»: una persona che
seguiva costantemente ciascun debitore in ogni strada, ricordando ad alta voce i
suoi impegni non mantenuti. Oggi la signora Sheehan si è assunta questo ruolo
nei confronti del presidente: vuole imbarazzarlo fino a fargli ammettere che
andare in Iraq è stata una mossa sbagliata. Sicuramente non ci riuscirà, ma è
altrettanto sicuro che il prezzo che lei sta facendo pagare a George Bush junior
per la sua testardaggine cresce di giorno in giorno.

Mauro Suttora

Monday, August 22, 2005

Ristoranti di New York

mensile Dove, agosto 2005

CENA IN PALCOSCENICO

La nuova hit parade gastronomica? Drink sui grattacieli, ristoranti nel quartiere dei macellai, cucina italiana in rialzo. Tutti gli indirizzi per mangiare bene e pagare il giusto. In posti scenografici

Sono oltre 15.000 i ristoranti di New York, industria fondamentale per una città che pranza poco a casa. Ogni anno ne aprono circa 300, e altrettanti chiudono i battenti. "A molti newyorkesi la buona cucina non basta", dice Ruth Reichl, direttore della rivista 'Gourmet', forse il critico gastronomico più famoso degli Usa. "Per loro, andare al ristorante è come andare a teatro, si aspettano un'intera serata di intrattenimento. e sono pronti a giurare amore eterno ai locali che sanno offrire qualità ed effervescenza continue". Dove spesso gli stranieri si divertono, sì, ma per la cucina preferiscono locali dove andare a colpo sicuro e che si sono fatti la reputazione di nuovi classici. Apprezzati da tempo, sono sempre alla moda e uniscono buona cucina, clientela à la page e prezzi corretti. Differenti dai classici-classici come Daniel o Alain Ducasse perchè più creativi e meno impegnativi. Alcuni poi sono di apertura recente, ma grazie alla fama dei cuochi vengono considerati già degli instant classic, destinati a caratterizzare la tavola di New York per il futuro.

Aperitivi con vista

Il vero new style? I tipici aperitivi e la cena con vista. Perchè New York va gustata dall'alto. Altrimenti, a che servono tutti i suoi grattacieli? Lo spettacolo mozzafiato del momento è quello di Central Park visto dal quarantesimo piano delle nuove torri Time Warner, a Columbus Circle. Per ammirarlo bisogna salire al bar di un albergo, il Mandarin Oriental (entrata dalla 60esima strada). La reception si trova al 35esimo piano, con la Lounge, il MObar e il ristorante giapponese Asiate. Per un assaggio di aperitivi basta la prima, accomodatevi il più vicino possibile alla vetrata. Evitate il secondo perchè non ha finestre.

Subito dopo, in un'ipotetica classifica delle viste più inebrianti di New York, c'è il Ge (General Electric) Building, il grattacielo più alto del Rockefeller Center. Si sale al sessantaseiesimo piano di questo gioiello degli anni Trenta, con l'ascensore express che arriva direttamente alla leggendaria Rainbow Room, senza mai fermarsi. Dal 1999 il locale, che occupa gli ultimi due piani del palazzo, è gestito dalla famiglia Cipriani. Il settantenne Arrigo e il figlio Giuseppe hanno trasferito in cima alla capitale del mondo la stessa raffinatezza ovattata dell'Harry's Bar di Venezia, con aperitivi famosi come il Bellini, piatti altrettanto noti come il carpaccio e le altre leccornie. Il massimo è arrivare a cavallo del tramonto, per ammirare la città nel passaggio fra il giorno e la notte. Non c'è bisogno di cenare, basta fermarsi a uno dei tavoli riservati all'aperitivo, o al bancone del bar. La vetrata dà a sud: di fronte svetta l'Empire, dietro in lontananza i grattacieli di Wall Street. Provate a curiosare anche sul lato nord, per vedere Central Park, o verso ovest sul fiume Hudson.

A cinque isolati dal Rockefeller Center, sulla 55esima Strada all'angolo con la Quinta Avenue, c'è poi l'hotel Peninsula, che proprio in questo 2005 festeggia cent'anni. Il suo Pen-Top Bar è molto più basso della Rainbow Room (sta al 23esimo piano), ma in compenso offre anche due terrazze all'aperto. E il colpo d'occhio sulla Fifth Avenue lascia senza respiro, con il palazzo Playboy a nord e i grattacieli Sony e Citicorp a est. Occhio ai prezzi: per un Apple Martini si pagano venti dollari, ma volendo se ne possono scialacquare 75 per un cocktail Dolce Far Niente. Dal piano terra si raggiunge l'ascensore alla fine di un corridoio sulla destra dell'albergo, con accesso anche diretto dalla strada.

Infine, provate i nuovi locali concentrati al quarto piano delle torri Time Warner. Non così in alto come il 35º del Mandarin Oriental, ma con vista egualmente piacevole. Uno accanto all'altro ci sono il bar Stone Rose, sempre pieno di attraenti fanciulle, il ristorante giapponese Masa, la V Steakhouse del celebre chef Jean-George Vongerichten (a New York i grandi cuochi sono star riverite) e il "fusion" Per Se di Thomas Keller.

Quello con il miglior rapporto qualità-prezzo è il Cafè Gray, che prende il nome dal cuoco Gray Kuntz. Il menù è «francese rustico», consigliabili il vitel tonnato e le costatine di manzo (short ribs) marinate in salsa dolce mango-tamarindo. Due consigli: per godere del panorama meglio andarci di giorno, perchè col buio la luce della cucina in vista si riflette sui vetri creando un effetto specchio; e prenotate in anticipo.

In fatto di di prenotazioni, i ristoranti newyorkesi possono causare dolori. Di venerdì e sabato è quasi impossibile trovar posto nei locali buoni o "trendy" (le due caratteristiche non coincidono, occhio alla mania americana per le "novità"). Fate quindi qualche telefonata qualche settimana prima di partire, se avete una meta irrinunciabile.

Italiani di successo e bistrot

Il New York Times Magazine ha pubblicato a maggio un articolo di due pagine sui trucchi per ottenere un tavolo da Babbo. Il suo chef e padrone, l'italoamericano Mario Batali, è stato consacrato quest'anno miglior cuoco degli Stati Uniti dalla Beard Foundation, l'accademia gastronomica più prestigiosa degli Usa: è quindi d'obbligo una visita nel suo locale, vicino a Washington Square, con un assaggio alle lingue di agnello in vinaigrette di tartufo nero, ai ravioli, alle crostate di pinoli e semifreddi di pistacchio e cioccolato. Aperto nel 1998, Babbo è ormai un classico, ma anche un posto alla moda. Bisogna prenotare un mese prima.

Più alla mano Beppe di Cesare Casella, nel raffinato quartiere di Gramercy Park. Gli antipasti di crostini, cozze o salsicce (da maiali allevati nella sua fattoria americana), le paste (pinci, norcino, pepolino), e poi branzini, quaglie, bistecche: tutto riporta alla ricchezza della trattoria toscana. Casella proprio il mese scorso ha aperto il ristorante Maremma, sulla Decima Strada West, che propone un mix di cucina toscana e texana.

Il Pastis resta il locale-principe del quartiere più "in" per le sere di Manhattan: il Meatpacking district. L'antesignano Keith McNally ebbe il coraggio di aprirlo quando la zona era ancora piena di macellerie all'ingrosso, depositi e magazzini. E questa brasserie francese è sempre affollata di belle donne furibonde perchè sono appena inciampate con i loro tacchi sul porfido irregolare della Nona Avenue. Non si va al Pastis per mangiare sopraffino, ma per godere dell'atmosfera, vedere e farsi vedere.

Stesso discorso per il ristorante-gemello Balthazar, a Soho: inossidabile dai tempi del boom della net-economy e di "Sex and the City", la dolce vita degli anni Zero la trovate qui. "E' il modo più veloce per andare a Parigi ora che non c'è più il Concorde", cameriere belle come attrici, qualcuna ce la fa.

Ma, tornando al quartiere Meatpacking, da raccomandare è Florent su Gansevoort Street, strada che conserva l'antico nome olandese: aperto 24 ore su 24 da un francese vero, ci trovate meno puzza sotto il naso e prezzi eccellenti. Atmosfera da bistrot più che da brasserie, menù franco-americano, artisti e intellettuali si mischiano a miliardari travestiti da barboni, e alle modelle che vi si rifugiano per un boccone alle quattro di notte dopo la discoteca. Hamburgers, minestre di cipolla, lumache, budini neri e insalate niçoise servite su tavoli di fòrmica.

Se invece ricercate lo chic asiatico fusion, due isolati più a nord c'è lo Spice Market, aperto nel 2004 da Vongerichten. E' uno spazio enorme, a due piani, simile alla fumeria d'oppio dove finì Robert De Niro in "C'era una volta in America". Involtini d'uovo ai funghi sgocciolanti salsa galangal, cozze dolci al vapore con basilico thailandese e succo di cocco, fino a temibili ali di pollo fritte con salsa di lime e pesce, più fette di mango: l'estremo oriente sarà vostro. Evitate il tonno con la tapioca, la pescatrice (monkfish) glassata con tamarindo ghiacciato e altre stranezze.

Per un più classico francovietnamita converrà dirigersi a NoHo (Nord di Houston Street), nel vecchio ma sempre valido Indochine. Qui il cuoco cambogiano Huy Chi Le vi servirà involtini primavera caldi e croccanti, con tutti gli ingredienti interni ben identificabili: funghi, pasta, carne di maiale, carote. Da provare anche la sogliola avvolta in una foglia di banano, con ricco curry al latte di cocco. E ci si può comunque sempre rifugiare in un filet mignon. Confini est-ovest infranti anche nella scelta dei dolci: si va dalla banana arrosto con riso alle torte francesi al limone. Un piccolo segreto: fino alle sette di sera menù pre-teatro a 25 dollari.

Pranzare al museo

Anche il coté culturale dei soggiorni newyorkesi va accompagnato da cibo di qualità. E se la "cafeteria" (mensa) sotterranea del Metropolitan Museum è trascurabile, interessante risulta invece l'offerta proposta dal MoMA riaperto otto mesi fa. Il museo ha ben tre ristoranti al proprio interno.
Al piano terra c'è il Modern, locale di lusso aperto anche a clienti che non visitano il museo, i quali hanno un ingresso separato direttamente dalla strada dopo l'orario di chiusura. Il giapponese Yoshio Taniguchi, progettista del nuovo MoMA, ha conservato la disposizione originale dall'architetto Philip Johnson nel '53: sono affascinanti le finestrone del ristorante a tutta altezza sul Giardino delle sculture con i Rodin e i Giacometti.
Il Cafe 2, al secondo piano, è una trattoria italiana: clima informale, prezzi più bassi, bar dove si può ordinare un veloce espresso al banco. Al quinto piano, infine, c'è la Terrace, caffè più intimo con selezione di dolci, cioccolato, sandwich e vino, cocktail, caffè e the.

Molti visitatori del MoMA escono dal retro, sulla 54esima Strada, per andare da Il Gattopardo di Gianfranco Sorrentino, che negli anni '90 gestiva il ristorante interno del museo, e per gustarne le polpette di carne, i carciofi alla parmigiana e la mozzarella affumicata.

Ottimo anche il Café Sabarsky ospitato all'interno della Neue Galerie, museo austro-tedesco situato proprio a metà strada fra il Guggenheim e il Met: un pezzo di Vienna sulla Quinta Avenue. Ma siamo in America, e allora fra i classici occorre inserire il tempio dell'hamburger (Corner Bistro, piccolo e buio locale del West Village che li serve su piatti di carta) e quello della bistecca: Maloney & Porcelli, enorme steakhouse su due piani dove, viste le dimensioni (e i prezzi) delle portate conviene arrivare con lo stomaco ben vuoto.

Pizze e celebrity spotting

Tutti ci vergogniamo ad ammetterlo, ma New York è il posto ideale per incontrare un vip che ci sta mangiando accanto. Ciò può avvenire in tutti i posti che vi abbiamo segnalato, ma per una chance in più provate al Bar Pitti, nel Village. Ai tavoli di legno apparecchiati da Giovanni siedono spesso attori, registi, musicisti. Se li riconoscete, però, siate newyorkesi fino in fondo: fate finta di niente, reprimete ogni richiesta di autografo o foto. E intanto, apprezzate le melanzane alla parmigiana e il resto del menù scritto sulle lavagne.

Gli altri classici del "celebrity spotting" sono la Mercer Kitchen e il Cipriani Downtown, entrambi a Soho. A qualsiasi ora del giorno a fino a tarda sera è possibile imbattersi in Nicole Kidman o in Jack Nicholson. Particolarmente ambiti, da Cipriani, i tavoli all'aperto durante la bella stagione.

A New York si possono mangiare buone pizze. Quelle di John's Pizzeria sono ormai un classico, specialmente nel ristorante di Bleecker Street (uno dei tre, a Manhattan). Numerose sono anche le location di Serafina. Quella all'angolo di Broadway con la 55esima Strada è la quinta, e l'ultima aperta. Appena sbarcata a New York è anche la catena delle pizzerie Piola, nate a Treviso nel 1987 e poi dilagate in tutta l'America Latina. Le pizze hanno i nomi delle città italiane, con innumerevoli combinazioni di ingredienti.

Uno dei riti iperclassici di New York è il brunch. Nell'Upper East Side andate all'Atlantic Grill, grossa sala sulla Terza avenue che offre pesce meravigliosamente fresco ma lunghe code per gli sventurati che nonprenotano. Grande qualità a prezzo fisso anche al ristorante Riingo.

Il segreto ovunque, per gli amanti del brunch improvvisato, è arrivare sul presto (verso le 11). Nell'Upper West Side c'è Barney Greengrass, un negozio di pesce e storione aperto 97 anni fa che si è ampliato in ristorante (ma non per cena). I tavoli di alluminio conferiscono al posto un delizioso squallore fané anni '50, da macchina del tempo. Però la qualità è buona.

Se fa bel tempo, poi, è consigliabile avventurarsi nella Boat House di Central park, all'estremità est del lago con le barche. Posto romantico, oltre alle tradizionali uova e bacon offre insalate, gazpacho di gamberi, toast di mirtilli e mascarpone, nonchè frittate con salmone affumicato, spinaci e feta. Chi si trova downtown, invece, vada alla Blue Ribbon Bakery del Greenwich Village: non si può prenotare se si è in meno di cinque, ma il pasticcio di gamberi e pancetta vale il rischio di un'attesa. E l'arredamento è di gran gusto.

Mauro Suttora

Marilyn Monroe

Oggi, mercoledi' 24 agosto 2005

Davvero Marilyn Monroe, sex symbol per milioni di uomini, era bisessuale?

Le trascrizioni delle sue sedute dallo psicanalista, rese note dall'ex magistrato di Los Angeles John Miner, rivelano che l'attrice ebbe un'avventura lesbica con Joan Crawford. Possibile che preferisse le donne?

"No, Marilyn non preferiva le donne", risponde Miner. "Lo dimostra tutta la sua vita, i suoi numerosi mariti, i numerosi amanti. Ma l'avventura di una sola notte con Joan Crawford, che aveva quasi vent'anni più di lei, effettivamente ebbe luogo. Io, come pubblico ministero della contea di Los Angeles, ebbi il compito di indagare sulla sua morte misteriosa a 36 anni. La trovammo nuda, sul suo letto a testa in giù. Presenziai all'autopsia, e il risultato fu che a ucciderla era stata una fortissima dose di barbiturici.

Con l'avanzare delle indagini conobbi il dottor Ralph Greenson, lo psicanalista che aveva in cura Marilyn. E lui mi fece ascoltare le registrazioni di tutte le sedute di terapia cui l'attrice si era sottoposta, aprendo la propria anima come a nessun altro. Le trascrissi fedelmente, quasi parola per parola, a un'unica condizione: che avrei potuto rivelarne il contenuto soltanto dopo la morte del dottor Greenson, il quale altrimenti avrebbe violato il segreto professionale cui era obbligato.

Ascoltando quelle ore e ore di confessioni intime, ma soprattutto le registrazioni delle ultime sedute avvenute pochi giorni prima della morte, mi convinsi che Marilyn non poteva essersi suicidata: era troppa la voglia di vivere che traspariva ancora dalle sue parole. Voleva studiare Shakespeare e trasformare in film molte delle sue commedie e tragedie. Quanto alla notte d'amore con la Crawford, che era di notorie tendenze bisessuali, Marilyn ne fa un resoconto dettagliato al suo dottore. Dice che quando arrivo' all'orgasmo la Crawford fu come un vulcano, si mise a urlare dal piacere. E che perciò, incontrandola di nuovo, le chiese di ripetere la piacevolissima esperienza. Ma Marilyn rifiutò, le rispose che le donne non le piacevano molto, e la Crawford si indispettì.

Lo stesso episodio è stato riportato pure nella biografia della Monroe scritta da Matthew Smith due anni fa. Ma c'è un particolare curioso: anche Brigitte Bardot nella propria autobiografia scrive che nel '52 Marilyn la «sedusse» nel bagno delle donne dopo un ricevimento della regina Elisabetta.

Monday, August 08, 2005

Nicole Kidman

Oggi, mercoledi 10 agosto 2005

Sopravvivere senza Cruise. La Kidman racconta la grande crisi

DOPO TOM VOLEVO SOLO IL PIGIAMA
Nel 2001 l'attore si separo' dalla splendida Nicole. E lei entro' nel tunnel della depressione: "Vivevo in vestaglia anche quando accompagnavo i figli a scuola". Poi s'è tuffata nel lavoro...

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti)
La donna più bella del mondo non trova un uomo, è sola e racconta la sua sofferenza. «Dopo la separazione con Tom Cruise nel 2001», confessa Nicole Kidman, «per mesi e mesi sono rimasta in pigiama. Vestita così accompagnavo in auto i miei figli a scuola e cucinavo a casa. Non avevo voglia di vestirmi, neanche di darmi una sistemata ai capelli e di truccarmi. Mi chiedevo: "A chi interessa?"

Negli ultimi quattro anni l'attrice è stata legata sentimentalmente al musicista di colore Lenny Kravitz e al miliardario Steve Bing (padre del figlio di Elizabeth Hurley). Ha avuto un'avventura con il cantante inglese Robbie Williams. Recentemente ha frequentato il magnate francese della moda François Pinault. Ma alla fine tutti questi rapporti non sono approdati a nulla: non era vero amore. Anche perchè Nicole sembra aver conferito ai suoi due figli adottivi, Isabella, 12, e Connor, 10, un diritto di veto su ogni proprio nuovo fidanzato: «Dico sempre che siamo in tre a decidere, lui deve piacere anche a loro». E per la verità non è finita qui: il povero aspirante signor Kidman, infatti, deve passare l'esame anche con padre, madre e sorella di Nicole, tutti preoccupati che dopo l'abbandono di Cruise lei non venga più ferita. «Lo so, sembra un po' stupido visto che ho 38 anni», ammette lei, «ma mio padre dice che non vuole più passare attraverso un periodo simile».

Insomma, con l'intera famiglia Kidman traumatizzata, è veramente difficile che la bionda diva possa lasciarsi andare con un uomo. E così si è tuffata nel lavoro. Negli ultimi due anni ha recitato in ben otto film, e altri quattro sono previsti per il 2005. In questi giorni è a New York, dove interpreta la fotografa Diane Arbus in Fur (Pelliccia). Dopo gli spot per Chanel, farà pubblicità agli orologi Omega. Ma tutta questa bulimia professionale non le ha ridotto lo stress: ha diminuito soltanto il tempo a disposizione per i figli. Perciò Nicole avverte che sta per mollare anche su questo fronte: «Presto sparirò, non mi vedrete per molto tempo. Mi prenderò uno, due anni di vacanza, non so: certo non darò il calendario ai giornalisti. Ma ce ne vorrà prima che torni sul set». Quindi, dopo le maternità di Julia Roberts e Gwyneth Paltrow, che le hanno fatte scomparire dallo schermo, anche l'altra superdiva contemporanea privilegierà la vita privata. Con la differenza che Julia e Gwyneth un marito ce l'hanno, mentre Nicole è sola come un cane.

Ormai alla fragile attrice australiana sembra stiano per saltare i nervi. Un mese fa si è ridotta a implorare, scherzando ma non troppo: «Alla persona che è destinata a venire a cercarmi e a trovarmi vorrei dire: fallo, ma fallo presto...» Non sono settimane facili, queste, per Nicole. Vede il suo ex Tom che dichiara entusiasta a mari e monti il proprio nuovo amore per l'attrice Katie Holmes, mentre lei è diventata sempre più sospettosa: «Ogni volta non riesco a non chiedermi quale sia il vero scopo degli uomini che mi corteggiano: vogliono solo possedermi, vogliono finire sui giornali? Ho bisogno di una persona normale, non interessata a queste cose».

Ora Nicole ha comprato una casa vicinissima a quella di Tom a Beverly Hills (Los Angeles): per il bene dei figli, i quali così non dovranno viaggiare per passare da una custodia all'altra. E' questo, forse, l'unico successo di questi anni: nonostante le ruggini del divorzio, la Kidman e Cruise hanno sempre messo i figli al primo posto, non facendo pagar loro il prezzo della propria separazione, o peggio, usandoli contro l'ex coniuge.

Mauro Suttora