Thursday, July 17, 2025

Esuli italiani

Finalmente una mostra, forse persino senza polemiche

di Mauro Suttora

Il ministro Giuli domani annuncia “Frontiera adriatica”, che apre a ottobre al Vittoriano a Roma. Un’idea di Sangiuliano che può prendere dimensioni impreviste. Il problema della parola “foibe” e il frastuono di liti di minoranza

Huffington Post, 17 luglio 2025

Venerdì 18 luglio il ministro della Cultura Alessandro Giuli presenta alla stampa estera la mostra 'Frontiera adriatica: storie di esuli italiani', che aprirà il 5 ottobre al Vittoriano. Attenzione alle parole: non esuli 'istriani, giuliani, fiumani, dalmati', ovvero i 350mila che abbandonarono le loro case dal 1944 al 1954. Gli organizzatori hanno intelligentemente allargato la definizione, chiamandoli semplicemente 'italiani'.

Ma basterà questo annacquamento semantico a sopire le polemiche sulle foibe, facendo finalmente conquistare a quell'esodo lo status di memoria condivisa super partes?

Fu il precedente ministro Gennaro Sangiuliano, un anno fa, a concedere alla Federazione degli esuli guidata da Giuseppe De Vergottini e Renzo Codarin la prestigiosa sede del complesso monumentale dedicato a Vittorio Emanuele II nel centro di Roma.

L'istituto Vive (Vittoriano e palazzo Venezia) ha messo a disposizione della mostra spazi ristrutturati accanto al museo del Risorgimento. 

Secondo Sangiuliano, però, la manifestazione doveva essere solo "il primo passo verso la realizzazione del Museo del Ricordo qui a Roma, dedicato alla memoria dei martiri italiani delle foibe, massacrati dalla cieca violenza comunista titina. L'esposizione accenderà, in un luogo altamente simbolico e centrale per l'identità nazionale, un faro potente sul buco nero della memoria legata all'esodo. Restituiamo, dopo troppo silenzio, la dovuta visibilità e la giusta dignità alla tragedia delle foibe".

Parole destinate a riaccendere il dibattito, perché a sinistra qualcuno non condivide l'apertura bipartisan con cui anche Giorgio Napolitano, Piero Fassino e Luciano Violante promossero nel 2004 l'istituzione del Giorno del Ricordo, proposto dall'ex missino Roberto Menia. 

Da allora, ogni anno il 10 febbraio (data in cui nel 1947 fu firmata la cessione di Istria, Fiume, isole del Quarnaro e Zara alla Jugoslavia) una manciata di nostalgici comunisti e fascisti rinfocola le polemiche. Ovviamente aumentate con il centrodestra al governo.

A placare gli animi dovrebbe essere la dicitura 'temporanea' apposta alla mostra. Ma non v'è chi non veda che l'ambizione è quella di farla durare almeno fino all'80esimo anniversario della strage sulla spiaggia Vergarolla (Pola), nell'agosto 1946, che spinse migliaia di famiglie terrorizzate a fuggire in Italia. Per poi magari prolungarla fino al 10 febbraio 2027, anniversario a cifra tonda del trattato di Parigi. E giunti a quel punto, perché smontarla? Trasformata in permanente, ecco pronto il museo auspicato da Sangiuliano.

Così, nel cuore di Roma, verrà ricordato un crimine del comunismo. E quelli del fascismo? Basterà a chi vuole coltivare anche la memoria dei partigiani il museo della Liberazione in via Tasso, dove le SS di Herbert Kappler ed Erich Priebke incarcerarono i futuri presidenti Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, e torturarono centinaia di antifascisti come il ministro Giuliano Vassalli?

A Milano, zona porta Volta, è in costruzione il museo della Resistenza. Doveva costare 25 milioni, ora ce ne vogliono altri sei e il sindaco Beppe Sala è andato a chiederli al ministro Giuli. Potrebbe essere questo il prezzo da pagare per pareggiare i conti col museo romano dell'Esodo. 

Intanto, però, c'è chi storce il naso perfino sulla data di inaugurazione della mostra al Vittoriano. Il 5 ottobre 1943 infatti venne infoibata dai partigiani jugoslavi Norma Cossetto, studentessa istriana 23enne con l'unica colpa di avere un padre fascista. 

È diventata il simbolo dei 15mila italiani uccisi o desaparecidos in quegli anni tremendi. Nonostante il presidente Carlo Azeglio Ciampi l'abbia insignita della medaglia d'oro alla memoria, capita ancora che qualche sciagurato insozzi le targhe delle vie a lei dedicate in tutta Italia.

Tuesday, July 15, 2025

Garibaldi fu ferito

Forward #29, 27 marzo 2023

Certo, l’eroe dei due mondi non deve aver preso bene la decisione assunta da Cavour di regalare Nizza alla Francia per convincerla a combattere la seconda guerra di indipendenza a fianco dei piemontesi. I Bianchi diventano Le Blanc e i De Ponti sono Du Pont dall’oggi al domani. 

Quelli che non cambiano mai nome, pur vivendo costantemente in luoghi di frontiera, sono i mercenari: loro e i monaci, spiega Mauro Suttora in “Confini”, sono “gli unici global medievali senza confini”. 

Annibale coi suoi elefanti sembra abbia passato le Alpi al colle delle Traversette del Monginevro, come D’Artagnan nel 1664. I confini infatti sono legati ai monti. Ma non sempre: ogni regola esiste per essere disattesa, cosicché la piccola val Cramariola contesa tra Italia e Svizzera fu assegnata alla prima da un imparziale giudice statunitense nel 1864, l’ambasciatore di Abraham Lincoln George Marsh: riconoscendo nella storia i diritti italiani, il territorio passò di mano senza alcun indennizzo né economico né geografico.

Anche i fiumi sono confini naturali, ma non sempre. Tra Italia e Svizzera il Gaggiolo diventa Clivio, poi Lanza e sfocia nell’Olona. E il Tresa è maschile in Italia e femminile in Svizzera. 

A Gorizia, ma anche tra Turchia e Siria, la frontiera la fa una ferrovia. Tra Italia e Slovenia è stato per decenni il confine più temperato della guerra fredda: oggi sul Collio sloveno verso l’Italia c’è un parco della Pace. Anche per non scordare i cinquantamila soldati italiani e trentacinquemila austriaci morti nell’agosto del 1916 per conquistare la città o per difenderla. Da parte italiana erano i sardi della Brigata Sassari, ragazzi circondati da un mare che non è mai un confine. 

Questo e molto altro è nel libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora, edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2021

Thursday, July 10, 2025

Srebrenica e Gaza

Evoluzione e tradimento del termine "genocidio"

di Mauro Suttora

Per qualificare la mattanza di trent’anni fa, si estese il concetto di genocidio coniato sull’eliminazione degli armeni e applicato a Norimberga. L’ulteriore slittamento per la strage dei palestinesi però non regge (l’autogol del diritto umanitario)

Huffington Post

10 luglio 2025

Fino all’11 luglio 1995 (strage di Srebrenica) per fare un genocidio ci volevano milioni di morti. O almeno qualche centinaio di migliaia. Quindi, in ordine cronologico: armeni, ucraini (Holomodor anni 30), ebrei, cambogiani, etiopi, ruandesi tutsi. Andando indietro, indiani degli Usa, maya, aztechi e incas: genocidi di successo, civiltà quasi sparite.

Tutti sappiamo che l'etimo di genocidio è “uccisione di una razza”. E che la parola fu coniata nel 1944 da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin, per dire l’indicibile e applicarlo al processo di Norimberga.

Dopo Srebrenica, tuttavia, i giuristi in àmbito Onu hanno allargato il significato del neologismo. Per dirla in penalistese, hanno valorizzato l’elemento soggettivo del reato. Quindi ora non c’è più bisogno che un genocidio intacchi significativamente la consistenza numerica di un popolo, di una razza, di una religione: è sufficiente la “volontà” genocidiaria. 

Il generale Ratko Mladic e i presidenti Slobodan Milosevic (Serbia) e Radovan Karadzic (serbi di Bosnia) ammazzarono a sangue freddo 8mila prigionieri bosgnacchi (bosniaci musulmani). Ma se avessero potuto ne avrebbero uccisi molti di più, visto che il loro intento dichiarato era la pulizia etnica.

Esiste però un numero minimo per “integrare la fattispecie del reato” di genocidio? Perché poco prima di Srebrenica si verificarono altri massacri come quello di Tuzla, con decine di vittime. Ma, anche se tutte “concorrevano al medesimo disegno criminoso” (l’eliminazione dei bosniaci croati e islamici), il tribunale internazionale per la ex Jugoslavia non comminò l’ergastolo ai comandanti serbi responsabili.

Vale anche il ragionamento inverso: i numeri dei morti possono essere più alti (12mila le vittime dell’assedio serbo a Sarajevo), ma poiché furono centellinati in quattro anni (1992-96) non sono diventati il “nuovo genocidio” che invece debuttò a Srebrenica.

E oggi? È plausibile accusare Israele di genocidio per Gaza? A parte qualche frase dei gentiluomini Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir (12% alle elezioni del 2022 per la loro estrema destra) nessuno in Israele dichiara una volontà genocidiaria verso i palestinesi. 

Non lo dicono però lo fanno egualmente? I 56mila morti denunciati da Hamas in due anni sono meno dei 65mila civili italiani bombardati dagli alleati nel biennio 1943-45: vittime di guerre tremende, non di uno sterminio preordinato. E infatti non ci sono state accuse di genocidio per le mattanze di Aleppo e Mosul lo scorso decennio. Né risultano esecuzioni a freddo di prigionieri palestinesi da parte israeliana, come accadde a Srebrenica.

Il paradosso è che lo slittamento semantico del genocidio iniziato trent’anni fa in Bosnia fu il risultato dell’applicazione del diritto umanitario. Ovvero della volontà, da parte di benemeriti difensori dei diritti umani come Bernard Kouchner o Emma Bonino, di sancire un “diritto-dovere d’intervento” negli affari interni di un Paese da parte della comunità internazionale, nei casi estremi di patente violazione del diritto alla vita. Di qui l’istituzione del Tribunale penale internazionale.

Mai avrebbero pensato, l’allora ministro francese e la commissaria Ue, che la loro interpretazione estensiva del genocidio avrebbe un giorno armato la propaganda proPal di attiviste come Rula Jebreal o Francesca Albanese.

Tuesday, July 01, 2025

Intervista sulla Storia dei verdi

INTERVISTA A MAURO SUTTORA SUL SUO LIBRO 'GREEN, STORIA DEGLI ECOLOGISTI' (ed. Neri Pozza, giugno 2025)

L'autore ripercorre l'evoluzione della coscienza ambientalista in Italia e all'estero, soffermandosi sui suoi risvolti politici e sociali

Quattro chiacchiere con Mauro Suttora

Nel suo libro ripercorre la storia dell’ambientalismo dagli anni Sessanta a oggi: qual è stata la scintilla che ha davvero cambiato la mentalità delle persone nei confronti dell’ambiente, a livello culturale, valoriale e politico?

"In Italia le scintille sono state tante. Nel 1955 viene fondata Italia nostra e capiamo che bisogna conservare i centri storici, invece di sventrarli per costruire palazzi nuovi. Ma purtroppo la speculazione edilizia continua negli anni '60 e '70.

Nel 1966, dopo il successo di Celentano col Ragazzo della via Gluck, un giovane Fulco Pratesi apre a Roma la sezione italiana del Wwf. Le due vicende non sono correlate, ma danno l'idea dello spirito del tempo: conservazione dello spazio urbano e protezione degli uccelli migratori, con l'inaugurazione della prima oasi Wwf all'Argentario.

Nel 1970 i giovani pretori d'assalto Adriano Sansa (poi sindaco di Genova) e Gianfranco Amendola (poi eurodeputato verde) emettono i primi divieti di balneazione per le acque inquinate, dando il via all'installazione dei depuratori.

Nel 1972 il Club di Roma di Aurelio Peccei pubblica il rapporto del Mit sui Limiti dello sviluppo: in un pianeta finito le risorse non sono illimitate, quindi occorre fermare e ridurre la crescita della popolazione e dei nostri consumi.

Nel 1976 la fuga di diossina da una fabbrica di Seveso (Monza) ci apre gli occhi sull'inquinamento industriale. Subito dopo il partito radicale inizia la campagna contro le centrali nucleari, culminata nel referendum del 1987 che le vieta, e in quello del 2011, dopo il disastro di Fukushima, che ribadisce lo stop. Nel frattempo nascono le liste verdi, che nel 1989 ottengono il 6% alle europee".

Quanto sono intrecciate la crisi climatica e la crisi sociale, e quanto è importante sottolineare l’impatto della crisi climatica nella nostra vita quotidiana? E in merito a questo, a che punto siamo in Italia, secondo lei, nel processo di costruzione di una coscienza ecologica nelle persone?

"Fino agli anni '80 la sinistra chiudeva un occhio davanti all'inquinamento, temendo che regole troppo strette danneggiassero la produzione e quindi provocassero licenziamenti dei lavoratori. Gli ecologisti erano accusati di essere ricchi borghesi che avevano il tempo di occuparsi di parchi, giardini e animali, perché non dovevano preoccuparsi di portare a casa lo stipendio a fine mese. 

È la stessa polemica di oggi contro il Green deal, ma a parti invertite: ora è la destra ad accusare la sinistra di imporre limiti troppo severi alle emissioni, causando quindi licenziamenti nell'industria automobilistica.

Quanto alla coscienza ecologica nelle persone, mi pare ben sviluppata anche in Italia. Ormai la maggior parte della nostra elettricità proviene da fonti rinnovabili, buona parte del territorio è tutelata con parchi, e proprio un mese fa è stata approvata una nuova legge per la protezione degli animali.

Tuttavia, come diceva il nostro massimo filosofo dell'ecologia Alex Langer, scomparso 30 anni fa (luglio 1995), e al quale dedico un capitolo del libro, l'ambientalismo non può basarsi solo sui divieti: per diventare desiderabile deve scaturire dalla libera volontà di ciascuno di noi, che spontaneamente decidiamo di consumare di meno per ridurre l'impronta ecologica e aumentare la sostenibilità del nostro impatto ambientale. Altrimenti lo stato e l'Europa verranno visti come nemici cui è lecito disobbedire".

Negli ultimi anni hanno fatto molto discutere gli atti di disobbedienza civile e di attacco a luoghi artistici (dalla polvere di carbone nella fontana di Trevi alla vernice su monumenti ed edifici di rilievo, che lei stessa richiama nel libro) per richiamare l’attenzione sul problema del cambiamento climatico. Che significato hanno per lei queste azioni, e che conseguenze possono avere nel dibattito politico e sociale?

"Ormai è un capitolo chiuso, oltre a essere l'ultimo capitolo del libro. I movimenti ispirati da Greta Thunberg (Extinction rebellion, Ultima generazione, Fridays for future) hanno capito che queste azioni erano controproducenti. Soprattutto quelle che bloccavano il traffico nelle ore di punta impedendo alla gente di andare a lavorare. Quindi le hanno abbandonate. Sempre nell'àmbito della nonviolenza, però, continuano a praticare azioni dirette per obiettivi specifici. Per esempio Greenpeace contro l'Eni, accusata di eccessiva lentezza nella transizione dalle energie fossili a quelle pulite, o contro le fabbriche d'armi o i ristoranti di lusso.

Quanto a Greta, ha inspiegabilmente abbandonato la campagna per il clima da lei iniziata nel 2018. È diventata una pro-palestinese sfegatata, come racconto nel libro. Va bene che il riciclaggio è una buona pratica ecologica, ma nel suo caso mi sembra un po' sconcertante".