Università di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA
L’ITALIA DEL SECONDO DOPOGUERRA ATTRAVERSO I CINEGIORNALI DELLA SETTIMANA INCOM (1946-1948)
Presentata da: Giulia Mazzarelli
Relatore: Prof. Claudio Natoli
Anno Accademico 2009-2010
Il primo numero della Settimana Incom, datato 15 febbraio 1946, propone sei brevi filmati:
- “Cronache vaticane. Giornata eccezionale a S. Pietro”, in cui Pio XII riceve i bambini assistiti dall’Unrra;
- “A colloquio con l’ammiraglio Stone”, in cui il direttore della Settimana Incom pone all’ammiraglio alcune domande sull’andamento delle prime fasi del dopoguerra e
sulla ricostruzione;
- “La firma del trattato tra il governo italiano e l’UNRRA”, con l’impegno del delegato UNNRA per l’assistenza e gli aiuti agli italiani;
- “Piccola posta. Vi parla Vivi Gioia”, breve spazio dedicato alle lettere degli spettatori su temi di attualità;
- “Serie documenti. Riprese inedite sulle sorelle Petacci (prima puntata)”, che mostra alcuni componenti della famiglia Petacci nella villa della Camilluccia;
- “Avvisi utili. Attenti alla vostra bicicletta!” con le immagini della simulazione di un furto di biciclette.
E’ significativo che la prima uscita del nuovo cinegiornale, accanto alle notizie dal Vaticano e a quelle sui rapporti italo-americani, presenti una breve pagina sulla famiglia dell’amante del Duce.
Il filmato mostra in apertura la nuova destinazione della Camilluccia divenuta, dopo la guerra, ricovero per bambini abbandonati assistiti dall’Opera maternità e infanzia, ma che era stata, in precedenza, l’abitazione della famiglia Petacci. Alle immagini sui piccoli orfani succedono le riprese realizzate nel 1942 in occasione dei preparativi per le nozze di Miriam, sorella di Claretta.
“E’ un mattino del 1942” – informa il commentatore Incom – “Dal giardino si avanza Miriam, sorella di Claretta, che LUI volle lanciare nel cinema con il nome di Miria di San Servolo. Mimì questa mattina è allegra, perché è in pieno idillio con l’allora suo fidanzato. Com’è bella la vita! LUI ha già promesso il regalo di nozze. Ed ecco seduta Claretta. Mai nessuno la cinematografò prima d’ora. LUI non permetteva. E laggiù Roma è ai piedi della famiglia Petacci. Tutto merito del papà, il dott. Francesco Saverio, che sta godendo il giusto riposo alle sue fatiche. Ma c’è una novità questa mattina: LUI ha inviato uno dei tanti regalucci, il divano a dondolo. Bisogna provarlo! Così trascorrevano serene e incoscienti le ore alla Camilluccia!”
Alcuni elementi di questo filmato sono degni di nota. In primo luogo il fatto che il nuovo cinegiornale mostri proprio nel primo numero ciò che i cinegiornali Luce non mostravano: i personaggi che componevano la vita privata del Duce. In secondo luogo il fatto che il commentatore Incom non pronunci mai il nome di Mussolini ma utilizzi, con tono allusivo, il pronome personale “lui”. In terzo luogo è da rilevare l’ironia che accompagna il commento verbale, sia nel descrivere la spensieratezza della vita in casa Petacci in pieno conflitto mondiale, sia nell’attribuire al dott. Francesco Saverio, padre di Miriam e Clara, il merito della prosperità della famiglia.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la scelta di inserire tra i vari servizi informativi un filmato sulle sorelle Petacci non è casuale: alla prima uscita del nuovo cinegiornale la Incom mostra di voler marcare la distanza con l’informazione del Ventennio, svelando finalmente il non detto e il non visto del fascismo.
Una dichiarazione d’intenti che resterà senza seguito, poiché una volta esauriti i tre filmati sulle nozze di Miriam, la Incom tenderà ad evitare qualunque approfondimento sui protagonisti del regime. La stessa reticenza nel nominare il Duce, se da una parte si spiega con la volontà di spogliare persino del nome colui che costruì - anche cinematograficamente - il mito di se stesso e impose al popolo i propri appellativi, dall’altra rivela una certa difficoltà e un certo imbarazzo nel riportare alla memoria collettiva eventi dolorosi e ancora troppo recenti della storia nazionale.
“Mussolini” è diventato, per più di una ragione, un nome impronunciabile e l’unico modo accettabile per parlare di lui è attraverso allusioni, giri di parole e con una buona dose di sarcasmo. L’ironia del commentatore sui Petacci rivela, infatti, quanto fosse condivisa nell’immediato dopoguerra l’ostilità verso una famiglia così compromessa con la dittatura e così beneficata nella rovina generale.
Il linguaggio allusivo e ironico caratterizza anche le successive puntate sulle sorelle Petacci: nel numero 2 della Settimana Incom, tra le scene dei preparativi alle nozze, le immagini mostrano la scatola da gioco di Claretta e il taccuino dei punti con le iniziali dei due giocatori: “Accanto alla nota M. c’è la E. di Etta, diminutivo di Claretta”.
Dopo una metaforica allusione all’anticomunismo mussoliniano (“tra i pezzi degli scacchi il re rosso in un momento d’ira è stato decapitato”) la voce fuori campo fa un cenno alle relazioni clientelari che, grazie alla prossimità con Mussolini, interessavano la famiglia di Claretta: “Ecco, qualche giorno prima delle nozze, Mimì nella sua camera da letto, tra i doni piovuti da ogni parte d’Italia. Amici e protetti hanno gareggiato nel tentativo di superarsi.”
Il filmato si chiude con le riprese del lungo e splendido abito da sposa. Nell’indugiare su queste immagini il cinegiornale rivela, seppur abbozzato, quel gusto per le vite da favola e per il lusso ostentato che caratterizzeranno di lì a poco i servizi sui personaggi famosi del mondo del cinema, della politica e delle case regnanti. La Incom rivela dunque già dai primi numeri - e persino in relazione ad argomenti che riportano alla memoria recenti eventi drammatici - una malcelata tendenza ad accattivarsi l’interesse del pubblico e alla banalizzazione.
A questo proposito è significativo che si parli del fascismo per mezzo dei lustrini delle sorelle Petacci: attraverso la «spettacolarizzazione del privato» si stuzzicava la curiosità degli italiani su aspetti rimasti sempre in ombra, si mostrava il lato quotidiano e quindi umano dei protagonisti del regime, col risultato di produrre, più o meno intenzionalmente, una sospensione del giudizio sul ruolo politico e storico di quelle figure.
La terza e ultima puntata sul matrimonio di Miriam fu inserita nel numero 6 della Settimana Incom del 20 marzo, a quasi un mese di distanza dalla precedente. La ragione di questa attesa è esplicitata dallo stesso commentatore: “Oh, chi cerca il pelo nell’uovo in queste nozze dirà che manca lo sposo: beh, abbiamo dovuto farlo scomparire per evitare un nuovo sequestro che avrebbe ritardato di qualche altra settimana quest’ultima puntata”.
Queste parole lasciano intendere che il marito di Miriam, in seguito alla proiezione della seconda puntata, in cui appare per qualche istante accanto alla fidanzata e al futuro suocero, abbia provveduto a mezzo legale a far tagliare dalle scene del matrimonio le immagini nelle quali fosse visibile e riconoscibile.
E’, questo, un altro segnale del clima teso che caratterizzava la ripresa della vita democratica e l’inevitabile resa dei conti con i protagonisti del fascismo. Emblematico, a questo proposito, il monito con il quale la voce fuori campo accompagna la conclusione del matrimonio e che chiude “il romanzo petacciano” a puntate: “Le automobili s’avviano. Autisti, attenzione! Troverete una curva pericolosa: si chiama 25 luglio!”
Luigi Freddi, a proposito dell’attività artistica di Miriam, dichiarò:
«Miria di San Servolo, la nuova diva, non era che il prodotto di un ambiente piccolo-borghese, piena di vezzi incorreggibili, di una vivacità artificiosa e di una insipida gaiezza, priva di quella congenita classe che può fare anche d’una ciociara una grande interprete».
Nel corso di una conversazione tra Freddi e Claretta, a proposito delle critiche mosse all’interpretazione della sorella in L’amico delle donne, l’amante del Duce disse: «Eppure quella bambina è la nostra sola gioia. […] S’è innamorata di questo mestiere. Come facciamo ora a distoglierla? È la sola che riesca a far sorridere anche lui. Ma perché il mondo deve essere così cattivo? Non c’è un figlio di Roosevelt che si occupa di cinematografo? Sarah Churchill non lavora in una rivista di Cochrane? […] E chi c’è in Francia dietro Marie Bell, o in Germania dietro Lida Baarova? E il mondo, per questo, non siscandalizza…!»
Luigi Freddi in, F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 18.
Friday, October 28, 2011
Wednesday, October 26, 2011
parla Giovanni Castellaneta
L'EX AMBASCIATORE IN USA, IRAN E AUSTRALIA FA IL PUNTO SULLA PRIMAVERA ARABA E SUGLI ALTRI PROBLEMI INTERNAZIONALI PIU' RILEVANTI
di Mauro Suttora
Oggi, 19 ottobre 2011
Domenica 23 ottobre la Tunisia vota. Il Paese che ha iniziato la «primavera araba» sceglie i suoi nuovi capi. Chiediamo a Giovanni Castellaneta, già ambasciatore in Iran, Australia, Stati Uniti e oggi presidente della Sace (Servizi assicurativi commercio estero), di commentare questo avvenimento e gli altri fatti internazionali più rilevanti.
«La Tunisia è il Paese arabo a noi più vicino, geograficamente quasi un prolungamento dell'Italia. Sono ottimista, speriamo che dall'ottantina di partiti che si presentano alle elezioni nasca un governo moderato per consolidare il benessere di una società già fra le più avanzate della regione».
E l’Egitto?
«È un caso totalmente diverso. Per questo è difficile parlare di “primavera araba”: ogni Paese fa storia a sé. L’Egitto ha ben 77 milioni di abitanti, una minoranza cristiana copta del 10 per cento, diversi movimenti islamici più o meno moderati e un potentissimo esercito che ha espresso tutti i presidenti degli ultimi 60 anni: Nasser, Sadat, Mubarak. Il suo modello può essere la Turchia, dove l’Islam moderato garantisce un boom economico e rispetta le minoranze».
A proposito di Turchia: facciamo bene a tenerla fuori dall’Europa?
«No, è un grave errore. L’Italia è favorevole al suo ingresso, Germania e Francia resistono. Ma è un segnale negativo verso tutto il mondo islamico. Ormai Istanbul è come San Paolo o Shangai, a forza di snobbarla sarà lei a non volere più entrare. Certo, dipende da che tipo d’Europa vogliamo, ma se ci preoccupano gli immigrati o la concorrenza dell’industria tessile turca, sappiamo anche che non ci proteggeremo erigendo barriere doganali».
La Libia.
«Dobbiamo evitare che si disgreghi in conflitti tribali. Abbiamo una lunga tradizione di amicizia con Tripoli, chiunque sia al governo. Perciò smettiamola di temere una competizione francese o inglese: nessuno può togliere all’Italia il posto che le spetta».
In Siria invece Assad resiste.
«E siamo tutti preoccupati: sta crollando un regime che bene o male aveva assicurato stabilità, senza che si profili un’alternativa credibile. La Siria è la polveriera del mondo».
Insomma, altro che «primavera araba».
«Affinché quella primavera diventi estate e non inverno, l’Italia ha una grande opportunità. Abbiamo ritrovato una centralità, non tanto come “portaerei”, quanto come ponte e mano protesa verso il Mediterraneo Dobbiamo sfruttarla, perché siamo benvoluti, apprezzati e amati da tutti».
E quindi?
«Non dimentichiamo che dietro il Nordafrica c’è la spinta positiva di un intero continente. L’Africa non è più solo percettrice di aiuti. Diversi suoi Paesi – Ghana, Ruanda, Angola - hanno tassi di sviluppo tali che possiamo cominciare a immaginarli come i nuovi Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica), cioè come mercati emergenti».
La Cina, appunto. Da 30 anni si spera che lo sviluppo economico porti democrazia, invece resta una dittatura.
«Un modello accettato dall’Occidente: libertà economica, ma non politica e sindacale. Con una ricerca del merito individuale, però, che noi italiani rischiamo di dover invidiare… Non sono più una società statalizzata».
Ma la mancanza di sindacati e di leggi di tutela ecologica non permettono alla Cina di praticare una concorrenza sleale contro di noi?
«Il loro vantaggio dei prezzi bassi si va erodendo. La Cina ha problemi demografici, di surriscaldamento dell'economia, di inflazione e valuta che potrebbero diventare costosi e dolorosi per loro».
Ormai facciamo fare tutto lì.
«La Cina ha già raggiunto il livello del Giappone degli anni Ottanta. Ci copia, ma poi si trasforma in concorrente. Anche in settori di punta come l’aeronautica o le telecomunicazioni è diventata un partner competitivo, ormai ci confrontiamo quasi alla pari. Non si tratta più di produrre bambolette a cinque euro invece che a venti. E se loro fanno prodotti buoni, noi dobbiamo farli ottimi. Il problema è che il nostro è un tessuto di imprese medie e piccole, che da sole non riescono ad affrontare mercati così vasti».
Quando riusciremo ad andarcene dall’Afghanistan?
«Il calendario del ritiro è già fissato, anche gli Stati Uniti lo hanno annunciato. Al massimo è questione di un mese in più o in meno. Ma spero che rimarremo con una presenza economica».
Che senso ha mantenere costose spedizioni militari in Kosovo da dodici anni, o in Libano dove non si sa bene a che servano?
«Le missioni si possono ridurre e calibrare meglio, ma calcoliamo anche che ciò che spendiamo non rimane tutto all’estero: c’è un ritorno, non solo sotto forma di stipendi dei nostri soldati. E poi l’Italia è una media potenza: senza bilanci militari più alti di altri Paesi, in trent’anni, dalla prima missione di pace in Libano, abbiamo costruito un patrimonio di grandissime eccellenze, con professionisti del mantenimento della pace che ci vengono invidiati in tutto il mondo».
Nell’Unione europea ormai comandano Francia e Germania?
«Il concetto di “direttorio” è inaccettabile. Ma spesso loro fanno vertici a due perché in realtà hanno più problemi di noi. Le loro banche, per esempio, sono le più esposte con la Grecia».
Non si potrebbe far fallire la Grecia, e buonanotte? Così svaluta e si riprende, come l’Italia nel ’92 o l’Argentina dieci anni fa.
«Recuperare competitività svalutando non è più automatico come una volta. E poi escludere Atene dall’Euro sarebbe, in termini di ricchezza, come se l’America perdesse il Connecticut. No, meglio restare uniti e solidali, trovando soluzioni economiche e soprattutto politiche tutti insieme».
Con gli Stati Uniti abbiamo rapporti sempre ottimi.
«Certo. Ma dobbiamo renderci conto che d’ora in poi molte cose dovremmo farle da soli. Lo abbiamo visto in Libia. L’America è più concentrata su se stessa, e sul Pacifico».
La Russia, infine: Putin in eterno?
«Diamole tempo, 60 anni di soviet non si superano in un attimo. Comunque c’è stabilità, e le nostre società lavorano bene con Mosca. Abbiamo relazioni commerciali eccellenti».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 19 ottobre 2011
Domenica 23 ottobre la Tunisia vota. Il Paese che ha iniziato la «primavera araba» sceglie i suoi nuovi capi. Chiediamo a Giovanni Castellaneta, già ambasciatore in Iran, Australia, Stati Uniti e oggi presidente della Sace (Servizi assicurativi commercio estero), di commentare questo avvenimento e gli altri fatti internazionali più rilevanti.
«La Tunisia è il Paese arabo a noi più vicino, geograficamente quasi un prolungamento dell'Italia. Sono ottimista, speriamo che dall'ottantina di partiti che si presentano alle elezioni nasca un governo moderato per consolidare il benessere di una società già fra le più avanzate della regione».
E l’Egitto?
«È un caso totalmente diverso. Per questo è difficile parlare di “primavera araba”: ogni Paese fa storia a sé. L’Egitto ha ben 77 milioni di abitanti, una minoranza cristiana copta del 10 per cento, diversi movimenti islamici più o meno moderati e un potentissimo esercito che ha espresso tutti i presidenti degli ultimi 60 anni: Nasser, Sadat, Mubarak. Il suo modello può essere la Turchia, dove l’Islam moderato garantisce un boom economico e rispetta le minoranze».
A proposito di Turchia: facciamo bene a tenerla fuori dall’Europa?
«No, è un grave errore. L’Italia è favorevole al suo ingresso, Germania e Francia resistono. Ma è un segnale negativo verso tutto il mondo islamico. Ormai Istanbul è come San Paolo o Shangai, a forza di snobbarla sarà lei a non volere più entrare. Certo, dipende da che tipo d’Europa vogliamo, ma se ci preoccupano gli immigrati o la concorrenza dell’industria tessile turca, sappiamo anche che non ci proteggeremo erigendo barriere doganali».
La Libia.
«Dobbiamo evitare che si disgreghi in conflitti tribali. Abbiamo una lunga tradizione di amicizia con Tripoli, chiunque sia al governo. Perciò smettiamola di temere una competizione francese o inglese: nessuno può togliere all’Italia il posto che le spetta».
In Siria invece Assad resiste.
«E siamo tutti preoccupati: sta crollando un regime che bene o male aveva assicurato stabilità, senza che si profili un’alternativa credibile. La Siria è la polveriera del mondo».
Insomma, altro che «primavera araba».
«Affinché quella primavera diventi estate e non inverno, l’Italia ha una grande opportunità. Abbiamo ritrovato una centralità, non tanto come “portaerei”, quanto come ponte e mano protesa verso il Mediterraneo Dobbiamo sfruttarla, perché siamo benvoluti, apprezzati e amati da tutti».
E quindi?
«Non dimentichiamo che dietro il Nordafrica c’è la spinta positiva di un intero continente. L’Africa non è più solo percettrice di aiuti. Diversi suoi Paesi – Ghana, Ruanda, Angola - hanno tassi di sviluppo tali che possiamo cominciare a immaginarli come i nuovi Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica), cioè come mercati emergenti».
La Cina, appunto. Da 30 anni si spera che lo sviluppo economico porti democrazia, invece resta una dittatura.
«Un modello accettato dall’Occidente: libertà economica, ma non politica e sindacale. Con una ricerca del merito individuale, però, che noi italiani rischiamo di dover invidiare… Non sono più una società statalizzata».
Ma la mancanza di sindacati e di leggi di tutela ecologica non permettono alla Cina di praticare una concorrenza sleale contro di noi?
«Il loro vantaggio dei prezzi bassi si va erodendo. La Cina ha problemi demografici, di surriscaldamento dell'economia, di inflazione e valuta che potrebbero diventare costosi e dolorosi per loro».
Ormai facciamo fare tutto lì.
«La Cina ha già raggiunto il livello del Giappone degli anni Ottanta. Ci copia, ma poi si trasforma in concorrente. Anche in settori di punta come l’aeronautica o le telecomunicazioni è diventata un partner competitivo, ormai ci confrontiamo quasi alla pari. Non si tratta più di produrre bambolette a cinque euro invece che a venti. E se loro fanno prodotti buoni, noi dobbiamo farli ottimi. Il problema è che il nostro è un tessuto di imprese medie e piccole, che da sole non riescono ad affrontare mercati così vasti».
Quando riusciremo ad andarcene dall’Afghanistan?
«Il calendario del ritiro è già fissato, anche gli Stati Uniti lo hanno annunciato. Al massimo è questione di un mese in più o in meno. Ma spero che rimarremo con una presenza economica».
Che senso ha mantenere costose spedizioni militari in Kosovo da dodici anni, o in Libano dove non si sa bene a che servano?
«Le missioni si possono ridurre e calibrare meglio, ma calcoliamo anche che ciò che spendiamo non rimane tutto all’estero: c’è un ritorno, non solo sotto forma di stipendi dei nostri soldati. E poi l’Italia è una media potenza: senza bilanci militari più alti di altri Paesi, in trent’anni, dalla prima missione di pace in Libano, abbiamo costruito un patrimonio di grandissime eccellenze, con professionisti del mantenimento della pace che ci vengono invidiati in tutto il mondo».
Nell’Unione europea ormai comandano Francia e Germania?
«Il concetto di “direttorio” è inaccettabile. Ma spesso loro fanno vertici a due perché in realtà hanno più problemi di noi. Le loro banche, per esempio, sono le più esposte con la Grecia».
Non si potrebbe far fallire la Grecia, e buonanotte? Così svaluta e si riprende, come l’Italia nel ’92 o l’Argentina dieci anni fa.
«Recuperare competitività svalutando non è più automatico come una volta. E poi escludere Atene dall’Euro sarebbe, in termini di ricchezza, come se l’America perdesse il Connecticut. No, meglio restare uniti e solidali, trovando soluzioni economiche e soprattutto politiche tutti insieme».
Con gli Stati Uniti abbiamo rapporti sempre ottimi.
«Certo. Ma dobbiamo renderci conto che d’ora in poi molte cose dovremmo farle da soli. Lo abbiamo visto in Libia. L’America è più concentrata su se stessa, e sul Pacifico».
La Russia, infine: Putin in eterno?
«Diamole tempo, 60 anni di soviet non si superano in un attimo. Comunque c’è stabilità, e le nostre società lavorano bene con Mosca. Abbiamo relazioni commerciali eccellenti».
Mauro Suttora
Chi sono i black bloc
ORGANIZZAZIONE PARAMILITARE
I GIOVANI TEPPISTI AGISCONO IN GRUPPI DA 15, E SONO RAPIDISSIMI: CHI PROCURA LE ARMI, CHI TIRA PIETRE, CHI LANCIA LE BOMBE CARTA. A ROMA ERANO 800, DIVISI IN DUE «FALANGI». VANNO IN GRECIA A SCUOLA DI GUERRA E IN VAL SUSA PER ALLENARSI
di Mauro Suttora
Oggi, 26 ottobre 2011
Sono 800, e si considerano soldati in «guerra»: «Non l' abbiamo dichiarata noi. È il capitalismo che ammazza gli operai sfruttati dalla globalizzazione, da Barletta al Terzo mondo». Molti sono giovanissimi: sette dei 21 arrestati e fermati dopo i disordini non hanno 18 anni. Ne avevano solo sette ai tempi del G8 di Genova. Ma questa volta non ci sono la morte del «martire» Carlo Giuliani e le violenze dei poliziotti alla scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto a distrarre l'attenzione dai loro misfatti.
Molte donne. Come Federica, 31 anni, che sulla 600 trasportava col compagno e due amiche un piccolo arsenale nascosto in cinque zaini: dieci maschere antigas, 500 biglie e una fionda professionale per tirarle, quattro «mefisti» (enormi petardi), quattro parastinchi, un piede di porco e quattro bottiglie con liquido. Bloccata dai Carabinieri a Pomezia.
Molti laureati o studenti universitari. Come Valerio, 21 anni, di Lecce, terzo anno di Legge a Bologna, preso col casco in testa. Già denunciato due volte, per lancio di fumogeni a un corteo e tifo violento. Frequenta il centro sociale leccese Caos (Collettivo autonomo organizzato studentesco). Ed è negli ambienti dei centri sociali più duri che lunedì all' alba si è scatenata la caccia ai black bloc in molte città d' Italia. Perquisite dozzine di case di reduci da Roma. Quelli del centro Askatasuna (Torino), Bottiglieria (Milano, sgomberato un anno fa), Gramigna (Padova), Vittorio Arrigoni (Palermo), Fuori luogo, Cua e Crash (Bologna), Guernica (Modena). Risultati scarsi: nessun arrestato, solo qualche denuncia per armi improprie. Ma sarà dura ottenere condanne, visto che avere passamontagna, abiti scuri, ginocchiere (la divisa dei guerriglieri) o anche martelli non è reato.
Più promettente la «pista video»: in questi giorni c'è uno scambio frenetico di filmati girati a Roma fra le questure di tutta Italia. Nonostante le mascherature, qualche viso è riconoscibile. Ma ci vorrà tempo. E indagini accuratissime. Perché una cosa è certa: i black bloc sono furbi e organizzatissimi. Altro che «rivolta spontanea». I loro attacchi a Roma hanno obbedito a una regia definita nei minimi dettagli. Negli ultimi mesi sono andati a lezione di guerriglia urbana in Grecia. In piccoli gruppi e attenti a non lasciar tracce, hanno preso anonimi «passaggi ponte» e non biglietti nominativi sui traghetti da Brindisi. Hanno fatto le prove generali in Val Susa, agli attacchi contro la Tav.
A Roma si sono divisi in due falangi. I primi 500 si sono armati a inizio corteo e hanno cominciato a devastare via Cavour. Gli altri 300 li proteggevano alle spalle per non farli isolare dal corteo. Non erano vestiti di nero, anche per non far scoprire alla polizia i loro veri numeri. Poi, dopo la svolta in via Labicana, anche la seconda falange si è messa al «lavoro», bruciando auto, sfasciando vetrine e attaccando i blindati dei Carabinieri. I quali avevano l'ordine preciso di non attaccare per non rischiare di nuovo il morto, come nel 2001.
Ma la vera arma segreta dei terroristi urbani è l'elasticità. Sono divisi in plotoncini da 15, e all'interno di ogni plotone ci sono tre specializzazioni. In cinque recuperano in strada sassi (sampietrini), bastoni, spranghe fioriere. Oppure li pigliano da borse e sacchetti nascosti lungo il percorso in androni e cassonetti poche ore prima. Non li portano addosso, per non rischiare la fine di Federica. Altri cinque sono i «tiratori». E gli ultimi cinque sono gli «artiglieri»: gli specialisti in petardi e bombe carta.
Tutti i gruppi sono rapidi e mobilissimi. Impossibile, per le forze dell' ordine, individuarli e bloccarli in tempo. Soprattutto con i blindati, troppo lenti. Sabato però, per la prima volta, i principali avversari dei teppisti non sono stati i poliziotti. Ma gli altri manifestanti, gli «indignati» pacifici, con cui sono venuti anche alle mani.
Mauro Suttora
I GIOVANI TEPPISTI AGISCONO IN GRUPPI DA 15, E SONO RAPIDISSIMI: CHI PROCURA LE ARMI, CHI TIRA PIETRE, CHI LANCIA LE BOMBE CARTA. A ROMA ERANO 800, DIVISI IN DUE «FALANGI». VANNO IN GRECIA A SCUOLA DI GUERRA E IN VAL SUSA PER ALLENARSI
di Mauro Suttora
Oggi, 26 ottobre 2011
Sono 800, e si considerano soldati in «guerra»: «Non l' abbiamo dichiarata noi. È il capitalismo che ammazza gli operai sfruttati dalla globalizzazione, da Barletta al Terzo mondo». Molti sono giovanissimi: sette dei 21 arrestati e fermati dopo i disordini non hanno 18 anni. Ne avevano solo sette ai tempi del G8 di Genova. Ma questa volta non ci sono la morte del «martire» Carlo Giuliani e le violenze dei poliziotti alla scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto a distrarre l'attenzione dai loro misfatti.
Molte donne. Come Federica, 31 anni, che sulla 600 trasportava col compagno e due amiche un piccolo arsenale nascosto in cinque zaini: dieci maschere antigas, 500 biglie e una fionda professionale per tirarle, quattro «mefisti» (enormi petardi), quattro parastinchi, un piede di porco e quattro bottiglie con liquido. Bloccata dai Carabinieri a Pomezia.
Molti laureati o studenti universitari. Come Valerio, 21 anni, di Lecce, terzo anno di Legge a Bologna, preso col casco in testa. Già denunciato due volte, per lancio di fumogeni a un corteo e tifo violento. Frequenta il centro sociale leccese Caos (Collettivo autonomo organizzato studentesco). Ed è negli ambienti dei centri sociali più duri che lunedì all' alba si è scatenata la caccia ai black bloc in molte città d' Italia. Perquisite dozzine di case di reduci da Roma. Quelli del centro Askatasuna (Torino), Bottiglieria (Milano, sgomberato un anno fa), Gramigna (Padova), Vittorio Arrigoni (Palermo), Fuori luogo, Cua e Crash (Bologna), Guernica (Modena). Risultati scarsi: nessun arrestato, solo qualche denuncia per armi improprie. Ma sarà dura ottenere condanne, visto che avere passamontagna, abiti scuri, ginocchiere (la divisa dei guerriglieri) o anche martelli non è reato.
Più promettente la «pista video»: in questi giorni c'è uno scambio frenetico di filmati girati a Roma fra le questure di tutta Italia. Nonostante le mascherature, qualche viso è riconoscibile. Ma ci vorrà tempo. E indagini accuratissime. Perché una cosa è certa: i black bloc sono furbi e organizzatissimi. Altro che «rivolta spontanea». I loro attacchi a Roma hanno obbedito a una regia definita nei minimi dettagli. Negli ultimi mesi sono andati a lezione di guerriglia urbana in Grecia. In piccoli gruppi e attenti a non lasciar tracce, hanno preso anonimi «passaggi ponte» e non biglietti nominativi sui traghetti da Brindisi. Hanno fatto le prove generali in Val Susa, agli attacchi contro la Tav.
A Roma si sono divisi in due falangi. I primi 500 si sono armati a inizio corteo e hanno cominciato a devastare via Cavour. Gli altri 300 li proteggevano alle spalle per non farli isolare dal corteo. Non erano vestiti di nero, anche per non far scoprire alla polizia i loro veri numeri. Poi, dopo la svolta in via Labicana, anche la seconda falange si è messa al «lavoro», bruciando auto, sfasciando vetrine e attaccando i blindati dei Carabinieri. I quali avevano l'ordine preciso di non attaccare per non rischiare di nuovo il morto, come nel 2001.
Ma la vera arma segreta dei terroristi urbani è l'elasticità. Sono divisi in plotoncini da 15, e all'interno di ogni plotone ci sono tre specializzazioni. In cinque recuperano in strada sassi (sampietrini), bastoni, spranghe fioriere. Oppure li pigliano da borse e sacchetti nascosti lungo il percorso in androni e cassonetti poche ore prima. Non li portano addosso, per non rischiare la fine di Federica. Altri cinque sono i «tiratori». E gli ultimi cinque sono gli «artiglieri»: gli specialisti in petardi e bombe carta.
Tutti i gruppi sono rapidi e mobilissimi. Impossibile, per le forze dell' ordine, individuarli e bloccarli in tempo. Soprattutto con i blindati, troppo lenti. Sabato però, per la prima volta, i principali avversari dei teppisti non sono stati i poliziotti. Ma gli altri manifestanti, gli «indignati» pacifici, con cui sono venuti anche alle mani.
Mauro Suttora
Wednesday, October 19, 2011
Incontrai Steve Jobs licenziato...
UN CORDIALISSIMO INVASATO: PARLANTINA SEDUCENTE, MAGNETISMO IRRESISTIBILE, ENTUSIASMO IRREFRENABILE
Oggi, 6 ottobre 2011
di Mauro Suttora
Ho capito cos’è il carisma nel giugno 1985, quando incontrai Steve Jobs a tu per tu. Due settimane prima il fondatore della Apple era stato cacciato dalla propria società per mano dell’amministratore delegato John Sculley che lui stesso aveva assunto. Ma nessuno ancora lo sapeva. E Jobs, per niente depresso, arrivò a Lund in Svezia per lanciare l’European University Consortium, un modo per far comprare i suoi computer Macintosh a studenti e docenti.
Un po’ Gesù, un po’ Berlusconi
Nel quarto d’ora di conversazione privata che avemmo sul prato del campus (niente addetti stampa, clima informale) mi sembrò un cordialissimo invasato, a metà fra Gesù Cristo e Berlusconi: un po’ capo religioso, un po’ supremo venditore. Parlantina seducente, magnetismo irresistibile, entusiasmo irrefrenabile. Finse perfino di interessarsi al mio buon inglese, imparato durante l’anno negli Usa da liceale.
Nessuna meraviglia, quindi, che centinaia di milioni di adepti (più che clienti) del culto mondiale Apple ora lo ricordino come un guru. Qualcuno ha detto: «È il Leonardo da Vinci del nostro secolo». Sbagliando: anche l’ultimo quarto del secolo scorso è stato allietato dalle invenzioni di questo figlio di genitori sbadati (un’americana, un siriano: una specie di Obama arabo) adottato dalla famiglia Jobs.
Successo anche nel cinema
Il primo personal computer è del 1976. Il primo mouse lo abbiamo maneggiato otto anni dopo. E poi tante altre cose che hanno allietato la nostra vita quotidiana: i cartoni animati come Toy Story della sua Pixar (fondata nell’86, oggi venduta alla Walt Disney), il cassone ingombrante del computer che finalmente scompare, incorporato nel monitor dell’iMac nel ’98, i leggeri ma potenti portatili iBook, e allo scoccare del millennio quell’iTunes che ha distrutto l’industria discografica...
Noi giornalisti non dovremmo lodare troppo quello che rischia di essere il carnefice anche del giornale che state leggendo, e dei libri e delle biblioteche: tutti resi obsoleti dalla sua ultima trovata, il sottilissimo iPad. Il terzo oggetto magico sfornato negli ultimi anni, dopo l’iPod e l’iPhone.
E pensare che di tutte queste diavolerie Steve già fantasticava 26 anni fa, parlandomi di «interconnessione planetaria» dieci anni prima delle e-mail, e di quegli «schermi intercambiabili» oggi diventati realtà grazie alla convergenza fra tv, pc, notebook, tablet, smartphone, lettore mp3, cinepresa e macchina fotografica: tutto si può vedere dappertutto e subito.
E adesso, dove finirà la fortuna di otto miliardi di dollari accumulata da Steve Jobs? Una cifra solo apparentemente alta, per una società il cui valore in Borsa è esploso dai cinque miliardi del 2000 ai 350 attuali. Infatti Jobs era soltanto il 39° uomo più ricco degli Stati Uniti, e il 110° al mondo. Otto volte meno dei 60 miliardi del suo rivale e coetaneo Bill Gates di Microsoft.
La vedova è Laurene Powell, 47enne sposata da Steve 20 anni fa con rito buddhista nel parco californiano Yosemite delle sequoie giganti, dopo che rimase incinta del suo maschio primogenito Reed Paul. Reed come l’università dell’Oregon che Jobs abbandonò dopo appena sei mesi.
È incredibile come nessuno dei più ricchi imprenditori del computer si sia mai laureato: Jobs, Gates, Mark Zuckerberg di Facebook, Lawrence Ellison di Oracle, Michael Dell.
Steve conobbe la moglie quando andò a tenere un discorso all’università di Stanford (attaccata alla Apple di Cupertino e alla sua casa di Palo Alto): Laurene stava prendendo un dottorato. Poi ha lavorato in finanza, ora si dedica alla filantropia e alla New America Foundation, un think tank politico di sinistra sui diritti civili, ma di destra in economia.
Dopo Reed Paul, che oggi ha 20 anni e assomiglia straordinariamente al padre, sono arrivate Erin Sienna (ora 16enne) ed Eve, 13.
Ma Steve Jobs ha anche un’altra figlia, di 33 anni: Lisa Brennan, nata da una gravidanza non desiderata dell’allora sua fidanzata Chris-Ann. La quale dovette penare non poco per fargliela riconoscere. Nonostante stessero assieme dai tempi del liceo, occorse una causa e un test del sangue che appurò la paternità al 94 per cento. Alla fine il mascanzoncello fu obbligato a versare 5 mila dollari, più 385 al mese e l’assistenza sanitaria. Briciole, perché ormai Jobs era già diventato milionario.
Lisa come la prima figlia
Si favoleggia che Steve abbia chiamato Lisa uno dei primi computer Apple in onore di questa figlia non voluta (esattamente come lui). La versione ufficiale è che Lisa stesse per Local integrated software architecture. In ogni caso, Lisa crescendo ha avuto buoni rapporti col padre, e dovrà partecipare in qualche modo alla divisione dell’eredità.
Un’altra donna importante nella vita di Steve Jobs è Mona Simpson, oggi 54enne: la sua sorella naturale. Quella che i genitori non rifiutarono. Si ritrovarono nell’86 e lei scrisse addirittura un libro sulla loro vicenda. Docente di inglese al Bard College (New York) e romanziera affermata, da un suo libro è stato tratto nel 1999 il film La mia adorabile nemica con Susan Sarandon e una giovanissima Natalie Portman.
Mauro Suttora
Oggi, 6 ottobre 2011
di Mauro Suttora
Ho capito cos’è il carisma nel giugno 1985, quando incontrai Steve Jobs a tu per tu. Due settimane prima il fondatore della Apple era stato cacciato dalla propria società per mano dell’amministratore delegato John Sculley che lui stesso aveva assunto. Ma nessuno ancora lo sapeva. E Jobs, per niente depresso, arrivò a Lund in Svezia per lanciare l’European University Consortium, un modo per far comprare i suoi computer Macintosh a studenti e docenti.
Un po’ Gesù, un po’ Berlusconi
Nel quarto d’ora di conversazione privata che avemmo sul prato del campus (niente addetti stampa, clima informale) mi sembrò un cordialissimo invasato, a metà fra Gesù Cristo e Berlusconi: un po’ capo religioso, un po’ supremo venditore. Parlantina seducente, magnetismo irresistibile, entusiasmo irrefrenabile. Finse perfino di interessarsi al mio buon inglese, imparato durante l’anno negli Usa da liceale.
Nessuna meraviglia, quindi, che centinaia di milioni di adepti (più che clienti) del culto mondiale Apple ora lo ricordino come un guru. Qualcuno ha detto: «È il Leonardo da Vinci del nostro secolo». Sbagliando: anche l’ultimo quarto del secolo scorso è stato allietato dalle invenzioni di questo figlio di genitori sbadati (un’americana, un siriano: una specie di Obama arabo) adottato dalla famiglia Jobs.
Successo anche nel cinema
Il primo personal computer è del 1976. Il primo mouse lo abbiamo maneggiato otto anni dopo. E poi tante altre cose che hanno allietato la nostra vita quotidiana: i cartoni animati come Toy Story della sua Pixar (fondata nell’86, oggi venduta alla Walt Disney), il cassone ingombrante del computer che finalmente scompare, incorporato nel monitor dell’iMac nel ’98, i leggeri ma potenti portatili iBook, e allo scoccare del millennio quell’iTunes che ha distrutto l’industria discografica...
Noi giornalisti non dovremmo lodare troppo quello che rischia di essere il carnefice anche del giornale che state leggendo, e dei libri e delle biblioteche: tutti resi obsoleti dalla sua ultima trovata, il sottilissimo iPad. Il terzo oggetto magico sfornato negli ultimi anni, dopo l’iPod e l’iPhone.
E pensare che di tutte queste diavolerie Steve già fantasticava 26 anni fa, parlandomi di «interconnessione planetaria» dieci anni prima delle e-mail, e di quegli «schermi intercambiabili» oggi diventati realtà grazie alla convergenza fra tv, pc, notebook, tablet, smartphone, lettore mp3, cinepresa e macchina fotografica: tutto si può vedere dappertutto e subito.
E adesso, dove finirà la fortuna di otto miliardi di dollari accumulata da Steve Jobs? Una cifra solo apparentemente alta, per una società il cui valore in Borsa è esploso dai cinque miliardi del 2000 ai 350 attuali. Infatti Jobs era soltanto il 39° uomo più ricco degli Stati Uniti, e il 110° al mondo. Otto volte meno dei 60 miliardi del suo rivale e coetaneo Bill Gates di Microsoft.
La vedova è Laurene Powell, 47enne sposata da Steve 20 anni fa con rito buddhista nel parco californiano Yosemite delle sequoie giganti, dopo che rimase incinta del suo maschio primogenito Reed Paul. Reed come l’università dell’Oregon che Jobs abbandonò dopo appena sei mesi.
È incredibile come nessuno dei più ricchi imprenditori del computer si sia mai laureato: Jobs, Gates, Mark Zuckerberg di Facebook, Lawrence Ellison di Oracle, Michael Dell.
Steve conobbe la moglie quando andò a tenere un discorso all’università di Stanford (attaccata alla Apple di Cupertino e alla sua casa di Palo Alto): Laurene stava prendendo un dottorato. Poi ha lavorato in finanza, ora si dedica alla filantropia e alla New America Foundation, un think tank politico di sinistra sui diritti civili, ma di destra in economia.
Dopo Reed Paul, che oggi ha 20 anni e assomiglia straordinariamente al padre, sono arrivate Erin Sienna (ora 16enne) ed Eve, 13.
Ma Steve Jobs ha anche un’altra figlia, di 33 anni: Lisa Brennan, nata da una gravidanza non desiderata dell’allora sua fidanzata Chris-Ann. La quale dovette penare non poco per fargliela riconoscere. Nonostante stessero assieme dai tempi del liceo, occorse una causa e un test del sangue che appurò la paternità al 94 per cento. Alla fine il mascanzoncello fu obbligato a versare 5 mila dollari, più 385 al mese e l’assistenza sanitaria. Briciole, perché ormai Jobs era già diventato milionario.
Lisa come la prima figlia
Si favoleggia che Steve abbia chiamato Lisa uno dei primi computer Apple in onore di questa figlia non voluta (esattamente come lui). La versione ufficiale è che Lisa stesse per Local integrated software architecture. In ogni caso, Lisa crescendo ha avuto buoni rapporti col padre, e dovrà partecipare in qualche modo alla divisione dell’eredità.
Un’altra donna importante nella vita di Steve Jobs è Mona Simpson, oggi 54enne: la sua sorella naturale. Quella che i genitori non rifiutarono. Si ritrovarono nell’86 e lei scrisse addirittura un libro sulla loro vicenda. Docente di inglese al Bard College (New York) e romanziera affermata, da un suo libro è stato tratto nel 1999 il film La mia adorabile nemica con Susan Sarandon e una giovanissima Natalie Portman.
Mauro Suttora
La nuova 'padrona' di Santoro
PARLA CINZIA MONTEVERDI, PRESIDENTE DI ZEROSTUDIO'S, LA SOCIETA' CHE PRODUCE 'SERVIZIO PUBBLICO'
Parma, 9 ottobre 2011
dal nostro inviato Mauro Suttora
Come si sente a essere la nuova padrona di Michele Santoro? «Figurarsi. Non posso dare ordini a Santoro. Nessuno c’è mai riuscito». Però è lei la presidente e amministratrice delegata della Zerostudio’s, società che dal 3 novembre manderà in onda Servizio pubblico: la nuova trasmissione del conduttore che a giugno ha abbandonato la Rai, ma non ha trovato altre reti che lo ospitino.
«Il mio ruolo principale è di tramite fra Santoro e Il Fatto Quotidiano, giornale che ha investito 350 mila euro, il 17,5 per cento dell’impresa. Lavoreremo in sinergia, anche perché Il Fatto ha un sito web arrivato in pochi mesi a mezzo milione di lettori giornalieri: ormai siamo i terzi, dopo Repubblica e Corriere della Sera. E Servizio pubblico andrà in onda propro su web, oltre che su un circuito di tv locali e su Sky, nel canale 504 del Tg24 Eventi».
Incontriamo Cinzia Monteverdi, 38 anni, nella sua mansarda di Parma. È appena partita la campagna di sottoscrizione di Servizio pubblico, associazione guidata dalla «santorina» di Annozero Giulia Innocenzi che chiede dieci euro agli spettatori di Santoro per rimetterlo in onda. L’azionariato popolare, iniziativa unica al mondo nella storia della tv, coprirà il 24% nella società. Cinzia è entusiasta: «Arrivano dieci sottoscrizioni al minuto, ce la faremo».
Sarà circondato da donne, Santoro. Oltre a lui, che con la moglie Sanja Podgajski ha il 51%, le consigliere d’amministrazione sono la Monteverdi, la Innocenzi e Angelica Canevari, consigliere delegato della Videa di Sandro Parenzo, proprietario di Telelombardia. «Ma questa “valanga rosa” è un puro caso, non l’abbiamo fatto apposta», sorride la Monteverdi.
«Ho cominciato a lavorare con Santoro nel marzo 2010 in Rai per una notte», dice Cinzia, «la trasmissione andata in onda da Bologna sugli schermi delle piazze d’Italia, tv locali, Current di Sky e web, per protesta contro la censura pre-elettorale: 13 per cento di audience. Bis lo scorso giugno con Tutti in piedi per la Fiom. E ora andremo avanti con la “multipiattaforma”: tv in chiaro, satellite e web».
I due milioni di capitale iniziale, però, coprono le spese per sole otto puntate, che costano 250 mila euro l’una. Come mai così tanto? «Per fare tv ci vogliono tanti soldi. Solo per la scenografia, centinaia di migliaia di euro. Affitto la banda web in streaming per tre ore: 50 mila euro. E così via...»
Potreste fare una tv povera, alla Gabanelli. «Michele vuole offrire un programma di qualità pari a quelli che faceva in Rai. E lì c’erano grosse disponibilità. Naturalmente il mio compito, come per tutti gli editori e produttori, sarà anche quello di far quadrare i conti».
E qui entra in gioco la pubblicità. Perché non c’è sottoscrizione popolare che tenga: per andare in onda non artigianalmente, con grandi numeri, ci vogliono gli spot. «Abbiamo una concessionaria, la Publishare di Parenzo e Fiorenza Mursia. Le prospettive sono buone. Il sito web del Fatto, per esempio, chiuderà quest’anno con 800 mila euro di pubblicità contro i 250 mila euro previsti ».
La Monteverdi non lo dice, ma per le venti puntate del 2012 la speranza è che entri in campo la concessionaria di Sky. Il problema è che alle aziende non piace fare pubblicità su media troppo caratterizzati politicamente. E Santoro rischia la stessa penuria che colpisce Il Fatto: grande successo di vendite (80 mila copie, 40 mila abbonamenti), ottimi bilanci (otto milioni di utile annuo su 30 di fatturato), ma introiti pubblicitari non adeguati a questi exploit.
Cinzia però è ottimista. Ha la stessa energia che la spinse tre anni fa, titolare di un’agenzia di eventi, a contattare Marco Travaglio, vicedirettore del Fatto e colonna di Anno zero, dopo averne letto libri e articoli, e ad «appiccicarglisi come una cozza» per organizzare una sua serata a Carrara. «Poi, due anni fa, ho investito centomila euro, l’eredità dei miei nonni, per diventare socia fondatrice del Fatto. La scommessa è andata bene, e ora con Vincino e Vauro abbiamo resuscitato il famoso giornale satirico Il Male. E ora Santoro... Come ci ha insegnato Steve Jobs: “Siate folli, realizzate i vostri sogni”. Votavo a sinistra, poi Di Pietro, ma adesso nessuno mi convince: né Vendola, né Beppe Grillo, né Bersani. Sono andata a Roma a lavorare nell’amministrazione del Fatto perché ero stufa di lamentarmi, di essere scontenta, ma di non fare niente di concreto».
Sposata, fidanzata? «Già fatico a convivere con me stessa, figuriamoci con un uomo». Intanto, durante l’intervista continuano a telefonarle: prima Santoro, poi Travaglio, poi Antonio Padellaro, il direttore del Fatto. È domenica pomeriggio, e lei adora lavorare.
Parma, 9 ottobre 2011
dal nostro inviato Mauro Suttora
Come si sente a essere la nuova padrona di Michele Santoro? «Figurarsi. Non posso dare ordini a Santoro. Nessuno c’è mai riuscito». Però è lei la presidente e amministratrice delegata della Zerostudio’s, società che dal 3 novembre manderà in onda Servizio pubblico: la nuova trasmissione del conduttore che a giugno ha abbandonato la Rai, ma non ha trovato altre reti che lo ospitino.
«Il mio ruolo principale è di tramite fra Santoro e Il Fatto Quotidiano, giornale che ha investito 350 mila euro, il 17,5 per cento dell’impresa. Lavoreremo in sinergia, anche perché Il Fatto ha un sito web arrivato in pochi mesi a mezzo milione di lettori giornalieri: ormai siamo i terzi, dopo Repubblica e Corriere della Sera. E Servizio pubblico andrà in onda propro su web, oltre che su un circuito di tv locali e su Sky, nel canale 504 del Tg24 Eventi».
Incontriamo Cinzia Monteverdi, 38 anni, nella sua mansarda di Parma. È appena partita la campagna di sottoscrizione di Servizio pubblico, associazione guidata dalla «santorina» di Annozero Giulia Innocenzi che chiede dieci euro agli spettatori di Santoro per rimetterlo in onda. L’azionariato popolare, iniziativa unica al mondo nella storia della tv, coprirà il 24% nella società. Cinzia è entusiasta: «Arrivano dieci sottoscrizioni al minuto, ce la faremo».
Sarà circondato da donne, Santoro. Oltre a lui, che con la moglie Sanja Podgajski ha il 51%, le consigliere d’amministrazione sono la Monteverdi, la Innocenzi e Angelica Canevari, consigliere delegato della Videa di Sandro Parenzo, proprietario di Telelombardia. «Ma questa “valanga rosa” è un puro caso, non l’abbiamo fatto apposta», sorride la Monteverdi.
«Ho cominciato a lavorare con Santoro nel marzo 2010 in Rai per una notte», dice Cinzia, «la trasmissione andata in onda da Bologna sugli schermi delle piazze d’Italia, tv locali, Current di Sky e web, per protesta contro la censura pre-elettorale: 13 per cento di audience. Bis lo scorso giugno con Tutti in piedi per la Fiom. E ora andremo avanti con la “multipiattaforma”: tv in chiaro, satellite e web».
I due milioni di capitale iniziale, però, coprono le spese per sole otto puntate, che costano 250 mila euro l’una. Come mai così tanto? «Per fare tv ci vogliono tanti soldi. Solo per la scenografia, centinaia di migliaia di euro. Affitto la banda web in streaming per tre ore: 50 mila euro. E così via...»
Potreste fare una tv povera, alla Gabanelli. «Michele vuole offrire un programma di qualità pari a quelli che faceva in Rai. E lì c’erano grosse disponibilità. Naturalmente il mio compito, come per tutti gli editori e produttori, sarà anche quello di far quadrare i conti».
E qui entra in gioco la pubblicità. Perché non c’è sottoscrizione popolare che tenga: per andare in onda non artigianalmente, con grandi numeri, ci vogliono gli spot. «Abbiamo una concessionaria, la Publishare di Parenzo e Fiorenza Mursia. Le prospettive sono buone. Il sito web del Fatto, per esempio, chiuderà quest’anno con 800 mila euro di pubblicità contro i 250 mila euro previsti ».
La Monteverdi non lo dice, ma per le venti puntate del 2012 la speranza è che entri in campo la concessionaria di Sky. Il problema è che alle aziende non piace fare pubblicità su media troppo caratterizzati politicamente. E Santoro rischia la stessa penuria che colpisce Il Fatto: grande successo di vendite (80 mila copie, 40 mila abbonamenti), ottimi bilanci (otto milioni di utile annuo su 30 di fatturato), ma introiti pubblicitari non adeguati a questi exploit.
Cinzia però è ottimista. Ha la stessa energia che la spinse tre anni fa, titolare di un’agenzia di eventi, a contattare Marco Travaglio, vicedirettore del Fatto e colonna di Anno zero, dopo averne letto libri e articoli, e ad «appiccicarglisi come una cozza» per organizzare una sua serata a Carrara. «Poi, due anni fa, ho investito centomila euro, l’eredità dei miei nonni, per diventare socia fondatrice del Fatto. La scommessa è andata bene, e ora con Vincino e Vauro abbiamo resuscitato il famoso giornale satirico Il Male. E ora Santoro... Come ci ha insegnato Steve Jobs: “Siate folli, realizzate i vostri sogni”. Votavo a sinistra, poi Di Pietro, ma adesso nessuno mi convince: né Vendola, né Beppe Grillo, né Bersani. Sono andata a Roma a lavorare nell’amministrazione del Fatto perché ero stufa di lamentarmi, di essere scontenta, ma di non fare niente di concreto».
Sposata, fidanzata? «Già fatico a convivere con me stessa, figuriamoci con un uomo». Intanto, durante l’intervista continuano a telefonarle: prima Santoro, poi Travaglio, poi Antonio Padellaro, il direttore del Fatto. È domenica pomeriggio, e lei adora lavorare.
Monday, October 10, 2011
La più bella miss d'Italia
DA ESCLUSA A REGISTA: IL FILM DI MIRCA VIOLA
di Mauro Suttora
Oggi, 3 ottobre 2011
«Mirca Viola è in assoluto la più bella Miss Italia delle edizioni recenti». E se lo dice Michela Rocco di Torrepadula, che nel 1987 vinse lo scettro proprio grazie alla squalifica di Mirca, c'è da crederle. Successe il finimondo il giorno dopo l'incoronazione, quando si scoprì che la 19enne forlivese Viola era sposata e pure mamma, in barba al regolamento.
In questi giorni Mirca debutta come regista, soggettista e sceneggiatrice: il 7 ottobre esce il suo primo film, L'amore fa male, con Stefania Rocca e Nicole Grimaudo.
«È una storia ambientata fra Catania e Roma che mi sta molto a cuore», dice lei, che dopo 21 anni (e un'altra figlia) si è separata dal marito Enzo Gallo. Col quale però è rimasta in ottimi rapporti, visto che è lui a produrre il film. Come attrice la Viola in questi anni ha recitato sia sul grande schermo (Banditi con Ben Gazzara, Una vacanza all'inferno con Giancarlo Giannini), sia in tv: Incantesimo, Centovetrine, Lo scandalo della Banca Romana. E ora, dopo vari cortometraggi e due aiuto-regie, un film tutto suo.
di Mauro Suttora
Oggi, 3 ottobre 2011
«Mirca Viola è in assoluto la più bella Miss Italia delle edizioni recenti». E se lo dice Michela Rocco di Torrepadula, che nel 1987 vinse lo scettro proprio grazie alla squalifica di Mirca, c'è da crederle. Successe il finimondo il giorno dopo l'incoronazione, quando si scoprì che la 19enne forlivese Viola era sposata e pure mamma, in barba al regolamento.
In questi giorni Mirca debutta come regista, soggettista e sceneggiatrice: il 7 ottobre esce il suo primo film, L'amore fa male, con Stefania Rocca e Nicole Grimaudo.
«È una storia ambientata fra Catania e Roma che mi sta molto a cuore», dice lei, che dopo 21 anni (e un'altra figlia) si è separata dal marito Enzo Gallo. Col quale però è rimasta in ottimi rapporti, visto che è lui a produrre il film. Come attrice la Viola in questi anni ha recitato sia sul grande schermo (Banditi con Ben Gazzara, Una vacanza all'inferno con Giancarlo Giannini), sia in tv: Incantesimo, Centovetrine, Lo scandalo della Banca Romana. E ora, dopo vari cortometraggi e due aiuto-regie, un film tutto suo.
Monday, October 03, 2011
Parti lese e illese
Milano, 3 ottobre, processo Berlusconi-Fede-Ruby-Mora-Minetti. In aula arriva la marocchina Imane Fadil [una delle 32 'olgettine', ndr]: "Sono parte lesa"
E se si chiamasse Imene, sarebbe illesa?
E se si chiamasse Imene, sarebbe illesa?
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